Oggi lo usiamo per indicare oggetti di scarso valore (“del cazzo”), affermazioni inconsistenti (“cazzate”) o addirittura il nulla (“un cazzo”). Eppure, nell’antichità il membro virile aveva un valore così grande da esser considerato sacro, e dotato del potere di favorire non solo la fecondità, ma anche l’abbondanza dei raccolti agricoli o di allontanare gli influssi nefasti. Il mondo antico era infatti fallocentrico: metteva il pene (e chi ne era provvisto) al vertice della vita sociale e religiosa.
In questo articolo parlerò di quest’epoca che ha lasciato tracce non solo nel linguaggio, ma anche in alcuni gesti e tradizioni. I termini fallo, fallimento, falso, priapismo, uccello, testicoli/testimoni, “sto cazzo”, “cazzuto”, fascino, derivano da questa mentalità, così come i monumenti a forma fallica (obelischi, dolmen, torri), le processioni dei ceri e dei gigli, il gesto scaramantico di toccarsi gli attributi, il cornetto portafortuna napoletano, la Befana a cavallo della scopa, la nascita della commedia e dei sacramenti. Altro che cazzate.
I culti fallici, il dio del piffero e le processioni
Cominciamo dal termine “fallo”. Deriva dal greco φαλλός-phallós, a sua volta derivato dal sanscrito phalati (= germogliare, fruttificare) o alla radice della lingua protoindoeuropea bʰel-phal (= gonfiare, gonfiarsi). Dunque, il fallo è visto come un germoglio: nella mentalità antica (sopravvissuta a lungo) si pensava che il seme maschile fosse il solo responsabile della vita, mentre la donna ne fosse un mero ricettacolo passivo. Aristotele sosteneva che il principio generativo risiedesse esclusivamente nell’uomo. Le donne erano secondo lui sterili, accoglievano il seme maschile ma non partecipavano alla fecondazione. Per inciso, “fallo” in senso di errore (da cui fallimento e falso) deriva da un ulteriore sfumatura di significato di fallere, ovvero “fottere”, nel senso di ingannare.
Dunque, il fallo era considerato l’origine della vita, un organo con il misterioso potere di fecondare. Di qui la sua sacralità, che era personificata in Priapo, dio greco della fertilità il cui simbolo è un grande fallo eretto. Priapo era figlio di Afrodite (venere) e Zeus (Giove). Hera, moglie di Zeus, per punizione gli conferì un pene enorme (dal dio Priapo deriva il termine “priapismo“, che indica un’erezione dolorosa e persistente).
Il suo animale era l’asino, sia perché dotato di un membro smisurato, sia per un mito: si narra che Priapo insidiasse la ninfa Lotide dormiente, ma il ragliare di un asino svegliò la ninfa impedendo l’accoppiamento. e il Dio, per vendetta, pretendesse il sacrificio annuale di un asino.
Il suo culto, fiorente in Italia intorno al III secolo a.C., era associato al mondo agricolo e alla protezione delle greggi, dei pesci, delle api, degli orti.
In primavera, il culto di Priapo – sia in Grecia che poi in Italia, presso i Romani – si celebrava con le falloforie, processioni in cui si trasportavano enormi falli di legno per propiziare la fertilità dei campi: ancora oggi a Tyrnavos (Grecia), il Lunedì grasso è ancor oggi celebrato con un festival fallico, il “Bourani” (nome anche di una zuppa di spinaci), con lancio di palloncini fallici e cortei. Lo stesso accade in Giappone con i festival (matsuri) a Kawasaki, Kishiwada e Komaki, dove sfila un fallo in legno di cipresso lungo 2,5 metri e pesante 280 kg. Per gli antropologi, la Sagra dei gigli a Nola, la Corsa dei ceri a Gubbio sono processioni falliche travestite.
Tornando alla Grecia antica, i rituali terminavano con una pioggia d’acqua mista a miele e succo d’uva, indirizzata verso i terreni, per favorire così l’abbondanza dei raccolti agricoli.
In onore di Priapo furono composti i “Carmina Priapea”, i canti in suo onore; ne riproduco qui sotto alcune strofe:
«Quando tu, un Dio, bandito ogni pudore, ti mostri coi coglioni di fuori, allora posso ben chiamare “fica” la fica e “minchia” la minchia».
«Mi domandi perché abbia le parti oscene scoperte? E io ti chiedo: perché gli altri Dei non coprono le loro armi? Il signore del mondo tiene in mano il fulmine, apertamente; né si vede il dio del mare coprire il tridente.[…] Chi vide te, Amore, con la fiaccola nascosta? Non mi si incolpi quindi se tengo la minchia sempre di fuori: se mi si abbassa l’arma, sono spacciato!»
Insomma, versi molto salaci che secondo Aristotele furono le prime forme da cui si originò la commedia. Secondo molti studiosi, inoltre, i monumenti che si stagliano dal terreno sarebbero tutti monumenti fallici: gli obelischi in Egitto, i monoliti in Francia, i dolmen in Gran Bretagna e in Sardegna, i cippi agricoli in Puglia, Grecia e Albania.
I giuramenti: che Dio mi fulmini… proprio lì
C’è però anche un altro aspetto, nella mentalità antica, che esprime la sacralità dei genitali maschili: i sacrifici e i giuramenti. Nei sacrifici rituali, alle divinità si offrivano gli organi interni, le viscere (gli “exta”: fegato, vescicola biliare, cuore, polmoni e peritoneo) considerate più pregiate, mentre il resto era spartito fra i partecipanti al rito; tra le frattaglie c’erano anche i testicoli della vittima (polimina, polimenta): erano mangiati dai partecipanti per impossessarsi della sua forza vitale e generativa, oppure erano donati alla divinità per ingraziarsela (se era una divinità maschile).
Ancor più interessante l’uso di giurare tenendo fra le mani i testicoli: si giurava, insomma, sul patrimonio più caro, che veniva messo a conferma e garanzia del patto. Come a dire: “Che Dio mi castri se mento”. Dunque, giurare sui “gioielli di famiglia” rende solenne il patto, perché la posta in gioco (la perdita della capacità generativa) era considerata la più alta possibile: nessuno avrebbe osato giurare il falso con la prospettiva di rimanere castrato.
E questa abitudine era propria non solo del mondo greco e romano, ma anche degli ebrei: nella Genesi (24:2-4) Abramo fa giurare il suo fidato servo che avrebbe trovato una moglie per Isacco nel suo paese d’origine. Il testo biblico dice “Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore”. Qui “coscia” sta per i genitali: per gli Ebrei “il contatto con gli organi da cui ha origine la vita rende infrangibile l’impegno assunto”. Per questo la parola “testicoli” significa letteralmente “piccoli testimoni” del giuramento (e anche degli amplessi, ma questo significato si è aggiunto poi). I giuramenti solenni, fatti in questo modo, erano per i Romani un atto sacro (“sacramentum”) di impegno con la divinità: il cristianesimo prenderà proprio da questi riti l’idea dei “sacramenti”, l’insieme dei segni e dei gesti sacri che mettono il fedele in comunione mistica con Cristo.
Amuleto contro il malocchio
Nella mentalità antica, dunque, il fallo era considerato sacro in quanto portatore di vita. Ma questa concezione, in una mentalità magica – convinta cioè che il pensiero potesse influire sulla realtà – ha assegnato al membro virile un ulteriore potere: quello apotropaico di scacciare le forze negative. Gli antichi Romani, in particolare, erano molto superstiziosi: ogni giorno adottavano varie strategie (gesti, riti, sacrifici) per scongiurare la mala sorte.
Il loro timore più grande era rappresentato dall’oculus malignus, il malocchio: lo sguardo cattivo, invidioso, che rischiava di trasmettere la cattiva sorte su chi lo riceveva. Credevano infatti che esistessero persone, dotate di occhi deformi o incantatori, capaci di lanciare malefici solo guardando un altro. Capaci, insomma, di esercitare un certo “fascino” sulle altre persone: in latino “fascinus” (dal greco báskanos ‘iettatore, ammaliatore’ a sua volta da básko ‘maledico’). Se io ti affascino, ti faccio il malocchio. E il fallo, con la sua potenza vitale, era considerato l’amuleto perfetto per contrastare il malocchio: aveva il potere non solo di evocare la forza generativa, ma anche di spaventare o di distrarre lo iettatore, allontanando così il suo sguardo nefasto. Tanto che in latino “fascinus” indica sia il malocchio che il talismano (fallico) usato per contrastarlo.
Ecco perché i Romani collocavano sculture o bassorilievi fallici all’ingresso delle abitazioni e delle botteghe, persino sul pavimento stradale, come sa chi abbia visitato le rovine di Pompei: spesso il fallo era incorniciato in una struttura rettangolare che gli conferiva un’aura sacra.
C’è un bassorilievo del II secolo dopo Cristo rinvenuto a Leptis Magna (l’odierna Libia) che rappresenta un organo maschile dotato di gambe mentre eiacula sopra un “oculus malignus” per neutralizzare i suoi effetti malefici (v. foto).
I Romani usavano le sculture falliche anche come tintinnabula, sonagli azionati dal vento che appendevano alle porte d’ingresso (sempre per distrarre gli iettatori). E i falli erano rappresentati in monili da indossare: uomini, donne, bambini (indossavano la “bulla”, un marsupio rotondo contenente amuleti protettivi da portare come collana) e persino i cavalli portavano amuleti a forma di piccoli peni eretti – generalmente di bronzo, ma anche d’oro, argento, corallo, osso – appesi a dei braccialetti, o più di rado al collo.
Alcuni di questi amuleti rappresentavano falli con le gambe o alati: forse da questa usanza deriva l’uso del termine “uccello” per designare l’organo maschile. Le ali e le gambe alludevano simbolicamente alla forza, alla grande vitalità del fallo, equiparato a un cavallo alato. Potevano anche avere zampe e coda di leone (i cosiddetti “falli leonini”) e potevano essere addirittura cavalcati dalle figure più svariate.
A volte il fallo era cavalcato da una figura femminile: il medievista David Williams ha scritto che questa simbologia è all’origine della ben più nota immagine della strega (o Befana) a cavallo della scopa. Ed è proprio dagli amuleti fallici dei Romani che ha origine il cornetto rosso portafortuna diffuso ancora oggi a Napoli.
In ogni caso, più gli amuleti erano strani e bizzarri, più erano ritenuti potenti, dal momento che erano considerati capaci di distrarre più a lungo gli iettatori. E quando ci si trovava in situazioni di pericolo o di sventura, li si toccava per scaramanzia: e proprio da questa abitudine nasce il gesto di toccarsi gli attributi per allontanare la malasorte. Un gesto che sopravvive ancora oggi, e si manifesta anche in modi creativi, come la tradizione di fare 3 giri, con il tallone del piede destro, sui genitali del toro ritratto nel mosaico del pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano (1877).
Il toro rappresenta la città di Torino: in origine il gesto era una forma di scherno verso la città rivale, e poi è rimasto come rito scaramantico e propiziatorio (si pensa allontani la malasorte e favorisca le gravidanze).
Dunque, tutti questi amuleti e sculture non avevano un significato erotico ma apotropaico, cioè protettivo. L’energia sessuale del fallo era considerata sia protettiva che aggressiva: era scudo e arma, amuleto e icona di fertilità.
Il cristianesimo e la caduta… in fallo
Come si è passati dalla visione del fallo divino e onnipotente alla concezione moderna, secondo cui il membro maschile è sinonimo di “cosa da nulla”? La responsabilità è del cristianesimo, per il quale tutto ciò che riguardava la carne e i sensi era peccato. Un’eredità dell’orfismo e del pensiero platonico, per i quali l’anima è immateriale e immortale, mentre il corpo è svilito perché mortale e ingannevole: per queste filosofie, il corpo (“soma” in greco) era la prigione (“sema“) dell’anima. Questa concezione è stata assorbita dal cristianesimo: il corpo può generare piaceri che distolgono l’anima dall’aspirazione alla salvezza, e a maggior ragione il fallo, che da divinità diventa demone: il pene, per Anselmo d’Aosta è la “verga del diavolo“. Nessun organo, diceva sant’Agostino, è più corrotto del pene.
Non stupisce quindi che nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento, papa Paolo IV decise di coprire i nudi “scandalosi” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina dipinta da Michelangelo. Fu un suo collaboratore, Daniele da Volterra, a coprire un anno dopo la sua morte la nudità delle figure con le famose “braghe”, cosicché da allora è stato soprannominato il Braghettone (anche se non è stato l’unico a mettere le mutande ai santi, e la censura è continuata anche nei secoli successivi). E proprio nella stessa epoca è cambiato anche il significato di “fascino”: da influsso malefico esercitato dall’invidioso diventa un semplice richiamo, un’attrattiva, un mero potere di seduzione.
Oggi “cazzo” resta comunque la parolaccia più pronunciata in italiano: una su 4 (vedi la classifica qui; l’etimologia di questa parola l’ho raccontata qui). Se si aggiunge che “minchia” è al 4° posto, le parolacce fallocentriche rappresentano quasi un terzo degli epiteti pronunciati dagli italiani. Probabilmente non è un caso.
E forse un’altra eco della sua antica potenza sta nelle espressioni “Che cazzo vuoi?” (dove ha una funzione rafforzativa), “sto cazzo” (se usata come espressione di stupore e di ammirazione) e “cazzuto” (nel senso di “persona coraggiosa e capace”). Piccoli frammenti di un passato glorioso.