C’è un fatto che mi ha colpito alle ultime elezioni. L’aspirante premier della Germania, il socialdemocratico Peer Steinbrück (sarà lo sfidante di Angela Merkel) ha dichiarato alla “Bild” – il quotidiano popolare più venduto – di essere «inorridito dal fatto che in Italia abbiano vinto due clown», ovvero Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Il termine clown è impreciso in ambo i casi: Berlusconi è stato un intrattenitore (e ha mantenuto il senso del palcoscenico, il piglio da imbonitore-barzellettiere e il gusto della battuta), e Grillo è un comico di professione.
Ma non è questo il punto. Il fatto che mi ha colpito è un altro: perché “clown” è un insulto?
Indubbiamente, ci sono grandi differenze tra comico, intrattenitore, buffone, umorista, satirista, barzellettiere, istrione, saltimbanco, pagliaccio (buffone travestito con una veste simile a un sacco di paglia), clown (termine scandinavo che significa “buffo, rozzo, goffo)”…. Ma sono tutti accomunati da un effetto: fanno ridere. E far ridere è una delle arti più difficili e preziose. Proprio grazie a quest’arte, solo per citare due esempi contemporanei, l’Italia ha conquistato un Nobel (proprio con un giullare: Dario Fo) e un Oscar (con Roberto Benigni). E da 40 anni in alcuni ospedali i clown sono diventati un’integrazione alle cure: la clownterapia, fondata dal medico statunitense Hunter “patch” Adams. Ma allora perché chi possiede questo talento è oltraggiato, tanto da essere considerato “persona poco seria, che si comporta in modo ridicolo o sulla quale non si può fare affidamento“?
La risposta va cercata nella Storia. Ed è una risposta sorprendente. Innanzitutto perché i comici sono nati come figure sacre nell’antica Grecia. Durante i culti di Dioniso, feste contadine che celebravano la rinascita primaverile, c’erano demoni ballerini, i fliaci, che sfilavano con ventre e sedere imbottiti, indossando un fallo artificiale. Il riso serviva a scacciare gli influssi nefasti e ad alimentare la forza rigeneratrice della natura, in cui aveva un ruolo centrale il sesso: e infatti questi primi comici furono trasgressivi, nelle movenze e nel linguaggio. La commedia è nata qui, e poi si è trasferita a teatro, prendendo di mira i potenti, i costumi e la cultura del tempo.
Nel Medioevo, il comico si è diviso in due figure opposte: da un lato il buffone di corte, organico al Potere, che lavorava stabilmente per far divertire il Signore di turno. Spesso era nano o deforme, matto o demente: una valvola di sfogo per i potenti. Dall’altro lato, il giullare (termine che deriva dalla parola “gioco”): un artista di strada, capace di divertire con battutacce. Era una persona ai margini della società perché non apparteneva a nessuna delle classi del tempo (sacerdoti, guerrieri, contadini). E proprio per questo era libero di vestirsi e di dire ciò che voleva, attirando però le ire dei teologi: perché parlava di sesso senza tabù e perché il riso allontanava gli animi dalla ricerca di Dio. Ricordate “Il nome della rosa” di Umberto Eco? La storia ruota proprio intorno a un monaco benedettino che voleva nascondere un manoscritto, il libro della “Poetica” di Aristotele dedicato alla commedia. Un manoscritto pericoloso, perché avrebbe legittimato il riso.
Eppure, già a quell’epoca c’era stato un religioso che era andato decisamente controcorrente: San Francesco d’Assisi, che si definì “giullare di Dio” proprio per rimarcare la sua follia, la sua volontà di rinunciare ai valori mondani per godere di una piena letizia.
Lo spirito dei giullari è sopravvissuto nel Carnevale, un momento liberatorio in cui cadono i divieti ma anche le barriere gerarchiche che separano le persone. Un risultato ottenuto grazie alle parolacce: un linguaggio libero, diretto e giocoso, che permette di cogliere le cose per quello che sono. Secondo il critico letterario russo Michail Bacthin, con le parolacce «Ogni cosa prende accenti diversi, familiari e liberi dalla paura. È la liberazione dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti.» Anzi: «Il riso è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità sul mondo, sulla storia, sull’uomo: è un punto di vista particolare e universale. Solo al riso è permesso di accedere a degli aspetti estremamente importanti della realtà».
Ma tutto questo è finito nel 1600, con la nascita delle monarchie assolute che hanno arginato lo spirito del Carnevale: perché il Potere per mantenersi ha bisogno dell’autoritarismo, dell’ufficialità, dei divieti. Il potere è serio: e, avverte Bachtin, c’è sempre, in questa serietà, un elemento di paura e di intimidazione. Il riso, invece, presuppone il superamento della paura, non impone divieti né restrizioni. Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso. Inoltre, il potere è statico, si basa sul principio della gerarchia immutabile ed eterna, dove il superiore e l’inferiore non si mescolano mai. Perciò nella cultura ufficiale le lodi e le ingiurie non si possono mai mescolare».
Ecco perché la politica ha tanto paura dei comici e vuole svilirli! Perché rischiano di sgretolare il Potere dalle fondamenta. Ma non è l’unico motivo.
La figura del comico è, secondo Carl Gustav Jung, un “archetipo”, ovvero una figura ricorrente e universale, presente nell’inconscio collettivo. E’ il folle, lo scemo del villaggio, il jolly, il trickster: un abile imbroglione, amorale, al di fuori delle regole, capace di salvarsi dalle situazioni più ingarbugliate grazie al suo misto di ingenuità e astuzia, di creatività e incoscienza. E’ un comico furbo, triviale, che con le sue trovate creative riesce a mettere in contatto l’umano col divino, rovesciando l’ordine costituito e creando un mondo differente. Come l’eroe della mitologia greca Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi e lo portò agli uomini. E questo aspetto fa ancora più paura al Potere…
Come saranno allora i nostri politici vecchi e nuovi? Buffoni o trickster? Jolly o malefici Joker, come l’avversario di Batman? Staremo a vedere. Nel frattempo fa riflettere un altro insospettabile estimatore dei clown: Joseph Ratiznger. Nel suo libro “Introduzione al cristianesimo” Ratzinger paragona il teologo di oggi al clown di un circo che si incendia, e viene mandato a chiamare aiuto in un villaggio vicino. La gente, dinanzi alle sue grida, ride fino alle lacrime pensando a un numero comico. Finché le fiamme arrivano al villaggio… Checché ne dica Steinbrück (e quelli come lui) il clown è una figura molto seria.
Non a caso, del resto, i più celebri clown tedeschi hanno contestato duramente Steinbrück per l’uso spregiativo del termine “pagliaccio”. Bernhard Paul, direttore del circo Roncalli di Colonia e pagliaccio per ben 36 anni, ha dichiarato all’agenzia DPA: «Un pagliaccio del circo non è uno stupido. È una professione onorevole, difficile, che richiede sensibilità e talento artistico». Paul ha duramente contestato l’utilizzo della professione del pagliaccio per «insultare i politici di dubbia credibilità» e ha annunciato una lettera indirizzata al leader tedesco per invitarlo ad avere più rispetto per chi cerca con intelligenza e onestà di strappare un sorriso alla gente. Anche Oleg Popov, famosissimo clown russo, in un’intervista rilasciata al quotidiano Tz di Monaco, ha affermato: «Un pagliaccio può essere chiamato tale soltanto quando può recitare in un teatro o in un circo e riesce a dare allegria alla gente. Se non lo fa, io piuttosto lo chiamerei cialtrone».
Ho parlato di questo post su Radio Monte Carlo nel programma “Teo in tempo reale” con Teo Teocoli, Monica Sala e Max Venegoni il 12 marzo. Per ascoltare il podcast cliccate qui.
che scoperta!! proprio non sapevo che clown fosse una parolaccia!! focus è davvero pieno di curiosità interessanti!