Si può essere volgari nelle campagne sociali? L’uso della parolacce nella pubblicità non è una novità. Ma da qualche tempo si è varcata una nuova frontiera: il turpiloquio è entrato nelle pubblicità-progresso, gli spot che non promuovono l’acquisto di prodotti, bensì incoraggiano i comportamenti sanitari o sociali corretti, condannando invece quelli scorretti (droga, fumo, obesità, razzismo).
Ma le parolacce possono davvero aiutare a sensibilizzare le persone a sostenere la lotta ai tumori o a denunciare la violenza contro le donne? Come si possono conciliare i temi “alti” col linguaggio “basso”?
Il tema è affascinante, anche perché alcune delle campagne che vedrete qui sotto sono state commissionate dalle istituzioni: ministeri, Parlamento, Province…. Infatti bisogna sfatare un mito diffuso: i due mondi (il turpiloquio e le campagne sociali) non sono inconciliabili. Le parolacce, infatti, possono avere senso anche se si affrontano temi delicati: infatti possono servire ad attirare l’attenzione e a scuotere l’opinione pubblica su temi trascurati o sottovalutati (il bullismo, l’obesità…). E a volte sono l’unico modo di condannare una realtà sgradevole, chiamandola col suo nome: pane al pane, vino al vino.
La nuova tendenza si sta diffondendo a macchia d’olio, non solo in Italia ma anche all’estero. Poco tempo fa, il quotidiano britannico “The Guardian“, parlando delle campagne sociali sboccate, scriveva: “Siamo passati dalla povertà-oscena (le campagne con le foto dei bambini africani denutriti, piangenti e ricoperti di mosche) all’oscenità della volgarità?”. Evidentemente sì. Ma non tutta la volgarità vien per nuocere. Accanto alle (poche) campagne riuscite, ce ne sono molte brutte, di cattivo gusto o inefficaci: il turpiloquio va usato con intelligenza, in modo pertinente e soprattutto con ironia. Insomma: la volgarità non va condannata a priori, ma occorre esaminare caso per caso.
Lo facciamo ora, esaminando, in ordine cronologico, le 30 campagne sociali più volgari degli ultimi decenni, sia in Italia che all’estero. Con una sorpresa: per quanto ho potuto accertare, l’Italia è stata fra i precursori in questo campo.
Le campagne italiane sono 22, con un’impennata nel decennio 2011-2020 (vedi grafico). Nonostante il linguaggio forte, non risultano censurate (tranne la prima) dal Giurì dello IAP, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria.
“Comincia dalla prima sigaretta il lento suicidio dei coglioni” (1982). L’oncologo Umberto Veronesi affidò a Girolamo Melis una campagna di Pubblicità Progresso contro il fumo. Ne venne fuori un poster con una sigaretta accesa e uno slogan destinato a non essere mai più dimenticato. Le reazioni furono feroci. Lo Iap (Istituto di autodisciplina pubblicitaria) ordinò l’immediata rimozione dei manifesti: «La parola “coglioni” ha una capacità d’urto offensivo e questo legittimerebbe l’inizio di un degrado selvaggio nello stile pubblicitario, che sarebbe arduo considerare un progresso» (autore del pronunciamento, Francesco Saverio Borrelli, che sarebbe diventato famoso con Tangentopoli). Giornalisti di spessore come Indro Montanelli ironizzarono. Altri, come Enzo Biagi, approvarono.
“Il vero bastardo sei tu che ci abbandoni” (1994). La prima campagna “strong” contro l’abbandono di animali domestici fu realizzata gratuitamente dalla Universal Advertising con il patrocinio di Pubblicità Progresso per la Lega nazionale difesa del cane. Lo spot mostrava il destino di un cane abbandonato, e si concludeva con la frase che condannava questo comportamento. Lo slogan – basato sul doppio senso di “bastardo” (cane non di razza/persona crudele, insensibile) – ha fatto fortuna, tanto da essere stato poi ripreso da diverse altre campagne, come quella nella foto a lato. Come dire che sono più bastardi alcuni uomini che i cani.
“Non toccare questa merda!“(2007). Queste campagne contro la droga (cocaina ed ecstasy) sono state lanciate da Forza Nuova, movimento politico di estrema destra. Un linguaggio forte, diretto e senza ambiguità per rivolgersi a un pubblico giovane. Un tentativo di trasformare gli stupefacenti, simbolo di trasgressione e di moda, in oggetti repellenti come gli escrementi. Ma mentre nel primo caso (foto a sinistra) lo slogan risultava un po’ generico, nel secondo (foto a destra) era almeno accompagnato da una spiegazione e un invito: “il sabato sera divertiti, non ucciderti”. Lo slogan sarebbe stato più efficace se fosse stato: “Non mangiare (non sniffare) questa merda”.
Bananona vs pisellino (2009). La campagna è stata finanziata dalla Provincia di Bolzano e si inserisce nel progetto altoatesino “Fair play” contro ogni forma di estremismo. L’autore era il fotografo Oliviero Toscani, celebre per altre campagne senza peli sulla lingua (o nell’occhio): quella contro l’anoressia mostrava una ragazza scheletrica, quella contro la condanna a morte i volti dei condannati, quella contro l’Aids i preservativi…. etc etc. In questo caso Toscani ha scelto le rappresentazioni simboliche del pene: il “pisello” (termine usato per rivolgersi ai bambini) e la “banana” (metafora usata dagli adulti: in questo post ho raccontato la sua forza simbolica). Come dire che il bullo è infantile, perché compensa con la violenza una virilità inadeguata. Dunque, invece di far paura i bulli dovrebbero essere presi in giro. Un messaggio ironico, diretto e forte al tempo stesso.
“Ci chiami ‘sporco negro’ e ‘lesbica schifosa’. Ma ti offendi se ti chiamano ‘italiano mafioso'” (2009). Le persone raffigurate nella campagna Arci (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana) sono Jean Leonard Touadì, deputato di colore, e Paola Concia, deputata gay, entrambi del Pd. Lo slogan è efficace: il razzismo è un boomerang, e se non ti piace essere chiamato mafioso, non insultare gay e persone di colore. Ma la campagna non è del tutto azzeccata: innanzitutto, perché è una forzatura etichettare l’omofobia come razzismo (il razzismo ha a che fare con le origini etniche; semmai è una discriminazione). Poi, perché la discriminazione è decisamente più forte nei confronti dei maschi omosessuali rispetto alle femmine.
I due protagonisti sono ritratti nudi: per fare ancora più clamore mostrando due parlamentari senza veli? Può darsi. In ogni caso, i loro sorrisi aiutano a rendere la campagna più simpatica.
“Non fare il cretino, questo bus è anche il mio” (2010). La campagna è stata lanciata dal gruppo di formazione Ifos per combattere il bullismo sugli autobus a Cagliari. In realtà, il termine più corretto sarebbe stato vandalismo, visto che sotto la campagna è diretta contro “chi distrugge ciò che è di tutti”. Poco comprensibile l’immagine del ragazzino coi guantoni da boxe: incarna il vandalo immaturo che distrugge gli autobus, oppure dovrebbe rappresentare chi reagisce alla violenza dei vandali? In quest’ultimo caso, sarebbe un messaggio sbagliato perché indurrebbe alla violenza. Ma è più probabile che il ragazzino coi guantoni rappresenti il vandalo: in questo caso, allora, sarebbe stato più efficace metterlo maggiormente in ridicolo, evidenziando – appunto – la sua cretinaggine. Efficace, comunque, l’invito ad alzare la testa: il silenzio dà forza ai prepotenti.
“Stai zitta, cretina” (2011). E’ una campagna contro la violenza sulle donne, lanciata dall’associazione Intervita (oggi WeWorld): mostra una donna con la bocca cucita, accanto allo slogan”. Ovvero, non si chiude la bocca a una donna come se fosse una cretina. Ma a parte la scarsa chiarezza del messaggio (non si capisce che è una campagna contro la violenza alle donne), risulta respingente l’immagine della bocca cucita: la violenza, invece di essere esorcizzata, condannata, viene esibita così com’è, osserva Giovanna Cosenza, docente di semiotica dei nuovi media all’università di Bologna.
“Strunz” (2012). Come combattere le persone che non rispettano la fila o gettano i rifiuti per strada? Chiamando l’incivile col suo vero nome: “strunz“, stronzo in napoletano. Si chiama così una campagna contro l’inciviltà che è stata lanciata a Napoli. Dopo aver lanciato un sito internet (strunz.me, oggi disattivo), un’utenza Twitter e un flash mob, l’iniziativa sembra oggi tramontata.
“Ferma il bastardo” (2013). La campagna è stata promossa da Yamamay, noto marchio di abbigliamento femminile. Ancora una volta, la foto di una donna maltrattata (il primo piano di un occhio pesto) e lo slogan: “Ferma il bastardo“. Anche in questo caso, osserva Cosenza, un messaggio generico (in che modo si possono fermare i violenti?) e una violenza esibita: di certo, non si aiutano le donne a uscire dal ruolo di vittime se le si mostra sempre come vittime, commenta ancora Cosenza. Sarebbe più interessante (anche se più difficile) concentrare l’attenzione sull’uomo.
“Italiani #coglioni” (2013). La campagna “nelQ” nasce come parodia polemica nei confronti di una campagna Enel “#guerrieri”. L’agenzia BluMagenta ha voluto rappresentare lo scoramento degli italiani, con il seguente testo: “Abbiamo le tasse più alte del pianeta, un debito pubblico superiore a duemila miliardi, la disoccupazione giovanile al 40%. Il sistema sanitario nazionale è al collasso. Siamo tra i paesi Europei che investono meno in istruzione e cultura, quello con la più bassa percentuale di diplomati e laureati ma con la spesa pubblica costantemente in crescita. Facciamo trecento miliardi di evasione fiscale all’anno. Siamo uno dei paesi più corrotti al mondo. P.S. L’ energia italiana è la più cara d’Europa.” Quest’ultima è una stoccata polemica proprio verso Enel.
“Negro, ladra, ciccione, terrorista… Anche le parole possono uccidere. No alla discriminazione: l’altro è come me” (2014). La campagna, realizzata da Armando Testa, è stata promossa da Famiglia Cristiana, Avvenire e Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), col patrocinio di Camera e Senato. Lo scopo: “promuovere una cultura della consapevolezza, stimolare la riflessione e la discussione e fornire uno strumento alla crescita personale e sociale”. Le foto, molto curate, colpiscono subito. Perché esprimono efficacemente che gli insulti sono come proiettili: distruggono le persone. Un concetto drammatico, espresso in un modo che non può passare inosservato né lasciare indifferenti.
“Coglione no” (2014). Lo slogan è la reazione di un gruppo di creativi (comunicatori, autori, designer, etc) stanchi di essere sottopagati (o non pagati affatto) per il loro lavoro, spesso con alibi del tipo: “Non ti pago, ma tanto ti diverti…. Non ti pago, ma in cambio avrai visibilità…Non ti pago, ma ti fa curriculum” e così via.
Di qui la campagna per una maggiore dignità lavorativa: “Al tuo idraulico mica lo paghi con visibilità no? E perchè lo proponi a un designer? Siamo creativi, siamo giovani, siamo freelance: e siamo lavoratori, non coglioni”. La campagna è stata ideata da Zero, un gruppo di giovani videomakers. Ed è diventata virale in Rete.
“Ma che, sei scemo?” (2015). Altrettanto diretta è stata una campagna promossa dal ministero della Salute l’anno scorso. Il ministero ha lanciato in tv uno spot per dissuadere i giovani dal tabagismo. Invece di agitare lo spetto della morte (sentita inevitabilmente come un rischio lontano, e che tocca sempre ad altri), la campagna ha scelto di condannare il tabagismo senza “se” e senza “ma”, usando un linguaggio diretto: “chi fuma è scemo“.
Un insulto leggero, poco più di un buffetto, ma utile a far drizzare le antenne ai giovani, dicendo le cose come stanno. Ma la scelta del testimonial, il simpatico comico siciliano Nino Frassica (65 anni) non è stata altrettanto azzeccata, visto che la campagna era destinata ai giovani. Nessuno di loro può identificarsi in lui, vista la differenza di età.
Tumore al seno? Dito medio (2015). L’ultima campagna trash risale allo scorso autunno: la sezione milanese della Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) ha posto il fiocco rosa – simbolo internazionale della lotta contro il tumore al seno) – sul L.O.V.E., la celebre scultura del dito medio davanti alla sede della Borsa di Milano. Invece di una parolaccia, un gestaccio: ma il messaggio resta lo stesso: “Un gesto forte e irriverente per dire no al tumore al seno”, dice la Lilt, “un messaggio provocatorio per ribadire che non bisogna mai abbassare la guardia“. Sarà, ma la campagna risulta poco efficace, perché il segno (la scultura di Cattelan, famosa e ciclopica) prevale sul significato. E nessuno indosserebbe un nastro sul dito medio invece che al polso: in questo modo, ha obiettato ironicamente qualcuno, sembra più una campagna contro il tumore alla prostata.
“Mi tratta come una merda” (2016). Per condannare bullismo e discriminazioni di genere, l’onlus “Fare x bene” ha lanciato da poco questa campagna dirompente. Lo slogan è diretto e rende subito l’idea; e il viso della ragazza aggiunge drammaticità al messaggio: “Le idee sbagliate sull’amore crescono insieme a loro”. Questo aspetto – ovvero il fatto che il disprezzo subìto resta una ferita e un condizionamento emotivo anche da adulti – resta però poco sviluppato e passa in secondo piano. Ed è un peccato, perché era la parte più importante del messaggio: tratta male un bambino e creerai un adulto problematico. In questo modo, lo choc della parola “merda” risulta vanificato. E fine a se stesso.
“I cazzi degli altri sono anche cazzi tuoi” (2017). Anche qui una campagna contro il bullismo a tinte forti: è un video realizzato dai ragazzi della Civica Scuola di cinema Luchino Visconti di Milano. Nel filmato si vede un ragazzo che tenta di lavare via un fallo disegnatogli sulla fronte da un bullo. I suoi compagni di squadra, per solidarietà, si presentano in campo tutti quanti con lo stesso disegno sulla fronte. Lo slogan: “Fai squadra contro il bullismo. I cazzi degli altri sono anche cazzi tuoi”. Indubbiamente una campagna che lascia il segno: il video è stato visto da quasi 8 milioni di persone. Sicuramente parla nel linguaggio dei giovani e arriva al punto senza tanti giri di parole; ma mette in primo piano le parolacce rispetto al messaggio fondamentale (fare squadra contro i bulli) e rischia di essere respingente per lo choc di aver utilizzato immagini e linguaggio violento. Difficile che sia proiettato nelle scuole…
“Se te ne fotti, l’Aids ti fotte” (2017). Vuole scuotere le coscienze, la campagna che l’associazione Anlaids (Associazione nazionale lotta all’Aids) ha scelto per far tornare sotto i riflettori l’allarme Hiv in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids. Ancora oggi, in Italia, ci sono 4mila nuove diagnosi di infezione all’anno, Così l’Anlaids ha reclutato diversi personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e del volontariato (da Federica Fontana a Saturnino), che hanno posato sotto lo slogan dirompente. Il gioco di parole, basato sul doppio senso fottersene-essere fottuto, è molto efficace, soprattutto perché è rivolto ai giovani. Tanto più che si parla di un’infezione trasmessa principalmente per via sessuale.
“Se mi abbandoni per strada… la cacca sei tu” (2019). La giunta di Santo Stefano Quisquina (Agrigento) in Sicilia, ha deciso che per combattere il problema degli escrementi canini bisogna passare alle maniere forti. E così ha lanciato il manifesto qui a lato sui canali social ufficiali del Comune, sperando che l’immagine e lo slogan diventino virali. Sperano, insomma, che la disapprovazione sociale riesca a cambiare la mentalità dei padroni incivili dei quadrupedi. Un’offesa educativa.
“Capra! Capra!! Capra!!!” – “Che porco che sei!” (2019). Con lo slogan “Manda i tuoi amici a quel Paese”, l’associazione umanitaria internazionale Manitese ha lanciato un’originale campagna per la raccolta fondi del 5 x 1000. La campagna si basa su 4 poster, costruiti su slogan colloquiali a doppio senso: “Capra! Capra!! Capra!!!” ricalca il celebre insulto usato da Vittorio Sgarbi, ma qui serve a raffigurare l’importanza di finanziare la pastorizia in Kenya; lo stesso vale per lo slogan “Che porco che sei!”. Ci sono anche altri due slogan per finanziare le attività agricole: “Che cavolo vuoi?” e “Andate a zappare la terra”. Una campagna azzeccata: è un equilibrio ironico fra linguaggio colloquiale e impegno sociale.
“A Pasqua mangi ancora l’agnello? #Seiunosfigato” (2019). Per quanto possa apparire strano, la campagna è stata lanciata dalla Lega nazionale per la difesa del cane. Ma, si sa, se inizi ad amare Fido diventi un po’ animalista. E così la campagna cerca di rendere “trendy” chi non mangia l’agnello per Pasqua. Ma il resto dell’anno? E il resto degli animali? Se per Pasqua si registra “il massacro di migliaia di agnelli giovanissimi per banchettare paradossalmente in quella che dovrebbe essere la festa della vita”, negli altri 364 giorni dell’anno lo stesso tragico destino è riservato a maiali, buoi, conigli, polli e chi più ne ha più ne metta. Ma per loro, nessuna campagna….
“Mi cadono le tette” – “Andiamo a figa dura” – “Non rompermi il clitoride” – “Mi hai rotto le tube” (2021). Per celebrare l’8 marzo, Giornata della donna, l’agenzia pubblicitaria M&C Saatchi di Milano ha lanciato “Swherwords”, gioco di parole di “swearwords” (parolcce) + “her” (lei). In pratica ha preso 4 espressioni volgari basate su attributi maschili e le ha declinate al femminile. La scelta è patetica o ridicola, a seconda dei punti di vista: i diritti delle donne si giocano su ben altri piani che non quelli linguistici (sul lavoro, la carriera, il part time, i sostegni economici). E, sul piano linguistico, i modi di dire “femminilizzati” tentano di correggere espressioni che hanno decenni se non secoli di storia, che non si cancellano con un maquillage improvvisato. Con esiti involontariamente comici: “andare a figa dura” è un’espressione senza senso perché non ha radici nella realtà. Tra l’altro, i pubblicitari non hanno potuto correggere altri modi di dire basati sugli organi maschili: “cazzone” (“figone” diventerebbe un complimento), “che palle” (“che tube” sarebbe insensato), “testa di cazzo” (testa di figa”….), “incazzarsi” (c’è già “infighettarsi” ma ha il senso di “abbellirsi, vestirsi in modo elegante”). L’unica espressione azzeccata è “mi cadono le tette”, perché dà l’idea della vecchiaia, oltre a rimandare alla memoria “far venire il latte alle ginocchia” (riferito peraltro alla mungitura, quando ooccorreva aspettare molto tempo prima che il latte raggiungesse il livello delle ginocchia).
Insomma, alla fine questa campagna dà l’idea di essere stata costruita più che altro per fare clamore e guadagnarsi una facile visibilità.
“Barletta è piena di st***zi” – “Se sporchi non sei incivile, sei deficiente” (2021). La campagna è stata lanciata da Bar.S.A. S.p.A., azienda municipalizzata della città di Barletta, in Puglia. Per sensibilizzare le persone sul problema dell’abbandono dei rifiuti e delle deiezioni canine in città, si è scelto di mettere da parte il “politically correct”. Ecco come l’ideatore della campagna, Giancarlo Garribba, spiega questa scelta lessicale: “Chi butta l’immondizia per strada, chi getta i mozziconi delle sigarette per terra, chi non raccoglie i bisogni del proprio cane, sa benissimo che non dovrebbe farlo ma se ne frega alla grande. E non è certo una campagna di sensibilizzazione a far sì che certa gente cambi il proprio atteggiamento, altrimenti tutti noi non useremmo il cellulare alla guida, non fumeremmo, non berremmo alcolici, non mangeremmo carne, faremmo mezz’ora di sport al giorno e così via. E allora che si fa? Si prova con un’ennesima campagna persuasiva, educatrice, del tipo “Orsù, raccogli gli escrementi del tuo cane, non essere birbaccione!”? No, meglio usare il messaggio per denunciare, anche per offendere, utilizzando il linguaggio che la gente “per bene” vorrebbe gridare in faccia a questi quando li incontra per strada. Utilizzando contestualmente immagini esplicite di quello che succederebbe se non ci fossero gli operatori ecologici a bonificare aiuole e marciapiedi della città dalle cacche dei cani lasciate dagli stronzi dei padroni”.
E ALL’ESTERO….
La tendenza delle campagne sociali oscene si sta diffondendo anche all’estero. Qui ho raccolto alcuni esempi, ma è probabile che ce ne siano diversi altri: se li conoscete, potete segnalarli nei commenti qui sotto.
“F-bomb for feminism (Fanculo per il femminismo” (2014). La campagna ha fatto clamore e non poteva essere altrimenti: un produttore statunitense di T-shirt,, FCKH8, ha realizzato un video contro il sessismo e la discriminazione di genere, impegnandosi a devolvere 5 dollari ad associazioni femministe per ogni maglietta venduta. Ottimo proposito, ma pessima realizzazione: per promuovere l’iniziativa ha diffuso un video nel quale 5 bimbe dai 6 ai 13 anni, condannano il sessismo con un linguaggio da caserma. Il video, infatti, inizia subito con un “What the fuck?!” (ma che cazzo?!) e prosegue su questi toni per 2 minuti e mezzo per denunciare le violenze e le discriminazioni economiche, lavorative e sociali ai danni delle donne. L’idea di fondo, secondo gli autori, è che ci sono parole e situazioni ben più offensivi delle parolacce: “cos’è più offensivo?” domanda retoricamente il video “una bambina che dice fanculo, o il modo in cui la nostra società sessista tratta le donne?”.
Il Washington post ha replicato: “Cosa c’è di più offensivo? Una società sessista o una bimba che recita un copione volgare, scritto da adulti pur di vendere magliette?“. Sono d’accordo: più che a una campagna sociale siamo di fronte a un marketing senza scrupoli, che non esita a sfruttare bambine pur di fare clamore. Se ci fosse un Oscar per il cattivo gusto, lo vincerebbero senz’altro loro. Il video, comunque, è stato visto da quasi 2,5 milioni di persone.
“Merda dura” (2015). Si chiama così una marcia a ostacoli prevista il prossimo ottobre a Camberley (Uk) e promossa dall’associazione “Water aid”, impegnata a raccogliere fondi per l’acqua nei Paesi arretrati. La marcia è stata battezzata “Tough shit” (letteralmente “merda dura“, situazione difficile, in italiano si direbbe: cazzi amari), per sensibilizzare i partecipanti sul problema dei 2,5 miliardi di persone che, nel mondo, vivono in città prive di scarichi fognari. Uno slogan simpatico e pertinente.
“Dai il dito al cioccolato” (2015). L’anno scorso, la British heart foundation ha lanciato la campagna “Dechox“, per sensibilizzare i britannici sugli eccessi e i danni alla salute indotti dall’eccessivo consumo di zucchero. L’immagine della campagna è forte: 5 snack al cioccolato vanno a formare una mano con il dito medio alzato, e lo slogan: “Dai un dito al cioccolato”, ovvero: fanculo al cioccolato. La strategia ha pagato: 19mila persone hanno aderito alla campagna, e la Fondazione ha raccolto 800mila sterline (oltre un milione di euro) per la ricerca sulle malattie cardiache. Al di là del risultato, un simbolo inaspettato, originale e simpatico, che getta una luce inedita sui dolci, svelando che possono essere nostri nemici se consumati in quantità eccessive.
“Dai il dito al matrimonio infantile” (2015). Una scelta simile l’ha fatta l’associazione britannica Plan, che si occupa di bambini: per raccogliere fondi contro i matrimoni infantili, ha lanciato una campagna che consiste nella vendita di un anello con la frase “Basta matrimoni infantili”. E l’ha fatto indossare alla cantante Eliza Doolittle con lo slogan: “Dai il dito al matrimonio infantile”. Anche se il dito era l’anulare, l’effetto è più che evidente: fanculo ai matrimoni infantili, una piaga da abbattere in tutto il pianeta entro il 2030. Oggi, nei Paesi in via di sviluppo, 1 bimba su 9 viene fatta sposare prima dei 15 anni d’età. La campagna è incisiva: le spose bambine sono un dramma su cui non c’è da scherzare.
“Sembra una merda. Ma mi salva la vita” (2019). Questa campagna non è nata da qualche creativo americano in vena di provocazioni, ma nell’austera terra di Germania. E per di più è un’iniziativa ufficiale del ministero dei Trasporti. Come si spiega? Il ministro dei trasporti Andi Scheuer dice che sono soprattutto i giovani tedeschi, fra i 17 e i 30 anni, a non indossare il casco da ciclisti. E negli ultimi tempi si sono registrate molte vittime sulle strade. Quindi ha voluto ribadire, con termini coloriti, che quell’elmo “poco figo” serve a salvare la pelle. Campagna efficace? Sicuramente ha fatto discutere sui social media. Soprattutto per la scelta di mostrare ciclisti in lingerie: già lo slogan è drammatico (in quanto volgare), ma con i ciclisti sexy si aggiunge la pruderie dell’erotismo e – qualcuno dice – del sessismo. Se avessero scelto un soggetto ironico o autoironico, la campagna sarebbe stata più efficace.
“L’indice alzato per tutti quelli senza maschera” (2020). Questa campagna provocatoria è stata promossa dal Dipartimento per l’economia di Berlino e dall’ufficio turistico “Visit Berlin”. E’ una campagna provocatoria per sensibilizzare i tedeschi a indossare la mascherina per prevenire il contagio da Coronavirus o Covid che dir si voglia. La campagna è attuata con un contrasto e un doppio senso: lo slogan fa riferimento all’indice (“indice alzato” significa “stai attento”), ma l’immagine mette in evidenza il dito medio.
Il manifesto, che ha fatto furore sui social, è una doccia fredda per spingere le persone a fermarsi e a riflettere sul proprio senso di responsabilità sociale, mettendo fine a comportamenti irresponsabili come circolare senza protezioni contro la diffusione dell’infezione. Un comportamento che mette a rischio soprattutto le persone più vulnerabili come gli anziani: di qui la scelta di usare come testimonial una donna dai capelli argentati. La volgarità dell’immagine ha sollevato diverse polemiche in Germania.
“Fatti quel cazzo di vaccino” “Indossa una cazzo di mascherina” (2021). La campagna – nonostante i termini forti – è stata lanciata da un ente governativo, i Centers for disease control and prevention (CDC). I manifesti sono stati affissi nelle principali città statunitensi, per combattere i no-vax con le loro stesse armi: il linguaggio colloquiale.
“Il cancro non sarà l’ultima cosa a fottermi” (2023). Lo slogan campeggia sui manifesti di una campagna di GirlVsCancer, un’associazione di volontariato britannica per le donne colpite da tumore. La campagna si chiama “Smash the Stigma” e aveva l’obiettivo di promuovere una salute sessuale positiva per le donne malate di tumore.Nonostante il verbo fosse stato semicensurato da un asterisco (f*ck) la parola era facilmente comprensibile. Perciò l’Autorità che regola la pubblicità, l’Advertising Standards Authority, l’ha censurata