Possiamo cancellare il sessismo dalle parolacce? La provocazione è stata lanciata l’8 marzo per la festa della donna. Un’agenzia pubblicitaria, la M&C Saatchi di Milano, ha fatto una campagna, “Sw(h)er words”, per “femminilizzare” alcune espressioni volgari italiane. Se una donna volesse respingere uno scocciatore, non dovrebbe dirgli “Mi hai rotto le palle”, poiché non ha i testicoli. Sarebbe più corretto, anzi, egualitario se dicesse “Mi hai rotto le tube”.
Insomma, dopo aver inserito la versione femminile di molte professioni (“sindaca”, “rettrice”, “architetta”), ora dovremmo fare la stessa operazione anche con le parolacce. E perché? L’iniziativa non è una provocazione fine a se stessa. Si rifà a un movimento, il “linguaggio inclusivo” avviato nel 1977 in Francia, dalla scrittrice femminista Benoîte Groult: nel libro “So be it” lanciò una battaglia per femminilizzare i nomi delle professioni, alo scopo di rimarcare che non erano appannaggio esclusivo degli uomini. Cambiare la lingua ci costringe, insomma, a cambiare la nostra mentalità.
Questo principio si può applicare al turpiloquio? La risposta è in larga misura no. Sarebbe un’operazione fallimentare in partenza, perché non tiene conto delle specificità delle parole volgari.
Le parolacce sono parole emotive
Rendere inclusivo il turpiloquio è un’operazione molto più complessa rispetto a femminilizzare i nomi delle professioni. Per queste ultime basta per lo più cambiare il suffisso, cioè la vocale finale delle parole, che in italiano indica il genere (-o, -i per il maschile, -a -e per il femminiie). Il “sindaco” diventa facilmente “sindaca”. E, in effetti, alcuni insulti sono diventati inclusivi nel corso della storia: da qualche tempo, ad esempio, “puttana” ha il corrispettivo maschile “puttano” per designare gli uomini che si prostituiscono, fisicamente o moralmente: persone senza scrupoli e inclini a compromessi.
Ma l’operazione è ben più difficile, se non impossibile per le imprecazioni: se pestiamo il mignolo del piede contro uno spigolo, urleremo “Porca puttana!” e non ci sarà verso di correggerlo in un “Porco puttano!”, nemmeno se siamo profondamente convinti del suo egualitarismo. Perché in quei casi, cioè quando sono in gioco emozioni forti (rabbia, dolore, sorpresa) le parolacce funzionano come un riflesso neurologico e non sono controllabili dal pensiero razionale.
Queste espressioni sono sedimentate nella nostra cultura da secoli e sono registrate nelle aree emotive del nostro cervello (come raccontavo in questo articolo) perciò sono difficilmente modificabili: non bastano le buone intenzioni razionali, occorrerebbero mesi di allenamento quotidiano per condizionarsi a usare nuovi modi di dire. Ecco perché anche la femminista più convinta, di fronte a una persona che le fa perdere la pazienza, esploderebbe in un “Che rompicoglioni!” piuttosto che “rompitube”.
Molte espressioni hanno origine anatomica, non discriminatoria
In un mio passato articolo ho mostrato che in molte lingue (inglese, francese, spagnolo, portoghese) esiste un equivalente di “rompere le palle”. Sono tutte culture maschiliste? Può anche darsi, ma questa espressione nasce per motivi fisici: i genitali maschili sono esterni, a differenza di quelli femminili, interni. E’ un dato di fatto anatomico, non culturale, che un calcio sui testicoli produca molto più dolore di uno sulla vulva. I genitali maschili sono molto più vulnerabili e delicati di quelli femminili, dunque ben si prestano a indicare una zona anatomica sensibile. Perciò sono usati come metafore per esprimere il dolore, il fastidio in molte espressioni: “rompere il cazzo”, “rompere i coglioni”, “stare sulle palle”, “stare sul cazzo” eccetera.
Anche “far girare le palle” ha una base fisica: la torsione testicolare, una patologia in cui il funicolo spermatico (il cordone che collega il testicolo all’inguine) ruota intorno al proprio asse, causando dolori lancinanti. Lo stesso dicasi per l’espressione “avere le palle piene” (= essere stufo): la sua origine si riconduce alla fastidiosa saturazione dei testicoli dovuta a prolungata astinenza sessuale. E “avere due palle così” (= noia) si potrebbe ricollegare all‘orchite, l’ingrossamento patologico dei testicoli. A differenza degli insulti, che nascono per descrivere in modo distorto un’altra persona (allo scopo di svilirla), i termini osceni sono descrittivi: per questo, in buona parte, le parolacce sono il linguaggio della spontaneità, della sincerità per quanto cruda. Diverse ricerche (ne parlo in questo articolo) hanno dimostrato che chi dice parolacce è spesso più sincero.
Qualcuno ha tentato di applicare il linguaggio inclusivo anche all’atto sessuale: come ricordavo in questo articolo, gran parte dei verbi che descrivono l’atto sessuale sono transitivi (“ho scopato Maria“), e indicano un atto di sopraffazione. Il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva, sfruttandola o danneggiandola. Perciò alcuni hanno proposto invece di corregere questa prospettiva usando verbi intransitivi (fare sesso, fare l’amore, andare a letto insieme, avere un rapporto): in quest’ottica il sesso diventa un’attività, non meglio specificata, cui si dedicano insieme due partner su un piano di uguaglianza. Ma sono tentativi culturali di prendere le distanze dal nostro lato animalesco.
Non sempre, comunque, l’anatomia del turpiloquio è scientificamente corretta: il pene è diventato simbolo di forza e vigore, ma a ben vedere è ben più forte (o meglio, resiliente) la vagina, capace di tollerare gli sforzi del parto. Ma l’espressione “a figa dura” (proposta dalla campagna pubblicitaria) non riesce a descrivere questo aspetto, anzi suona innaturale se non ridicola.
E anche se il clitoride è il corrispettivo anatomico del pene, dire “non rompermi il clitoride” (anche’essa proposta dalla campagna) suona artificioso perché è difficile – nella realtà – ledere questo organo. “Rompere le tube” ha lo stesso problema, oltre a essere anatomicamente errata: l’equivalente dei testicoli (gonadi maschili), nelle donne, sono le ovaie (gonadi femminili): “non rompermi le ovaie” sarebbe dunque un’espressione più corretta. Anche se è molto più realistico riuscire a “rompere” (ledere) i testicoli che le ovaie: per il primo risultato basta un calcio ben assestato, mentre per rompere le ovaie occorrerebbe un intervento chirurgico.
Difficile, invece, valutare la versione femminile di “uomo con le palle”, cioè coraggioso, deciso, forte. E’ vero che l’espressione si declina anche al femminile (“è una donna con le palle”), ma suona artificiosa, sia anatomicamente che culturalmente: non è detto che il coraggio o il decisionismo siano attributi esclusivamente maschili. Si potrebbe dire “donna con le ovaie”, ma resta il fatto che la capacità di generare è simbolicamente meno collegata alla forza di quanto lo sia quella di fecondare: ma potrebbe essere un limite della nostra cultura moderna, dato che nell’antichità era molto diffuso il culto di divinità femminili legate alla generazione.
E’ invece adeguato dire “Mi cadono le tette” come equivalente femminile di “Mi cadono le palle”. Infatti, durante la vecchiaia, il seno diventa cadente tanto quanto i testicoli.
Ma che bisogno c’è di inventare nuovi modi di dire egualitari artificiosi quando li abbiamo già? Se le metafore sessuali maschili o femminili vi sembrano limitanti, potete usare la metafora dei glutei: “quel tipo è un dito al culo”, “mi sta sul culo”, “è uno stracciaculo”, “mi ha fresato il culo”, eccetera. Il culo è unisex, quindi “politicamente corretto” (tranne quando si riferisce all’omosessualità).
Le parolacce sono sessiste per natura (anche verso l’uomo)
Pretendere che le parolacce siano egualitarie è come aspettarsi che una guerra sia innocua. Le parolacce, infatti, sono sessiste (e razziste, omofobe, classiste) per natura: sono colpi sotto la cintura, perché servono ad abbattere un avversario con un giudizio sommario, e come tale sempre distorto.
Ma attenzione. Le parolacce non sono solo misogine, cioè sessiste verso le donne: lo sono pure verso gli uomini, sono anche misantrope. Avevo affrontato questo argomento in un altro articolo, ma qui voglio evidenziare altri aspetti più centrati sull’anatomia sessuale.
Fateci caso. Per disprezzare una persona irresponsabile, egoista, superficiale diciamo che è un “cazzone”, un “testa di cazzo”. Se è poco intelligente, lo definiamo un “coglione”, non un “figone”: altrimenti gli faremmo un gran complimento.
L’italiano, infatti, è fallocentrico in ambo i sensi: i genitali maschili possono essere usati sia come metafore di vigore (“cazzuto”, “con le palle”, “incazzato”), ma anche come spregiativi (“testa di cazzo”, “cazzone”, “coglione”, “palloso”). I genitali femminili, invece, sono usati per esprimere attrattività e bellezza (“figo”, “figa”, “figona”, “figone”), a differenza del francese e dell’inglese, dove i genitali femminili (rispettivamente “con” e “cunt”) sono usati come insulti pesanti. L’unica eccezione in italiano è il termine “fesso” che deriva da “fessura” (vulva) in senso spregiativo.
Quindi non bisogna lasciarsi prendere da facili isterismi (o da cazzonaggine, se vi pare più equo) nel giudicare il turpiloquio come maschilista.
bellissimo articolo, complimenti!