Un ragazzo italiano di origine africana ucciso a sprangate al grido di «negro di merda» (vedi qui). Un nigeriano licenziato dopo essere stato chiamato dai colleghi per 2 anni con l’epiteto di «sporco negro» (vedi qui)…
Casi eclatanti, certo. Ma tutt’altro che isolati: oggi il disprezzo verso gli “zingari” (termine spregiativo: si chiamano Rom!), gli ebrei, i marocchini, i cinesi e gli stranieri in generale è sempre più palpabile: negli stadi, nei comizi politici, nei bar. Ma anche in contesti e in modi più sottili: nelle ricerche di lavoro, negli affitti delle case, sui giornali…
Il clima è preoccupante, ed è indice di un cieco clima di intolleranza che fa torto alla nostra presunta “civiltà”, alla realtà multiculturale e globale di oggi, e alle nostre stesse radici: fino a 40 anni fa siamo stati un popolo di migranti. E, vista la congiuntura economica negativa, stiamo tornando a esserlo….
Ma perché gli insulti etnici sono pericolosi? Nel mio libro (vedi qui) ho dimostrato che le parolacce sono azioni che producono determinati effetti.
Gli insulti etnici sono fra le parolacce più violente perché, dicendoli, faccio 3 azioni:
1) tolgo l’individualità a una persona, la disumanizzo, la disprezzo come inferiore, anormale, impura, “diversa”. Qualificando un cinese come “muso giallo”, riduco tutto il suo essere, la sua individualità alle origini etniche, manifestate dall’aspetto fisico. Non mi chiedo se dietro quegli occhi a mandorla c’è una persona intelligente, simpatica, onesta, allegra: lo etichetto come “giallo”, cioè diverso e tanto mi basta. E non entro neppure nel merito della sua diversità, non solo fisica ma anche culturale. Non mi interessa, sei diverso, quindi sei anormale, quindi meriti solo il mio disprezzo.
2) offendo non solo il destinatario dell’insulto, ma l’intero gruppo a cui appartiene;
3) emargino un intero gruppo etnico, tenendolo all’esterno della società. Ogni insulto etnico può essere tradotto, nei fatti, come: “Sei brutto, sporco e cattivo. Non sei dei nostri, vattene, torna a casa tua”.
Gli insulti etnici sono armi antiche quanto l’uomo: di fronte a uno straniero che porta valori e culture sconosciute, si prova ansia. Ma invece di metterci in discussione, è più comodo e immediato catalogare un intero popolo attraverso categorie semplificanti e rassicuranti: il messicano diventa “mangia-fagioli”, il cinese un “muso giallo” e… l’italiano un “mafioso” o “spaghetti”.
Già gli antichi Greci chiamavano gli altri popoli “barbari” (letteralmente: balbuzienti, solo perché non parlavano greco); nel 1500 si diffusero le espressioni “bestemmiare come un turco”, “cose turche” per la paura dell’impero Ottomano che minacciava l’Europa; nel 1800 la sifilide, malattia sconosciuta e contagiosa, era chiamata “mal francese”, come se solo i francesi ne fossero responsabili. Gli algonchini hanno chiamato i vicini “eschimesi” (= mangiatori di carne cruda) riservando a sé l’appellativo di “inuit” (= uomini)… E così via.
Da sempre gli stranieri sono visti non come risorse, ma come pericolosi e potenziali concorrenti economici o sessuali. Non solo. Le culture diverse dalla nostra ci fanno paura perché minacciano l’ordine costituito, ci fanno capire che anche le nostre abitudini, che consideriamo “giuste” e indiscutibili, sono in realtà relative, soggettive. E come tali altrettanto criticabili: oggi gli zingari sono tanto disprezzati perché rifiutano i valori tipici del mondo occidentale. Non vivono nello stesso posto, non condividono i nostri standard igienici, i nostri valori, la nostra educazione. Offendendoli, l’occidente prende le distanze da loro nella speranza di non dover mai vivere come loro. In realtà lo “zingaro” ci ricorda che il nostro stile di vita è precario, reversibile, relativo.
In più, gli stranieri – poveri, indifesi, diversi da noi – svolgono una funzione sociale importante, che i politici cavalcano abilmente: possono diventare un comodo “nemico”, per cementare l’unità nazionale che scricchiola. E, soprattutto, possono diventare un “capro espitatorio” esterno a cui addossare le colpe di una crisi interna su cui non si vuole riflettere o che non si vuole affrontare: c’è crisi? Non c’è lavoro, casa? Si fatica ad arrivare a fine mese? Colpa dei negri (o degli zingari, degli ebrei, dei cinesi….) che ci portano via il lavoro.
Comodo… ma vero? La realtà è più complessa.
Innanzitutto: chi sono, e quanti sono realmente? Secondo il Dossier Statistico Immigrazione della Caritas/Migrantes (vedi qui), l’unico rapporto documentato sul fenomeno, gli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia sono 3,69 miloni, il 6,2% dell’intera popolazione. Dunque, tutt’altro che un’orda.
Gli irregolari sono oltre 120mila l’anno (solo il 13% arrivano dagli sbarchi, gli altri entrano regolarmente ma si fermano oltre la scadenza del visto).
E da dove arrivano? Il 49.6% da Paesi europei, il 22,3% dall’Africa, il 18% dall’Asia, il 9.7 dall’America e lo 0.4 dall’Oceania. In pratica, ogni 10 immigrati, 5 sono europei (per la metà comunitari); 4 divisi tra africani e asiatici e 1 americano.
Più in dettaglio, la Romania è il Paese con più presenze (555.997, pari al 15%), seguita da Marocco (10,5%), Albania (10.3), Ucraina (5.3) e Cina (5.1); seguono Filippine (3.1), Moldavia (2.7), Tunisia (2.6), India (2.5) e Polonia (2.5).
Certamente fra loro (come fra gli italiani) si annidano criminali: inevitabile (anche se mai giustificabile) effetto della loro mancanza di integrazione. Chi di voi riuscirebbe a trovare un contratto di lavoro all’estero prima ancora di arrivarci (come vorrebbero le attuali leggi sull’immigrazione)?
Gli stranieri denunciati nel 2005 sono il 23,6% di tutti i denunciati, per lo più per furto (17,6%), truffa (12%), droga (11%), ricettazione (10,7%). Ovvero, reati contro il patrimonio. Fatti eclatanti, compensati però da altri fatti eclatanti: un etiope salva 2 donne da una rapina e finisce in ospedale (leggi), un senegalese salva un turista e annega (leggi), un marocchino salva un’aspirante suicida (leggi)….
Ma in realtà lo straniero è protagonista di fatti ben più importanti, che passano sotto silenzio: è grazie ai loro figli che in Italia si evita il rischio del saldo demografico negativo (ovvero che il numero di morti superi quello dei nati). Perché è importante? Per esempio, per salvare il nostro sistema contributivo e assicurare le pensioni ai nostri figli (leggi qui). E anche per salvare la nostra economia. Sono loro che fanno i lavori più umili e pesanti, che nessuno vuole più fare: i muratori (19,4% del totale della categoria), gli operai nelle concerie (15,6%), i camerieri (20,4%), le colf (66,2%).
Dunque, servirebbe un cambiamento di cultura, per affrontare le sfide della globalizzazione culturale. Ma i nostri giornali non ci aiutano. La studiosa Elena Malavolti nel libro “Insulti e pregiudizi. Discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali” (Aracne, 2007) ha fatto un’interessante statistica sull’immagine degli stranieri negli articoli del quotidiano “La Repubblica” dal 1985 al 2000. Ecco i risultati:
1) esistono 2 stereotipi: chi ha successo è qualificato come “straniero”; se invece è meno fortunato o è un criminale, è chiamato “immigrato” o “extracomunitario”. Nella stragrande maggioranza degli articoli, gli stranieri sono collegati a notizie di stampo negativo: o perché preoccupano (criminalità emergenze, etc), o, al limite, perché suscitano compassione in quanto vittime di violenze, ingiustizie, abusi.
“Da un punto di vista geografico, l’immigrato è fortemente circoscritto: viene da Paesi poveri, quasi sempre dall’Africa, è spesso nero o musulmano. Gli immigrati sono problematici; irregolari, illegali, poveri, hanno bisogno di assistenza, di integrazione, di solidarietà, devono essere fermati, regolarizzati e organizzati. L’immigrato gira nei ghetti, di notte, nelle periferie, luoghi dove muore, uccide, compie atti abitualmente condannati”.
2) il gruppo est-europeo (albanesi, Rom) è quello con l’immagine più negativa, perché associato a notizie di crimini e ingiustizie; seguito dalla minoranza nord-africana, spesso legata a termini come “fondamentalismo” e “terrorismo”.
Insomma, c’è ancora molta strada da fare. Vi siete mai chiesti perché se un romano (o un milanese, o un catanese) investe un pedone e lo uccide, i giornali scrivono: “Uomo investe pedone”; ma se al volante c’è uno straniero, il titolo diventa “Tunisino (o albanese, rumeno, cinese…) investe pedone”? Non è un modo surrettizio di perpetuare un razzismo becero?
Adoro questo blog! Finora non ho mai perso un post, e spero non le dispiaccia aver inserito un link a questa pag nel mio di blog, in un elenco dedicato agli altri blog 😉
mi spiace tanto non poterglielo far verficare ma il mio blog è privato…
Le scrivo qui, perchè ritengo questo post in particolare un’opera d’arte: focalizza in pieno qual’è il problema della nostra cultura (o mancanza di essa) e come la politica sfrutti questa marcia convinzione del razzismo invece di abbatterlo.
Vivi complimenti per la sua realistica e dettagliata analisi…e spero questo suo messaggio arrivi a tutte le persone possibili!
Virginia
Hai toccato i punti giusti nel modo giusto.
Siamo tutti cittadini del mondo!!!!!
Tutti uguali e tutti diversi!
Italia, razzismo, disgregazione, nord e sud, separatismo, secessione culturale, stereotipi geografici
Ho veramente apprezzato questo post. Ho cercato dappertutto questo! Per fortuna ho trovato su Bing. Hai fatto il mio giorno! Grazie ancora
Ciao Amico! Io voglio dire che questo post è incredibile, Nizza scritta e comprendono quasi tutti Infos Vital. Io? D piace vedere i messaggi come questo.