Uno dei primi ad accorgersene fu il poeta romano Gioacchino Belli, un secolo e mezzo fa: “se pò ddì rradica, uscello, ciscio, nerbo, tortore, pennarolo, pezzo de carne, manico, scetrolo, asperge, cucuzzola e stennarello”…
Può indicare stupidità, nullità e disvalore (cazzone, cazzata, cazzeggiare, minchione, minchiata, cappellata) ma anche il contrario, cioè potenza, abilità e valore (cazzuto). Serve a indicare ira e malumore (incazzarsi, scazzarsi), noia e sconforto (scazzo, scazzato); affari personali e problemi (cazzi miei, cazzi acidi), parte sensibile (rompere il c a z z o, cagare il c a z z o), approssimazione (a c a z z o).
Il pene, insomma, è un vero jolly espressivo: il linguista Giovanni Casalegno ha contato 1.047 sinonimi, solo in italiano (circa 40 in più rispetto alla vagina). Non stupisce, quindi, che la parolaccia più pronunciata nella nostra lingua è proprio “lui”, secondo il “Lessico di frequenza dell’italiano parlato”.
I motivi? Molti. L’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt ha scoperto che in alcune specie animali (scimmie soprattutto) l’erezione è usata come forma di minaccia, l’imposizione fallica: “è una minaccia ritualizzata di monta. La monta è infatti segno di dominanza per molti mammiferi, e come tale essa si è discostata dalla funzione originaria di accoppiamento, divenendo un segnale socio-sessuale”.
Su questa base animale, molte società e culture hanno proseguito nella strada del fallocentrismo. Soprattutto in occidente, come racconta l’articolo a pag. 212 del nuovo numero di Focus. L’occasione, allora, è propizia per ricordare le tracce (tantissime) di questo fallocentrismo nella nostra letteratura, come racconto più ampiamente in “Parolacce”.
Una delle testimonianze più antiche sono i “Carmi priapei” (I sec. d.C.) una raccolta anonima di 86 componimenti dedicati a Priapo, dio della fecondità agreste. Un dio campagnolo e beffardo: “Vuoi sapere perché non copro le mie vergogne? Domandati
come mai nessun dio copre le sue armi. (…) Dunque nessuna colpa se metto in mostra la minchia: è la mia arma, se mi manca, sono inerme”.
Pacifico Massimo (1400-1500) gli dedicò un componimento ironico: “Benché il mio c a z z o arrivi a due palmi di lunghezza e pesi una decina di libbre, la mia amante si lamenta che è troppo piccolo e quando lo prende nel culo pretende di non accorgersene nemmeno. Le vele di un naviglio potrebbero a mala pena nascondere questo albero maestro che, piantato in un orto, metterebbe in fuga i ladri impauriti”.
Antonio Vignali (1500-1559) scrisse “La cazzaria”, un’opera rivoluzionaria: qui le fazioni e i personaggi politici di Siena diventano “cazzoni, cazzi, culi e potte”.
In epoca più moderna, il tema è stato ripreso da Alberto Moravia in “Io e lui” (1971): qui, Rico, il protagonista, dialoga per quasi 400 pagine col suo organo genitale. Mentre, più recentemente, Aldo Busi (1948) lo ha “sparato” direttamente nel titolo di un romanzo: “Cazzi e canguri (pochissimi i canguri)”. Letteratura del piffero?