Nel fotomontaggio, autoritratto di Caravaggio (dal dipinto “Giuditta e Oloferne”)
E’ l’emblema dell’artista maledetto: genio e sregolatezza. Ha dipinto capolavori immortali ma ha passato la sua breve vita (morì a 39 anni) dentro e fuori dalla galera, fuggendo da condanne, gendarmi, creditori, malviventi (e con un paio di omicidi sulle spalle). Caravaggio è uno degli artisti che ammiro di più, e mi è venuta una curiosità: come si esprimeva nella vita di tutti i giorni? In particolare: diceva parolacce, e quali?
Da un personaggio con una biografia del genere ce le possiamo aspettare, ma l’artista non ha lasciato opere scritte. Eppure possiamo conoscere il suo linguaggio grazie a straordinari documenti del suo tempo: i verbali delle denunce, degli interrogatori e delle sentenze a suo carico. Documenti dell’epoca, che offrono una prospetiva unica sul suo linguaggio (spoiler: molto volgare), oltre che sul suo carattere inquieto, travagliato e facilmente infiammabile. Gli importava più della propria onorabilità di artista e di uomo che della fedina penale. E diceva ciò che pensava a muso duro, senza sconti per nessuno: compresi i pubblici ufficiali.
Le parolacce offrono un ritratto eloquente dell’uomo Caravaggio (soprannome di Michelangelo Merisi), a cui sono dedicate due grandi mostre che stanno aprono proprio in questo mese: una a Roma, a palazzo Barberini (Caravaggio 2025, dal 7 marzo al 6 luglio) e una a Firenze a Villa Bardini (Caravaggio e il Novecento, 27 marzo-20 luglio).
Autoritratto di Caravaggio nel Martirio di San Matteo (1600).
A Roma, Caravaggio fu più volte denunciato per schiamazzi notturni, atti vandalici, porto d’armi abusivo, aggressioni, ingiurie, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, diffamazione. Nei verbali dei suoi arresti e processi (conservati all’Archivio di Stato di Roma) emerge il suo linguaggio scurrile, espressione del suo temperamento irruente, competitivo, facilmente infiammabile, attaccabrighe e insofferente verso ogni limitazione.
Fra le imprese che lo hanno portato in tribunale, anche la composizione di due sonetti osceni, in cui prese di mira il suo collega e rivale Giovanni Baglione. Una sorta di “dissing” barocco, che rende Caravaggio simile a un trapper balordo dei nostri tempi. Baglione viene definito “Gian coglione”, le sue opere “pituresse” (croste di nessun valore) buone solo per incartare i salumi o (testualmente) per pulirsi il culo o come falli artificiali. Quei sonetti satirici così caustici, infatti, erano un giudizio artistico sulle opere del rivale, che si fa chiamar “pittore” ma non è capace nemmeno di mescolare i colori. Una prova tangibile di quanto la passione per l’arte coinvolgesse Caravaggio in modo viscerale. La Storia, insomma, non ci ha consegnato solo insulti da risse notturne, che pure furono numerose.
A sinistra, ritratto di Giovanni Baglione; a destra, Caravaggio ritratto da Ottavio Leoni (1621).
Come scrisse Baglione ne “Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti”: “Fu Michelagnolo [Michelangelo], per soverchio ardimento di spirito, un poco discolo, e tal hora cercava occasione di fiaccarsi il collo di mettere a sbaraglio l’altrui vita”. Baglione, infatti, è autore di una delle pochissime biografie di uno che l’aveva conosciuto davvero: sebbene scritta 30 anni dopo la morte del rivale, trasuda ancora livore. Questi atti giudiziari, oltre a svelare il turpiloquio di Caravaggio, sono un’occasione preziosa anche per conoscere la sua filosofia artistica, i colleghi che stimava e quelli che disprezzava, e quali sue opere, all’epoca, avevano suscitato clamore.
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Fra i numerosi verbali giudiziari a carico di Caravaggio (nei quali il giudice interroga testimoni e imputati in latino, e loro rispondono in italiano), ne ho trovati 4 costellati di parolacce. Caravaggio le diceva per sfogare la sua rabbia e disprezzare i suoi nemici, con una predilezione per gli insulti di carattere sessuale: i più feroci, rivolti sia alle donne (turare la potta) che agli uomini (becco fottuto, coglione), più diverse altre espressioni scurrili: forbirsene il culo, avere in culo, cazzone, cacca, fottere.
Testa di Medusa (1597): un possibile autoritratto di Caravaggio.
Un campionario nutrito: il pittore non aveva remore a usare il linguaggio scurrile, avendo un temperamento impulsivo, irruente e aggressivo. L’autocontrollo non era il suo forte. Era un uomo passionale e diretto: non aveva filtri né censure, si esprimeva così persino con i gendarmi. E questo gli ha ovviamente procurato diversi guai, da cui si è salvato soltanto grazie all’intervento dei suoi protettori altolocati (nobili e cardinali). E qui si impone un parallelismo con la sua arte: come nei dipinti voleva riprodurre esattamente quello che vedeva, senza alcun miglioramento estetico, così nel linguaggio non ricorreva a eufemismi. Diceva direttamente ciò che sentiva, anche se era sgradevole e offensivo.
Fra gli episodi per cui fu processato, spiccano i sonetti satirici contro il rivale Baglione, pieni di insulti scurrili, anche indiretti: per denigrare Tommaso Salini, dice che ha “un cazzon da mulo” (quindi sproporzionato, animalesco: oggi però suonerebbe come un complimento) ma non lo usa per “fottere la moglie”. E che le tele del suo amico Baglione sono buone giusto per “turare la potta” (la vulva) della moglie, come sostituti fallici. Immagine pesantissima, offesa irriguardosa e trasversale: perché colpisce anche una persona estranea alle dispute artistiche.
In un sonetto, poi, c’è anche uno sberleffo infantile: i quadri di Baglione valgono così poco che vendendoli ci si può ricavare i soldi per un paio di braghe così sottili da mostrare quando si sporcano di cacca.
Da notare l’uso del’aggettivo “fottuto” nel senso di “spregevole” (nell’espressione “becco fottuto“, ovvero “cornuto spregevole”): oggi è in disuso, suonerebbe come un’espressione tradotta dall’inglese, che fa largo uso del termine “fucked” o “fucking”. E, in una società maschilista, l’epiteto di “becco” era considerato massimamente offensivo per un uomo.
Interessante anche il termine “pituressa” (pitturetta), un diminutivo femminile con valore spregiativo.
Si segnala anche l’espressione “avere in culo” nel senso di “avere in antipatia”: oggi diremmo “stare sul culo”.
Negli atti del processo per diffamazione, Salini cita le espressioni “spione becco” e “furfante spione”, a lui rivolte da Onorio Longo, e Baglione lo conferma, aggiungendo che Longo gli aveva detto anche “infame”e “cornuto”. Tutti insulti in voga a quell’epoca.
Tommaso Salini
Caravaggio incontra per strada Mao (Tommaso) Salini, un collega pittore. Questi dipingeva soprattutto nature morte: cosa che aveva punto sul vivo Caravaggio, tra i primi a inaugurare, a Roma, questo genere di soggetti come elementi autonomi. Secondo Caravaggio Salini era un copione, un plagiatore, e questa cosa era per lui intollerabile. Così, un giorno, lo incrocia per strada, lo fa passare, ma poi lo insegue e gli assesta un colpo di spada in testa. “Michelangelo mi terò molti altri colpi in modo che se non fossero corsi li vicini, et così sentito il rumore facilmente sarei potuto dal detto restare ferito, et forse morto, havendomi di più ingiuriato, e dirme becco fottuto et altre parole ingiuriose”, rifersice Salini nella sua denuncia.
Occorre sottolineare che questo insulto ricorre più volte nelle denunce contro Caravaggio: lo diceva spesso, e forse era anche un’espressione molto in voga all’epoca.
E’ l’anno 1603. Circolano a Roma alcuni componimenti scurrili, citati a memoria, e trascritti su carta passano di mano in mano. I sonetti satirici prendono di mira il pittore Giovanni Baglione e il suo amico Tommaso “Mao” Salini. Quando Baglione ne viene a conoscenza, denuncia Caravaggio insieme ai suoi amici Onorio Longhi, Ottavio Leoni e Orazio Gentileschi, considerati corresponsabili o almeno informati sui fatti. Fra Baglione e Caravaggio c’era un’esplicita rivalità, come fra Salieri e Mozart: ma mentre i due musicisti avevano rapporti civili, Caravaggio e Baglione si disprezzavano apertamente. Con Caravaggio, in particolare, c’era una rivalità aperta: Caravaggio non stimava Baglione, come non stimava quanti cercavano di imitare, senza riuscirci, il suo stile realistico.
1) Amor vincit omnia (Caravaggio); 2) e 3) Amor sacro e amor profano (Baglione). Nella versione 2) Amore è con la corazza, nella 3), dopo le polemiche, è senza.
La loro rivalità era nata nel 1602, quando Caravaggio aveva dipinto Amor Vincit Omnia per il marchese Vincenzo Giustiniani. Il quadro, che rappresenta il trionfo dell’amore su tutte le arti, ebbe grande successo a Roma. Il modello che aveva posato per l’opera era Cecco Boneri: allievo, factotum e forse anche amante di Caravaggio.
In quello stesso anno, Baglione dipinse il medesimo soggetto “Amor sacro e amor profano”, per il fratello del marchese, il cardinale Benedetto Giustiniani. In una prima versione Amore era vestito con una corazza, ma non rispondeva alla giusta iconografia: “sembra che indossi una caffettiera”, fu il commento sarcastico di Caravaggio. In tutta risposta Baglione ne fece un’altra versione, nella quale l’amore divino irrompeva su un diavolo con un volto simile a quello di Caravaggio, e un putto che somigliava al suo modello. Come se li avesse sorpresi in atteggiamenti equivoci. Per quest’opera Baglione ricevette come compenso una collana d’oro dal cardinale Giustiniani, con disappunto dei colleghi.
L’anno successivo i Gesuiti commissionarono a Baglione una resurrezione di Cristo per la Chiesa del Gesù: il dipinto – oggi perduto, ne resta solo un bozzetto – fu molto criticato da Caravaggio e dai suoi amici, che lo dileggiarono con due sonetti. Quando Salini li ascoltò, li trascrisse e li mostrò a Baglione: entrambi avevano ottimi motivi per farla pagare a Caravaggio.
Bozzetto della Resurrezione di Baglione (andata perduta)
Ecco il testo della denuncia di Baglione: “Avendo io depinto un quadro della resurrettione di Nostro Signore , detto Micalangelo pretendeva farlo lui, perciò esso Micalangelo per invidia, et detti Honorio Longo et Horatio (Gentileschi) suoi amici et adherenti, sono andati sparlando del fatto mio, con dir male di me et biasimare l’opere mie, et in particolare hanno fatto alcuni versi in mio dishonore et vittuperio [vergogna], et datili et dispensatili a più et diverse persone… Li suddetti querelati sempre m’hanno perseguitato, sono stati miei emoli [emuli] et m’hanno avuto invidia vedendo che le mie opere sono in consideratione più che le loro…do querela di questi versi infamatorii fatti contro di me”. La denuncia fece sicuramente infuriare Caravaggio, che non invidiava affatto Baglione (quantomeno per la pittura), e non era affatto un suo emulo (anzi, era vero il contrario).
E così Caravaggio si trovò per l’ennesima volta alla sbarra degli imputati. Il processo è un documento prezioso, non solo perché rivela le parolacce usate a quell’epoca, ma anche per comprendere la concezione artistica di Caravaggio. Il giudice, infatti, cercò prima di far confessare agli imputati d’aver composto i versi; non riuscendoci, cercò di otttenere da Caravaggio un giudizio positivo su Baglione. Ma una volta messo alle strette, come vedremo, Caravaggio non riuscirà a trattenere la sua completa disistima nei confronti del rivale.
Ed ecco il testo del primo sonetto:
Gioan Bagaglia tu non sai un acca
le tue pitture sono pituresse [dipinti di scarso valore] volo [voglio] vedere con esse che non guadagnarai mai una patacca che di cotanto panno da farti un paro di bragesse [paio di mutande] che ad ognun mostrarai quel che fa la cacca Porta là adunque i tuoi desegni e cartoni che tu hai fatto a Andrea pizicarolo [salumiere] o veramente forbetene [ puliscitene] il culo o alla moglie di Mao turegli la potta che con quel suo cazzon da mulo più non la fotte. Perdonami dipintore se io non ti adulo che della collana che tu porti indegno sei [la collana d’oro con cui il dipinto fu pagato] et della pittura vituperio [disonore]. |
Giovanni Bagaglia, tu non sai niente,
i tuoi dipinti sono di scarso valore, con loro non guadagnerai nemmeno un soldo con cui comprare un paio di braghe con cui tutti potranno vedere Dunque, porta i disegni che hai fatto al salumiere oppure usali per pulirti il culo, oppure per otturare la fica della moglie di Salini, che pur con quel cazzo da mulo non la fotte. |
E questo è il secondo:
Gian coglion senza dubio dir si puole [può]
quel che biasimar si mette altrui che può cento anni esser mastro di lui. Nella pittura intendo la mia prole poi che pittor si vol chiamar colui che non può star per macinar con lui. I color non ha mastro nel numero si sfaciatamente nominar si vole [non ha maestria nel numero di colori, anche se si proclama sfacciatamente un maestro] si sa pur il proverbio che si dice che chi lodar si vole si maledice. Io non son uso lavarmi la bocca né meno di inalzar quel che non merta come fa l’idol suo che è cosa certa. Se io mettermi volesse a ragionar delle scaure [deformità] fatte da questui [ costui] non bastarian interi un mese o dui. Vieni un po’ qua tu ch’e vò’ biasimare l’altrui pitture et sai pur che le tue si stano in casa tua a’ chiodi ancora vergognandoti tu mostrarle fuora. Infatti i’ vo’ l’impresa abandonare che sento che mi abonda tal materia massime [soprattutto] s’intrassi ne la catena d’oro che al collo indegnamente porta che credo certo meglio se io non erro a piè gle ne staria una di ferro [come carcerato]. Di tutto quel che ha detto con passione per certo gli è perché credo beuto avesse certo come è suo doùto [perché credo avesse bevuto come suo solito] altrimente ei saria un becco fotuto. [un cornuto fottuto] |
Senza dubbio Gianni si può definire un coglione, perché si mette a criticare chi può essere suo maestro per cento anni. Parlo della pittura, perché si fa chiamare pittore persino chi non è capace di preparare i colori.Non è un vero maestro nei colori, eppure si ostina a farsi chiamare tale, ma si sa il proverbio: “Chi si loda, si maledice da solo.”Io non sono abituato a parlare a vanvera, né tantomeno a esaltare chi non lo merita, come invece fa il suo idolo, senza dubbio. Se volessi raccontare gli errori che ha fatto questo individuo, non basterebbero un mese o due.Vieni qua, tu che vuoi criticare i dipinti altrui, eppure sai bene che i tuoi restano appesi ai chiodi in casa, perché ti vergogni di mostrarli in pubblico.Infatti voglio abbandonare questa impresa, perché mi rendo conto che ci sarebbe fin troppo da dire, soprattutto se parlassi della catena d’oro che porta indegnamente al collo. Anzi, credo che, se non mi sbaglio, gli starebbe meglio una catena di ferro ai piedi.Tutto ciò che ha detto con tanta passione è certamente dovuto al fatto che era ubriaco, come al solito. Altrimenti, non ci sarebbe altra spiegazione: sarebbe solo un cornuto spregevole. |
Dunque, versi satirici, pesantemente infamanti e ingiuriosi: in sintesi, le opere di Baglione andavano bene come carta per i salumi o come carta igienica, la sua pittura era un disonore, dato che non sa usare i colori. E Baglione oltre a essere un incapace era un “coglione” (rima fin troppo facile e prevedibile), un “cornuto fottuto“, un beone. Caravaggio, come gli altri imputati, negò di esserne l’autore, per evitar di pagarne le conseguenze: “Io non me deletto de compor versi né volgari né latini”, cioè né in latino né in italiano, aggiungendo, anzi di non aver mai sentito “né in rima, né in prosa, né volgari, né latini, né de nessuna sorte nelle quali se sia fatto mentione di detto Giovanni Baglione“. Secondo alcuni storici i sonetti potrebbero essere stati scritti da Onorio Longhi, ma è pur vero l’espressione “becco fotuto” è quasi un marchio di fabbrica di Caravaggio, visto quanto spesso la usava. La verità su quei sonetti non la sapremo mai. Ma senz’altro Caravaggio ne condivideva il contenuto.
Dato che nessuno degli imputati ammise di aver scritto i sonetti, il giudice cercò di approfondire quale opinione Caravaggio avesse sull’arte di Baglione, per accertare se emergessero livori. L’artista si presenta come pittore («L’essercitio mio è di pittore»), e il giudice gli domanda se conoscesse altri colleghi. Caravaggio risponde citando vari nomi, come il Pomarancio, il Caraccio e anche Baglione, precisando però che “non tutti sono valent’huomini”, ovvero che sappiano “depinger bene et imitar bene le cose naturali”. Un documento straordinario perché ci dà, in prima persona, il manifesto della sua arte: per lui consiste nel riprodurre fedelmente la realtà.
Poi Caravaggio aggiunge che Baglione non è suo amico perché “non mi parla”. Il giudice allora gli chiede un giudizio sul rivale: “Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione”. Prima stoccata.
E, interrogato sul dipinto della Resurrezione, del quale Baglione riteneva che Caravaggio fosse invidioso, l’artista risponde senza tanti giri di parole: “Quella pittura della resurrettione a me non piace perché è goffa et l’ho per la peggio che habbia fatta, et detta pittura io non l’ho intesa lodare da nessun pittore et con quanti pittori io ho parlato, a nessuno ha piaciuto”, tranne “da uno che va sempre con lui, che lo chiamano l’angelo custode”: Mao Salini. Seconda e definitiva stoccata.
Alla fine il giudice, non avendo altra prova se non la disistima verso Baglione, condanna Caravaggio e i suoi amici a un mese di arresti domiciliari. Ma la pena fu presto ridotta grazie all’interessamento dell’ambasciatore francese a Roma, Philippe De Béthune.
Una spada: particolare del dipinto “La buona ventura” (1596/7)
Caravaggio viene fermato dalle guardie alle 5 del mattino mentre circolava per Roma con addosso spada e pugnale. Le guardie gli chiedono se avesse la licenza per le armi: il pittore la mostra, e tutto sembra risolto. Il capo delle guardie gli dice “Bona notte signore” e Caravaggio in tutta risposta gli ringhia un rabbioso: “Ti ho in culo” (mi stai sul culo). Scatta l’arresto, e quando l’artista è ammanettato urla “Ho in culo te et quanti par tuoi si trovano”. E tutto finisce sugli atti della denuncia a carico di Caravaggio, che passò l’ennesima notte in galera.
Un oste raffigurato ne “La cena in Emmaus” (1601/2)
L’episodio avviene all’Osteria della Lupa, una taverna dove Caravaggio si fermava spesso a mangiare. Quel pomeriggio, verso le 17, l’artista era in compagnia di due amici. E avviene un episodio per il quale il cameriere, Pietro da Fusaccia, lo denunciò alla magistratura: “Havendoli portato otto carcioffi cotti, cioè quattro nel buturo [burro] et quattro col olio, detto querelato mi ha domandato quali erano al buturo et quelli all’olio. Io li ho risposto: che li odorasse, facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel buturo et quelli all’olio”.
La risposta, probabilmente accompagnata da un gesto (il cameriere avvicinò il piatto al naso) fece andare Caravaggio su tutte le furie: non era un trattamento rispettoso e adeguato al suo rango. E, obiettivamente, una risposta molto provocatoria. Così, racconta un testimone “Avendo avuto a male Michelangelo si levo in piedi in collera et gli disse: “Se ben mi pare, becco fottuto, ti credi di servire qualche barone!. Et prese quel piatto con dentro i carciofi e lo tirò al garzone nel viso”, ferendolo “al mustacchio” (ai baffi). Poi, racconta il giovane, Caravaggio prese subito mano alla spada, ma i suoi amici lo trattennero, evitando che lo scontro degenerasse.
Massimo Centini “Luci ed ombre di un artista maledetto” (Diarkos, 2024)
Giuliano Capecelatro “Tutti i miei peccati sono mortali” (Saggiatore, 2003)
Michele di Sivo, Orietta Verdi “Caravaggio a Roma. Una vita dal vero” (De Luca, 2011)
Riccardo Gandolfi “Le Vite degli artisti di Gaspare Celio” (Olschki, 2021)
Luigi Garofalo, Barbara Biscotti “Caravaggio, rivalità artistiche e diffamazione” (Corriere della sera, 2019)
Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1642
Rossella Vodret Adamo “Dentro Caravaggio” (Skira, 2017)
Francesca Curti, Orietta Verdi “Caravaggio, Lena e Maddalena Antognetti. Una storia da riscrivere” (Storia dell’arte rivista, 2022)
Clovis Whitfield “Caravaggio a Roma: dalla miseria alla gloria. Considerazioni sui nuovi documenti sul primo tempo romano del genio lombardo” (About Art online, 2017)
Sergio Rossi ““Lena” e le donne di Caravaggio. Splendori e miserie di artisti e cortigiane nella Roma del primo Seicento” (About Art online, 2021)
Marco Bona Castellotti “Caravaggio arrivò a Roma nel 1596” (Il Sole 24 ore, 2011)
Marco Mascolo “Caravaggio nero, una notizia milanese” (Il Manifesto, 11 aprile 2021)
Aleksander Gielo “Erotismo, violenza e ortodossia nelle opere di Caravaggio” (Kainowska, 2018)
Così l’intelligenza artificiale disegna una persona altezzosa (Dall-E).
Un lettore di questo blog, Luigi P., mi ha chiesto qual è l’origine dell’espressione “tirarsela”. La risposta la trovate più sotto. Ma il quesito era intrigante e mi ha acceso altre curiosità: che cosa vuol dire precisamente “tirarsela”? A quale atteggiamento si riferisce? A chi si crede superiore agli altri, a chi fa il sostenuto. Il termine più preciso è altezzoso. Poi mi sono venuti in mente altri sinonimi: sbruffone, montato, puzzone e molti altri. Insomma, si è aperto un mondo affascinante, tutto da esplorare: volevo capire, attraverso la lingua, qual è il difetto che con questi termini viene messo alla berlina. E, soprattutto, perché.
Gli insulti, infatti, sono sempre giudizi sommari, etichette affibbiate a chi è considerato “anormale”. In questo caso, segnalano un tragico errore di valutazione: nessuno, infatti, può credere d’essere superiore agli altri in ogni aspetto, ovvero come persona nella sua interezza. Eppure, la tentazione della superbia, di sentirsi superiori agli altri è sempre dietro l’angolo. Perché facciamo fatica a tenere in equilibrio il nostro Ego con quello degli altri.
Sordi nei panni del Marchese del Grillo: la frase rappresenta bene la prospettiva dei superbi.
«La superbia è una percezione accecata della verità» sottolinea nel libro “Superbia” (Il Mulino) Laura Bazzicalupo, docente di filosofia politica all’università di Salerno. «Il superbo vede solo ciò che vuol vedere: avanza avvolto in una nebbia delirante, anche se usa lucidamente la propria intelligenza. Il superbo è in una prigione mentale. E’ un peccato della verità: non voler prendere atto di chi siamo, crederci onnipotenti. Ma è anche una condanna esistenziale: chi non percepisce i propri limiti, non si giudica superbo e in più ritiene di valere più di tutti gli altri. La verità su ciò che si è viene rifiutata e negata. E’ la presunzione di credere d’essere unico». Tanto che, quando fallisce, il superbo se ne stupisce (delirio di onnipotenza).
Una donna altezzosa creata dall’Intelligenza artificiale (Dall-E).
Gli epiteti che condannano questi comportamenti sono numerosi: ne ho trovati 76 (più sotto li elenco tutti, ricostruendo le loro etimologie, compresa quella di “tirarsela”): per tre quarti prendono di mira i superbi, gli altri sono riservati ai vanitosi. Esprimono una valutazione etica negativa, e anche un avvertimento: i superbi sono condannati perché giudicati fastidiosi, sbagliati, pericolosi. Sbagliati e pericolosi perché non colgono la verità.
Ma perché gli altezzosi danno fastidio? Il termine “borioso” li paragona alla bora, il vento più violento del Mediterraneo. I termini che li designano, infatti, mostrano quanto siano insopportabili i loro modi di fare:
i superbi fanno rumore (trombone, fanfarone, sbruffone),
esagerano nel descrivere le proprie imprese o capacità (millantatore),
mettono il loro Ego, le loro opinioni, le loro imprese davanti a tutti (spandi merda. presuntuoso),
stanno a petto in fuori (gasato, pallone gonfiato, impettito)
pretendono che tutto sia dovuto e di non sottostare alle regole (arrogante),
sanno sempre tutto loro (cacasentenze),
disprezzano, ignorano o calpestano gli altri (strafottente, sprezzante, puzzone).
D’altronde, chi si comporta da persona superiore ci fa sentire automaticamente inferiori, e questo non è mai piacevole: la nostra autostima si fonda anche sulla stima che riceviamo dagli altri. “Ma chi si crede d’essere?” è la reazione più immediata di fronte a un altezzoso.
Nessuno, però, può dirsi immune da questi comportamenti perché l’Ego, la nostra identità, si forma in un difficile equilibrio fra ciò che siamo (e crediamo di essere), e i riscontri che ci arrivano dagli altri, che possono rinforzare o contraddire la nostra percezione e mandarci in crisi, mostrarci dolorosamente i nostri limiti – a meno che li rifiutiamo in blocco.
Gli insulti ai superbi e vanitosi ci ricordano, anche a brutto muso, tutto questo. Ho raccolto tutti i termini, in due macro categorie: quelli rivolti a chi si sente superiore, e quelli per chi si vanta. Sono tutti termini con una connotazione negativa (evocano, cioè, immagini o emozioni sgradevoli), ma non tutti sono di registro volgare: gli insulti veri e propri li ho evidenziati in grassetto. Potete leggere le parti che vi interessano cliccando sul + dei box azzurri.
Verdone nei panni di Armando Feroci, tipico “galletto”.
In tutto ho trovato 54 espressioni, che ho suddiviso per tipologie (con le inevitabili approssimazioni): atteggiamenti fisici (8), metafore di esagerazione (17), comportamenti eccessivi (22) e atteggiamenti mentali (7).
Sono dunque i comportamenti a qualificare i superbi: disprezzano gli altri, fanno i saccenti, fanno rumore, si mettono sopra o prima degli altri. Sono pieni di sé, hanno sempre ragione loro, guardano tutti dall’alto in basso. Tant’è vero che sono soprattutto i comportamenti e le esagerazioni gli aspetti più colpiti attraverso l’uso di termini volgari. Sono comunque tutti termini con connotazione negativa, e diversi sono spregiativi.
Da notare che diversi termini sui superbi sono per lo più rivolti ai maschi (bauscia, faraone, fanfarone, galletto, bulletto, spaccone, gradasso, spaccone): segno che questo tratto “testosteronico” è considerato più tipico degli uomini che delle donne.
Dopo aver letto questi termini, mi sono domandato: qual è l’opposto della superbia? Spesso gli insulti sono costruiti come coppie di contrari, entrambi offensivi. Ad esempio, della corporatura si insultano i due estremi opposti, panzone/mingherlino. Nel caso della superbia, bisogna cercare gli opposti della sicurezza, della sfacciataggine, della onnipotenza. In molti casi sono difetti altrettanto negativi: arrendevole, dubbioso, esitante, impacciato, incerto, indeciso, insicuro, irresoluto, sfiduciato, sfigato, sottomesso, tentennante. Ma alcuni (alla mano/alla buona, dimesso, discreto, mansueto, mite, modesto, moderato, pudico, riservato, schivo, timido, umile, vergognoso) raccontano un’altra verità, ovvero che fra i due estremi (eccessiva sicurezza di sé / scarsa sicurezza di sé), il secondo è meno grave, anzi, in molti casi è un pregio: quando incontriamo una persona davvero modesta, alla mano, discreta la apprezziamo istintivamente. Come dice il Vangelo: gli ultimi saranno i primi, chi si umilia sarà esaltato (mentre “chi si loda s’imbroda”: chi si vanta in modo eccessivo rischia di fare cattiva figura).
Una felpa con scritta “La superbe”. Essere superbi va di moda.
In francese, ma anche in italiano, l’aggettivo superbo può essere usato anche in senso positivo: come sinonimo di grandioso, imponente, eccellente. Possiamo definire superba una cattedrale gotica, un grattacielo, una lasagna al forno… Perché? Perché riconosciamo questa eccellenza come limitata a quel particolare aspetto (l’imponenza, la qualità eccelsa) di un oggetto, scrive acutamente la professoressa Bazzicalupo. Siamo disposti a riconoscere l’eccellenza smisurata delle opere, ma non possiamo attribuirla all’uomo che ne è l’artefice. La natura pone limiti agli esseri viventi; se qualcuno eccede quei limiti infrange l’ordine naturale ed è degno di condanna. Le opere o la performance di qualcuno sono “superbe” solo in quello. Infatti, quando si parla di uomini che hanno realizzato opere “superbe”, ci affrettiamo a citare anche i loro difetti: i tradimenti di Picasso, la volgarità di Mozart, e così via.
Meryl Streep nei panni di Miranda Priestly, tirannica direttrice nel film “Il diavolo veste Prada”.
Per gli esibizionisti, i termini si dividono esattamente a metà fra quelli che condannano la vanità (11) e quelli che stigmatizzano l’eccessivo gusto per l’apparenza estetica (11). I primi sono più offensivi dei secondi, e fanno la caricatura di chi tenta in ogni modo di mettersi in mostra. I vanitosi sono paragonati anche ad animali (civetta, coquette, pavone).
In queste liste spicca la presenza di termini esclusivamente femminili (civetta, coquette, squinzia, smorfiosa), perché la civetteria è considerata un tratto più tipico delle donne. I termini riguardanti l’eccessiva eleganza, invece, sembrano più rivolti al genere maschile (bellimbusto, cicisbeo, damerino, dandy, gagà): una critica alla ricercatezza negli abiti che è tollerata per le donne, ma meno per i maschi.
E qual è il difetto opposto alla vanità? I termini esprimono per lo più un giudizio negativo (arruffato, barbone, castigato, cialtrone, dimesso, disadorno, disordinato, malmesso, negletto, poveraccio, sciamannato, sciatto, severo, sgualcito, spoglio, straccione, terra terra, trasandato, trascurato) che positivo (essenziale, frugale, misurato, sobrio, semplice, senza pretese, spartano). A conferma che, in qualche modo, l’abito fa il monaco: o, se preferite, anche l’occhio vuole la sua parte.
The post Fighetti, sboroni e altri che se la tirano first appeared on Parolacce.]]>Il presidente Usa Joe Biden disegnato come Pinocchio da un gruppo di lavoratori autonomi che gli contesta varie promesse mancate.
“Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura retorica dell’antonomasia, che consiste nell’attribuire il nome di un personaggio famoso a una persona con caratteristiche simili. Sei un bugiardo? Ti paragono al mentitore per eccellenza, la sua personificazione: Pinocchio.
In italiano questi lemmi sono circa 2mila (da mongolfiera a daltonico, dal sandwich al bikini), e fra loro ho censito anche 63 termini offensivi, usati per la loro capacità di evocare caratteristiche negative.
Avevo già parlato in questo articolo di alcuni insulti dello stesso genere: quelli derivati da toponimi (nomi di luogo, regioni, città: beota, lesbica e così via) o da etnonimi (nomi di popolazioni: zingaro, vandalo, etc). Ora è il turno delle offese derivate da nomi di persone, sia realmente esistite oppure immaginarie. In ambo i casi il passaggio da nome proprio a nome comune comporta una perdita di specificità: un nome proprio si riferisce a un solo individuo, mentre un nome comune ne indica molti. Tant’è vero che spesso il nome proprio, una volta entrato nel vocabolario, perde l’iniziale maiuscola. Un altro aspetto interessante di questi termini, è che riferendosi a personaggi specifici, è più facile individuare l’epoca in cui questi insulti sono nati.
Alvaro Vitali nei panni di Pierino (1982)
Come funzionano i deonomastici? Si estrapolano alcune caratteristiche della persona (l’aspetto fisico, il comportamento, la mentalità) per indicare quanti possiedono queste medesime qualità. Si condensa l’identità di una persona in una sua caratteristica: l’avarizia per Arpagone, l’aggressività selvaggia per il cerbero.
Un passaggio, questo, che è comprensibile solo se si hanno le basi culturali per capire il riferimento: definire un avvocato “azzeccagarbugli” o un politico “gattopardo”, sono offese che arrivano a destinazione se si conoscono i romanzi di Alessandro Manzoni e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Ecco perché, in genere, questi insulti hanno una carica offensiva minore o ridotta rispetto a quelli derivati da altre metafore: in gran parte dei casi si tratta di spregiativi, più che di insulti a pieno titolo. A parità di significato, “maccabeo” è molto più debole di “coglione” quanto a carica insultante ed espressiva. Ma restano pur sempre offensivi: tanto che molti di loro (lanzichenecco, masaniello, torquemada, barabba, Giuda, megera, cassandra, cerbero, azzeccagarbugli, donchisciotte, Pierino, arpagone) sono stati oggetto di querela, e spesso hanno comportato una sentenza di condanna verso chi li ha pronunciati, come ha rilevato una ricerca dell’avvocato cassazionista Giuseppe D’Alessandro (che ha da poco pubblicato un agile dizionario degli insulti).
Ho raccolto gran parte di questi 63 termini nel libro “Dalie, dedali e damigiane, dal nome proprio al nome comune” di Enzo La Stella (Zanichelli); altri li ho ricavati dai libri di D’Alessandro. In questa raccolta mi sono limitato ai lemmi presenti nel dizionario (lo Zingarelli 2025).
La maggior parte dei personaggi (54%) sono stati scelti come metafore svilenti per il loro modo di comportarsi (violento, fastidioso, disonesto), seguito dagli insulti di classe (14%) , mentali (12,5%) fisici e sessuali (a pari merito con 9,5%). Dunque, è il comportamento, più che l’aspetto fisico o la posizione sociale a identificarci e qualificarci? L’ipotesi è suggestiva, ma per affermarla con certezza occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli delle altre lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese….) per vedere se anch’esse privilegiano questo aspetto nel coniare i termini deonomastici.
Tornando all’italiano, quali fra questi 63 appellativi deonomastici sono i più pesanti? A mio parere: giuda, teppista, arpia, caino, megera, pulcinella, lazzarone e messalina.
E voi li conoscete tutti? E sapete anche qual è la loro origine, ovvero quale personaggio (storico o immaginario) li ha ispirati?
Mettetevi alla prova: per sapere le risposte basta cliccare sulle strisce blu.
Il bacio di Giuda (Cimabue, XIII sec:)
Sono la categoria più numerosa, perché indicano aspetti molto diversi del carattere: dalla parsimonia all’aggressività, dalla maleducazione all’inganno: arpagone, attila, barabba, barbablù, cacasenno, cagliostro, caino, cassandra, cerbero, donchisciotte, fariseo, fregoli, furia, gattopardo, giacobino, giuda, gradasso, hooligan, lanzichenecco, manigoldo, maramaldo, masaniello, paolotto, pierino, pinocchio, pulcinella, qualunquista, squinzia, santippe, torquemada, teddy boy, teppista, vitellone
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Il fotoreporter Barillari si definisce paparazzo
Prendono di mira gli appartenenti a una classe sociale (spesso umile): azzeccagarbugli, cenerentola, fantozzi, gaglioffo, galoppino, lazzarone, paparazzo, stacanovista, travet
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Il Cottolengo a Torino
Sono offese sulle facoltà mentali considerate insufficienti, inadeguate, compromesse: bacucco, barbagianni, beghina, calandrino, cottolengo, maccabeo, mammalucco, manicheo
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Orco al Parco dei mostri a Bomarzo
Prendono di mira l’aspetto fisico e in particolare gli acciacchi (fisici, ma spesso anche psicologici) dell’età: arpia, baggina, befana, carampana, megera, orco
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Film di Kubrick (1962)
Sono la categoria meno rappresentata: assatanato, lolita, maddalena, messalina, onanista, sardanapalo
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Lesbica, mongolo, portoghese: quando un Paese diventa un insulto
Striscione offensivo dei tifosi del Pescara contro quelli dell’Ascoli
E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, rumeno), in inglese e nelle lingue dell’est, dal russo al cinese, oltre all’arabo e diverse altre.
In italiano gli insulti alla madre sono una quarantina ed esprimono una fantasia molto malevola. Perché sviliscono, con immagini ripugnanti o sessuali, la figura più sacra: la persona che ci ha trasmesso la vita. Un colpo dinanzi al quale nessuno può restare indifferente: come ha ricordato papa Francesco (paragonando il sentimento religioso con l’attaccamento alla madre), «Se il dottor Gasbarri, un grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. E’ normale». Come diceva il comico toscano Francesco Nuti «Te la mi’ mamma tu la lasci stare, va bene?».
Questo genere di insulti ha influenzato non soltanto i modi di dire, ma anche le culture: le battaglie rap consistono spesso nell’improvvisare rime offensive sulla madre di un’altra persona (“yo mama…“, “tua madre…“), in una sfida che rappresenta non solo un duello linguistico e simbolico, ma è anche un rito di affiliazione fra giovani, come racconterò più avanti. Pensate che in russo il gergo volgare si chiama proprio “Mat”, termine che deriva dalla stessa radice di “madre” (dall’espressione “yob tvoyu mat”, «fotti tua madre»).
Battaglia rap a suon di insulti alla madre: è uno show in Australia
Nella nostra lingua gli insulti alla madre sono più numerosi nei dialetti, per lo più del Sud: in italiano ci sono 5 espressioni, contro le 36 fra: napoletano (11), veneto e friulano (8), sardo (6), toscano (3), pugliese (3), siciliano e calabrese (2) e lombardo (1). Un’ulteriore prova che si tratta di offese molto antiche: infatti le dicevano anche Cicerone e Shakespeare. Degno di nota il fatto che prevalgono le espressioni di tipo incestuoso: rappresentano metà delle locuzioni censite.
Gli insulti alla madre sono uno dei 4 temi universali (cioè diffusi in ogni cultura) delle parolacce insieme agli insulti fisici, alle espressioni oscene e ai termini escrementizi. E sono offese del tutto particolari perché colpiscono una persona non direttamente, ma offendendone un’altra: una sorta di vendetta trasversale. Una strategia molto efficace, visto il rapporto così intimo e profondo con la figura materna. Insomma, la mamma è anche…. la madre degli insulti.
Come nasce questa usanza? E come si manifesta, in italiano e in altre lingue?
Locandina di Eleazaro Rossi, comico.
L’espressione “figlio di puttana”, con le sue diverse varianti, è presente in tutte le lingue: inglese (son of a bitch), francese (fils de pute, Ta mère la pute), tedesco (hurensohn), spagnolo (hijo de puta), portoghese (filho da puta), rumeno (Fiu de curvă) arabo (Ibin Sharmootah: la puttana di tua madre), russo (Сукин сын). In cinese si usa l’espressione 王八蛋(wáng bā dàn) che significa letteralmente “uovo di tartaruga”: dato che la tartaruga abbandona le uova dopo averle covate, l’espressione denota un figlio di madre ignota (mignotta per l’appunto: vedi sotto), nato da una relazione extraconiugale. Ma ci sono anche due altre spiegazioni: un tempo si pensava che le tartarughe concepissero solo con il pensiero, rendendo impossibile ricostruire la paternità della prole (dunque, in questo caso, “figlio di padre ignoto”). Oppure, secondo un’altra interpretazione ancora, all’origine dell’espressione c’è la somiglianza fra la testa della tartaruga che esce dal guscio e il glande che emerge dal prepuzio: l’espressione indica quindi una donna che ha perso la virtù.
In spagnolo esistono anche altri modi pittoreschi per dirlo: “anda la puta que te pari” (Torna dalla prostituta che ti ha partorito) e “tu puta madre en bicicleta”, ovvero “tua madre puttana in bicicletta”.
In Italiano è una delle espressioni considerate più offensive dopo le bestemmie (e a pari merito con “succhiacazzi”), secondo la mia ricerca sul volgarometro. Ed è l’offesa che raccoglie più denunce e processi, secondo uno studio.
Perché? Per motivi giuridici, sociali e psicologici.
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Questo genere di insulti sono un retaggio della cultura patriarcale? Secondo Francine Descarries, femminista e docente di sociologia all’Université du Québec à Montréal, la risposta è sì: «Le donne sono sempre state considerate proprietà degli uomini, siano esse figlie, mogli o madri. Attaccare la madre significa contaminare la proprietà dell’uomo. Quindi, quando insultiamo la madre di un uomo, attacchiamo i suoi beni, proprio come i suoi vestiti o la sua casa».
La testata di Zidane a Materazzi: l’artista algerino Adel Abdessemed ne ha fatto una statua.
In effetti, ricordate perché Zinedine Zidane diede una testata a Marco Materazzi, giocandosi così la finale dei Mondiali di calcio 2006? Perché Materazzi gli aveva detto: “Non voglio la tua maglia, preferisco quella puttana di tua sorella”.
L’ipotesi ha del vero: nessuno nega il peso del maschilismo nella nostra cultura. Tuttavia, in questo caso, c’è una ragione molto più immediata, come evidenzia la psicologia: la madre è l’affetto più profondo che abbiamo, la fonte delle nostre sicurezze, le nostre radici. Non solo gli uomini, ma anche le donne si sentirebbero offese se qualcuno denigrasse la loro madre. E, in ogni caso, insultare i familiari di qualcuno è, in generale, un’offesa pesante: tant’è vero che in napoletano si offende non solo la madre (“mamm’t”), ma anche la sorella (“soreta”), il padre (“patete”), o il fratello (“frateto”). Toccare i rapporti di sangue, quelli più stretti, fa sempre male. Del resto, non condividiamo con loro parte del nostro patrimonio genetico?
Gli insulti alla madre sono molto antichi: già Plutarco, nella “Biografia di Cicerone” ricorda la battuta di quest’ultimo a Metello Nepote che gli chiedeva “Chi è tuo padre?”. Cicerone gli rispose: “Nel tuo caso,” disse Cicerone, “tua madre ha reso la risposta a questa domanda piuttosto difficile.”
E nel “Timone d’Atene” William Shakespeare inserisce questo dialogo:
PITTORE – Sei un cane!
APEMANTO – Della mia stessa razza è tua madre: che altro potrebbe essere quella che ha fatto te, s’io sono un cane?
In questa categoria ho censito 11 espressioni:
“5 figli di cane”, film di gangster del 1969
figlio della colpa: figlio nato al di fuori del matrimonio, fra conviventi o adulteri
figlio della serva: persona considerata inferiore per nascita e trattata di conseguenza, anche in modo sgarbato e villano. Usato soprattutto in senso figurato per chi viene emarginato da un gruppo, o trattato con minor considerazione rispetto agli altri.
figlio di nessuno: trovatello, o figlio naturale. Era usato anche come insulto o con valore spregiativo. In senso figurato, anche bambino molto trascurato dai genitori.
figlio di puttana (dal latino puta, fanciulla) / di troia (femmina del maiale, sozza fisicamente e moralmente) / di zoccola (femmina del topo di fogna, notoriamente prolifica. Ma può derivare dal fatto che nel 1700 le prostitute dei quartieri spagnoli indossavano le stesse scarpe vistose, con alti zoccoli, delle nobildonne, che li usavano per non sporcare di fango le loro vesti) / di baldracca (da Baldacco, antico nome di Baghdad. Era anche il nome di un’osteria di Firenze frequentata dalle meretrici) / di mignotta (un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all’anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M.Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d’insulto) / di bagascia (dal francese bagasse, “serva” o “fanciulla”)
figlio d’un cane: l’espressione è equivalente a “figlio di puttana”, ma aggiunge una valenza spregiativa il riferimento all’animale (considerato inferiore all’uomo) considerato vile, crudele e comunque inferiore all’uomo. In inglese “son of a bitch” significa letteralmente “figlio di una cagna”: i cani sono disprezzati per il fatto di avere rapporti sessuali davanti a tutti e con partner diversi
In napoletano:
figlio’ e’ ntrocchia: figlio di puttana. La parola ntrocchia deriva dal latino “antorchia”, torcia: nell’antichità le prostitute giravano di notte in strada con una torcia accesa per attirare clienti. L’equivalente di “lucciola”, insomma. L’espressione può essere usata anche in senso ammirativo (vedi prossimo riquadro)
chella puttan ‘e mamm’t: quella puttana di tua madre
In veneto, friulano:
tu mare putana: tua madre puttana
tu mare grega: “grega” significa “greca”, donna straniera: spesso le prostitute dei bordelli erano di origine straniera, e in friulano “grego” designa anche una persona infida, doppia
In siciliano:
‘dra pulla i to matri: quella puttana di tua madre
figghiu d’arrusa / buttanazza: figlio di puttana
L’attore Samuel L. Jackson fa spesso il motherfucker, un tipo tosto.
L’espressione “figlio di puttana”, oltre a indicare i figli delle prostitute, designa anche una persona spregevole e priva di scrupoli che compie azioni disoneste: i figli delle prostitute, del resto, crescevano per strada, o senza un’educazione, e spesso vivevano di espedienti per riuscire a cavarsela.
Al punto che l’espressione “figlio di puttana” (e in napoletano “figl ‘e ndrocchia” e “figl ‘e bucchino”) può essere usata, in modo scherzoso, anche come complimento: indica chi riesce a cavarsela nelle situazioni difficili grazie a un’abilità spregiudicata. E questo vale anche per l’espressione spagnola “de puta madre”, di madre puttana, che però è usata come rafforzativo enfatico: equivale al nostro “della Madonna”, “cazzuto”, “molto figo”, “da paura”: come dire, figlio di una madre spregiudicata e tosta. Anche l’espressione inglese “motherfucker” (letteralmente: uno che si fotte la madre, ovvero “uno capace di fottere sua madre”) significa “persona meschina, spregevole o malvagia” o si può riferire a una situazione particolarmente difficile o frustrante. Ma può essere usato anche in senso positivo, come termine di ammirazione, come nell’espressione badass motherfucker (acronimo: BAMF), che significa ”persona tosta, impavida e sicura di sé”.
In spagnolo la “concha” è la conchiglia, ma qui significa vulva.
Gli insulti alla figura materna possono utilizzare una variante se possibile ancora più offensiva: quella che evoca la sessualità della madre. Giocano, cioè, sul tabù dell’incesto, il più forte e antico: evocando la sessualità della propria madre costringono il destinatario dell’insulto a un pensiero altamente sgradevole, ripugnante e imbarazzante. Un “incantesimo” verbale pesantissimo, innescato evocando i suoi genitali, gli atti sessuali o una vita sessuale dissoluta. Il sesso evoca sempre la nostra natura animalesca, dalla quale cerchiamo sempre di prendere le distanze: a maggior ragione nei rapporti affettivi che non hanno (e non devono avere) risvolti erotici.
Dunque, abbinare pensieri osceni alla figura materna è un’arma linguistica micidiale, ed è presente in molte lingue: oltre al già ricordato russo “Ёб твою мать” (“yob tvoyu mat”, scopa tua madre, all’origine del “mat”, il gergo volgare), c’è l’albanese “të qifsha nënën” (mi fotto tua madre) o “Mamaderr” (Tua mamma è una maiala) e l’arabo “Kos immak” (La figa di tua madre) e Nikomak (scopa tua madre). E anche il rumeno “Dute-n pizda matii“, torna nella figa di tua madre, e il cinese ha due espressioni per “scopa tua madre”: 屌你老母 (diu ni lao mu, cantonese) e 操你妈 (cao ni ma, mandarino). E il persiano: Kiram tu kose nanat, ovvero “il mio cazzo nella figa di tua madre”, Madar kooni “tua madre è lesbica”, Kos é nanat khaly khoob hast “La figa di tua madre è buona”, Sag nanato kard “Un cane ha scopato tua madre”, Pedarbozorget nanato kard “Tuo nonno ha scopato tua madre”, Nanat sag suk mizaneh “Tua madre fa pompini ai cani”, Molla nanato kard “Un mullah (teologo) ha scopato tua madre”, Madareto kardam “Mi sono scopato tua madre”, Kiram to koone nanat “il mio cazzo nel culo di tua madre”.
In francese c’è “nique ta mère” (scopa tua madre) e “Ta salope de mère” (quella maiala di tua madre), in spagnolo “(vete a) la concha de tu madre” (vai nella figa di tua madre), “Chinga tu madre” (“Scopa tua madre”), “Tu madre culo” (“Il culo di tua madre”). E in finlandese c’è l’espressione “Äitisi nai poroja” che significa “Tua madre scopa con una renna”: ogni cultura adatta gli insulti al proprio contesto.
E’ la categoria più numerosa, con 20 espressioni:
In veneto:
“A fess d mamt”, un brano disco degli Impazzination (2012).
quea stracciafiletti de to mare: quella strappa frenuli (del prepuzio) di tua madre
va in figa de to mare / va in mona: vai nella figa di tua madre, ovvero: torna da dove sei venuto. E’ usato anche in modo bonario, come sinonimo di “Ma và a quel paese”
quea sfondrada de to mare: quella sfondata di tua madre
chea rotinboca de to mare: quella rottinbocca di tua madre
va in cùeo da to mare: và nel culo a tua madre.
In mantovano:
cla vaca at ta fàt: quella vacca che ti ha fatto
In toscano:
la tu mamma maiala / la maiala di tu mà: tua madre maiala
In napoletano:
a fess d mam’t: la figa di tua madre (usato anche come esclamazione di disappunto, o per mandare qualcuno a quel paese)
bucchin e mamt: la bocchinara di tua madre
mocc a mamm’t / vafammocc a mamm’t: in bocca a tua madre / vai a farti fare un rapporto orale da tua madre
‘ncul a mamm’t: in culo a tua madre
figl’e bucchino (figlio di un rapporto orale): persona scaltra e senza scrupoli capace di cavarsela in ogni situazione
In pugliese:
La birra “De puta madre”, una Ipa tosta.
lu piccioni spunnatu di mammata: la figa sfondata di tua madre
a fissa i mammeta : la figa di tua madre
In calabrese:
Fiss’i mammata: la figa di tua madre
In culu a memmata e a tutta a razza da tua: In culo a tua madre e a tutta la tua famiglia
In sardo:
mi coddu cussa brutta bagass’e mamma: Mi fotto quella brutta puttana di tua madre
t’inci fazzu torrai in su cunnu: Ti faccio tornare nell’apparato riproduttivo di tua madre
su cunnu e mamma rua: La figa di tua madre
su cunnu chi ta cuddau a sorri tua baggassa impestara luride e’merda: La figa che ti ha partorito a te e a tua sorella impestata lurida di merda
su cunnu chi ti ndà cagau: La figa che ti ha cagato
sugunnemamarua bagassa, babbu ruu curruru e caghineri coddau in culu e in paneri de su figllu de su panettieri: La figa di tua mamma bagascia e tuo padre finocchio inculato dal figlio del panettiere
“Yo mama”, film del 2023 su un gruppo di mamme che si mettono a rappare.
Le offese alla madre non sono soltanto di tipo sessuale. Esistono anche insulti generici usati per ferire la persona infangando l’immagine della madre. Un atteggiamento piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza, con frasi del tipo “tua madre è brutta”, “tua madre è cicciona”. E questa abitudine sta anche alle origini del rap: la battaglia rap, in particolare, è un duello verbale in rima nei quali gli avversari si fronteggiano improvvisando insulti sempre più spinti sulla madre dell’avversario con la formula “Yo mama” (“your mama”, tua madre). Questa tradizione deriva dalle “dozzine”, duelli d’insulti di origine africana, ma diffusi anche in diverse altre culture. Ma le “dozzine” non sono soltanto un duello verbale nel quale i partecipanti devono mostrare la propria abilità linguistica cercando di sconfiggere l’avversario con insulti sempre più creativi e pesanti. Secondo gli antropologi Millicent R. Ayoub e Stephen A. Barnett, le dozzine erano anche un rituale per rafforzare i legami fra i coetanei. Una sorta di rito di affiliazione: partecipando, il giovane è disposto a lasciare che altri insultino sua madre senza ritorsioni, in cambio di una più stretta integrazione nel suo gruppo di amici. Solo un rapporto molto intimo fra i partecipanti rende possibile gli insulti reciproci alle madri senza passare alle mani. Secondo il sociologo Harry Lefever, questo gioco potrebbe essere anche uno strumento per preparare i giovani afroamericani ad affrontare gli abusi verbali senza arrabbiarsi. Una sorta di allenamento a sopportare le provocazioni: un possibile effetto secondario rispetto alla sfida di sfidarsi con offese che fanno girare la testa.
Di battaglie rap sulla madre abbiamo anche un celebre esempio italiano: il “Mortal kombat” tra Fabri Fibra e Kiffa nel 2001. Dopo una sequela di insulti di vario genere, Fibra (dal minuto 2:08) inizia a insultare Kiffa dicendo “Tua madre non avvisa / Quando si fa calare a gambe larghe sopra la torre di Pisa”, a cui Kiffa risponde con: “Invece tua madre è troppo brava / L’ho vista conficcarsi la Mole Antonelliana”, e così via in un crescendo sempre più osceno e crudo (siete avvisati):
Oltre che nel rap, gli insulti alla figura materna sono diffusi a ogni latitudine. In spagnolo ci sono espressioni fantasiose come “Tu madre tiene bigote” (Tua madre ha i baffi) , o “Me cago en la leche que mamaste” (cago nel latte che hai succhiato dal seno di tua madre). In giapponese c’è l’espressione Anata no okaasan wa kuso desu (Tua madre è un pezzo di merda). In persiano “Madar suchte“, Tua madre è bruciata all’inferno, e Nane khar “Tua madre è un’asina”.
Lo scrittore Lu Xun.
Gli insulti sulla madre sono molto diffusi anche in Cina. Già nel 1925 lo scrittore Lu Xun (1881-1936) osservava: «Chiunque abiti in Cina sente spesso dire “tāmāde” (他妈的 = tua madre) o altre espressioni abituali del genere. Credo che questa parolaccia si è diffusa in tutte le terre dove i cinesi hanno messo piede; la sua frequenza d’utilizzo non è inferiore al più cortese nǐ hǎo (ciao). Se, come alcuni sostengono, la peonia è il “fiore nazionale” della Cina, possiamo dire, allo stesso modo, che “tāmāde” ne è il “turpiloquio nazionale”».Secondo Xun, attaccare la madre era un modo per mettere in discussione non solo la reputazione, ma anche il prestigio sociale delle classi altolocate, che basavano il loro potere e prestigio sugli antenati: annientando questi ultimi, con espressioni come “discendente di madre schiava”(而母婢也), “sporco figlio dell’eunuco” (赘阉遗丑), scompare anche il prestigio dei presenti. «Se vuoi attaccare il vecchio sistema feudale, prendere di mira i lignaggi nobiliari è davvero una strategia intelligente. La prima persona ad aver inventato l’espressione “tāmāde” può essere considerata un genio, ma è un genio spregevole».
In italiano non ho trovato frasi fatte con espressioni denigratorie sulla madre. Ce ne sono 8, invece, in alcuni dialetti:
In napoletano:
Tua madre è così grassa: è uno degli insulti contro la madre
chella pereta / loffa ‘e mammeta: quella scorreggia di tua madre
chella zompapereta ‘e mammeta: quella salta scorregge di tua madre: appellativo rivolto alle donne popolane e volgari, o anche alle prostitute
chella latrina / cessa ‘e mammeta: quel cesso di tua madre
chella cessaiola / merdaiola ‘e mammeta : quella lava gabinetti di tua madre
In veneto:
to mare omo: tua madre è un uomo
Una particolare variante degli insulti materni riguarda evocare la morte della madre oppure insultare i suoi defunti, anche in questo caso nei dialetti:
In livornese:
budello cane di tu madre morta: budella da cane di tua madre morta
il budello de tu ma: le budella di tua madre
In pugliese:
l’ murt de mam’t: i morti di tua madre
E tu, conosci altri modi di dire con insulti alla madre? Scrivilo nei commenti e aggiornerò l’articolo.
Ringrazio Lina Zhou per la preziosa traduzione dell’articolo di Lu Xun.
Ho parlato di questa ricerca a Radio Deejay, ospite della trasmissione “Il terzo incomodo” condotta da Francesco Lancia e Chiara Galeazzi. Qui sotto l’audio dell’intervento:
Insegnante dice parolacce a lezione (Dall-E)
Funzionano le parolacce a scuola? Nei mesi scorsi, mentre tenevo il workshop “Parolacce e comunicazione” all’università Iulm di Milano, alcuni lettori di questo blog (insegnanti compresi) mi hanno rivolto questa domanda. Avevo già affrontato l’argomento in un articolo di qualche anno fa. Ne parlo di nuovo oggi, alla luce delle ricerche uscite nel frattempo.
Parto da una considerazione di fondo: non c’è, e non può esserci, una risposta univoca alla domanda se sia efficace usare il turpiloquio a lezione, perché è troppo generica. Le “parolacce”, infatti, includono un ventaglio di espressioni che vanno dagli insulti alle espressioni colloquiali, dalle oscenità alle imprecazioni: in questa categoria, insomma, rientrano espressioni bonarie e spiritose ma anche offese molto pesanti. Come dico sempre, le parolacce sono come coltelli: si possono usare per ferire ma anche per sbucciare una mela.
Ed è troppo vago anche il pubblico dei destinatari: gli studenti possono andare dai 6 ai 24 anni d’età, dalla prima elementare all’università: persone con sensibilità e maturità emotiva molto diverse fra loro. Sarebbe inaccettabile usare espressioni oscene con bambini di prima elementare, così come sarebbe fuori luogo utilizzare l’umorismo infantile “da gabinetto” con un pubblico di 20enni.
Resta il fatto che il turpiloquio è un linguaggio molto potente, e sarebbe troppo sbrigativo limitarsi a censurarlo in un’epoca come la nostra, in cui le parolacce sono onnipresenti e destano meno scandalo d’un tempo. A maggior ragione se ci si rivolge a un pubblico di adolescenti, che sono – da sempre – i più scurrili: il linguaggio sboccato potrebbe essere una via diretta per entrare in confidenza con loro.
In generale, secondo le ricerche, usare un linguaggio volgare è una scelta a due facce: non è mai completamente vantaggiosa, ma neppure totalmente svantaggiosa. A seconda di come viene attuata, infatti, può avere effetti positivi o negativi. Ecco quali:
effetti positivi | effetti negativi |
---|---|
il turpiloquio è un linguaggio sincero, diretto e spontaneo (se usato abitualmente e non come atteggiamento costruito “a tavolino” per strizzare l’occhio al pubblico) | fa perdere autorevolezza |
accorcia le distanze, creando un clima confidenziale e informale | fa apparire meno competenti / professionali |
attira l’attenzione | fa apparire incapaci di controllarsi |
Gli insegnanti, ma anche i comunicatori, i formatori, chi tiene una conferenza, dovrebbero sempre tener presente questa tabella quando valutano se usare o meno il linguaggio scurrile. Ci sono “pro e contro” in ogni caso: la differenza la fa il “perché” e il “come” sono usate. Ovvero, gli scopi comunicativi. Come ricorda Emily Mullins della Wichita State University «le parolacce non sono in sè un problema: tutto dipende dall’intenzione con cui sono utilizzate». O, come diceva Italo Calvino, le parolacce possono dare un particolare effetto musicale nella “partitura” del discorso: quindi, sono efficaci se al servizio di una narrazione, di un preciso scopo comunicativo.
Ma oltre all’efficacia, c’è anche un altro aspetto di cui tenere conto quando si parla di parolacce a scuola: l’opportunità. L’insegnante è un educatore, e come tale deve dare il buon esempio: dire parolacce rischia di minare gli intenti educativi e la propria autorevolezza. Dunque deve essere un’eccezione e non la regola: una scelta che va commisurata all’età e alla maturità degli studenti, per non rischiare sgradevoli equivoci o che degeneri il clima in classe. Possiamo affermare, in termini generali, che la scelta di dire parolacce a scuola sia diseducativa in modo inversamente proporzionale all’età degli studenti: ovvero, è tanto più diseducativa quanto più è giovane l’età degli studenti.
Parolacce in una conferenza (Dall-E)
Che cosa hanno scoperto gli studi sull’uso delle volgarità a lezione? Gli insulti («asino») e le maledizioni («vaffa») hanno effetti negativi perché sono aggressivi e umiliano il destinatario, abbassandone l’autostima. Dirli in modo bonariamente ironico ne attenuerebbe l’offensività, ma sono sempre un azzardo da evitare.
Le imprecazioni (“porca vacca”), rivolte a se stessi o agli strumenti di lavoro, danno un’immagine di aggressività e di “incontinenza emotiva” e sono percepite in modo negativo se sono reiterate. Un conto è imprecare perché un libro voluminoso ti cade sul piede, un altro è imprecare come un marinaio ogni volta che la lavagna luminosa non funziona.
«Gli insegnanti non dovrebbero imprecare davanti gli studenti per mostrare la loro frustrazione, poiché questo comportamento può essere visto come aggressivo. E l’aggressività degli insegnanti è negativamente associata all’apprendimento e alla soddisfazione degli studenti», sottolinea Mark Generous, docente di comunicazione alla California State Polytechnic University.
Il discorso cambia se lo scopo delle parolacce è quello di fare una battuta umoristica, enfatizzare un concetto, o attirare l’attenzione: in questo caso, le volgarità possono essere percepite in modo positivo. «Le parolacce inserite nel contenuto del corso, per enfatizzare, attirare l’attenzione o rendere più chiaro un concetto sono percepite come più appropriate rispetto ad altre categorie», sottolinea ancora Generous. Con una precisazione importante: le battute di spirito “salaci” rischiano di far sembrare il docente «uno che si atteggia, che vuole cercare di fare il simpatico usando il linguaggio dei giovani»: dunque, meglio non avventurarsi su questo terreno se non si ha un senso dell’umorismo collaudato.
Escludendo insulti e maledizioni, insomma, gli studenti, in genere, «hanno sentito gli insegnanti più vicini dopo che hanno detto una parolaccia. Si sono sentiti più a loro agio nel parlare con l’insegnante sia dentro che fuori la classe», dice Mullins. Le parolacce, come abbiamo detto sopra, se usate con intelligenza accorciano le distanze e creano un clima più informale e spontaneo.
Ci sono parolacce e parolacce. Ma conta di più lo scopo per cui si dicono (Dall-E)
In sintesi, conclude Generous, «mentre l’uso del linguaggio volgare da parte degli insegnanti non è intrinsecamente negativo, la sua percezione da parte degli studenti e l’impatto sul loro apprendimento e benessere emotivo dipendono fortemente dal contesto, dalla funzione e dall’obiettivo delle volgarità. Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli delle possibili implicazioni del loro linguaggio e cercare di mantenere un ambiente di apprendimento rispettoso e incoraggiante».
«Gli insegnanti che scelgono di usare parolacce» aggiunge «dovrebbero farlo con giudizio e con uno scopo chiaro, collegandole al contenuto del corso per enfatizzare, chiarire concetti o attirare l’attenzione».
Non si potrebbe dirlo meglio: non esistono formule preconfezionate, parolacce consentite o proibite in quanto tali (escluse ovviamente quelle più offensive). Esistono invece scopi comunicativi e contesti (le personalità e le età degli studenti) che vanno valutati di volta in volta.
I contesti, come sempre, fanno la differenza. Come gestire il turpiloquio in una scuola che sorge in un quartiere disagiato? Provate a immaginare una classe come quella del film “Io speriamo che me la cavo” (1992). Un’opera di fantasia, per quanto ispirata da alcuni temi raccolti dal maestro Marcello D’Orta fra gli alunni delle elementari di Arzano (Napoli), con un linguaggio insolitamente scurrile. Come comportarsi con una classe del genere? Scandalizzarsi sarebbe ridicolo, ma usare il turpiloquio significherebbe dare un pessimo esempio. E ancor più difficile se ci si trova a insegnare in un carcere minorile.
In tutti questi casi, il turpiloquio è legato a un lessico povero e limitato: la vera sfida, in questo caso, più che strizzare l’occhio alle volgarità, è allargare la prospettiva dei ragazzi, insegnando parole e pensieri alternativi.
Non è semplice studiare il turpiloquio. Le simulazioni (una lezione in cui un finto professore dice parolacce) non sono uno specchio fedele delle vere lezioni in aula, nelle quali l’interazione, il rapporto si costruisce giorno dopo giorno. Le ricerche che hanno trovato i risultati più interessanti sono stati dei “focus group” in cui le persone ricordavano episodi in cui un loro insegnante aveva detto espressioni scurrili. In ogni caso, è bene ricordarlo, i risultati degli studi offrono un quadro parziale su un tema così ampio e complesso.Inoltre, ogni cultura e ogni epoca possono avere sensibilità molto diverse sul turpiloquio. Quello che è inaccettabile per uno statunitense, potrebbe essere accettabile per un italiano e viceversa; ciò che era tabù ieri potrebbe non esserlo più oggi.
Fatte queste distinzioni, ecco i principali studi che ho consultato per scrivere questo post:
Karyn Stapleton “Swearing and perceptions of the speaker: A discursive approach”, Journal of Pragmatics 170 (2020) 381e395
Mark A. Generous, Seth S. Frei, & Marian L. Houser “When an Instructor Swears in Class: Functions and Targets of Instructor Swearing from College Students’ Retrospective Accounts”, Communication Reports Vol. 28, No. 2, July–December 2015, pp. 128–140
Mark A. Generous & Marian L. Houser “Oh, S**t! Did I just swear in class?”: Using emotional response theory to understand the role of instructor swearing in the college classroom”, Communication Quarterly, 67(2), 178–198, 2019
Emily Mullins, “Watch your mouth: swearing and credibility in the classroom”, Bachelor of Arts, Wichita State University, 2020
Italo Calvino ( 1923-1985).
Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha dedicato loro un’acuta analisi che è attuale ancora oggi, anche se sono passati più di 40 anni. Forse può sorprendere che un autore così raffinato si sia dedicato al turpiloquio, ma in realtà è in ottima compagnia, come ho avuto modo di raccontare a proposito di Umberto Eco e molti altri che trovate nel mio libro. Perché le parolacce, come diceva Calvino, possono servire a dare un “effetto speciale” nella partitura del discorso.
Per entrare nel mondo di Calvino, parto con l’analisi del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”: pur essendo stato pubblicato nel 1947, epoca di censure e perbenismo, presenta numerosi termini volgari o offensivi. Non è un caso: la storia, infatti, è ambientata in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana sotto dominio nazifascista. In guerra è più rude anche il linguaggio, e un romanzo realista ne deve tener conto.
Calvino utilizza in tutto 31 espressioni triviali per un totale di 117 volte, includendo anche termini forti come puttana, fottuto, bastardo, cornuto e terrone: mica male! E lo fa inglobando anche alcune espressioni colloquiali e dialettali, tranne il celebre “belin”: scelta insolita per un romanzo ambientato in Liguria.
La scelta stilistica di Calvino è ancor più interessante perché il protagonista del libro è un ragazzo ribelle di 10 anni, Pin, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre. Privo di punti di riferimento, il bambino vive con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, una prostituta che s’intrattiene con i militari tedeschi. Dietro lo sguardo spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, da giovane, aveva lasciato gli studi universitari ed era entrato nella Resistenza, in clandestinità, a contatto con persone di umili origini.
Il romanzo conduce il lettore fin dalle prime righe nei vicoli di un paese ligure, proprio grazie alla spontaneità delle parolacce:
Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. – Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella!
Già nell’incipit troviamo 3 insulti (muso di macaco, rubagalline, materasso, inteso come “grassona”) e una maledizione (ti si seccasse la voce in gola). Ma è Pin l’autore dell’espressione più pesante del romanzo, una sequenza di insulti che avrebbe voluto urlare in faccia ad alcuni clienti dell’osteria a cui stava nascondendo di avere in tasca una pistola: Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!
Una sequenza di alto impatto, costruita con una escalation di insulti in decasillabi quasi perfetti.
Nel ventaglio di espressioni scelte da Calvino per questo romanzo, prevalgono i termini colloquiali e gli insulti: Calvino si tiene alla larga dal lessico osceno, nonostante la sorella di Pin faccia la prostituta. Da segnalare l’assenza di espressioni molto diffuse come “cazzo”, “stronzo”, “coglioni” e “vaffanculo”. Ecco la lista completa delle parolacce presenti nel romanzo:
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Avendo utilizzato a piene mani il turpiloquio nella sua prima opera, Calvino non ha mai avuto un atteggiamento snob o moralista verso le parolacce. Anzi, ne ha fatto oggetto anche di una riflessione molto acuta in un articolo del 1978 (uscito in origine sul “Corriere della sera”, poi raccolto nel saggio “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”). Nonostante siano passati 46 anni, è un’analisi ancora attuale. Calvino afferma che le espressioni triviali hanno un “insostituibile valore” per tre motivi.
Primo: hanno una forza espressiva ineguagliabile, dovuta alle loro connotazioni negative. Le parolacce sono «una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso, parlato o scritto», e la loro espressività è data proprio dal fatto che sono «regressive, fallocentriche o misogine». Inutile tentare di addolcirle, come ricordo spesso: le parolacce nascono come colpi sotto la cintura ed è ingenuo pensare di attenuarle.
Il disprezzo per il sesso che molte espressioni sottendono «ha un senso marcatamente conservatore d’affermazione di superiorità su un mondo inferiore. Prova ne è che il turpiloquio non ha mai liberato nessuno. Direi che, spesso, è vero il contrario».
Ma, per avere questi effetti espressivi, le parole oscene «vanno usate al momento giusto» perché «sono esposte più delle altre a un’usura espressiva e semantica, e in questo senso credo ci si debba preoccupare di difenderle: difenderle dall’uso pigro, svogliato, indifferente. Naturalmente, senza tenerle sotto una campana di vetro, o in un “Parco Nazionale”, come preziosi stambecchi verbali: bisogna che vivano e circolino in un “habitat” congeniale. La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti. Anche nelle altre lingue europee mi pare che le voci equivalenti siano tutte più pallide. Va dunque rispettata, facendone un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra».
Insomma, il turpiloquio è un ventaglio di espressioni a cui dobbiamo ricorrere in quanto «riserva di creatività, non in quanto repertorio di voci infiacchite. La grande civiltà dell’ingiuria, dell’aggressione verbale oggi si è ridotta a ripetizione di stereotipi mediocri. Giustamente ha osservato un linguista che dire “inintelligente” è molto più offensivo che dire “stronzo”». L’osservazione vale a maggior ragione oggi, epoca di grande inflazione delle parolacce in diversi contesti: non solo cinema, radio, giornali e tv, ma anche (e soprattutto) Internet. Anche quando si vuole attaccare una persona o un’idea, si utilizzano le solite espressioni logore, senza fantasia.
Secondo: i termini osceni sono le migliori espressioni se si vuole avere un effetto “denotativo diretto”. Per designare quell’organo o quell’atto meglio usare la parola più semplice, quando si intende parlare davvero di quell’organo o di quell’atto. Le parolacce, insomma, servono a chiamare le cose con il loro nome, sono il linguaggio più diretto. Ma con un’avvertenza, purtroppo non approfondita da Calvino: «la trasparenza semantica di una parola è inversamente proporzionale alla sua connotazione espressiva». Tradotto, significa: se una parola è molto ricca di sfumature emotive di significato, diventa una parola oscura. Un esempio? La parola “cazzo” che, quando non designa l’organo sessuale maschile è usata come sinonimo di nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Finisce così per significare tutto e il contrario di tutto.
Terzo valore delle parolacce: sono una forma di posizionamento sociale. «L’uso di parole oscene in un discorso pubblico (per esempio politico) sta a indicare che non si accetta una divisione di linguaggio privato e linguaggio pubblico. Per quanto comprenda e anche condivida queste intenzioni, mi sembra che il risultato di solito sia un adeguamento allo sbracamento generale, e non un approfondimento e uno svelamento di verità. Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio».
Il che è ancor più valido nella nostra epoca in cui i politici di ogni schieramento, da Bossi in poi, hanno fatto del turpiloquio uno degli aspetti costanti della comunicazione: tutti fanno a gara per apparire informali nel linguaggio e nell’abbigliamento, mentre i contenuti politici passano in ombra.
Calvino torna sulle parolacce anche in una sua opera matura, uno dei suoi capolavori: “Il cavaliere inesistente” (1959). Il romanzo è ambientato all’epoca di Carlo Magno, immaginato a scontrarsi con i Mori, ossia gli islamici. Nel primo scontro fra i due eserciti, Calvino scrive che, nelle prime fasi, quando i nemici entrano in contatto fra loro per la prima volta, vi sia un’armata di interpreti che traducono gli insulti pronunciati in arabo, spagnolo e francese.
Cominciavano i duelli, ma già il suolo essendo ingombro di carcasse e cadaveri, ci si muoveva a fatica, e dove non potevano arrivarsi, si sfogavano a insulti. Lì era decisivo il grado e l’intensità dell’insulto, perché a seconda se era offesa mortale, sanguinosa, insostenibile, media o leggera, si esigevano diverse riparazioni o anche odî implacabili che venivano tramandati ai discendenti. Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario.
– Khar as-Sus! – Escremento di verme!
– Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! Zabalkan! Merde!
Questi interpreti, da una parte e dall’altra s’era tacitamente convenuto che non bisognava ammazzarli. Del resto filavano via veloci e in quella confusione se non era facile ammazzare un pesante guerriero montato su di un grosso cavallo che a mala pena poteva spostar le zampe tanto le aveva imbracate di corazze, figuriamoci questi saltapicchi. Ma si sa: la guerra è guerra, e ogni tanto qualcuno ci restava. E loro del resto, con la scusa che sapevano dire «figlio di puttana» in un paio di lingue, il loro tornaconto a rischiare ce lo dovevano avere.
Una gustosa trovata narrativa, che ci ricorda un aspetto a cui di solito non pensiamo: gli insulti hanno effetto solo nella misura in cui c’è qualcuno che li riceve, li comprende e dà loro un peso. Altrimenti, sono solo fiato sprecato.
Camilleri e le 3.109 parolacce di Montalbano
Leonardo da Vinci: le parolacce di un genio
Mozart e le parolacce musicali
Un poster di “Manifesti abbastanza ostili“
“Non vedere una mazza”. “Non capire un tubo”. “Dire cazzate”. Ci avete fatto caso? Alcune espressioni usano insulti come sinonimi di “niente” e “di scarso valore”. E per esprimere questi concetti così sfuggenti, usano un grande ventaglio di espressioni fantasiose, che ho riunito in questo articolo.
Sono più di 50, e offrono uno sguardo sulle cose che la nostra cultura considera prive di valore. Una prospettiva arbitraria e sorprendente: ci si aspetterebbe che i riferimenti a rifiuti o escrementi siano la categoria più nutrita, visto che sono l’emblema dello scarto. E invece sono più numerosi i riferimenti a oggetti, alimenti e organi sessuali.
Perché usiamo queste immagini? Per esprimere il nostro punto di vista emotivo. Un conto è dire “Con questa nebbia non si vede niente”, ma se dico: “Con questa nebbia non si vede un cazzo (o un cazzo di niente)” esprimo la rabbia e il disprezzo verso la situazione. E do un valore enfatico, rafforzativo alla mia affermazione: “non vedere un cazzo di niente” significa non vedere completamente nulla.
Ho suddiviso i termini di questo tipo in 2 grandi famiglie:
Le espressioni che ho raccolto hanno diversi gradi di offensività: si va dalle parole neutre alle espressioni enfatiche fino ai modi di dire volgari e blasfemi (evidenziati entrambi in rosso).
Come si può nominare il nulla? L’impresa, a ben pensarci, è impossibile: se il nulla non esiste, non possiamo averne esperienza e quindi descriverlo. I termini che lo designano sono: zero, nullità, niente, vuoto, nessuna cosa, alcunché. Ci sono alcuni sinonimi con una valenza più espressiva:i rafforzativi nonnulla, nisba (dal tedesco “nichts”, niente), nullaggine, alcunché, checchessia. Ma nessuno di questi possiede un’espressività adatta a veicolare il disprezzo, la rabbia, insomma: una coloritura emotiva. Perché non rimandano a un’immagine concreta: per evocare il nulla, abbiamo bisogno di dargli una consistenza anche minima. Ecco come.
un fico / fico secco: nel mondo antico, il fico era considerato un cibo da poveri, di scarso valore economico. “Fico secco” è un’allusione a un episodio evangelico (Matteo XXI,18–19): Gesù, avendo fame, vide un albero di fichi, che però erano senza frutti. Allora disse. “Mai più nasca frutto da te, in eterno”. E subito il fico si seccò.
un’ostia: il sottile disco di farina di frumento (impastata con acqua naturale e cotta al forno) che il sacerdote consacra nel sacrificio della messa. E’ quindi un cibo di poco conto, e il suo uso come sinonimo di “nulla” è una forma di blasfemia anti religiosa
un cavolo: è considerato un ortaggio di scarso valore, e la sua sillaba iniziale si presta a farne un sinonimo eufemistico di “cazzo”
(campare) d’aria: non avere nulla da mangiare
un tubo: per la sua forma cilindrica è un sinonimo allusivo di “cazzo”
(non capire / fare) un accidente: l’accidente è la disgrazia fortuita, qui equivale a rafforzare il concetto di “nulla”
una mazza: è un riferimento fallico, equivalente di “cazzo”. Secondo alcune interpretazioni potrebbe essere anche un riferimento al generale Francesco Mazza che nel 1909 fu nominato commissario straordinario per gestire i danni del terremoto di Messina: fece una marea di errori e angherie
una ceppa : la ceppa è la base del tronco di un albero, da cui si dipartono le radici. E’ un riferimento fallico
un corno : riferimento fallico (tant’è che il corno portafortuna ha origine dal fallo, come raccontavo qui)
(essere) carta straccia: scritto o denaro di nessun valore
(non valere) una cica: è la membrana che si trova nell’interno della melagrana, di nessun valore
(non valere) una cicca : mozzicone di sigaretta
(non valere) una cicca frusta: La « cicca » in dialetto milanese è la biglia colorata, in origine di terracotta. Se erano fruste, cioè consumate, non andavano bene.
(non valere) un soldo bucato, non spendibile quindi senza valore
(non valere) un quattrino: moneta di rame di valore infimo
(non capire) un’acca (fam.), in latino l’H, inizialmente si pronunciava aspirata, successivamente, con l’evoluzione della lingua, ha perso questa sua caratteristica aspirazione quando presente e quindi non valere più nulla
(non importare) un ette (fam., in disuso): deriva dalla congiunzione latina “et”, “e”, una parola piccola e di poco valore.
Come definire un oggetto senza valore? I criteri seguiti dalla nostra lingua sono due: la dimensione e l’utilità. In pratica, qualifichiamo qualcosa come così piccola o inutile da essere irrilevante, impercettibile, ininfluente, insignificante.
cosa da niente, cosuccia, coserella
pinzillacchera (dal napoletano pizzillo, pezzettino)
carabattola (lettuccio, oggetto di poco conto)
(contare / valere come il) due di picche: la carta che vale di meno nel mazzo
bazzecola da bazza, carta di poco valore vinta all’avversario
bagattella (da gabbatella, gabbare: oggetto falso), cosa frivola e di poco conto
bubbola, da bubbolo, sonaglio (suono falso)
corbelleria (da corbello, cesto di vimini: eufemismo di coglione)
Film del 1971 diretto da Fernando Merino.
del cazzo / cazzata, belinata, minchiata, bischerata (da bischero, pene; il termine designa il pirolo, legnetto per tendere una corda negli strumenti musicali): il disvalore attribuito all’organo sessuale è usato per esprimere disprezzo
(del) menga: il termine ha un’origine oscura, probabilmente è originato da un effetto di rima nella frase goliardica “è la legge del Menga, chi ce l’ha nel culo se lo tenga”, ovvero ‘chi ha subito un danno lo deve sopportare. L’espressione, da sola, equivale a “del cazzo”
coglioneria, coglionata: atto o cosa da coglioni
fesseria da fessa (fessura): è uno dei rari casi di disprezzo attribuito all’organo sessuale femminile
monata da mona (vulva), vedi sopra.
La celebre recensione di Fantozzi al film “La corazzata Potemkin” (Il secondo, tragico Fantozzi”, 1976)
stronzata, cagata, merdata / di merda
aria fritta: discorso inconsistente al di là delle parole usate
fetecchia: cosa di poco conto (da fetore, flatulenza)
quisquilia: da quisquiliae, immondizia
cavolata / del cavolo (qui usato per eufemismo di “cazzo”)
boiata: (da boj, bollire: vivanda semiliquida): schifezza, porcheria, stupidaggine
baggianata (da baggiana, fava in senso fallico): stupidaggine
giuggiola frutto del giuggiolo buono ma di piccole dimensioni (e ricorda i testicoli)
ostiata: stupidaggine, errore, cosa di poco conto (da “ostia” come cibo di poco conto).
Idea regalo per Natale: un libro di giochi che è tutto un programma.
inezia (da inetto, “incapace”, quindi cosa fatta da un incapace).
sciocchezza / sciocchezzuola, scemenza, stupidaggine, cretinata: atto compiuto da una persona poco intelligente, quindi di nessun valore
puttanata, troiata, vaccata: stupidaggine, sciocchezza (lett.: cosa da donnaccia)
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Cameriere e clienti al “Karen’s diner” a Sydney.
Il più famoso è “La parolaccia” a Roma: un ristorante dove i camerieri usano un linguaggio volgare con i clienti. Ora la formula potrebbe diventare globale: una società australiana ha aperto infatti una catena di 8 ristoranti del genere, “Karen’s diner”, dall’Australia al Regno Unito fino all’Indonesia. Sono gli unici casi o ce ne sono altri? Sì: non molti (se ne conoscete altri, segnalateli nei commenti a fine articolo), e qui vi racconto le loro storie cercando di capire i motivi del loro successo, e a volte di alcune figuracce: insultare un cliente è un azzardo pericoloso, giocato sul filo del rasoio, e occorre uno spirito realmente ironico e giocoso per alleggerirli, altrimenti le offese pesano come macigni.
L’ingresso di Cancio “La parolaccia”.
Partiamo da un punto fermo: la formula del ristorante insultante è stata inventata in Italia, per puro caso (non per marketing) nel 1951. In un’osteria, “Da Cencio” (vezzeggiativo dal nome del titolare, Vincenzo De Santis) aperta 10 anni prima. Qui, una sera, l’attore Massimo Serato aveva sentito per caso la titolare del locale che cantava stornelli popolari sboccati. Serrato, divertito, chiese alla donna se poteva replicare lo show la sera successiva. L’attore si presentò all’osteria con un gruppo di amici vestiti di tutto punto: i camerieri li sbeffeggiarono chiamandoli “pinguini” e passarono un’allegra serata fra stornelli e parolacce.
Massimo Serato
Da allora la sua fama crebbe: vi fu paparazzata la principessa Soraya, moglie ripudiata del re di Persia e fu frequentata da molti attori come Anna Magnani, Alberto Sordi, Vittorio Gassman. Ed è aperta tuttora, con un clima di caciara fra insulti, linguaggio sboccato, piatti tradizionali (il locale è nel cuore di Trastevere) e karaoke. Oltre ai camerieri avvezzi a insultare, infatti, nel locale si esibisce un animatore accompagnato da un pianista. Spiritoso l’avviso sul sito Internet per il giorno di chiusura: “domenica semo chiusi. Magnate a casa. Non fare il permaloso, stai al gioco. Tacci (mortacci) tua!”.
Il locale è stato citato da vari film. Il più celebre (e divertente) è “Fracchia la belva umana” (1981) nel quale però è stato ribattezzato “Da Sergio e Bruno, gli incivili”.
Le parolacce accorciano le distanze, creano un clima di schiettezza, di confidenza, di gioco e di libertà: ecco perché la formula del ristorante “a insulto libero” ha fatto presa. Con l’aggiunta che un cameriere che ti insulta rompe un tabù, quello della cortesia e della buona educazione. Questo spiega perché molti cercano questa esperienza insolita.
I ristoranti di questo genere nati all’estero non sembrano aver copiato la formula italiana: sono nati a volte in modo spontaneo, altre con un evidente intento di marketing. Ma quando gli insulti sono giocati senza la leggerezza di un autentico spirito goliardico, in molti casi sconfinano nella mancanza di rispetto e in un clima greve, tutt’altro che divertente. Spesso i locali di questo genere preferiscono camerieri di sesso femminile, perché un insulto detto da una ragazza suona meno minaccioso per i clienti (ma dipende da cosa e come lo dice, comunque…).
Le panche del Wiener’s circle di Chicago.
E’ un chiosco di hot dog, celebre perché, durante i turni notturni, camerieri e clienti usano un linguaggio volgare. La tradizione è nata nel 1992, quando Larry Gold, uno dei proprietari, chiamò “stronzo” un cliente ubriaco, per attirare la sua attenzione. Da allora, di notte, camerieri servono hot dog e insulti ai clienti, in un clima goliardico. E con questo spirito, nel 2016, il locale ha inserito in menu il “Trump footlong”, un hot dog lungo 30 cm. Quell’anno, infatti, il senatore Marco Rubio aveva affermato, in campagna elettorale, che Trump avesse le mani piccole “E voi sapete cosa si dice sui tizi che hanno le mani piccole”, ha aggiunto velenosamente, riferendosi alle dimensioni del sesso. Al che Trump gli ha replicato “Te lo garantisco, non c’è problema. Te lo garantisco”. Così i titolari del chiosco hanno lanciato l’hot dog “superdotato”, ovviamente con lo slogan “Make America great again”.
La locandina con il riferimento agli “Shit hole countries” (Paesi-cesso) di Trump
E quando, nel 2018, Trump definì i Paesi africani, Haiti e l’Honduras come “shit hole countries”, ovvero “Paesi cesso, Paesi di merda”, il locale ha scritto sulla propria insegna “Le persone di tutti i Paesi sono benvenute in questo cesso”. Una buona dose di autoironia, oltre che di satira politica.
L’estate scorsa il Wieners circle ha ospitato come cameriere il cantante Ed Sheeran, che durante una tappa del suo tour ha servito un centinaio di hot dog, ma non si è sentito di insultare nessuno.“Il nostro nuovo apprendista ha ancora molto da imparare” hanno scritto sul profilo Twitter del chiosco. “È troppo educato e amichevole”.
Qui il sito ufficiale. E qui un video andato in onda sul programma “Conan” sulla TBS:
L’ingresso del “Dick’s last resort” a Las Vegas.
Il nome significa “L’ultima risorsa di Dick”, ma in inglese “dick” indica anche il sesso maschile: il nome vuol dire anche “l’ultima risorsa del cazzo”. E’ una catena di 12 fra bar e ristoranti negli Stati Uniti. La formula prevede uno staff volutamente sarcastico, che insulta i clienti. A questi ultimi viene fornito un cappello di carta con scritti vari insulti: devono indossarlo durante la loro permanenza nel locale. I camerieri sono volutamente grezzi e provocatori: lanciano senza riguardo i tovaglioli e le posate sui tavoli dei clienti, e danno risposte maleducate.
Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:
I camerieri del Karen’s diner di Brighton posano con il dito medio. Clienti avvisati
Il nome “Karen”, nel gergo australiano, indica “donna anziana e scortese, ignorante e arrogante” (megera). Durante la pandemia da Covid-19, il termine è diventato popolare perché designava, in modo sarcastico, le donne di 50-60 anni che si opponevano al lockdown e al distanziamento sociale per puro egoismo personale. E in questo contesto è nata l’idea del locale: «Il famigerato meme di Karen stava diventando virale nello stesso momento in cui il nostro personale doveva far rispettare i Green Pass e altre restrizioni, il che implicava il dover gestire molti comportamenti “alla Karen” da parte dei clienti. In realtà le persone erano solo frustrate dal lockdown, ma questo ci ha fatto venire l’idea di capovolgere il mantra dell’ospitalità e creare un locale in cui il personale potesse essere scortese con i clienti ed essere pagato per questo», racconta uno dei fondatori, Aden Levin.
Il ristorante, all’inizio, doveva essere temporaneo, e rimanere aperto solo per 6 mesi. Ma ha suscitato dibattiti accesi: sui giornali, alcuni temevano che un clima di insulti potesse degenerare, a danno dei camerieri. Tutta pubblicità: il ristorante non solo è rimasto aperto, ma ha aperto 8 filiali fra Regno Unito e Indonesia. Non sono mancate, tuttavia, le scivolate nel cattivo gusto, e a spese dei clienti, più che dei camerieri: nel 2022 il locale è finito nella bufera per un video diventato virale su TikTok: un cameriere faceva commenti offensivi su una cliente minorenne, e dava del “pedofilo” al padre che stava cenando con lei. I proprietari hanno preso le distanze dal comportamento. Da allora al personale è stato imposto di evitare gli insulti basati su razzismo, sessismo e omofobia.
Al Karen’s Diner la maggior parte dei camerieri è di sesso femminile perché «è meglio quando una donna, o un uomo effeminato interpreta una Karen, piuttosto che un uomo minaccioso che insulta i clienti», hanno spiegato i titolari. Tuttavia, guardando i video registrati all’interno, le cameriere, sempre corrucciate, non sembrano molto spiritose.
Qui il sito ufficiale, e qui un video girato nel locale:
Le cameriere della “tienda del Muergano”.
E’ un ristorante nel quale le cameriere insultano i clienti (la frase tipica è «Che cosa prendi, figlio di puttana?»).
L’atteggiamento rimane comunque ironico, e i clienti hanno altrettanta libertà di rispondere a tono.
Il locale colombiano (l’unico del genere che ho trovato nei Paesi latini) ha fatto furore da quando alcuni influencer colombiani ne hanno parlato pubblicando articoli e video recensioni.
Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:
DURGIN-PARK, Boston (Usa). Negli anni ‘70 era noto per le sue cameriere impertinenti e scontrose. Secondo la storia, il ristorante tendeva ad assumere per lo più vedove anziane che non necessariamente avevano bisogno di un reddito ma cercavano qualcosa da fare, e trovavano che lavorare a Durgin-Park fosse molto socievole. A quel tempo, le persone che entravano, per la maggior parte, erano uomini che uscivano da lunghi turni e tendevano a essere scortesi con loro, e arrivarono al punto che iniziarono a ricambiare subito. Poi il locale ha cambiato gestione e ha chiuso nel 2019.
Edsel Fung con alcuni clienti
SAM WO, San Francisco (Usa): Era un ristorante cinese, ritrovo della “beat generation”, frequentato da scrittori come Allen Ginsberg e Charles Bukowski. Ma divenne famoso per un altro motivo: la presenza di Edsel Ford Fung, “il cameriere più grezzo del mondo”. Fung era un omaccione: alto un metro e 80, capelli a spazzola, accoglieva i clienti al grido di «Siediti e stai zitto», imprecava se qualcosa andava storto, non esitava a definire «ritardati» o «ciccioni» i clienti che non gli piacevano (e spesso non li serviva neppure). «Praticava un malvagio sarcasmo che assumeva aspetti di performance art» scrivevano le guide turistiche dell’epoca. Citato in vari film e romanzi americani, Fung è morto nel 1984. Il suo ruolo è stato ereditato dalla figlia, altrettanto scortese e irascibile. Fino alla chiusura del locale nel 2012 per motivi sanitari (feci di ratto in cucina).
COACH AND HORSES, Londra (Regno Unito). Era uno dei locali più in voga di Soho. Divenne celebre per i modi rudi del proprietario Norman Balon, che vi lavorò dal 1943 fino al 2006. «Sono scortese per natura. Non ho pazienza con nessuno», diceva. E così non esitava a dire frasi come «Non sei un fottuto cliente abituale. Quelle stronze laggiù sono fottutamente clienti abituali». Lui, comunque, era orgoglioso di questa nomea tanto che aveva fatto stampare, sulle scatole di fiammiferi del locale, la scritta “Il barista più rude di Londra”. Qui sotto un breve documentario su Balon:
L’esigenza di parlare in modo veloce ed efficace è diffusa soprattutto nel gergo giovanile. “Raga”, “tranqui”, “situa” sono solo alcuni degli esempi di abbreviazioni al servizio di una comunicazione più rapida. Un’esigenza nata nelle grandi metropoli del Nord già negli anni ‘60, e oggi resa più pressante dall’utilizzo del telefonino: dagli Sms fino a X (twitter), le principali piattaforme digitali hanno infatti limiti stringenti di capienza del testo, e questo spinge gli utenti ad accorciare i messaggi e le parole di cui sono composti. In questo modo, le espressioni scurrili diventano non solo più corte, ma anche più ermetiche: le capisce chi già ne conosce il significato, sono un linguaggio in codice. Diventano insomma un’allusione, più morbida rispetto alla versione integrale.
Qui sotto la lista di 24 espressioni di questo genere, che ho ricavato da Slengo (dizionario online dei neologismi), e dal libro “Scrostati gaggio! – Dizionario storico dei linguaggi giovanili” di Renzo Ambrogio e Giovanni Casalegno. Potete segnalarne altre nei commenti: aggiornerò la lista.
ESPRESSIONE | SIGNIFICATO |
---|---|
arroddugò | Abbreviazione di “arrori du coddiri” (sardo), che ti fotta un orrore, uno spavento. Ovvero che tu sia colpito da una disgrazia pesante. Può essere usato come maledizione ma anche come formula di ammirazione |
B.M. o BM | Acronimo di “bimbominkia”, utente di Internet spesso giovane, di scarsa cultura e capacità linguistica, dal carattere infantile, autoreferenziale, arrogante |
chittasa | Apocope di “chi ta s’ancula” (romanesco), ovvero “chi ti si incula”: non conti nulla per me. |
corca | Apocope di “cor cazzo” (romanesco), ovvero “col cazzo”: per nulla al mondo |
cazzomene | Apocope di “Che cazzo me ne frega” o “Che cazzo me ne fotte”. Esiste anche la variante “cazzotene” (“che cazzo te ne frega”) |
chissene/chisse | Apocope di “chi se ne frega” o “chi se ne fotte” |
fiodena | Apocope di “fijo de ‘na mignotta” (romanesco): figlio di puttana |
fottesega | Abbreviazione di “non me ne fotte una sega” (toscano), ovvero “non mi importa per niente”. |
giamaica | Apocope di “già m’hai cacato er cazzo” (romanesco): “già mi hai cagato il cazzo”, ovvero non ti sopporto più. |
giamairo | Apocope di “già mi hai rotto i cojoni” (romanesco), “già mi hai rotto i coglioni”. |
KTM | Acronimo dell’imprecazione “chitemmuort” (napoletano), “chi ti è morto”, una maledizione rivolta ai parenti defunti di qualcuno (mannaggia a chi ti è morto, all’anima di chi ti è morto) |
LMCS | Acronimo di “li morti che sei” (pugliese), altra offesa contro i defunti |
mastica | Apocope di “ma ‘sti cazzi” (romanesco): non mi interessa. |
mongo | Apocope di “mongoloide”: stupido, idiota |
pampa | Apocope di “pampasciune” (pugliese): coglione, fesso. |
randa | Apocope di “randagio” (lombardo): tamarro, truzzo |
rimba | Apocope di “rimbambito” |
rinco | Apocope di “rincoglionito” |
rompi | Apocope di “rompiscatole”, “rompiballe”, “rompicoglioni”: spesso ha una connotazione vezzeggiativa |
stika | Apocope di “sticazzi” (romanesco): chi se ne frega |
tama | Apocope di “tamarro” (Piemonte) |
unca | Apocope di “un cazzo” |
vaffa | Apocope di “vaffanculo” |
zama | Apocope di “zamarro”: tamarro |
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I calciatori della Germania posano con la mano sulla bocca all’inizio dei Mondiali: una protesta contro la FIFA, che aveva vietato di indossare fasce arcobaleno in Qatar (come solidarietà al mondo LGBT).
Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di mira, e quando.
La Fifa, infatti, durante il torneo aveva alzato una barriera protettiva virtuale per i calciatori, il Servizio di protezione dei social media (SMPS): un sistema di intelligenza artificiale che ha monitorato le principali piattaforme di social media (Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, YouTube) alla ricerca di post o commenti insultanti. Che sono stati in parte censurati in tempo reale sugli account di giocatori, allenatori,staff, squadre, in parte segnalati alle piattaforme.
Ora, a distanza di mesi dall’evento, la Fifa ha pubblicato un report che fa un bilancio dell’esperienza. E offre molti interessanti spunti di riflessione, anche se l’Italia non ha partecipato al torneo: è una delle prime volte in cui un torneo mondiale è stato monitorato dall’intelligenza artificiale (sebbene affiancata da quella umana) in un’operazione di protezione (o censura, a seconda dei punti di vista) in tempo reale e su scala globale. Alle squadre e ai giocatori la Fifa ha dato infatti un software di moderazione che nasconde automaticamente i commenti offensivi sui loro account: in questo modo sono stati occultati al pubblico 286.895 commenti.
In più lo studio ha risposto ad alcune curiosità: quanto sono frequenti gli insulti a squadre e giocatori? [ Risposta: poco ] Quali offese sono più frequenti e da dove arrivano? [ quelle generiche, e dall’Europa ] Ci sono squadre più bersagliate di altre? [ la Francia ]. Con molte sorprese: razzismo e omofobia non sono stati i temi più frequenti della fogna virtuale.
La fasce anti discriminazione consentite dalla Fifa ai Mondiali femminili in Australia e Nuova Zelanda
Che il calcio sia uno sfogatoio dell’aggressività non è una novità. Molti calciatori diventano bersaglio dei tifosi, a ogni latitudine. E spesso questo può pregiudicare la loro serenità e il loro rendimento in campo. L’ex attaccante del Brasile Willian Borges da Silva ha sperimentato in prima persona gli abusi online: i tifosi del Corinthians insultavano lui e la sua famiglia ogni volta che non giocava all’altezza delle loro aspettative. Così, per evitare questi episodi, ha deciso di trasferirsi in Inghilterra (per il Fulham).
«Un ambiente online tossico è un posto difficile e rischioso per i giocatori. L’odio e la discriminazione nell’ambiente online avere effetti dannosi sul loro benessere generale con attacchi di ansia, depressione, bassa autostima, disturbi del sonno, cambiamenti nelle abitudini alimentari, sentimenti di inadeguatezza, ritiro sociale e isolamento» ammonisce il report.
Perciò, in vista dei mondiali, la Fifa ha attivato il Servizio di protezione dei social media (SMPS) chiamato “Threat Matrix” della società britannica Signify.ia: i giocatori di tutte le 32 Federazioni hanno fruito di un servizio di monitoraggio, segnalazione e moderazione dei commenti offensivi nelle lingue delle squadre che partecipavano al torneo. In pratica, un sistema di intelligenza artificiale, impostato in modo da riconoscere migliaia di parole-chiave insultanti nelle 7 lingue ufficiali della Fifa (inglese, francese, tedesco, spagnolo, arabo, portoghese e russo), ha analizzato oltre 20 milioni di post e commenti. Gran parte veniva da utenti di Instagram (43%), seguito da Twitter (26%) e Facebook (24%), il resto da TikTok (6%) e YouTube (1%).
Fra i 20 milioni di commenti, il sistema ne ha segnalati 434mila (il 2,17%) agli operatori umani per ulteriore controllo: di questi, quasi 287mila (1,4%) sono stati bloccati (cioè resi invisibili sugli account dei partecipanti al Mondiale e al pubblico) e 19.600 (0,1%) sono stati segnalati alle piattaforme dei social media in quanto verificate come offensive.
Voglio sottolineare le percentuali in gioco: i commenti sospettati come offensivi erano il 2,17%, quelli effettivamente bloccati l’1,4% e quelli più gravi, segnalati alle piattaforme,solo lo 0,1%.
Una statistica del tutto in linea con i trend che avevo rilevato nel linguaggio parlato (lo studio qui): le parolacce usate nell’italiano rappresentano lo 0,2% (in questo caso, però, ho conteggiato una singola parola, mentre nel report Fifa si conteggiano i post o i commenti, che possono contenere più di un termine insultante). Ed è un fatto insolito che sui social i commenti offensivi siano così bassi, dato che – rispetto al linguaggio parlato – ci si può nascondere dietro uno schermo e un nome falso. In ogni caso, per valutare seriamente la rappresentatività di questo dato bisognerebbe sapere quali e quante parole-chiave siano state impostate nel monitoraggio (e questo non è dato sapere).
Il report precisa che la Fifa «migliorerà ulteriormente i filtri di moderazione SMPS in vista del Campionato del mondo femminile Australia e Nuova Zelanda 2023» che terminerà in agosto.
La nota dolente del report riguarda la possibilità di identificare ed eventualmente sanzionare gli autori di commenti irrispettosi: sono stati censiti 12.600 autori di post offensivi (in teoria ne avrebbero scritti 34 a testa) e solo 306 di loro (il 2,4%) sono stati effettivamente identificati per nome, cognome e indirizzo. Le loro identità sono state messe a disposizione dalla FIFA alle Federazioni affiliate e alle autorità giurisdizionali «per supportare l’azione intrapresa nel mondo reale contro coloro che hanno inviato commenti offensivi, discriminatori e minacciosi alle squadre e ai giocatori partecipanti durante la Coppa del Mondo FIFA». Ma il report segnala che «la risposta iniziale di Meta (proprietaria di Instagram e Facebook, ndr) alle loro segnalazioni era spesso una risposta automatica “che il team di revisione non era stato in grado di esaminarle”».
In più, prosegue il report, «è stato rilevato un abuso razzista proveniente da un account in cui persino il nome dell’account conteneva termini chiaramente offensivi e razzisti, violando chiaramente i termini di servizio di Meta. Ciò ha segnalato una vulnerabilità nel processo di revisione della piattaforma, poiché l’account offensivo è rimasto attivo per più di 4 mesi dopo la fine del torneo, nonostante fosse stato segnalato il giorno della finale».
Non a caso, il presidente della Fifa Gianni Infantino ha commentato: «Ci aspettiamo che le piattaforme di social media si assumano le proprie responsabilità e ci sostengano nella lotta contro ogni forma di discriminazione».
Dei 12.618 account che hanno inviato messaggi offensivi durante il torneo, è stato possibile identificare le loro provenienze per 7.204. Tre quarti dei “leoni da tastiera” vivono fra Europa (38%) e Sud America (36%).
Quali tipi di insulti sono stati rilevati? Per lo più generici (26,24%), seguiti da termini osceni (17,09%) e sessismo (13,47%). Solo 4° l’omofobia (12,16%) e il razzismo (10,7%), anche se a quest’ultima voce bisognerebbe aggiungere xenofobia (0,92%), anti Rom (0,37%), antisemitismo (0,18%), e forse anche islamofobia (1,94%), per un totale del 14,11%. Difficile, comunque, districarsi nella miriade di categorie con cui sono stati censiti gli insulti: come l’abilismo (che io ho tradotto con “insulti anti disabili”), o gli “insulti allusivi” (dog whistle: “banchieri internazionali” come sinonimo allusivo di “ebrei”), più altri difficilmente valutabili.
Ciò che conta, comunque, è la prevalenza di insulti generici o osceni, per un totale del 43,33%, quasi la metà dei casi: omofobia e razzismo, che tanto fanno scalpore sulle cronache, messi insieme arrivano solo a un quarto dei casi. Sono episodi emendabili ma non sono i più diffusi. E tra l’altro sono quelli che destano più preoccupazioni alla Fifa, che nel suo statuto ha inserito la lotta alla discriminazione in tutte le sue forme.
Per fare un confronto, «le finali di AFCON 2021 ed EURO 2020 sono state più colpite pesantemente dai contenuti razzisti e omofobi, con il 78% di tutti gli abusi rilevati che rientrano in una di queste due categorie. L’abuso razzista e omofobo è in genere il più eclatante e più facilmente identificabile e perseguibile dalle piattaforme».
D’altronde, nello sport, come nelle guerre, nel traffico o nelle riunioni di condominio (ovvero i contesti ad alto tasso di aggressività) si offende più per sfogare le proprie pulsioni aggressive che per volontà di emarginare: e tutto l’arsenale delle offese va bene pur di per ferire (simbolicamente) un avversario.
Interessanti le statistiche su quale sia stata la nazione più bersagliata dagli insulti: la Francia, seguita da Brasile e Inghilterra, E più giù Messico, Argentina e Uruguay. La Germania (la nostra bestia nera ai Mondiali) è in coda alla classifica. Lascio agli esperti di calcio ulteriori interpretazioni che non sono in grado di dare.
Interessante, comunque, notare che la partita che ha acceso maggiormente gli animi non è stata la finale Argentina-Francia, bensì lo scontro Inghilterra-Francia, due rivali storiche, bersagliato da oltre 12mila commenti offensivi. Seguono la finale Argentina-Francia, e Marocco-Portogallo, entrambi sopra i 10mila. Accese anche le reazioni durante i match che hanno visto coinvolta la Germania (contro il Giappone e il Costa Rica) oltre ad Arabia Saudita-Messico.
«La violenza e la minaccia sono diventate più estreme man mano che il torneo andava avanti con le famiglie dei giocatori sempre più referenziate e molti minacciati se sono tornati in un determinato Paese. Nelle fasi finali del torneo, il targeting individuale è stato più pronunciato, a causa di prestazioni, incidenti o rigori sbagliati» conclude il report. Il tifo si è acceso man mano che la posta in gioco si faceva più rilevante.
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