È stato uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e le sue canzoni sono state studiate in ogni aspetto. Tranne uno: le parolacce. Ma non sono state marginali nella sua opera: anzi, sono state così rilevanti da aver contribuito al suo successo. Come ricorda Ivano Fossati, «Al liceo ascoltavamo i dischi di Fabrizio De Andrè. Quello che ci piaceva delle sue canzoni è che c’erano le parolacce».
Eppure, le volgarità di De Andrè non sono mai state studiate in dettaglio. Come se fossero un incidente, o un aspetto trascurabile rispetto al lessico, indubbiamente raffinato, dei suoi testi. Ma la scelta di usare il linguaggio basso non è stata un caso. Perché De Andrè metteva una cura maniacale nella scelta di ogni singolo termine, come ricorda Fossati: «Lui sa benissimo che dietro ogni parola c’è una responsabilità, bisogna dire le cose che si condividono realmente. E allora la scelta di un termine, di un sostantivo, di un aggettivo, poteva prendere anche tre giorni». Dunque, se il cantautore genovese ha inserito termini volgari nei suoi testi, l’ha fatto con una scelta mirata e meditata.
D’altra parte, per una persona che amava senza snobismo la cultura popolare, la schiettezza e il realismo, le parolacce hanno rappresentato uno strumento molto efficace, persino in testi raffinati e complessi come i suoi. Insomma, è uno dei pochi artisti che è riuscito a fare poesia alta anche usando il linguaggio basso. Del resto, come egli stesso diceva, “dal letame nascono i fior“.
Per questi motivi ho deciso di fare la prima analisi lessicale sul turpiloquio di De Andrè, studiando tutte le 125 canzoni scritte nella sua carriera. Il risultato è stato sorprendente: ho scoperto che De Andrè ha usato più di 30 diversi termini scurrili, che sono presenti in una canzone su 4. Dunque, le parolacce arricchiscono in modo straordinario la sua tavolozza espressiva, tanto che molte di queste strofe “a tinte forti” sono passate alla storia, come ricorderò più sotto. E rivelano in modo efficace la sua personalità e il suo mondo artistico.
Ho pensato, quindi, che questo studio lessicale fosse un buon modo per ricordare De Andrè, un musicista che ho amato immensamente, nel 20° anniversario della sua scomparsa.
Per questa ricerca ho consultato 3 fonti principali: la voce di Wikipedia su Fabrizio De Andrè, e gli ottimi libri “Falegname di parole” di Luigi Viva (Feltrinelli, 2018) e “Fabrizio De Andrè: il libro del mondo” di Walter Pistarini (Giunti, 2018).
Un ribelle che parlava sporco
Le parolacce non sono entrate per caso nei dischi di De Andrè. Da giovane, infatti, aveva un linguaggio sboccato, come ha raccontato egli stesso. Ecco come ricorda il suo primo incontro, nel 1948, con Paolo Villaggio (altro mago delle parolacce, come racconto qui): «L’ho incontrato per la prima volta a Pocol, sopra Cortina; io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco; gli piacevo perché ero tormentato, inquieto e lui lo era altrettanto, solo che era più controllato, forse perché era più grande di me e allora subito si investì della parte del fratello maggiore e mi diceva: “Guarda, tu le parolacce non le devi dire, tu dici le parolacce per essere al centro dell’attenzione, sei uno stronzo”».
Dunque, De Andrè si definisce «un ragazzo incazzato, che parla sporco e tormentato». E fin da giovane, scriveva canzoni: «Sono sempre stato un inguaribile romantico e insieme un gran polemico, ce l’ho sempre avuta con le ingiustizie della società, con l’ipocrisia; e siccome avevo bisogno di sfogarmi, scrivevo delle storielle che poi mettevo in musica e accompagnavo con la chitarra, togliendomi la gran soddisfazione di dire ciò che pensavo veramente». Per De Andrè, insomma, le canzoni erano un modo di far polemica, di contestare le ingiustizie della società (non a caso, studiò legge all’università). E le parolacce sono proprio il linguaggio della protesta e della polemica, come ci ha mostrato la politica degli ultimi 30 anni in Italia, come raccontavo qui.
Un altro indizio importante è che De Andrè odiava l’ipocrisia: e, da sempre, il turpiloquio è il linguaggio della spontaneità, un modo – rude – di chiamare le cose per quello che sono (come ricordavo qui).
Le statistiche: volgare una canzone su 4
Dunque, nella vita De Andrè parlava sporco. Come si è concretizzato questo aspetto nelle canzoni? Ho fatto un’analisi lessicale della sua produzione: 125 canzoni in 14 album (più 2 singoli. “Una storia sbagliata” e “Titti”) che ha pubblicato in 41 anni di attività. Ho censito solo gli inediti, escludendo i “live”, le raccolte e “I viaggi di Gulliver” (perché i testi non sono suoi). Il risultato è sorprendente: ho censito 33 diversi lemmi volgari, presenti in 62 strofe. Un dizionario ben nutrito, di cui parlerò più avanti. Queste espressioni sono presenti in 29 delle 125 canzoni: il 23,2%, quasi una canzone su 4 contiene volgarità.
E c’è stata un’evoluzione storica: negli anni ‘60 ne ha usate solo 11, che sono salite a 15 negli anni ‘70, ma i picchi si sono registrati nell’ultima parte della sua carriera: 16 parolacce negli anni ‘80, tutte concentrate nell’album in genovese “Crueza de ma”, e 19 negli anni ‘90 in due album.
Per ogni decennio, una media di 15 parolacce, ma con concentrazioni ben diverse: negli anni ‘60 e ‘70 viaggiava a 2-3 parolacce ad album, ma nel ventennio successivo è salito a 8-9,5 parolacce ad album.
Da questa analisi emergono altre curiosità: l’album con più canzoni volgari è del 1971, “Non al denaro non all’amore né al cielo” (5). E la canzone più densa di espressioni scurrili è “A DUMENEGA” (10), in genovese.
I lemmi volgari (di cui più in basso trovate l’elenco completo, strofa per strofa) sono 33 in 62 strofe. E’ una tavolozza molto varia: solo 8 hanno una frequenza di 3 volte o superiore. Sono questi: belìn (cazzo), cù (culo): 6; idiota: 4, bagascia (puttana), carogna, cornuto, porco, puttana: 3. Approfondirò più avanti il significato di questi usi prevalenti.
Ma il dato più interessante di tutti è il tipo di parolacce: la maggior parte (55%) sono insulti, seguiti da termini sessuali (34%). Hanno invece un ruolo marginale i modi di dire (6%), i termini escrementizi (3%) e le maledizioni (2%: il vaffa, per intenderci).
Una delle scurrilità più famose risale ai primi dischi di De Andrè, e si trova nel brano “VIA DEL CAMPO”, del 1967. Il testo descrive uno dei vicoli più malfamati nella Genova degli anni Sessanta, perché rifugio di prostitute, travestiti e gente povera, ossia quegli “ultimi” ai quali il cantautore genovese ha sempre prestato particolare attenzione nei suoi brani. Dopo un inizio molto poetico (“Via del Campo c’è una graziosa, gli occhi grandi color di foglia”), la terza strofa è come un pugno nello stomaco: “Via del Campo c’è una puttana, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla ti vien la voglia, basta prenderla per la mano”. Il cambio di registro è sottolineato, musicalmente, da un cambio di tonalità: si sale di un tono e mezzo, passando dal la minore al do minore. In questo modo, la parolaccia raddoppia la sua efficacia, aggiungendo un crudo realismo a una descrizione che rimane garbata. Un risultato non facile da ottenere. Un’altra strofa a tinte forti che è passata alla storia si trova in “UN GIUDICE” (1971). Il brano racconta di un giudice che si compiace del potere di essere “arbitro in terra del bene e del male” come forma di vendetta per l’emarginazione e il dileggio che ha subìto a causa della sua bassa statura. Il testo a un certo punto dice: “La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, Fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”. Anche in questo caso, la parolaccia, inserita al termine di una strofa con uno stacco musicale, ha una grandissima efficacia anche sonora, perché è un improvviso cambio di registro che non passa inosservato. Arriviamo poi nel 1984 per ascoltare il brano di De Andrè che ha il numero più alto di parolacce (10) presenti, seppur mitigate dall’uso del genovese: “Ä DUMÉNEGA”. Il brano parla della passeggiata domenicale delle prostitute genovesi, che fino al 1800 erano emarginate, anche se grazie alle loro tasse il Comune riusciva a pagare i lavori del porto. Così la domenica il popolino esce “a guardare le figlie del diavolo, che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro”. E le insulta, elencando le loro specialità a seconda delle zone: “a Pianderlino succhia cazzi, alla Foce cosce da schiaccianoci, in Carignano fighe di terza mano, e a Ponticello gli mostrano l’uccello”. Fra quanti le offendono, c’è anche il direttore del porto, il direttore del porto “che ci vede l’oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro. Per non fare vedere che è contento, che il molo nuovo ha il finanziamento, si confonde nella confusione con l’occhio pieno di indignazione, e gli grida gli grida dietro: “bagasce siete e ci restate”. Ma a svelare la sua ipocrisia e a rimetterlo al suo posto ci pensa lo stesso De Andrè: “brutto stronzo di un portatore di Cristo, non sei l’unico che se ne è accorto che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane da nude c’è c’è c’è c’è c’è anche tua moglie”. Si stacca, invece, dagli altri brani a sfondo erotico, un’altra canzone storica: “LA DOMENICA DELLE SALME” (1990). E’ un brano politico, onirico e denso di immagini, è una descrizione allusiva del clima dell’Italia di quegli anni. Come racconta il coautore Mauro Pagani: “è la descrizione lucida e appassionata del silenzioso, doloroso e patetico colpo di Stato avvenuto intorno a noi senza che ci accorgessimo di nulla, della vittoria silenziosa e definitiva della stupidità e della mancanza di morale sopra ogni altra cosa. Della sconfitta della ragione e della speranza”. La canzone è sostanzialmente un’invettiva, un urlo di dolore indignato sulla società e la politica. E come Dante Alighieri usò il lessico basso per esprimere un analogo urlo nel “Purgatorio” (“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”) anche De Andrè non si risparmia. Dice dei polacchi che “rifacevano il trucco alle troie di regime”: un riferimento, spiegò, “alla nostra bella società capitalistica; ex comunisti pronti a convertirsi il prima possibile per dimenticare un passato troppo ingombrante (ed esserne così dispensati l’anno dopo)”. Più avanti parla del “ministro dei temporali, in un tripudio di tromboni, auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”. Durante il colpo di Stato strisciante, i politici che lo hanno in qualche modo appoggiato se non organizzato auspicano, ovviamente, una “loro” democrazia. Per timore che questa venga davvero, fanno il gesto scaramantico di toccarsi i testicoli: un modo per descrivere la volgarità dei loro pensieri, prima ancora che dei loro gesti. L’ultimo, celebre brano scurrile è “PRINÇESA” (1996). E’ la storia di un transessuale realmente esistito, Fernandinho Farias de Albuquerque detto “Prinçesa” perché, nel ristorante dove lavorava, sapeva cucinare il filetto alla parmigiana in modo sublime. De Andrè racconta il suo dramma con termini realisticamente crudi, fin dalla prima strofa: “Sono la pecora sono la vacca, Che agli animali si vuol giocare, Sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare”. Quando deve descrivere i suoi rapporti sessuali, tuttavia, De Andrè preferisce prendere le distanze con un linguaggio alto: “Dove tra ingorghi di desideri, alle mie natiche un maschio s’appende, nella mia carne tra le mie labbra, un uomo scivola, l’altro si arrende”. Ma poi torna a descrivere, senza giri di parole, il sogno di Fernandinho di diventare donna: “davanti allo specchio grande Mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi tra le gambe una minuscola fica”. Anche in questo caso, la parolaccia, fortissima, giunge inaspettata alla fine della strofa, seguita da un breve intermezzo strumentale come a lasciarla sedimentare (o addolcire) nell’ascoltatore.
La canzone, com’è noto, è ispirata all’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters,che in Italia fu tradotta da Fernanda Pivano. A lei che gli domanda, nelle note di copertina, come mai abbia usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, De Andrè ha risposto così: «Anche il vocabolario al giorno d’oggi è un po’ cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa una carogna perché la gente carogna lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente».
Poi De Andrè canta della “scimmia del quarto Reich che ballava la polka sopra il muro”, un riferimento ai rigurgiti neonazisti in Germania. Aggiungendo che “mentre si arrampicava, le abbiamo visto tutti il culo”, ovvero la sua repellente fragilità. C’è anche un riferimento ai cantanti, che invece di denunciare le storture di questa epoca si sono venduti ai vari potenti di turno, dai comunisti ai leghisti (longobardi): per questo sono stati abbandonati in malo modo dal pubblico (ci guardarono cantare per una mezz’oretta, poi ci mandarono a cagare”). Le loro “voci potenti”, aggiunge con amara autoironia, sarebbero state “adatte per il vaffanculo”. Una specie di profezia del movimento 5 stelle, che ha esordito proprio con un “Vaffa day”.
Gli argomenti: insulti e sesso
Ecco la statistica dettagliata dei termini volgari, suddivisi per tipologia:
insulti: 18 termini, 34 ricorrenze | idiota: 4 volte
bagascia (puttana), carogna, cornuto, porco, puttana: 3 volte becchino, scemo, troia: 2 volte cialtrone, cretino, galûsciu (stronzo), infame, nèsciu (scemo), loèugu (cesso), pappone, vacca, xàtta (pappone): 1 volta |
sesso: 8 termini, 21 ricorrenze | belìn (cazzo), cù (culo) : 6 volte
coglioni, mussa (fica), tette: 2 volte fica, öxellu (uccello), scciappe (chiappe): 1 volta |
enfasi, modi di dire: 4 termini, 4 ricorrenze | bordello, calaba (casino), casin (casino), sputtanare: 1 volta |
maledizioni: 1 termine, 1 ricorrenza | vaffanculo: 1 volta |
La maggior parte delle parolacce, quindi sono insulti. E questo non stupisce: nelle sue canzoni, De Andrè prende posizione apertamente, e gli insulti non sono altro che giudizi sommari di condanna verso una persona nella sua totalità. Ma che genere di insulti preferiva De Andrè? Quelli che disprezzano la mancanza di intelligenza (5): idiota, scemo, cialtrone, cretino, nèsciu. Ma ha altrettanto peso il disprezzo per chi si comporta in modo scorretto (4): cialtrone, carogna, galûsciu, infame. Sono tutti insulti che squalificano personaggi tronfi, disonesti, ignoranti.
E poi c’è una serie di insulti sulla morale sessuale: 4 sulle prostitute (puttana, bagascia, vacca, troia), e i corrispettivi maschili che designano i sessuomani (porco) e gli sfruttatori delle prostitute (pappone, xàtta).
Ma attenzione: come molti sanno, De Andrè frequentava le prostitute, e almeno con una si fidanzò («Prima di incontrare mia moglie ho conosciuto e amato, molto amato, una donna di strada. Però sono stato vigliacco e ipocrita: ecco, qui sono rimasto borghese. No, non l’avrei mai sposata»). Quindi di certo non le disprezzava: anzi, di loro diceva che «Sono semplici, spontanee, hanno le loro grandi crisi ma si spaccano come meloni, sono aperte e non piangono mai». Il termine spregiativo “puttana”, in realtà, è usato per incarnare la morale comune (la “morale borghese”, come la chiamava). Ed è anche un modo crudo di descrivere un mestiere crudo.
Ma quale peso hanno, in media, le volgarità scelte da De Andrè? Sappiamo che le parolacce non sono tutte uguali: alcune hanno un impatto più forte di altre, come ho mostrato col volgarometro. Difficile però valutare le scelte lessicali di De Andrè: se si escludono “coglioni”, “vaffanculo”, “puttana” e “idiota”, i termini volgari in genovese – nella sua percezione personale – li considerava meno pesanti. «A Genova, chiunque dica mussa o belìn non provoca alcuno scandalo, ma se lo dici in italiano casca il mondo». Dunque, nella sua ottica, ha usato per lo più scurrilità di intensità media.
Inserire parolacce nelle canzoni non è indolore. Soprattutto in passato, quando la sensibilità verso le parole forti era molto più alta rispetto a oggi. E così De Andrè ha avuto qualche grattacapo legale: una delle sue prime canzoni, “CARLO MARTELLO RITORNA DALLA BATTAGLIA DI POITIERS” (1962) è un brano goliardico, che racconta, sotto l’apparente veste di una ballata celebrativa, il ritorno vittorioso dalle gloriose gesta belliche contro i Mori. Ma il re dei franchi quando vede una pastorella, la vuole concupire, scoprendo poi che è una prostituta. Al che Martello sbotta in un «È mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane». Il verso fu denunciato per oscenità, ma nel 1968 De Andrè fu assolto “perché il fatto non sussiste”. Il commento di De Andrè è illuminante sul suo uso delle parolacce come forma di sincerità: “Definire pornografica una pagina come Carlo Martello è inammissibile. A meno che per pornografia non si intenda chiamare le cose col loro vero nome, rifiutando l’ipocrisia dei doppi sensi e delle metafore. Con questa canzone ho voluto demitizzare quel certo alone che siamo abituati a porre intorno ai personaggi storici. Tendiamo a divinizzarli, dimenticando che furono uomini come noi, con voglie e difetti umani. La mia, dunque, non è oscenità ma lotta alla retorica”. La testimonianza svela in modo inequivocabile il rapporto di De Andrè con le parolacce: servono a chiamare le cose col loro nome. In quella stessa canzone, tra l’altro, il testo originale aveva anche un altro verso volgare, che però fu corretto prima di incidere il disco: il verso «frustando il cavallo come un mulo, quella gran faccia da culo» fu trasformato in: «frustando il cavallo come un ciuco, tra il glicine e il sambuco». In “BOCCA DI ROSA” (1967), dedicata a una donna controcorrente, a cui piaceva il sesso e non lo nascondeva, era previsto un verso che diceva: “spesso gli sbirri e i Carabinieri al proprio dovere vengono meno, ma non quando sono in alta uniforme e l’accompagnarono al primo treno”. Ma lo spregiativo “sbirri” non piacque all’Arma, che chiese a De Andrè di correggere il testo. Che diventò: “Il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i Carabinieri, ma quella volta a prendere il treno l’accompagnarono malvolentieri”. Anche “LA CANZONE DI MARINELLA” (1968) – dedicata a una prostituta di 33 anni, Maria Boccuzzi, trovata uccisa in un fiume alla periferia di Milano – era nata in origine come canzone “quasi pornografica, molto spinta”, raccontò De Andrè. “Poi una persona che allora mi era particolarmente vicina mi ha fatto capire che quella canzone poteva diventare un grosso successo, e ne è venuta fuori una canzone a cui ci si poteva avvicinare tranquillamente, senza il pericolo di offendere la morale o il buon costume”. Nella “CITTÀ VECCHIA” (1974), una canzone dedicata ai bassifondi di Genova, popolati da donnacce, ladri e ubriachi, c’era in origine un verso pesante: “quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia”. Fu corretto in “quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie”. E in un verso c’è la versione addolcita di un volgare modo di dire: “per dimenticare d’esser stati presi per il sedere” (invece che “per il culo”).
Sesso allusivo e sesso esplicito
Molti brani di De Andrè parlano di sesso. Descrivono le onde della passione, i rapporti amorosi, e a volte persino gli amplessi. Ma lo fanno, in genere, puntando su termini allusivi ed evocativi: “ANDREA” (1978) parla di un amore omosessuale, ma senza alcuna indulgenza (“Andrea aveva un amore, riccioli neri”). Nel “GORILLA” (1968) canta “con poco senso del pudore, le comari di quel rione, contemplavano lo scimmione, non dico dove non dico come” (gli guardavano il sesso). Nel “GIUDICE” (1971) allude alla diceria secondo cui le persone basse siano superdotate: “la curiosità di una ragazza irriverente, che li avvicina solo per un suo dubbio impertinente. Vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani: che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente”.
Per quanto riguarda strettamente gli atti sessuali, nelle sue canzoni sono presenti diversi rimandi allusivi ma molto efficaci. In “AMICO FRAGILE” (1975) descrive l’eccitazione senza termini osceni: “Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta fino a vederle spalancarsi la bocca”. E così in “DOLCENERA” (1996) “il lenzuolo si gonfia sul cavo dell’onda, e la lotta si fa scivolosa e profonda”.
Ma la canzone più emblematica è “JAMIN-A” (1984), un brano fortemente erotico: parla dell’amplesso con una donna algerina dalla sensualità senza freni. De Andrè ha parlato di questa canzone in termini crudi e provocatori: «In Jamin-a descrivo una scopata che mi sono fatto. C’è qualcosa di erotico a un livello un po’ più alto che non “Ti spacco il culo brutta troiaccia”». La canzone, infatti, inizia con una descrizione allusiva (che qui traduco dal genovese): “Lingua infuocata Jamin-a, lupa di pelle scura, con la bocca spalancata, morso di carne soda, stella nera che brilla, mi voglio divertire, nell’umido dolce del miele del tuo alveare”. Poi il testo diventa decisamente diretto, contraddicendo – almeno in apparenza – il proposito dell’autore di “volare alto”: “Fatti guardare Jamina, getto di fica sazia, e la faccia nel sudore, sugo di sale di cosce, dove c’è pelo c’è amore, sultana delle troie” ( “Fatt’ammiâ Jamin-a, Roggiu de mussa pin-a. E u muru ‘ntu sûù, Sûgu de sä de cheusce, Duve gh’è pei gh’è amù, Sultan-a de e bagasce”).
Ecco come De Andrè spiega questa apparente contraddizione: «Mi sono nascosto dietro il dialetto genovese perché certe parole, che in italiano hanno un significato fortemente volgare, in genovese perdono questa connotazione. A Genova belìn, che individua l’organo genitale maschile, è un lubrificante del linguaggio, del tutto privo di valenza negativa. La stessa cosa per mussa, che invece indica l’organo genitale femminile e, per traslato, vuol dire balla».
E anche: Le canzoni più volgari d’Italia Parolacce nelle canzoni: il primo censimento Quelli che mettono parolacce nelle canzoni Le “cazzate dorate” del Festival di Sanremo
Di questo post hanno parlato AdnKronos, l’Unione Sarda, il Corriere quotidiano.
Dedico questa ricerca alla memoria del mio amato zio Enzo Tartamella,
che al telefono, dalla Sicilia, ha guidato con frasi brevi e fulminanti
i miei primi passi nel giornalismo.
Mi mancheranno le nostre chiacchierate su tutto.
E le canzoni di De André da cantare insieme d’estate.
Mi sento molto più solo senza di te. RIP