Il nome della loro città è censurato da un celebre portale di annunci di compravendita online, subito.it. Perciò hanno lanciato una petizione online, raccogliendo firme di protesta su Change.org: chiedono che il loro Comune possa essere citato senza restrizioni. Non è un caso di razzismo geografico (di cui ho parlato nell’ultimo post); semmai, è frutto del contrario, ovvero di un perbenismo eccessivo. La città in questione, infatti, si chiama Troia: è un paese di 7mila abitanti in provincia di Foggia (Puglia).
Un paese celebre, oltre che per il suo nome imbarazzante, per 4 motivi: per un vino rinomato, il Nero di Troia (è fatto con un’uva autoctona, coltivata soprattutto nell’area di Castel del Monte); perché fu sede di 4 Concili ecclesiastici nel Medioevo; per il rosone della concattedrale romanica di Beata Maria Vergine assunta, che era raffigurato nelle vecchie banconote da 5mila lire; e perché un suo cittadino, Antonio Salandra, fu presidente del Consiglio dal 1916 al 1918.
Dunque, una città con una storia lunga e particolare. Che mostra come un nome volgare possa diventare troppo ingombrante. Un destino condiviso – come vedremo più sotto – da altre città, come Fucking in Austria. O da altre località italiane scurrili: come Cazzone e Figazzo, che cambiarono nome per regio decreto alla fine del 1800.
Un nome dato dai bizantini
Ma andiamo con ordine. Partendo da Troia, una città a ridosso del Tavoliere delle Puglie. Le sue origini sono antichissime: le prime testimonianze risalgono già al quarto millennio a.C.
Prima di essere colonizzata dai Romani, la città si chiamava in realtà Aika, poi latinizzata in Aecae. Distrutta dai bizantini nel 7° secolo d.C., fu ricostruita nel 1019 da un alto ufficiale bizantino, Basilio Bojoannes, che le diede il nome di Troia. Forse un omaggio all’Iliade, o, ipotizza qualcuno, il nome può derivare dal greco troas, triade o trivio (punto di incontro di 3 strade). E con questo nome è arrivata fino a oggi.
Non senza problemi: durante il periodo prefascista, alcuni parlamentari si rivolgevano ad Antonio Salandra, un politico di Troia che era stato premier e ministro, dicendo frasi equivoche del tipo: «Come ha testè affermato l’illustre figlio di Troia…». Al che Salandra rispondeva: «Ciò che per me fu patria, per voi fu madre».
Parola vietata negli annunci
Insomma, quel nome scomodo non è mai passato inosservato. Fino ai giorni nostri. La petizione su Change.org, infatti, è stata lanciata proprio da un abitante di Troia, Dario Intiso. Che aveva tentato invano di inserire annunci sul portale subito.it. Il portale, infatti, accetta Troia come località dell’annuncio, ma se si inserisce il nome nella descrizione dell’oggetto (“Vendo casa a Troia”) si rifiuta di pubblicarlo. E fa apparire un messaggio di errore: “Il tuo testo contiene parole non consentite: troia”. Troia, infatti, significa prostituta, donna di facili costumi: il termine designa originariamente la scrofa, la femmina del maiale (in questo articolo ho spiegato perché).
«Immaginate di commerciare vini ed essere costretti a scrivere “Vendo Nero di…” oppure vendo “Nero di T***a”. Anche la forma “Affitto casa a Troia (FG)” non è consentita. Io mi sento offeso e “bullizzato” dal portale!» scrive Intiso nella petizione “Ci sono moltissime persone che in Italia hanno il cognome Troia. Allora cosa facciamo le escludiamo dai colloqui di lavoro poiché non è possibile inserire parolacce nei curriculum?». In effetti, fra Troia e Troja risultano quasi 800 famiglie in Italia, come raccontavo in questo articolo dedicato ai cognomi volgari.
Censurati ma fieri
La censura di subito.it è uno degli effetti collaterali della lotta agli abusi verbali su Internet. Una lotta giocata a suon di regolamenti e proclami, ma soprattutto a suon di software: molti siti, per impedire la pubblicazione di messaggi offensivi o osceni, col corollario di denunce legali e scandali, hanno fatto ricorso all’intelligenza artificiale per bloccare sul nascere troll e molestatori. Basta programmare il sito in modo che, chi usa una delle parolacce contenute in una lista nera, non possa pubblicare online il testo. A meno di cancellare l’espressione scurrile.
La petizione ha raccolto quasi 200 adesioni, e non è passata inosservata: il promotore scrive di essere stato stato contattato da subito.it, che si è detta disposta a sedersi a un tavolo per discutere la questione. Difficile prevedere come evolverà questo caso. Che è interessante anche perché mostra come anche un nome ingombrante non cancelli l’amore per le proprie radici: «Sono fiero di abitare a Troia” scrive Intiso “e di essere troiano. Ma soprattutto non rinnego la storia».
Marketing triviale: t-shirt e pompa
Ecco perché, come in tutte le città turistiche, non mancano le targhe ricordo e le calamite da frigo con la scritta “I love Troia” e simili. Ma, nella storia di questa cittadina, si sono registrate anche due iniziative di marketing che hanno sfruttato – con esiti discutibili – questo nome scomodo.
La prima risale al 2013, quando l’associazione A.c.t.! Monti Dauni, impegnata nella tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico, ambientale della città, lanciò una T-shirt che aveva il seguente slogan: “Figlio di Troja”, con l’ulteriore scritta “di patria ma non di madre”. Sul retro, invece, campeggiava il più pudico slogan “Figlio di Puglia”. Non si sa se abbiano avuto successo.
Ma ancora più pesante è stata una campagna lanciata nel 2014. Per promuovere l’apertura di una nuova stazione di servizio nel paese, gestita dalla Vi Gi srl, la locale agenzia di comunicazione Alka Promo Service lanciò una campagna di affissioni che ritraeva un erogatore di carburante. Con lo slogan: “Che Troia sarebbe senza una pompa? Una pompa per tutti”. Una campagna diventata virale su Internet (“la pompa più famosa d’Italia”), ma anche contestata per l’osceno doppio senso. Il manifesto è poi diventato un gadget per i clienti della stazione di servizio.
Il difficile destino di Troia è condiviso da una località austriaca: Fucking. Il nome deriva da Focko, un nobile bavarese che la fondò nel VI secolo. Il suo nome fu registrato in latino come Adalpertus de Fucingin, poi Vucchingen, Fukching, Fugkhing e Fucking dal 1700. La desinenza – ing indica appartenenza: dunque, Fucking significa “(luogo) di Focko“. Ma non in inglese, in cui vuol dire “fottendo” (ma il nome della città se si pronuncia Fuchin e non Fachin come in inglese).
Se ne accorsero, durante l’ultima guerra mondiale, i soldati inglesi e americani stanziati nella vicina Salisburgo. E iniziarono un pellegrinaggio a Fucking per farsi fotografare davanti al cartello col nome del paese. Che oggi è rimasto piccolo: ha un centinaio di abitanti ed è la frazione di Tarsdorf. Eppure è meta di un discreto flusso di turisti, attratti dalla prospettiva di farsi un selfie in quel luogo. Ma il fenomeno è degenerato: molti, non contenti della foto, hanno portato via un souvenir ben più tangibile, i cartelli stradali. E dato che ciascuno costa 300 euro, la moda ha iniziato a pesare sui magri bilanci del paese, tanto che nel 2004 fu messo ai voti il cambio di nome, che fu però bocciato dagli abitanti. Così si è trovata una soluzione pratica: i cartelli sono stati saldati in acciaio e fissati nel cemento.
Ma questo non ha posto fine ai disagi per gli abitanti: la mania dei selfie è arrivata al punto che alcuni turisti si facevano filmare mentre avevano rapporti sessuali davanti ai cartelli d Fucking (scopando, per l’appunto). E le autorità hanno dovuto installare in paese diverse telecamere di sorveglianza per dissuadere l’insana abitudine.
Nel 2009, però, un residente, Josef Winkler, ha pensato di capitalizzare tutta questa visibilità, creando una linea di T-shirt con la scritta “I love Fucking in Austria” (mi piace trombare in Austria). L’idea ebbe successo, tanto che la rivista americana “Maxim” lo contattò per valutare una vendita abbinata; ma gli abitanti del paese non gradirono la dubbia notorietà portata dalle magliette, arrivando a minacciare Winkler quando lo incontravano per la strada. Così Winkler decise di lasciar perdere.
E’ andata meglio a un birrificio tedesco, Brauerei Waldhaus, che nello stesso anno tentò di registrare il marchio “Fucking hell” (inferno del cazzo) presso l’Euipo, l‘Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale. Dopo un iniziale rifiuto, fece appello e la spuntò: in tedesco “hell” significa pale lager, un tipo di birra chiara a bassa fermentazione. E Fucking fu spacciato per omaggio alla località austriaca. Cosa non si fa per la celebrità.
La blogger e linguista Licia Corbolante mi segnala che il caso di Troia (e di Fucking, vedi qui sotto) è un fenomeno noto come “problema di Scunthorpe“: il termine indica la censura informatica di un testo che contiene parole volgari, anche quando sono in realtà innocue. Il termine deriva dalla cittadina di Scunthorpe (Regno Unito) che nel 1996 fu bloccata dal sito aol.com perché il nome contiene il termine cunt (figa). Lo stesso è accaduto alla città di Whakatane (Nuova Zelanda): si pronuncia fakatane, come il verbo fuck (fottere).
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