Luca, Carlo e Giorgio sono amici. Eppure, quando s’incontrano, si chiamano affettuosamente “ciccione”, “testa di cazzo” e “buffone”. Le parolacce, infatti, non servono solo a offendere. Possono persino esprimere l’opposto d’un insulto: vicinanza, intimità, affetto. Non è solo una stravaganza: è un fenomeno linguistico sfuggente e molto più profondo di quanto sembri a prima vista. Infatti espressioni simili sono utilizzate non solo fra amici, ma anche fra amanti e nei gruppi sociali di emarginati. Ed è, in realtà, un genere di espressioni molto antico, che risale già al tempo dei Romani. E’, come vedremo, un linguaggio tipico delle feste di piazza (soprattutto il Carnevale), che riesce a cogliere il nostro mondo interiore nel suo divenire e nella sua complessità anche contraddittoria. Ma come funzionano? Cosa vogliono dire?
Relax, libertà e sincerità fra chi si ama
Vediamo un po’ più da vicino queste espressioni. In casi come questi, gli insulti non sono usati in senso letterale: anzi, in realtà il loro contenuto non conta. Conta, invece, il fatto che siano usate parole di un registro linguistico colloquiale: segnalano il passaggio a un tipo informale e più rilassato di comunicazione.
«La locuzione oscena» scriveva Italo Calvino «serve come una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso parlato o scritto.Questa strategia linguistica non può preoccuparsi del fatto che la parola usata sia regressiva, fallocentrica o misogina o altro; anzi, la sua espressività è data spesso dalle sue connotazioni più negative».
Già, ma cosa esprimono esattamente queste espressioni? Avviene uno strano corto circuito, ascoltandole: sono ingiurie affettuose. Il senso affettivo è dato solo dall’intenzione del parlante (espressi dallo sguardo e dal tono di voce), che annulla il contenuto offensivo degli insulti. Un’ulteriore prova che è l’intenzione a fare l’insulto, e non viceversa: posso offendere senza usare nemmeno una parolaccia («Quanto sei intelligente», se detto con intento sarcastico, è un’offesa). E vale anche il contrario: senza l’intenzione aggressiva, l’offesa perde la sua carica esplosiva. Gli insulti affettuosi sono come pistole a salve, ma non del tutto: rimane qualcosa del loro graffiante contenuto originario, il loro colore emotivo. Infatti fanno ridere, e la risata segnala sempre una sorpresa di fronte a una contraddizione, in questo caso un’opposizione fra forze contrarie, come un piatto agrodolce. Le parole squalificanti sono usate infatti per esprimere affetto, cioè il sentimento opposto al disprezzo. Una modalità, questa, che ricorda la figura retorica dell’ossimoro, l’unione di due concetti opposti e inconciliabili: come “ghiaccio bollente”, “fallimento di successo”.
Ma queste espressioni non si limitano ai rapporti fra amici. Possono manifestarsi anche quando due amanti, a letto, utilizzano fra loro termini espliciti e offensivi («scopami», «troia») anche se hanno un rapporto d’amore. L’uso del turpiloquio (il “dirty talk“, parlare sporco) serve in questo caso a esprimere l’aspetto animalesco del sesso, che di solito tendiamo invece a censurare, mascherare o a negare.
«Nella corrispondenza intima si incontrano a volte dei termini volgari e ingiuriosi usati in senso affettuoso» osserva Michail Bachtin, critico letterario russo. «Quando si superano certi limiti nei rapporti fra le persone e questi rapporti diventano più intimi e schietti, ecco che ha luogo un cambiamento nell’uso ordinario delle parole, una distruzione della gerarchia verbale; il linguaggio si ristruttura su un tono nuovo e schiettamente familiare; le parole affettuose comuni sembrano convenzionali e false, banali, unilaterali e soprattutto incomplete; hanno una sfumatura gerarchica che le rende inappropriate alla libera familiarità che si è instaurata; ed è per questo che tutte le parole banali sono bandite e sostituite o da parole ingiuriose o da parole create sul loro tipo e modello». Dunque, le parolacce portano una ventata di sincerità oltre che di libertà e informalità.
L’insulto come bandiera
A volte l’unione paradossale fra buoni sentimenti e volgarità avviene in un campo minato: gli insulti stereotipici, quelli diretti a un intero gruppo sociale. Così capita di vedere omosessuali che si autodefiniscono orgogliosamente “froci” durante le sfilate del gay pride; gli immigrati meridionali che aprono ristoranti come “La taverna dei terroni”, o siti Internet come “Il terrone fuori sede”, realizzato da meridionali che fanno della propria identità una bandiera autoironica.
O, ancora, o gli afroamericani che si proclamano orgogliosamente “nigga”, cioè nigger, negri. La linguista francese Dominique Lagorgette dell’Università della Savoia a Chambéry chiama queste espressioni “insulti di solidarietà”: sono usati in senso parodico, fanno il verso ai razzisti per rimarcare invece un forte senso di appartenenza. Quando le persone di colore si chiamano fra loro, affettuosamente «negro», si riappropriano della loro identità irridendo i tentativi esterni di emarginazione. Se ne fregano del disprezzo contenuto nell’insulto e lo usano verso se stessi per riaffermare la propria identità a dispetto dell’esclusione sociale.
Gli imperatori romani fra trionfi e sfottò
Nella Roma antica, durante la cerimonia del trionfo (riservata ai condottieri che avevano conseguito un’importante vittoria), il generale o l’imperatore erano celebrati e al tempo stesso derisi, e lo stesso accadeva durante i funerali: si rimpiangeva e si prendeva in giro il defunto.
Durante i trionfi, in particolare, un corteo formato dalle massime autorità romane, dal generale vittorioso e dai suoi soldati sfilava dalla Porta Triumphalis al Campidoglio. Uno schiavo teneva alzata sulla testa del condottiero una corona d’alloro sussurrandogli: «Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo».
Nel frattempo, i legionari intonavano i “Carmina triumphalia”, versi decisamente irridenti: per esempio, dato che Giulio Cesare era un donnaiolo senza capelli, i legionari cantavano «Cittadini, state attenti alle mogli: vi portiamo l’amatore calvo. L’oro in Gallia te lo sei fottuto in donne, qui (a Roma) l’hai preso in prestito». E i soldati andavano giù pesanti: dato che – com’era d’uso fra i Romani (ne ho parlato in questo articolo) – da ragazzo Cesare si concesse al re Nicomede IV di Bitinia, i legionari cantavano: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, mentre non trionfa Nicomede, che pur sottomise Cesare». Per gli antichi Romani, la passività sessuale era un’onta.
Com’è intuibile, questi insulti erano rivolti come ammonimento al trionfatore perché non s’insuperbisse della vittoria. Erano anche formule “apotropaiche”, scongiuri, atti a distogliere dal vincitore, al culmine del suo successo, l’invidia degli uomini e anche degli dèi.
«La lode e l’ingiuria di piazza sono due facce della stessa medaglia» spiega ancora il critico Bachtin. «Le lodi sono ironiche e ambivalenti. Sono al limite dell’ingiuria: le lodi sono gravide di ingiurie e non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra di esse, così come non è possibile dire dove comincino le une e finiscano le altre. La stessa cosa avviene anche con le ingiurie». Nelle lodi, infatti, la nostra ambivalenza affettiva può inserire anche una sfumatura d’odio, di invidia.
Una traccia di questo genere di antichi riti sopravvive ancora oggi nelle tradizioni goliardiche dell’Università di Padova. Fino a pochi anni fa l’ingresso al Cortil Nuovo dell’Università era delimitato da una grossa catena, che per antica tradizione studentesca rappresentava simbolicamente il confine del sacro tempio della cultura. Nessuno studente di Padova osava quindi saltare la catena prima di aver completato il proprio ciclo di studi. Solo il giorno della laurea l’universitario poteva togliersi, senza più alcun timore, la soddisfazione di fare il gran salto, tra i canti irriverenti e le pedate degli amici sul fondoschiena, passando così ritualmente a una nuova condizione: quella di “laureato”. Accompagnato dal ritornello: «Dottore, dottore, dottore del buso del cul va fa ’n cul, va fa ’n cul». Un monito per ricordargli che, anche da “dottore”, rimaneva una persona qualunque, esposta alle miserie della vita.
La lingua di piazza e il mondo in divenire
Ma il critico russo Bachtin, nel libro “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, ha ricostruito le origini di queste espressioni, chiamate “lodi ingiuriose”. Il capolavoro di Rabelais, “Gargantua e Pantagruele”, ne è pieno, come questo passo: “E Gargantua piangeva come una vacca, ma, di colpo, quando gli veniva in mente Pantagruele: «Oh, figliolino mio, – diceva, – coglioncino mio, petuzzo d’oro, come sei carino!». Il figlio di Gargantua è chiamato contemporaneamente con diminutivi (“figliolino”, “carino”) e insulti ammorbiditi dai vezzeggiativi (“coglioncino”, “petuzzo”).
L’uso di queste formule, ricorda Bacthin, è figlio del linguaggio di piazza, quello usato durante le feste popolari, innanzitutto a Carnevale. Nella cultura ufficiale le lodi e le ingiurie sono separate, perché riflettono una gerarchia sociale immutabile «dove il superiore e l’inferiore non si mescolavano mai» osserva Bachtin. «Quanto più il linguaggio è familiare e meno ufficiale, tanto più frequentemente e sostanzialmente questi toni si fondono e tanto più debole diventa la barriera fra lode e ingiuria; esse cominciano a mescolarsi in una sola persona e in una sola cosa, le espressioni che racchiudono in sé l’auspicio di vita e di morte, di semina della terra e di rinascita».
Le feste di piazza, infatti, celebrano i momenti cruciali della natura: soprattutto la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, in un mondo in continua trasformazione: «Il linguaggio grottesco di piazza (soprattutto nel suo filone più antico) era orientato verso il mondo e verso ogni fenomeno del mondo in stato di metamorfosi continua, in stato di passaggio dalla notte al giorno, dall’inverno alla primavera, dal vecchio al nuovo, dalla morte alla nascita. E’ un fenomeno di eccezionale importanza per comprendere le grandi tappe dello sviluppo del pensiero umano del passato. Alla base di tale fenomeno si trova l’idea di un mondo in stato di eterna incompiutezza, che muore e nasce nello stesso tempo, L’immagine bitonale che riunisce le lodi e le ingiurie, cerca di cogliere l’istante stesso dell’alternanza, il passaggio dal vecchio al nuovo, dalla morte alla vita».
Un sentimento del genere, di unione degli opposti, è espresso in questo video comico che Maccio Capatonda ha pubblicato in occasione della festa di San Valentino: ritrae due innamorati che palesemente non si sopportano. Pronunciano frasi romantiche («Sei un’adorabile creatura», «Sei un uomo meraviglioso») ma con un tono aggressivo, irritato e squalificante, in un cortocircuito molto divertente.