Non sono molti i linguisti italiani che si sono dedicati allo studio del turpiloquio, spesso considerato – a torto – un aspetto “minore” se non addirittura trascurabile del linguaggio. Insomma, una forma di snobismo culturale.
Una di queste eccezioni è stato Tullio De Mauro, linguista dotto, trasversale e attento al sociale. Anche se non l’ho mai conosciuto di persona, voglio ricordarlo qui, oggi, nel giorno della sua scomparsa a 84 anni d’età (foto Wikipedia).
Oltre ai suoi numerosi e importanti meriti in campo linguistico, il mio omaggio è dovuto a tre suoi fondamentali contributi nello studio delle parolacce.
Del primo ho parlato in un post recente: le statistiche sull’italiano parlato, dalle quali si possono ricavare dati importanti sulla frequenza delle scurrilità nel nostro linguaggio. Per esempio, che la parolaccia più pronunciata di tutte è cazzo. Un tratto distintivo delle ricerche di De Mauro era proprio l’attenzione ai dati come condizione preliminare per ogni indagine: il rigore innanzitutto.
Il secondo contributo che voglio ricordare è un altro censimento: quello delle parole d’odio (hate words), un elenco dotto e certosino – come nel suo stile – che ha compilato per il settimanale Internazionale, diretto da suo figlio Giovanni. Un lungo elenco di insulti e spregiativi che offre un’idea concreta di quanto possiamo essere linguisticamente creativi nella cattiveria.
Il terzo è un libro dedicato ai dialetti, “La lingua batte dove il dente duole”, scritto con Andrea Camilleri. Nel libro, di cui ho parlato in questo post, De Mauro ha ricordato l’intimo legame fra le parolacce e l’anima popolare dei dialetti. Ricordando come entrambi sono il linguaggio della schiettezza e dell’immediatezza. Il linguaggio della verità. Altro che snobismo.