Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.
A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi.
In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia “onesta, veritiera e corretta“. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.
Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.
IMMAGINI E ALLUSIONI
Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.
In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“. Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».
Le 33 pubblicità più volgari
Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossisono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdisono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre (con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose).
2021-oggi
FIGATA (2024)
Una ragazza sexy, con una spazzola per pavimenti, e lo slogan: “Gran bella figata!”. E’ la pubblicità di Alba, un detersivo prodotto da una ditta in provincia di Caserta. Il termine “figo”, che nasce con significato volgare (come corrispettivo maschile del termine “figa” nel senso di “bella ragazza”), è via via entrato nel linguaggio comune, come avevo già scritto in un articolo di qualche tempo fa. “Figata”, un suo derivato, indica una cosa divertente, entusiasmante, bella. Che lo possa essere un pavimento lustro, dipende dai gusti. Ma la campagna non ha scandalizzato nessuno.
LA DIAMO GRATIS (2021)
Una società pugliese di servizi di pulizie, la SGS Outsourcing (Lizzanello, Lecce), ha lanciato una campagna promozionale promettendo un mese gratuito di pulizie per quanti avessero sottoscritto un contratto annuale. Lo slogan: “Ve la diamo gratis”, affiancato alla foto di una sexy cameriera in tacchi a spillo e abito succinto. “Darla” significa “concedersi a un rapporto sessuale”, dove il “la” si riferisce alla vulva. Il cartellone ha sollevato molte proteste, anche da parte dell’amministrazione comunale. Lo IAP non si è pronunciato al riguardo.
Una ragazza con indosso solo un paio di slip, ritratta di spalle, su un motorino. Slogan: “Vienimi dietro”. Riga sotto: “Sono elettrica”. Il cartellone annunciava l’apertura di un punto vendita di scooter elettrici Niu a Ragusa. Il manifesto ha sollevato forti polemiche: lo slogan evocava un approccio sessuale, con l’aggravante che “venire” significa anche “raggiungere l’orgasmo”. Il sindaco di Ragusa ha denunciato la campagna allo Iap, che l’ha bocciata: “La comunicazione trasferisce sul corpo della donna l’appetibilità del servizio pubblicizzato e la facile accessibilità all’una e all’altro, con una commistione di piani che conduce alla mercificazione della persona e al degrado della sua dignità”.
FIGATA (2019)
Il termine “figo”, che nasce con significato volgare (come corrispettivo maschile del termine “figa” nel senso di “bella ragazza”), è via via entrato nel linguaggio comune, come avevo già scritto un articolo. “Figata”, un suo derivato, indica una cosa divertente, entusiasmante, bella. Così Aquafan, parco divertimenti acquatico di Riccione, ha sfruttato questo termine del gergo giovanile per strizzare l’occhio ai teenagers. La campagna non ha destato scandali.
VI FACCIAMO UN CULO COSÌ (2019)
“Vi facciamo un culo così”: lo slogan campeggia su un manifesto accanto ai glutei di una modella in slip. Il gioco di parole è evidente: “farsi il culo” significa faticare, ma “vi facciamo un culo così” significa rimproverare, picchiare, far faticare. Essendo la pubblicità di una palestra, la frase significa “Vi faremo lavorare duramente”. Ma vicino a un bel paio di glutei la frase cambia senso: chi faticherà in palestra avrà come risultato un bel sedere, sodo come quello nella foto.
La trovata è stata del fitness club Olympia di Vago di Lavagno (Verona). Ha suscitato polemiche nella zona ma non risulta censurata dallo Iap.
PATATA GRATIS (2019)
“Show poll”, una rosticceria di Aversa (Caserta), lancia un’offerta promozionale su maxi cartelloni stradali. Slogan: “Te la diamo gratis la patata” e più in piccolo nella riga sotto: “acquistando due polli”. La battuta, già poco originale, era affiancata alla foto di una ragazza procace in reggipetto, nell’atto di offrire il seno agli spettatori.
Il manifesto ha suscitato polemiche in consiglio comunale, ma lo Iap non si è pronunciato sul caso.
CHE CULO! (2018)
La foto ritrae un’atleta fotografata di spalle, con un tanga che lascia poco spazio all’immaginazione. E lo slogan “Che culo!”, seguito dalla spiegazione: “Excalibur apre le porte a soli 99 euro”.
E’ la pubblicità di un centro benessere in provincia di Roma. Ha sollevato proteste, ma non risulta censurata dallo Iap.
STRONZETTA (2016)
My Magdalene è una linea di bijoux per l’intimo chiamati “Tirabaci”: fuoriesce da gonne e pantaloni come fosse un pendente, ha diverse lunghezze e ciondoli con le forme più svariate: il cuore, la goccia, la sfera. Per pubblicizzarlo è stato scelto uno slogan inusuale: “Il fascino della stronzetta”. L’attrice Tiziana Buldini ha prestato il volto alla campagna per una gioielleria di Treviso.
La pubblicità ha fatto scalpore ed è finita sul tavolo dello Iap. La società produttrice, la Mgdl, si è difesa affermando che «l’espressione “stronzetta” è qui assunta in senso figurato e come vezzeggiativo, per cui non solo perde la sua carica aggressiva, ma esprime ammirazione e affettuosità». E hanno aggiunto di essersi ispirati dal libro di Sherry Argov, “Falli soffrire: gli uomini preferiscono le stronze”, dove c’è scritto: «la Stronzetta non è quella che tutti detestano. E’ una donna gentile ma forte… Magnetica, stimolante… Non è una donna caustica o volgare. E’ cortese ma chiara. Comunica in modo diretto più o meno come gli uomini comunicano tra loro». Ma lo Iap non si è lasciato convincere: quel termine “esprime solo una volgare carica aggressiva” ed è stato censurato.
FALLA VENIRE (2016)
Un negozio di elettronica in provincia di Cosenza, Keyakù (oggi chiuso) ha lanciato per tre anni di fila una campagna con slogan provocatori. Nel 2016 lo slogan “A San Valentino falla venire!” era affiancato alla foto di una donna a bocca aperta, che lasciava intendere un orgasmo. La pubblicità – che promuoveva “uno sconto del 10% a tutte le innamorate che vengono nei nostri punti vendita” – ha sollevato forti polemiche per il suo sessismo e la volgarità.
L’anno precedente Keyakù aveva lanciato lo slogan “Per S.Valentino… mettiglielo in mano”, e nel 2017 “A San Valentino mettila a 90 gradi” accanto all’immagine di una lavatrice (con un evidente doppiosenso riferito a una posizione erotica). Il sindaco di Cosenza aveva disposto la rimozione anticipata dei cartelli, e per tutta risposta il negozio lo aveva querelato. Alcuni parlamentari di Sinistra Italiana hanno presentato un’interrogazione al presidente del Consiglio Gentiloni affinché palazzo Chigi attivasse un’istruttoria dell’Unar nei confronti di questa azienda per «reiterate ed evidenti iniziative di carattere discriminatorio». Lo Iap non si è pronunciato sul caso.
MORDI LA PATATA (2015)
Un negozio torinese di “Amsterdam chips”, un franchising che vende patatine fritte, ha fatto un volantino per promuovere l’inaugurazione con assaggi gratuiti. Gli slogan: “mordi la patata” e “oggi te la diamo gratis”. Nonostante il primo slogan fosse abbinato a una foto di patate fritte, e il secondo si riferisse alla “degustazione”, la campagna è finita sotto la lente dello Iap. Che ha censurato il “doppio senso volgare”: equipara la promozione a un’offerta sessuale.
SCEGLI LE PALLE (2015)
Una ragazza in costume sexy da Babbo Natale siede fra un albero di Natale e un sacco di regali. Slogan: “Fai come lei… scegli le palle giuste”. Il riferimento visivo più immediato erano le palle appese all’albero di Natale: biglie da gioco con impressi i numeri del lotto. Ma l’allusione sessuale, visto il termine, era smaccata.
Il manifesto pubblicizzava l’apertura di una sala bingo in provincia di Catania. Il sindaco ha disposto la copertura dei cartelloni.
SE ME LA DAI (2015)
“Se me la dai… te la pago subito”. La frase si riferisce all’auto usata. Ma davanti ad essa (peraltro un modello sportivo e costoso) posa una modella in minigonna, così che la frase assume tutt’altro significato: una proposta erotica. La campagna reclamizza un autosalone di Asti.
Il manifesto è stato contestato dall’amministrazione di Alessandria, che ne ha ordinato l’oscuramento.
CHE CULO (2014)
Ancora lo stesso slogan, “Che culo”, ancora da parte di una catena di palestre, le Happy Fit di Treviso. E ancora abbinato alla foto di una modella di spalle, stavolta in slip di pizzo. La campagna ha sollevato proteste e raccolte di firme, ma non risulta essere stata censurata dallo Iap.
TROIA E POMPA (2014)
L’occasione deve essere stata irresistibile: nella città di Troia (Foggia) apre un nuovo distributore di benzina. Lo slogan:”Che Troia sarebbe senza una pompa?”.Un vero capolavoro di finezza e creatività, che ha giocato sui doppiosensi di Troia (prostituta) e pompa (diminutivo di “pompino”, rapporto orale). Con due parolacce di questa portata, la campagna ha sollevato molte polemiche in città: le autorità locali hanno segnalato il caso allo Iap, che non si è pronunciato al riguardo. La campagna vince il premio per la pubblicità più becera della storia italiana. E ha trovato alcuni estimatori: il benzinaio ha lanciato una linea di T-shirt con il discutibile slogan.
A PUTTANE (2013)
“L’Italia va a puttane? Fateci pagare le tasse.” La frase era affiancata a una donna in calze a rete, ritratta in una posa ammiccante (come a dire “Non ti sembra?”). Il senso: se l’Italia va a rotoli, tanto vale far pagare le tasse alle prostitute. Una catena di abbigliamento, Piazza Italia, ha fatto una scelta doppiamente insolita per farsi pubblicità: usare un linguaggio da strada unendolo a considerazioni sociali e politiche. Perché? L’azienda vuol farsi “portavoce dei disagi degli italiani e della loro sacrosanta insoddisfazione”, ha dichiarato il direttore marketing Stefano De Silvo. Infatti, sotto il logo della società c’è la scritta “sponsor della gente comune”.
La campagna pubblicitaria si intitolava “#ilpensierocheconta”, e si è articolata in diversi cartelloni: dalla ragazza, con decollete in mostra, che annuncia “Sono pronta a entrare in politica” , alla giovane di colore che esorta “Basta lavoro nero”, fino all’uomo di mezza età che dichiara “Sono pronto a non andare in pensione”.
Insomma, un modoprovocatorio di attirare l’attenzione su di sè, sfruttando luoghi comuni e strizzando l’occhio a temi sociali e politici. Che però con l’abbigliamento non c’entrano.
La scelta del termine “puttane” è stata censurata dallo Iap a causa dell’esplicita volgarità del termine utilizzato.
FANCUL (2013)
Il gioco di parole funziona se si conosce l’inglese: “Fun. Cool”. Letteralmente: “divertente, alla moda”. Che in italiano diventa “fan cul”. Cioè fanculo. Un significato polemico rinforzato dallo slogan: “Un’auto così non la presto a nessuno”.
Dovendo promuovere una vettura destinata ai giovani, la Suzuki ha usato un linguaggio che strizza l’occhio al loro gergo. Una trovata originale per evitare censure: infatti la campagna non è stata contestata dallo Iap. Che sarebbe sicuramente intervenuto se lo slogan fosse stato pronunciato in tv.
LA DIAMO A TUTTI (2012)
“La diamo a tutti… l‘ADSL, dove non c‘è.“: la società Inweb Adriatico ha pubblicizzato con questo slogan i propri servizi per portare Internet a chi ha problemi di connessione. Ma la frase acquisiva un significato malizioso perché era affiancata all foto di una donna in bikini in una posa arrendevole.
La campagna è stata censurata dallo Iap: “reca un’intollerabile offesa alla dignità della persona, e mercifica l’immagine della donna”.
DITO MEDIO (2011)
La ditta marchigiana S’Agapõ (gioielleria fashion per un pubblico giovane), lancia una campagna decisamente contro corrente per San Valentino. Al posto delle frasi romantiche, il mezzobusto di una donna, la showgirl Melita Toniolo, con il volto arrabbiato mentre mostra la mano con il dito medio alzato, accompagnato dalla scritta “A chi non ci ama. Buon San Valentino“.
La campagna, com’è intuibile, è stata censurata dallo Iap: l‘atteggiamento mostrato, per la sua sfacciata volgarità, non può considerarsi accettabile in una comunicazione al grande pubblico quale quella pubblicitaria.
FATTI IL CAPO (2011)
In italiano il termine “farsi” ha alcuni significati particolari: usato in modo intransitivo può significare “drogarsi” (termine gergale). Usato in modo transitivo, invece, significa “possedere sessualmente”, con una notevole connotazione sessista. Che, in questa pubblicità, è suggerita dalla presenza di una modella in una posa provocante con un punteruolo posato sulla bocca carnosa. Solo che in questo caso il “capo” non è il superiore sul lavoro, bensì l’Amaro del capo. La pubblicità non è stata censurata dallo Iap, che pure si era opposto a uno slogan molto simile 10 anni prima (v. sotto).
Passera delle vigne è un vino bianco secco. Deriva da “passerina”, il nome di un vitigno diffuso nelle Marche, in Abruzzo, in Emilia Romagna e nel Lazio. E’ chiamato così per le piccole dimensioni degli acini che sono molto gradite dai passeri, vista la loro polpa gustosa. Ma la cantina pugliese Lepore ha voluto sfruttare l’ambiguità del termine (che indica anche la vulva), rendendo il gioco più evidente con una silhouette femminile che ha un calice di vino al posto del pube. Lo Iap ha censurato la campagna: gli elementi “lasciano poco spazio all‘immaginazione riguardo al significato scurrile della comunicazione. Inoltre, il messaggio risulta fortemente offensivo della dignità della persona, in quanto la figura femminile viene rappresentata in modo del tutto svilente, assimilata al prodotto pubblicizzato, diventando essa stessa un bene da consumare. L’assoluta gratuità della scelta comunicazionale si pone come unicamente finalizzata a suscitare sconcerto e disorientamento nel pubblico per imprimere nella mente il marchio, strumentalizzando la sensibilità del pubblico e gettando discredito sulla comunicazione pubblicitaria”.
Va detto che diversi vini e bevande alcoliche hanno nomi volgari, come ho raccontato in questo articolo.
TE LA DO GRATIS (2010)
Pubblicità del caffè Borbone in cialde. Una giovane donna che ammicca allo spettatore, con in mano una macchina per il caffè. A fianco della donna la scritta, che si collega al pensiero della donna come in una sorta di fumetto: “Compri la macchinetta… sei pazzooooo?!!“, seguita in caratteri cubitali dalla frase “Io te la do GRATIS!”.
Campagna bocciata dallo Iap: “un‘ingiustificata lesione della dignità della donna, ridotta a mero oggetto di desiderio e di profferta”.
TE LA DO GRATIS (2009)
I manifesti pubblicitari mostrano l‘immagine di profilo di una ragazza con lo sguardo ammiccante rivolto verso l‘osservatore e a grandi lettere la scritta “FIDATI…TE LA DO GRATIS” e in dimensioni più piccole “la montatura*”.
E’ la campagna di SpacciOcchiali Group, società della provincia di Udine. Per un aberrante senso di “par condicio”, ne è stata fatta anche una versione al maschile: “Te lo do…. l’occhiale”.
La campagna è stata bocciata dallo Iap per “la sostituibilità tra la montatura in offerta e la donna, la quale si ritrova ad essere ridotta a mero oggetto di desiderio e di profferta”.
GESTO 'CHE CULO' (2007)
La campagna pubblicizza Snai, una società che gestisce il gioco d’azzardo (scommesse ippiche, bingo, poker, casinò, slot). Tutte attività che necessitano di fortuna: e proprio la fortuna è indicata dal gesto scurrile ritratto nelle foto. Come dire: “Lo sai che hai culo?”, ma al posto del deretano è stata inserita la parola Snai, suggerendo un’equivalenza (tutta da dimostrare) fra i giochi gestiti dalla società e la fortuna. La campagna non risulta essere stata contestata.
LA PATATINA PIACE (2006)
“A chi piace la patatina”. Questa frase, in generale, non ha significati scurrili, a meno di usare un tono malizioso. Ma quando è pronunciata da un pornodivo, il discorso cambia, e la patatina indica senza ombra di dubbio la vulva. Amica Chips ha affidato infatti a Rocco Siffredi la campagna su stampa e tv. E l’intera campagna ha giocato (anche in spot televisivi) su questo doppiosenso: “Di patatine ne ho provate tante, non riesco a stare senza, ma nessuna è come questa”.
Una scorciatoia per destare scandalo, e infatti così è stato. Lo Iap ha ovviamente bocciato la campagna: “abbiamo una volgarità che non è attenuata, ma anzi enfatizzata dal riferimento al cinema hard”. Così l’azienda ha corretto il tiro sui cartelloni.
In un’intervista il fondatore dell’azienda, Alfredo Moratti, ha rivelato: “Questa idea (di usare come testimonial Rocco Siffredi) è venuta ad una agenzia anni fa, io sono molto sincero… ero un po’ contrario perché collegare o andare in simbiosi con un prodotto alimentare ad un personaggio di questo tipo ci vuole coraggio…Poi mi son fatto convincere dai figli, all’inizio abbiamo avuto un po’ di problemi, ero preoccupato. Poi ne hanno parlato tutti in modo divertente, e abbiamo ottenuto ottimi risultati”.
TRA LE PALLE (2005)
Una foto di bambini immersi in centinaia di palline di plastica. Il titolo: “Portate i bambini all’Ikea. ce li teniamo tra le palle noi”. Il manifesto voleva lanciare le nuove aree giochi aperte all’interno dei grandi magazzini di arredamento fai-da-te. E l’ha fatto con una battuta scurrile che strizzava l’occhio ai genitori (sottintendendo “invece di averli fra le palle voi”). La campagna non ha suscitato le simpatie dello Iap, che l’ha bocciata, e non solo per l’uso del termine volgare: “La pubblicità veicola un messaggio fortemente diseducativo ed improprio del rapporto genitori-figli, che può risultare turbante per i piccoli lettori ridotti ad un ‘peso‘ comodamente scaricabile ad altri. L‘eventuale intento ironico del messaggio, lungi dall‘attenuare il contenuto del messaggio, rende la comunicazione se possibile ancora più cinicamente offensiva”.
GESTO DELL’OMBRELLO (2004)
L’università di Macerata ha scelto di interpretare in modo provocatorio l’espressione “educazione”, termine che significa sia la formazione scolastica che le buone maniere. Ha lanciato infatti una campagna promozionale intitolata “La buona educazione”, per alludere alla qualità del proprio percorso formativo, ma non ai comportamenti civili. Infatti ha usato come testimonial alcuni giovani ritratti mentre fanno il gesto dell’ombrello, una linguaccia e il gesto delle corna. Come dire: “Vi insegniamo le materie universitarie, ma non vi vogliamo bigotti o benpensanti”.
Per un’istituzione educativa, una campagna più incoerente che simpatica: ha suscitato qualche polemica sui giornali, ma non è stata censurata dallo Iap.
PACCO (2002)
Una ditta di trasporti internazionali, Monava (provincia di Varese) ha pensato di pubblicizzare i propri servizi con lo slogan “Il vostro pacco è in buone mani”, giocando sull’ambiguità del termine “pacco” che, oltre a un involucro, denota l’organo sessuale maschile. Come dire: ci prendiamo cura dei vostri gioielli (e anche in questo caso con un doppio senso).
La foto abbinata, il primo piano di un uomo che stringe vistosamente i genitali, non lascia dubbi sul significato dello slogan.
Il Giurì dello IAP lo ha bocciato: “Il messaggio non ha alcun valore informativo e nessuna attinenza con il servizio pubblicizzato se non uno squallido richiamo ad un modo di dire, neanche tanto implicito, ma perlopiù di una indecenza gratuita. Il solo intento ravvisato consiste nel colpire il pubblico, con scorrettezza e trasgressione, per far memorizzare il nome dell’inserzionista. La volgarità messa in evidenza viene poi amplificata dalle dimensioni del cartellone pubblicitario che ne moltiplicano l’effetto attrattivo. Viste le dimensioni dell’immagine, è incontrovertibile che anche i bambini altro non facciano se non acquisire acriticamente un modello di comportamento quantomeno maleducato e non corretto”.
FATTI LA CUBANA (2001)
Tìnima è la marca di una birra cubana, una lager. Per promuoverla, una bottiglia è stata ritratta di fronte a una ragazza mulatta in bikini, sotto la scritta: “Fatti la cubana”, sfruttando il doppiosenso del verbo “farsi”, che significa anche “possedere sessualmente”. Lo Iap ha censurato la campagna: “l‘espressione “Fatti la cubana“ può, infatti, riferirsi tanto alla birra, quanto alla giovane donna raffigurata, la quale viene subdolamente trasformata in merce. Il gioco di parole non lascia spazio all‘immaginazione circa il suo significato scurrile e offensivo”.
La marca di jeans Swish ha fatto della provocazione una bandiera. Ha ritratto una fotomodella in abito provocante e trucco pesante, simile a quello d’una prostituta. Senso enfatizzato dallo slogan: “Le vere puttane sono gli uomini”. Un termine molto forte per una campagna, che è stata censurata dallo Iap: la scelta comunicazionale è “assolutamente gratuita e unicamente finalizzata a suscitare sconcerto e disorientamento per imprimere nella mente il marchio, strumentalizzando la sensibilità del pubblico e gettando discredito sulla comunicazione pubblicitaria”.
CULO BASSO (1995)
Roberta, nota marca di biancheria intima, lancia un paio di slip che slanciavano i glutei. Lo slogan: “Culo basso? Bye bye”. Ebbene, questa pubblicità – diversamente dal solito – non fu censurata: la società produttrice degli slip si difese sostenendo che “l’espressione ‘culo basso’ non era usata per volontà di involgarire o di choccare, ma per chiarezza e immediatezza di espressione”.
Insomma, per farsi capire senza tanti giri di parole, e con la giusta ironia e spregiudicatezza.
Lo Iap ha salvato la campagna: pur se si sarebbe potuta usare l’equivalente espressione “sedere basso”, non v’è dubbio che “culo basso” sia locuzione corrente e qui riferita al prodotto, anche se si tratta indubbiamente d’una manifestazione di cattivo gusto”.
La campagna funzionò: con quello slogan Roberta vendette 178.000 capi del prodotto, contro una media di 85.000: più del doppio!
CON LE PALLE (1995)
“Bullock l’antifurto con le palle,”. Con questo slogan è stato pubblicizzato un dispositivo antifurto che tiene bloccati i pedali dell’auto rendendo impossibile guidarla. Una delle caratteristiche di questo dispositivo è la presenza di due sfere che servono a stabilizzarlo sulla pedana dell’auto, aiutandolo a scorrere sul tappetino. Per questo motivo, quando la pubblicità è finita nel mirino di alcune proteste, la società si è difesa affermando che “l’antifurto con le palle è diventato un marchio-riconoscimento, aggiungendo che l’espressione era ironica”.
Lo Iap però è stato di diverso avviso: quel termine “conserva ancora una carica di volgarità tale da urtare e da offendere la sensibilità di molti cittadini e da screditare la pubblicità”.
CHE CULO (1994)
“Ho trovato dei veri jeans, che culo”. La scritta affianca la foto di una modella di colore, in posizione accovacciata e torso nudo. E’ una delle prime campagne dei jeans Swish. Ed è stata censurata dallo Iap in quanto “gratuita, grossolanamente volgare e offensiva del gusto e della sensibilità del pubblico”.
“Chicago… e me ne vado”. Lo slogan campeggiava su una modella, ritratta di spalle, con i jeans abbassati sul sedere. Un gioco di parole che stava a significare che, dopo aver indossato i jeans Chicago, si va in giro. Ma la città statunitense in italiano ha la stessa pronuncia del verbo defecare (ci cago): così la campagna è finita sul tavolo dello Iap che l’ha bocciata “per la sua manifesta volgarità” vista l’omofonia con il verbo cagare. La pronuncia è firmata da Francesco Saverio Borrelli, il futuro giudice di Tangentopoli.
Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».
Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan “Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.
SEMPRE PIU' USATE
Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino. «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale». Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.
I contenuti: la fantasia scarseggia
Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano 15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:
termine
frequenza
culo*
6
darla
5
palle
3
patata/patatina
3
fanculo*
3
puttana
2
farsi
2
venire
2
figata
2
troia
1
stronzetta
1
pompa
1
passera
1
pacco
1
cagare
1
*Inclusi i gesti
Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.
La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
“Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale). E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile.
In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.
Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”. Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato.
Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione
«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.
FUOCHI DI PAGLIA
Ma, in generale, funzionano le pubblicità scurrili? «Ho sentito dire spesso dagli esperti di marketing che non si costruisce così il rapporto di fedeltà fra un cliente e una marca» commenta Guggino. «Usando questo approccio hai un momento di gloria all’inizio, ma esaurito il clamore, censurata la campagna, il prodotto ritorna nel buio».
Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.
Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla. Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale». A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione».
Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:
⇒ Se ti è piaciuto questo post, eccone altri su parolacce & pubblicità:
error: Il contenuto di questo sito è protetto da diritto di autore: potete copiarne un estratto breve (max 1.000 battute) a patto di citare la fonte con un link