«Ma come hai fatto a contare le parolacce della lingua italiana?». La domanda mi è stata rivolta più volte e ha una risposta tutt’altro che scontata. In effetti, è stato uno dei problemi più spinosi che ho dovuto risolvere quando scrivevo il mio libro, perché nessuno aveva mai affrontato la questione in precedenza. Qui vi racconto come l’ho risolta.
L’inizio era stato disarmante. Il vocabolario della lingua italiana contiene circa 134mila parole: impossibile passarle in rassegna tutte per estrapolare le parolacce una ad una. Allora ho usato un metodo empirico. Ho preso il Dizionario Zingarelli e ho notato che le parolacce più comuni (cazzo, merda, culo, etc) avevano tutte un elemento comune: erano contrassegnate dalla dizione (volg.), cioè volgare, nei loro limiti d’uso. Queste parole, insomma, sono “assolutamente prive di finezza, distinzione, signorilità e garbo”, come recita lo Zingarelli.
Allora, usando il cd-rom dello Zingarelli, ho fatto una ricerca mirata selezionando solo le parole con limite d’uso “volgare”. Il risultato, però, è stato deludente: venivano alla luce 163 parolacce, ma restavano escluse altre 25 (come fregnaccia, passera, cornuto e uccello) classificate, quanto a limiti d’uso, come “popolari”, altre 11 classificate come gergali (infame, tossico o magnaccia…) e 85 spregiativi (bagascia, bastardo, checca…). E via di questo passo.
Così ho fatto ulteriori ricerche col cd-rom, usando come parole chiave gli altri limiti d’uso. Alla fine, è emerso l’agognato elenco di parolacce, poco più di 300 (che nel libro ho poi suddiviso per grandi categorie e temi, scoprendo altre cose interessanti…). Tutto questo avveniva nell’anno 2006: preciso questa data perché c’è sempre qualche bauscia (in dialetto milanese: “bavoso”, perché nel vantarsi parla troppo) che si fa bello con il lavoro degli altri…
I risultati della ricerca hanno aperto così un’affascinante e altrettanto impegnativa questione teorica: che cosa accomuna tutte le parole volgari, popolari, gergali e spregiative? Ovvero: come si definisce una parolaccia?
Lo Zingarelli la definisce come “parola sconcia, volgare, offensiva”. Ma più che una definizione è una descrizione che non coglie l’essenza della parolaccia. Perché le parolacce sono considerate parole offensive? Perché “feci” è una parola accettabile e “merda” no, pur indicando entrambe lo stesso oggetto? Difficile rispondere. La parolaccia è come il tempo: “Se nessuno mi chiede cos’è il tempo, lo so; se debbo spiegarlo a chi lo chiede, non lo so più” (Sant’Agostino, “Le confessioni”).
Ho dovuto macinare un bel po’ di studi sull’argomento, per arrivare alla seguente definizione, ripresa correttamente (citando cioè la fonte) da Wikipedia: la parolaccia è una parola vietata (cioè sottoposta a limitazioni d’uso: non la si può dire in ogni momento e in ogni circostanza) perché parla in modo diretto, offensivo o abbassante delle pulsioni principali dell’uomo: il sesso, il metabolismo, la religione, l’aggressività sociale.
Ecco perché le parolacce sono difficili da definire: perché esprimono l’insieme dei valori e delle paure di un gruppo in un determinato momento storico. Valori e paure di cui non sempre siamo del tutto consapevoli: le diamo per scontate perché fanno parte del nostro vivere quotidiano. Questa definizione, poi, spiega anche perché le parolacce sono state catalogate dallo Zingarelli con criteri diversi: non solo perché mancava una definizione unica, ma anche perché essendo le parolacce usate per colorare emotivamente il linguaggio hanno, proprio come i colori, anche i mezzi toni, le gradazioni di intensità: non ci sono solo le parolacce a tinte forti, ma anche quelle a bassa e media offensività, come ha mostrato la ricerca sul volgarometro.
Qualcuno potrebbe obiettare che in realtà le parolacce sono molto più di 300: vero. Sia perché ne nascono continuamente di nuove (dal gergo giovanile, per esempio), sia perché qualsiasi parola può diventare una parolaccia, se la si carica di un senso spregiativo. In Lombardia, per esempio, c’è un insulto che significa “danzatore nudo”: balabiott.
Perché è offensivo? Perché, come racconta questo sito, rievoca l’usanza dei nobili di lombardi dell’Ottocento di ballare nudi e inebetiti all’aperto, dopo aver partecipato a festini alcolici. Vi ricorda qualcosa o qualcuno?