Quando si parla di sesso, non esistono termini “neutri”. Le parole del sesso possono essere eccitanti, ributtanti, oscene, provocatorie e offensive….
Ma perché in alcuni paesi i genitali maschili sono sinonimo di disprezzo (pirla, cazzone…), mentre in altri lo sono quelli femminili (fregnaccia, zoccola)?
Un libro appena uscito lancia un’ipotesi suggestiva: la carica di disprezzo che si attribuisce ai genitali maschili o femminili dipende dal valore che si attribuisce all’uomo o alla donna. Che, a sua volta, dipende da una visione religiosa: il tipo di fede e di divinità che si hanno, influenza il valore che si attribuisce all’essere uomo e donna. Dunque, l’osceno è sacro.
È proprio questo il titolo del nuovo libro di Dario Fo, edito da Guanda. Un libro rivoluzionario anche per un altro motivo: è il primo studio di un premio Nobel sulle parolacce (l’avevo anticipato su questo blog). Il libro di Fo è inconsueto: non è un romanzo, ma neppure un saggio (non c’è bibliografia). E’, piuttosto, un canovaccio di riflessioni e racconti per uno spettacolo teatrale. E in quest’ottica si spiegano i 133 disegni che Fo ha inserito nel libro: saranno parte integrante della coreografia.
La tesi di Fo parte da un’osservazione: “i latini, per indicare una persona sciocca e di poco senno, la insultavano definendola cunia, cioè il sesso femminile, ritenuto evidentemente un organo privo di valori, bellezza e armonia. Cunia significava matrice, cioè parte del congegno per mezzo del quale si stampavano le monete. Ancora oggi i francesi e gli spagnoli sembrano dello stesso avviso, giacché l’insulto a uno sciocco continua a essere in Francia, con o tête de con, e, in Spagna, coño.
Fo si spinge più avanti nella storia. Notando che i napoletani sfottono usando come lessico il sesso femminile (fesso deriva da fessa, fessura, cioè vulva). E l’allusione al sesso femminile diventa greve, profondamente offensiva a Roma con i termini fregna (= spaccatura), sorca (= ratto), zoccola (= ratto). “Tanta trivialità di termini si produce nel caposaldo clericale d’Europa e del mondo, dove, è ben risaputo, la misoginia è addirittura proverbiale”.
Diverso il discorso nel nord Italia: il termine fica è associato – oltre all’organo sessuale femminile – a Venere, dea dell’amore, per cui chi è privo della sua protezione è detto, appunto, sfigato (anche oggi in portoghese, per tradurre fortuna si usa il termine figa con i derivati enfigao, enfigu, figant…).
“Ma come mai” si chiede Fo “in queste regioni è un dato costante l’atteggiamento quasi sacrale verso il sesso della femmina? E perché al contrario il ruolo di imbecille di basso spirito viene immancabilmente imposto al sesso maschile, cosicché pirla (= trottola), bigolo (= vermicello), piciu (= piccolo), etc diventano sinonimi di tonto, ottuso, scervellato, eccetera?”.
Ecco la grande intuizione di Fo: “Nel nord e nel centro Italia, prima che arrivassero i Romani, le primordiali divinità celtico-insubri erano quasi esclusivamente di sesso femminile”. Basti ricordare Cerere, dea madre presso i Romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca (come la Sicilia). Dunque, nel Medioevo, Umbria, Romagna, Toscana e Marche esprimevano nel linguaggio una forma di alto rispetto per il mondo femminile.
Fino alla metà del Trecento, quando lo Stato della Chiesa apostolica romana, con i propri eserciti e i propri amministratori clericali, conquistò e governò in modo dispotico quei territori (Abruzzo, Marche, parte dell’Umbria, Romagna fino a Bologna) assoggettandole per ben 5 secoli.
Risultato? “Le laudi si sono trasformate in lazzi di disprezzo verso la donna e il suo sesso”.
Un esempio lampante è offerto dal termine “patacca” per indicare il sesso femminile: la “patacca” era una grossa moneta di basso valore, messa in circolazione dagli spagnoli nel 1500. Aggiunge Fo: “Le uniche zone non invase dalla tirannia del regno papalino furono la repubblica veneta, la signoria genovese, Lombardia e Piemonte, e parte dell’Emilia: terre, queste ultime, dove si è continuato a impiegare epiteti offensivi ricavati dal sesso maschile”. Ecco perché, in queste terre, non è mai venuto meno il rispetto anche lessicale verso il sesso femminile, indicato con termini delicati e poetici come parpaja (= farfalla), broegna (= prugna), mügnaga (albicocca), persega (= pesca).
Il cuore del pensiero di Fo è questo. Il resto del libro è un’accattivante raccolta di testi letterari, noti e meno noti, fra cui spicca un divertente fabliau (un racconto francese) medievale, sulla “parpaja topola“: la storia di una giovane sposa, Alessia, che fa credere al novello marito, un candido coglioncione, di possedere una parpàja dotata di completa autonomia: e così, pur di non affrontare con lui la prima notte di nozze, lo sguinzaglia alla ricerca della sua parpaja, dicendo di averla dimenticata a casa… Con notevoli effetti comici.
Anche se non cita prove documentali a supporto, l’intuizione di Fo è geniale, inedita e difficilmente contestabile storicamente. Perché mette a nudo il legame, come scrive anche il mio libro, fra osceno e sacro: se la parolaccia è una parola tabù, vietata, probabilmente le prime parole tabù sono state quelle religiose. Il comandamento “non nominare il nome di Dio invano” è applicabile a tutte le parolacce, che parlino di sesso, escrementi, malattie e quant’altro. Del resto, come intuisce Fo alla fine del suo libro, tutte le parole vietate parlano dello stesso argomento: la morte, e la paura della morte.
Era destino, insomma, che proprio il re della commedia dell’arte riflettesse sulle parolacce. Dandoci un’altra perla: la stessa parola “giullare” deriva da ciollo e ciullo, che “tanto in lombardo antico quanto in siciliano identifica il sesso maschile (ciullare indica l’atto sessuale con il conseguente sfottere e sfottere)”. Dunque, il re della risata liberatoria, colui che sveglia le coscienze anche facendo uso di lazzi osceni, il comico, è la personificazione del sesso: diffonde una fecondatrice e gioiosa energia vitale.
Mi hai fatto ricordare una splendida poesia di Tonino Guerra:
L’è una telaragna
La figa l’è una telaragna
un pidriùl ad sàida
e’ sgarzùl ad tòtt i fiéur;
la figa l’è una porta
ch’la dà chissà duvò
o una muràia
ch’u t tòcca buté zò.
U i è dal fighi alìgri
dal fighi mati s-cènti
dal fighi lèrghi e strètti, fighi de cazz
ciacaróuni ch’al sbadáia
e a n dói una paróla
gnénca s’ta li amàzz.
La figa l’è una muntagna
Biàènca ad zocar
Una forèsta in do ch’e’ pasa i lop,
l’è la caróza ch’al tóira i caval;
la figa l’è una baléna svóita
pina ad aria nira e ad lózzli,
l’è la bascòza dl’usèl
la su cóffia da nota,
un fouran ch’e’ bréusa iniquél.
La figa quand ch’e’ tòcca
l’è la faza de’ Signour,
la su bòcca.
l’è da la figa ch’l’è avnéu fura
e mònd sa i èlbar, al nóvli, e’ mér
e i óman éun a la vólta
e at tòtt al razi.
Da la figa l’è avnù fura énca la figa.
Os-cia la figa!
TRADUZIONE
E’ una ragnatela
La fica è una ragnatela/ un imbuto di seta/ il cuore di tutti i fiori;/ la fica è una porta/ per andare chissà dove/ o una muraglia/ che devi buttare giù./ Ci sono delle fiche allegre/ delle fiche matte del tutto/ delle fiche larghe o strette,/ fiche da due soldi/ chiacchierone o balbuzienti/ e quelle che sbadigliano/ e non dicono una parola/ neanche se le ammazzi./ La fica è una montagna/ bianca di zucchero,/ una foresta dove passano i lupi,/ è la carrozza che tira i cavalli;/ la fica è una balena vuota/ piena di aria nera e di lucciole; è la tasca dell’uccello/ la sua cuffia da notte,/ un forno che brucia tutto./ La fica quando è ora/ è la faccia del Signore,/ la sua bocca./ È dalla fica che è venuto fuori/ il mondo, con gli alberi, le nuvole, il mare/ e gli uomini uno alla volta/ e di tutte le razze./ dalla fica è venuta fuori anche la fica./ Ostia la fica!
C’è un errore perché “giullare” in realtà deriva dal provenzale joglar che a sua volta deriva dal latino iocularis quindi in realtà non ha origini volgari.
Vero, ma Dario Fo aveva un’opinione diversa e io l’ho riportata