Come accompagnare un menu fatto di portate volgari (l’ho raccontato qui), se non con una cantina adeguata?
Il mondo dei vini (e degli alcolici in generale) riserva notevoli sorprese agli appassionati di parolacce e di goliardia: l’alcol libera i freni inibitori, e un nome osceno apre le porte dell’erotismo ed è beneaugurante. D’altronde, da un vino ci si aspetta che sia inebriante, e quindi lo aiuta avere un nome evocativo. E infine, dato che il vino rende più sinceri (in vino veritas), si abbina bene alle parolacce, che sono un linguaggio spontaneo e diretto. Ma anche il marketing ci mette lo zampino: con 45 milioni di ettolitri di vino prodotti nel 2017, l’Italia è il primo produttore al mondo, ed è sempre più diffusa l’esigenza di avere un’etichetta che attiri l’attenzione e sia facilmente memorizzabile. Ecco perché i nomi “piccanti” dati alle bevande non sono frutto del caso o di incidenti. Dunque, entriamo nella cantina più osé del mondo: 13 etichette italiane (più 5 estere), fra le quali il primato incontrastato va ai rossi toscani. Perché sono fra i maggiori produttori nazionali di vino, ma anche per lo spirito sanguigno che li contraddistingue. Prosit!
Soffocone di Vincigliata (Toscana, vol. 14%; uve: 90% Sangiovese, 7% Canaiolo, 3% Colorino; alcol: 14%). Soffocone è un termine dialettale: significa fellatio, rapporto orale (da una donna a un uomo). Prodotto dall’azienda di Bibi Graetz, artista norvegese, perché la sua tenuta vinicola, vicino a Fiesole, è una località dove spesso si appartano le coppiette. Concetto ribadito anche nell’etichetta, che mostra una donna inginocchiata. La scelta ha causato qualche problema negli Usa, dove le autorità hanno imposto al produttore di cambiare l’etichetta.
Bernarda (Piemonte; vol. 13%; uve: bonarda e barbera): il nome del vino, prodotto da Christian Trinchero, è nato fondendo i nomi dei due vitigni (barbera e bonarda) in un nome dal voluto doppio senso: la grafica dell’etichetta, del resto, non lascia dubbi in proposito.
Rosso Bastardo (Umbria, vol. 13,5%; uve: Sangiovese, Merlot, Cabernet, Umbro surmaturo). Prodotto dalla cantina Cesarini Sartori, deve il suo nome non al fatto di essere un vino spurio, ma dalle località in cui si colitvano i suoi vitigni. Infatti c’è da un paese umbro che si chiama Bastardo: è una frazione di Giano dell’Umbria che ha preso il nome da un’antica stazione di posta lungo l’antica Via Flaminia, l'”Osteria del bastardo”.
Bricco dell’uccellone (Piemonte, vol. 15,5%; uve: Barbera): prodotto dall’azienda Braida, che spiega così l’origine del nome: “Si chiama così perché una volta, nella casa accanto, abitava una vecchia signora sempre vestita di nero, che era stata soprannominata l’uselun (l’uccellone)”. Sarà, ma il doppio senso è evidente, tanto che diversi sommelier lo definiscono scherzosamente “il vino più desiderato dalle donne”. Del resto, l’azienda Braida ha una vena ironica, visto che ha battezzato un’altra varietà di barbera “La monella” (“per il suo carattere frizzante ed esuberante”).
Scopaio: (Toscana; vol. 13,5%; uve: Cabernet Sauvignon, Syrah). Il nome evoca lo scopare, ma in realtà nasce anch’esso come riferimento geografico: la località Lo Scopaio a Castagneto Carducci (Livorno). Il vino è prodotto da varie aziende, fra cui Roggio Molina e da La Cipriana.
Merlo della TopaNera (Toscana, vol. 14%; uve: Merlot): il vino è prodotto a Montecarlo (non il principato di Monaco, ma una frazione in provincia di Lucca) dall’azienda di Gino Fuso Carmigiani. Stavolta la geografia non c’entra: il nome è un voluto omaggio goliardico al sesso femminile.
Nero di Troia: è un vitigno autoctono della Puglia, e dà il nome a vini prodotti da diverse etichette. Il suo nome può essere collegato con la città pugliese di Troia, oppure con la leggenda dello sbarco sulle rive del fiume Ofanto dell’eroe greco Diomede, reduce dalla guerra di Troia, che portò con sè alcuni vitigni della propria terra. In effetti, gli studi sui vitigni hanno confermato la provenienza dall’Adriatico orientale. Dunque, si tratta solo di un’assonanza con la parola troia (con la t minuscola). La sua uva ha una buccia spessa particolarmente ricca di polifenoli e dal moderato potenziale zuccherino; dà origine a vini con profumi floreali (sentori di viola impreziositi da sfumature speziate). BioNaSega: per capire il gioco di parole bisogna ricordare che, in toscano, “una sega” significa “una cosa da niente” (letteralmente, la sega è la masturbazione). Questo vino, infatti, è un rosso Igt di Toscana, e viene prodotto senza ricorrere alle procedure del “biologico”: il nome, quindi, significa provocatoriamente “altro che biologico”. “E’ un vino normale e toscano. Ed è semplicemente buono: punto” dice il produttore Rodolfo Cosimi. Amis d’la barbisa: è un barbera d’Asti prodotto dall’azienda piemontese Bertolino J’Aime, attiva dal 1925. “Barbisa” è un termina dialettale per la vulva: il nome significa quindi, goliardicamente, “Amico della vulva”, un significato sottolineato anche dall’etichetta in cui un calice stilizzato evoca l’aspetto del pelo pubico femminile. Il vino risulta prodotto fino al 2016.
Passerina: è un vitigno diffuso nelle Marche, in Abruzzo, in Emilia Romagna e nel Lazio. Il suo nome deriva dalle piccole dimensioni degli acini e dal fatto che i passeri hanno una particolare predilezione per le sue uve, caratterizzate da una polpa gustosa. Ma la passera evoca ben altro, e diversi produttori hanno giocato sul doppio senso, come ha fatto la cantina Lepore nella pubblicità della Passera delle vigne (contestata per il suo sessismo).
Ficaia (Toscana, vol. 12,5%; uve: Pinot Bianco e Viogner): chi poteva produrre questo vino, se non la fattoria Uccelliera? La ficaia, in toscano, è l’albero del fico, o un campo coltivato a fichi. Ma il doppio senso appare evidente (e difficilmente frutto del caso…).
DeUnaSega: è il nome di una linea di bevande alcoliche (vini e birre) prodotte in Toscana, nell’Empolese. E’ lo stesso gioco di parole usato per il vino rosso “BioNaSega” (vedi sopra): significa “di niente, cose da nulla”. L’etichetta campeggia su vino bianco frizzante, chianti rosso, Igt toscano rosso e anche su una linea di birre artigianali (bionda, rossa e due malti).
Addio cugghiuna: in dialetto siciliano, questa espressione significa “addio coglioni”. E’ l’equivalente di “buona notte al secchio”, “addio core”: un modo di salutare un’impresa (o una situazione) che si è rivelata impossibile. Questo modo di dire è stato usato come nome di uno spumante biologico brut metodo classico, ottenuto da vitigni chardonnay, Ortrugo, Muller-Thurgau. Il produttore è un trapanese trapiantato in Lombardia.
Cojòn de gato e teta de vaca: sì, il significato è proprio quello che avete capito. Nonostante le assonanze col veneto, i vini sono prodotti in realtà da un’azienda vinicola spagnola, il cui nome è tutto un programma: “Vinos divertidos“. In realtà, la goliardia c’entra fino a un certo punto, perché i nomi sono quelli di due vitigni spagnoli autoctoni, che sono chiamati proprio “coglione di gatto” e “tetta di vacca”.
De puta madre: l’espressione significa letteralmente “Di madre puttana”. In spagnolo è usata come rafforzativo, equivalente al nostro “Della Madonna”: questo vino, prodotto da François Lurton, è stato così chiamato per il suo gusto forte e dolce: ricavato da uve verdejo della regione di Castilla e Leòn, ha una gradazione di 15,5%.
Hijoputa: in spagnolo, questa espressione (hijo de puta) significa “figlio di puttana”. In spagnolo, come in italiano, può avere sia un significato insultante che uno elogiativo, di ammirazione (quel gran figlio di puttana!). Il nome è stato scelto da un produttore di liquori di Gijón, in Asturia (Spagna) per una linea di liquori. Alcuni anni fa ha tentato di registrare il marchio presso l’Unione Europea, ma la domanda è stata respinta. Le vin de merde: ci vuole coraggio, per un viticoltore francese, a chiamare così i propri vini. Jean-Marc Speziale l’ha avuto, e i fatti gli hanno dato ragione: dal 2007, quando ha fondato la sua azienda, ha avuto un notevole successo, anche per merito del nome. Che è nato per provocazione: Speziale voleva attirare l’attenzione sui vini del Languedoc, che non godevano di buona fama pur essendo buoni. Così decise di chiamarli come li definivano gli altri: “vini di merda”. Sull’etichetta, per rimarcare il concetto, è raffigurata una mosca e il motto “Le pire cache le meilleur” (Il peggiore nasconde il migliore). Nato come vino rosso, oggi il “vin de merde” è anche bianco e rosè.
Chateau le Frègne: è un vino Bordeaux prodotto in Francia dalla famiglia Rizzetto, di probabili origini italiane. Non sappiamo se il nome del castello sia stato volutamente malizioso, in ogni caso i vini di questo produttore hanno vinto diversi premi prestigiosi. Mica fregnacce.
Licor de merda: è un celebre liquore portoghese a base di latte, creato a Cantanhede nel 1974. Il nome ha origine dalla fantasia goliardica del suo creatore, Luís Nuno Sergio. Le prime volte che tentava di produrlo, versava gli scarti di lavorazione in una brocca da 20 litri, chiamata per l’appunto “liquore di merda”: quando riuscì a trovare una ricetta valida, decise di lasciare quel nome. E dopo la Rivoluzione dei Garofani del 1974, acquisì un risvolto polemico in “omaggio” alla classe politica portoghese che stava gestendo quella convulsa fase di ritorno alla democrazia.
Grazie a Giovanni Erba (Winepoint) e Cassio Filippucci per le preziose segnalazioni.
PS: alcuni lettori mi segnalano il “Verduno pelaverga“, un rosso delle Langhe. Caso suggestivo, ma non può stare in questa lista per due motivi: verga può significare pene, ma non è una parolaccia (è un termine letterario, colto); e in questo caso, verga significa bastone: “pelaverga” vuol dire ramoscello pelato, senza foglie (per esporre le uve al sole, favorendone la maturazione).
Dal 1980, esiste la Birra Minchia. E’ prodotta, ovviamente, in Sicilia, e precisamente a Messina, con lo slogan: “Vera, come noi siciliani”. Un riferimento alla schiettezza che esprimono le parolacce. La bevanda è disponibile in 3 varianti: bionda, rossa e… tosta (doppio malto). A differenza della Birra Stronzo (v. sotto), in questo caso ogni riferimento volgare è puramente voluto. In Puglia, per “par condicio”, dal 2018 è stata avviata la produzione della birra Ciunna, termine dialettale che designa la vulva. Certamente, dire “Ciunna bionda” assume tutt’altro significato. L’idea è venuta a due imprenditori di San Severo (Foggia): è stata eletta “Birra dell’anno” nel 2019. E’ nata nel Nord Europa, invece, e precisamente in Danimarca, la birra Stronzo: la bevanda, disponibile in diverse varietà, a quanto pare è nata perché i proprietari danesi avevano sentito la parolaccia italiana, ne amavano il suono ma non ne sapevano il significato. Ma l’hanno usata ugualmente per battezzare la loro birra. Nel frattempo, però, la ditta ha chiuso nel 2014.
Dicono che questa bevanda “tira”. Il nome, del resto, è tutto un programma: FIGA’ (con l’accento sulla “a”). E’ una bevanda ai fiori di guaranà, infatti il nome vorrebbe essere un acronimo di “Fi. (fiori) e guaranà (GA’). Una sigla scelta con malizia: il nome, infatti, non è un incidente dovuto a scarsa conoscenza dell’italiano, dato che la bibita – analcolica – è prodotta a Padova dalla Targa Ilva Srl. Di sicuro non passa inosservata, ma non è facile chiedere a una barista: “Mi dà la Figà?”.
Di questo post hanno parlato AdnKronos, Il Giornale, Mondo Udinese.
Manca il mitico “Bio-nasega” di Cosimi! 😉
…’a Francè ma nu’ faranno male ‘a beve troppi rossi bionasega??
Manca il PELAVERGA vino piemontese zona Verduno nelle Langhe
Conosco un barbera d’Asti che si chiama “J’Amis dla barbisa” (amico della barbisa): in dialetto lombardo, la barbisa è l’organo sessuale femminile.
Alcuni lettori mi segnalano anche il “Vino del cazzo”: in realtà non lo produce nessuno. E’ una bottiglia vuota con etichetta goliardica, che ognuno può riempire col vino che preferisce.
la maggior parte di questi vini non hanno a che vedere con parolacce, poi mancano due ottimi vini. Uvagina e Vinocchio.
Segnalazione interessante: sono due vini volutamente allusivi. Li hanno chiamati così “per combattere l’omofobia”, come racconta l’Espresso. Sono due nomi suggestivi, ma non sono classificabili come parolacce: “vinocchio” è un eufemismo per finocchio, “Uvagina” rimanda a “vagina” che è un termine scientifico. Gli altri vini che ho segnalato nel post, invece, sì: non sempre come origine etimologica, ma sempre come semantica, cioè nel loro possibile significato.
Ciao, ma ke dici? Guarda ke il VINO DEL CAZZO lo producono eccome, l’azienda agricola LA BERNARDA, zona castelli romani e lo danno anke alle fraschette di ariccia
Ne dubito fortemente, Giovanni. Se digiti “vino del cazzo” in tutti i database ufficiali dei vini italiani, non risulta nulla. E non si trova chi lo venda in Internet. Se tu ci riesci, segnala il link. Io fino a quel momento resto della mia idea (già verificata a suo tempo). Basta dare un’occhiata a questa pagina Facebook e vedrai che esistono almeno 5 etichette diverse, tutte con produttori improbabili e palesemente inventati (Tenuta Santa Bernarda Val d’Uccello, Azienda agricola “Sta minchia”…).
Salve, qualcuno è riuscito a sapere dove è possibile comprare il “vino del cazzo”?
Perché in effetti sul web non si riesce a trovare…
Grazie
STRONZO in realtá é la parola usata specie a Copenaghen per indicare quelli che una volta si chiamavano “vitelloni”, qui spesso di origine latina ma non solo.
ciao ,sai dove posso reperire la bottiglia vuota etichettata ?Grazie
Se ti riferisci al “Vino del cazzo” non ne ho idea… Magari qualcuno dei lettori di questo blog ti può aiutare?
Manca il vino francese “chateu le frègne”.
Eccezionale! L’ho inserito nell’articolo, grazie della segnalazione