Uno scandalo martellante sui giornali. Una crisi di governo. Manifestazioni di piazza. La dimissione di un segretario parlamentare. Le ombre di un complotto. Un’inchiesta che impegna 30 poliziotti da mesi… Può un semplice insulto scatenare tutte queste reazioni? Sì.
Il caso è scoppiato in Gran Bretagna, ed è costato la carriera politica – almeno per ora – al capogruppo del partito di maggioranza, i conservatori, Andrew Mitchell. Il quale, secondo le accuse, avrebbe detto a un poliziotto: «Sarà meglio che impari a stare al tuo fottuto posto. Tu non fai funzionare questo fottuto governo. Sei un fottuto plebeo» («Best you learn your fucking place. You don’t run this fucking government … You’re fucking plebs»).
Ma i poliziotti non si sono lasciati impressionare: lo hanno accompagnato al cancello pedonale, e prima di andarsene, Mitchell è sbottato. Al punto che gli agenti hanno dovuto ricordargli che rischiava l’arresto se avesse continuato a insultarli.
Il poliziotto ha fatto rapporto ai propri superiori e la storia è finita sui giornali: lo scoop è stato del “Sun”, e pochi giorni dopo il “Telegraph” ha pubblicato integralmente il verbale dell’episodio. Che ha fatto scandalo, per vari motivi: non tanto per le parolacce, quanto soprattutto per l’insulto classista («plebeo») al poliziotto, che per inciso era una donna, stando a quanto riferisce ancora il “Telegraph“.
“Plebeo” è chi appartiene a un ceto sociale basso, e per traslato significa anche “inferiore”, in tutti i sensi. Detto da un esponente del governo, conservatore (per tradizione, il partito dei ricchi e dei privilegiati) e per di più un ricco banchiere quale è Mitchell, il caso non poteva che suscitare un’ondata di indignazione.
Con un’ulteriore aggravante: è uno dei rari casi (in Gran Bretagna, non certo in Italia) in cui un’istituzione offende un’altra istituzione. Nello specifico, un politico di governo insulta un esponente delle forze dell’ordine. Una situazione che rischia di provocare un pericoloso cortocircuito: se il Potere non rispetta se stesso, perché dovrebbero rispettarlo i comuni cittadini? E all’interno del Potere, c’è un Potere di serie A (i politici) e uno di serie B (i poliziotti)?
Insomma, un caso molto scivoloso, che è stato ribattezzato dai media britannici il “plebgate“, parafrasando il Watergate.
La stampa e la tv lo hanno cavalcato per giorni, ma anche la politica (molti, anche tra i conservatori, hanno caldeggiato le dimissioni di Mitchell) e la stessa polizia: diversi agenti hanno manifestato davanti alle sedi del governo indossando una T-shirt con la scritta “PC pleb and proud”, ovvero “Agente di polizia (Police Constable) plebeo e orgoglioso”.
Una reazione simile era accaduta in Italia, quando nel 2006 Berlusconi definì «coglioni» gli elettori di sinistra, che reagirono scendendo in piazza con cartelli “Io sono un coglione” o “Fiero di essere un coglione”.
Mitchell, dal canto suo, ha negato di aver insultato la poliziotta, ammettendo solo di essere sbottato in uno sfogo colorito: «Ragazzi, si suppone che voi dobbiate darci un fottuto aiuto» («You guys are supposed to fucking help us»). Mitchell si è comunque scusato per l’espressione, ma questo non è bastato a spegnere le polemiche.
Al punto che, dopo poco più di un mese dall’episodio, il 19 ottobre, Mitchell ha dovuto rassegnare le sue dimissioni al premier David Cameron, ribadendo la propria versione dei fatti, scusandosi per il linguaggio inappropriato, ma dicendo ancora una volta di non aver dato dei “plebei” agli agenti. Mitchell si è detto costretto a uscire di scena per non mettere in difficoltà i propri familiari e colleghi di partito.
Ma i colpi di scena non sono finiti. Un sedicente testimone che aveva scritto una mail al vice di Mitchell, confermando la versione della polizia, si è rivelato un mentitore. E il mese scorso il “Guardian” ha pubblicato il filmato dell’epsiodio, registrato dalle telecamere a circuito chiuso di Downing Street. Il video sembra smentire questa versione dei fatti: si vedono l’agente che accompagna Mitchell al portone, senza interazioni e in silenzio. Un episodio che si esaurisce in 20 secondi, e apparentemente senza testimoni.
E così il caso si è riaperto: la polizia vi ha dedicato 30 agenti (“operazione Alice”) e molti hanno gridato al complotto. Ma l’inchiesta non è ancora finita, e non si escludono ulteriori colpi di scena.
Nel frattempo, la Gran Bretagna si prepara a riformare le leggi sull’ordine pubblico, depenalizzando gli insulti. Un provvedimento “ad personam”? No: le discussioni su questo tema erano iniziate a maggio dell’anno scorso, ben prima del “plebgate”. Oggi in Gran Bretagna, la Legge sull’ordine pubblico del 1986 prevede ammende fino a 1.000 sterline e l’arresto per chi usa parole minacciose, offensive, ingiuriose che possano causare molestie, allarme o disagio.
Il problema è che la legge britannica non definisce in modo chiaro in che cosa può consistere un comportamento insultante. E questo ha innescato casi paradossali: nel 2006 uno studente universitario un po’ alticcio aveva chiesto a un agente di polizia se il suo cavallo fosse gay. Il poliziotto gli elevò una contravvenzione di 80 sterline, ma lo studente si rifiutò di pagarla e finì in cella. E non è stato l’unico caso del genere: un altro giovane era finito dietro le sbarre per aver definito Scientology un “culto pericoloso”.
Così un gruppo di parlamentari, guidati dal conservatore David Davis, hanno lanciato la campagna “Feel free to insult me” (Sentiti libero di insultarmi), per riformare la legge, considerata un eccessivo limite alla libertà di espressione. Una campagna a cui aveva aderito anche l’attore comico Rowan Atkinson (Mr Bean).
Pochi giorni fa il segretario di Stato Agli affari interni, Theresa May, ha annunciato che la legge sarà riformata. Che succederà? Chiunque potrà avvicinarsi a un poliziotto e dirgli che è un plebeo? Probabilmente no. In realtà la riforma nasce dal fatto che diversi britannici sono finiti nei guai con la giustizia semplicemente per aver esercitato un sacrosanto diritto di critica, anche con prove documentate (com’è avvenuto al giornalista del “Guardian” Simon Singh che aveva criticato l’efficacia delle cure chiropratiche). E questo mina la democrazia ben più a fondo che offendere un agente: se non posso chiamare “ladro” uno che ruba, che civiltà è?
Su questo post sono stato intervistato da radio Capital, nella trasmissione “Capital in the world” del 21 gennaio intitolata, per l’occasione, “Parolacce in the world”. Per sentire la puntata basta cliccare qui.