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La fenomenologia della banana

esibizionistManifestazioni di piazza e negli stadi. Attacchi sui giornali. Insulti politici e sportivi. E scandali: per aver tirato in ballo le banane, Carlo Tavecchio ha rischiato di non diventare presidente della Figc ed è stato condannato a 6 mesi di squalifica dalla Uefa. Ma perché negli ultimi anni la banana è diventata un simbolo così potente?

La storia (culturale) della banana è piuttosto interessante, e riserva molte sorprese.

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La copertina di Warhol per i Velvet Underground.

L’uso della banana come simbolo fallico ha una lunga storia. Uno dei primi esempi fu, nel 1967, la copertina disegnata da Andy Warhol per “The Velvet underground & Nico”, un album rock. Sulla copertina del disco c’era una banana: non compariva né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo la firma dell’artista. Le prime copie del disco invitavano chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” ; togliendo un adesivo si poteva vedere una banana rosa shocking, a ricordare un membro maschile. L’album, però, non fece scandalo perché la realizzazione di quella copertina risultò troppo dispendiosa e ne rallentò la produzione.

Nel 2000 fece successo una canzone degli anni ’60, “La banana”: un brano fortemente allusivo ma allegro, cantato dal cubano Michael Chacon: “el unico fruto del amor, la banana, la banana de mi amor”. Fu usato in uno spot della Peugeot e diventò un tormentone.

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La campagna anti-bullismo di Oliviero Toscani.

Un altro esempio creativo è una campagna di Oliviero Toscani contro il bullismo, commissionata nel 2009 dalla Provincia di Bolzano. Nel manifesto, l’uomo è rappresentato da una virile banana, e il bullo da un infantile pisello. Come dire che il vero macho non è il bullo. Due vegetali usati come simboli sessuali, e non sono gli unici: avevo già scritto qui che su 744 termini usati in italiano per descrivere l’organo sessuale maschile, il 13% sono vegetali (piante, frutti, verdure: ci sono anche la carota, il cetriolo, la fava, la pannocchia…).

Negli ultimi anni, però, la banana è diventata anche un simbolo di razzismo: l’idea è nata tra i tifosi di calcio inglesi, che nel 1987 tirarono una banana in campo a John Barnes, calciatore giamaicano che all’epoca giocava nel Liverpool. Un gesto di disprezzo, come dire: “sei una scimmia, mangiati questa banana”. Quando si vuole insultare un’altra persona, infatti, basta paragonarla a un animale (porco, somaro, cane, bestia, balena, troia, vacca, verme, pidocchio, vipera, oca, conigli, mollusco…), nella credenza – tutta da dimostrare – che gli animali siano inferiori a noi. Oltre al fatto che gli animali servono spesso a descrivere determinati tratti caratteriali umani: l’ostinazione, l’ottusità, la promiscuità, la codardia…

Da allora, gettare banane negli stadi (o esporre palloncini a forma di banana sugli spalti) è diventata un’abitudine virale: l’hanno fatto i tifosi dello Zenit di San Pietroburgo nei confronti dei giocatori africani dell’Olympique Marsiglia nel 2008, e poi la moda si è diffusa in tutto il mondo. Eppure, la banana non è affatto di origine africana: è nata in Asia, e in particolare in Nuova Guinea dove è stata domesticata, per poi diffondersi in Africa e in Europa frazie ai mercanti arabi. Arrivò nelle Americhe grazie ai colonizzatori portoghesi.

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“Furba come una scimmia: Taubira ritrova la banana”. Copertina di “Minute”, giornale francese di destra.

Ma tant’è: lanci sprezzanti di banane sono stati fatti nei confronti dell‘ex ministro Cecile Kyenge e del ministro della Giustizia francese Christiane Taubiria, sollevando forte indignazione.
Ma quest’anno c’è stato un calciatore che è riuscito a disinnescare questo meccanismo con l’ironia: il calciatore brasiliano Dani Alves (Barcellona), durante una partita contro il Villareal, ha raccolto dal campo di gioco una banana che gli era stata lanciata. E l’ha mangiata, continuando a giocare.

«Il razzismo è un problema. Ma bisogna prendere le cose con una dose di umorismo perché non è facile cambiare le cose, Se non diamo importanza a queste persone, non raggiungeranno il loro obiettivo». Un gesto semplice ma efficace, che ha spinto molti personaggi famosi – compreso il premier Matteo Renzi e l’ex ct Cesare Prandelli – a farsi fotografare mentre mangiavano una banana.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Ma ci sono altri usi simbolici della banana: negli anni del cinema muto, la persona che scivolava sulla buccia di banana era uno dei meccanismi comici più utilizzati.
E proprio su una “buccia di banana” è scivolato Tavecchio, che durante un’assemblea della Lega Dilettanti, parlando della facilità con cui i calciatori extracomunitari militano nelle squadre italiane, ha detto: «Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…».

La frase ha sollevato uno scandalo internazionale: persino la Fifa e l’Unione europea hanno stigmatizzato l’affermazione. Che aggiunge un ulteriore elemento di razzismo, secondo il quale chi mangia le banane è da disprezzare in quanto povero e non gastronomicamente evoluto. Un meccanismo di disprezzo che conosciamo bene: molti stereotipi razzisti si basano sullo stesso concetto: basti pensare a polentone (mangia polenta), spaghetti, maccarone, e ai tanti nomignoli con cui gli immigrati italiani sono stati dileggiati all’estero. Come tutti gli stereotipi, ingrandisce un dettaglio (in questo caso un’abitudine alimentare) per distorcere l’insieme.

Ma non finisce qui l’uso simbolico della banana: un uso spregiativo è nell’espressione “Repubblica delle banane”. Questo modo di dire ha una paternità precisa: il romanziere americano O. Henry (Williams Sydney Porter) che nel 1904 pubblicò “Re e cavoli”, una serie di racconti brevi. Uno di questi, “L’ammiraglio”, era ambientato nella repubblica di Anchuria, un paese immaginario la cui economia era completamente basata sulle esportazioni di banane. La situazione attira alcune grandi società statunitensi, che riescono a ottenere il monopolio delle banane corrompendo la classe politica. Il libro descrive l’Honduras, e molti altri Stati la cui economia era basata su una monocultura (caffè, banane, canna da zucchero): la produzione era nelle mani di una ristretta élite, che con l’aiuto dei militari gode dei profitti mentre il resto della popolazione rimane povera.

71ildittatoreIl termine è entrato nel vocabolario per indicare un regime dittatoriale e instabile, in cui le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è diffusa così come una forte influenza straniera (politica o economica).
Per estensione, il termine è usato per definire governi in cui un leader forte concede vantaggi ad amici senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno appoggiato in senso economico o politico. La repubblica delle banane ha avuto molta fortuna: è stato usato da Pablo Neruda nel “Canto general”, da Gabriel García Márquez in “Cent’anni di solitudine”, e dal film di Woody Allen “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” (1971). Senza contare “Banana republic”, disco dal vivo di Lucio Dalla e Francesco De Gregori (1979), e  il disegnatore Francesco Tullio Altan, che nelle sue vignette satiriche ritrae Silvio Berlusconi come “il Cavalier Banana”. Ecco com’è nato il personaggio: «Prima delle elezioni del 2001, Gianni Agnelli disse che non eravamo una Repubblica delle Banane. È vero, scrivevo io, non siamo una Repubblica delle Banane, ma del Cavalier Banana. La banana diventò così un segnale, un termometro».

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