Insulti | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Thu, 01 Aug 2024 14:39:25 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Insulti | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Giuda, Pinocchio e arpia: quando le persone diventano insulti https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/ https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/#comments Thu, 01 Aug 2024 08:59:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20694 “Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura… Continue Reading

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Il presidente Usa Joe Biden disegnato come Pinocchio da un gruppo di lavoratori autonomi che gli contesta varie promesse mancate.

“Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura retorica dell’antonomasia, che consiste nell’attribuire il nome di un personaggio famoso a una persona con caratteristiche simili. Sei un bugiardo? Ti paragono al mentitore per eccellenza, la sua personificazione: Pinocchio.
In italiano questi lemmi sono circa 2mila (da mongolfiera a daltonico, dal sandwich al bikini), e fra loro ho censito anche 63 termini offensivi, usati per la loro capacità di evocare caratteristiche negative.  

Avevo già parlato in questo articolo di alcuni insulti dello stesso genere: quelli derivati da toponimi (nomi di luogo, regioni, città: beota, lesbica e così via) o da etnonimi (nomi di popolazioni: zingaro, vandalo, etc). Ora è il turno delle offese derivate da nomi di persone, sia realmente esistite oppure immaginarie. In ambo i casi il passaggio da nome proprio a nome comune comporta una perdita di specificità: un nome proprio si riferisce a un solo individuo, mentre un nome comune ne indica molti. Tant’è vero che spesso il nome proprio, una volta entrato nel vocabolario, perde l’iniziale maiuscola.  Un altro aspetto interessante di questi termini, è che riferendosi a personaggi specifici, è più facile individuare l’epoca in cui questi insulti sono nati.

Una caratteristica su tutte

Alvaro Vitali nei panni di Pierino (1982)

Come funzionano i deonomastici? Si estrapolano alcune caratteristiche della persona (l’aspetto fisico, il comportamento, la mentalità) per indicare quanti possiedono queste medesime qualità. Si condensa l’identità di una persona in una sua caratteristica: l’avarizia per Arpagone, l’aggressività selvaggia per il cerbero.

Un passaggio, questo, che è comprensibile solo se si hanno le basi culturali per capire il riferimento: definire un avvocato “azzeccagarbugli” o un politico “gattopardo”, sono offese che arrivano a destinazione se si conoscono i romanzi di Alessandro Manzoni e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Ecco perché, in genere, questi insulti hanno una carica offensiva minore o ridotta rispetto a quelli derivati da altre metafore: in gran parte dei casi si tratta di spregiativi, più che di insulti a pieno titolo. A parità di significato, “maccabeo” è molto più debole di “coglione” quanto a carica insultante ed espressiva. Ma restano pur sempre offensivi: tanto che molti di loro (lanzichenecco, masaniello, torquemada, barabba, Giuda, megera, cassandra, cerbero, azzeccagarbugli, donchisciotte, Pierino, arpagone) sono stati oggetto di querela, e spesso hanno comportato una sentenza di condanna verso chi li ha pronunciati, come ha rilevato una ricerca dell’avvocato cassazionista Giuseppe D’Alessandro (che ha da poco pubblicato un agile dizionario degli insulti).

Ho raccolto gran parte di questi 63 termini nel libro “Dalie, dedali e damigiane, dal nome proprio al nome comune” di Enzo La Stella (Zanichelli); altri li ho ricavati dai libri di D’Alessandro. In questa raccolta mi sono limitato ai lemmi presenti nel dizionario (lo Zingarelli 2025). 

La maggior parte dei personaggi (54%) sono stati scelti come metafore svilenti per il loro modo di comportarsi (violento, fastidioso, disonesto), seguito dagli insulti di classe (14%) , mentali (12,5%) fisici e sessuali (a pari merito con 9,5%). Dunque, è il comportamento, più che l’aspetto fisico o la posizione sociale a identificarci e qualificarci?  L’ipotesi è suggestiva, ma per affermarla con certezza occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli delle altre lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese….) per vedere se anch’esse privilegiano questo aspetto nel coniare i termini deonomastici.

Tornando all’italiano, quali fra questi 63 appellativi deonomastici sono i più pesanti? A mio parere: giuda, teppista, arpia, caino, megera, pulcinella, lazzarone e messalina.

E voi li conoscete tutti? E sapete anche qual è la loro origine, ovvero quale personaggio (storico o immaginario) li ha ispirati?
Mettetevi alla prova
: per sapere le risposte basta cliccare sulle strisce blu.

Insulti comportamentali (34)

Il bacio di Giuda (Cimabue, XIII sec:)

Sono la categoria più numerosa, perché indicano aspetti molto diversi del carattere: dalla parsimonia all’aggressività, dalla maleducazione all’inganno: arpagone, attila, barabba, barbablù, cacasenno, cagliostro, caino, cassandra, cerbero, donchisciotte, fariseo, fregoli, furia, gattopardo, giacobino, giuda, gradasso, hooligan, lanzichenecco, manigoldo, maramaldo, masaniello, paolotto, pierino, pinocchio, pulcinella, qualunquista, squinzia, santippe, torquemada, teddy boy, teppista, vitellone

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INSULTI COMPORTAMENTALI
 

insulto significato origine
arpagone avaro, tirchio da Arpagone, protagonista dell’”Avaro” di Moliere (1668): è un vecchio vedovo avaro. Il nome è ispirato al latino harpagare, rubacchiare (l’arpagone era un uncino usato dai Romani per arpionare navi nemiche)
Attila uomo feroce, devastatore, distruttore spietato da Attila, re degli Unni (395-453)
barabba malvivente, delinquente da Barabba, il malfattore liberato al posto di Cristo (circa 40 d.C.)
barbablù marito violento e brutalmente geloso dal nome del protagonista di una fiaba di Charles Perrault  (1875): era un uomo molto ricco che aveva fatto sparire 6 mogli
cacasenno saputello, sputa sentenze da Cacasenno, figlio di Bertoldino e nipote di Bertoldo, stupido comprimario dell’omnima novella di Adriano Banchieri, (1670)
cagliostro imbroglione, avventuriero, ciarlatano da Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro (1743-1795) che riuscì a truffare mezza Europa con le sue finte scienze occulte
caino fratricida, traditore dall’omonimo personaggio biblico che uccise il fratello Abele
cassandra menagramo, catastrofista da Cassandra figlia di Priamo (re di Troia), che si era negata ad Apollo e fu punita col dono della profezia unito alla maledizione di non essere mai creduta
cerbero custode, guardiano arcigno

persona intrattabile e sgarbata

mostruoso cane a tre teste posto a vigilare all’ingresso dell’Ade
donchisciotte chi si erge a difensore di principi e ideali generosi e nobili ma superati o comunque irraggiungibili dal nome di Don Chisciotte, il fantasioso e ingenuamente spavaldo protagonista del romanzo ‘Il fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia’ di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) 
fariseo ipocrita dal nome di una antica setta giudaica (i perushim) molto attaccati alla legge e severi custodi della tradizione 
fregoli chi cambia spesso atteggiamento od opinione, in modo opportunistico dal trasformista Leopoldo Fregoli (1867-1936)
furia donna iraconda e aggressiva dalle Furie, personificazioni della vendetta femminile nella mitologia romana (corrispondono alle Erinni greche)
gattopardo chi in apparenza appoggia le innovazioni ma in realtà non vuole cambiare nulla  e mira solo a conservare i propri privilegi dal protagonista dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (1958), il principe di Salina (tutto deve cambiare perché nulla cambi)
giacobino rivoluzionario, chi sostiene idee radicali, intransigenti dal “Club des Jacobins”’ (1793), frequentato da rivoluzionari, chiamato così perché fondato nel Convento dei domenicani di S. Giacomo (Jacob)
giuda traditore dall’apostolo che tradì Gesù in cambio di 30 denari
gradasso bullo,  fanfarone, millantatore, spaccone Gradasso, rinomato guerriero saraceno nei poemi cavallereschi
hooligan  tifoso estremista e violento da Patrick Hooligan, buttafuori e ladro irlandese vissuto a Londra alla fine del 1800
lanzichenecco scagnozzo, sgherro soldato mercenario tedesco del periodo rinascimentale. Dal tedesco Landsknecht ‘servo (Knecht) del paese (Land)’
manigoldo boia, carnefice

furfante, briccone

dal nome tedesco Managold, un carnefice (XIV secolo)
maramaldo persona vile e malvagia che infierisce sui vinti e gli inermi da Fabrizio Maramaldo, che nel 1530 uccise a Gavinana Francesco  Ferrucci, ferito e impossibilitato a difendersi 
masaniello agitatore, capopopolo da Tommaso Aniello soprannominato Masaniello (1620-1647), protagonista della vasta rivolta che vide nel 1647, la popolazione napoletana insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo spagnolo 
paolotto bigotto conformista soprannome dei membri della società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata nel XIX sec. da Federico Ozanam
pierino ragazzo molto vivace e impertinente da Pierino, protagonista di molte barzellette italiane ispirato al fumetto Pierino di Antonio Rubino che fu pubblicato sul Corriere dei Piccoli negli anni dieci del XX secolo.
pinocchio bugiardo da Pinocchio, burattino protagonista dell’omonimo romanzo di Carlo Collodi (1881): quando diceva bugie, gli si allungava il naso
pulcinella buffone, persona poco seria dal nome dell’omonima maschera napoletana della commedia dell’arte
qualunquista chi  critica in modo generico e semplicistico o indifferente la politica e i problemi sociali dal Fronte dell’uomo qualunque, movimento politico fondato nel 1944 dal giornalista Guglielmo Giannini 
squinzia ragazza smorfiosa e civettuola da Donna Quinzia, personaggio di “i consigli di Meneghino”, una commedia di Carlo Maria Maggi (1630-1691) 
santippe moglie bisbetica e brontolona da Santippe, moglie petulante di Socrate
torquemada chi usa metodi di repressione crudeli e spietati e degni di un inquisitore da Tomás de Torquemada (1420 – 1498) religioso spagnolo, primo grande inquisitore dell’Inquisizione spagnola
teddy boy giovane teppista ragazzo (boy) vestito alla moda del regno negli anni ‘50: portavano lunghe giacche col collo di velluto nello stile di Edoardo VII, (Edward, vezzeggiativo Teddy)
teppista chi commette atti vandalici, mascalzone violento dalla Compagnia della Teppa di Milano, che nel 1816 raccoglieva giovani gaudenti e rissosi (la teppa è il muschio di cui erano ricchi i fossati del Castello Sforzesco)
vitellone giovane che trascorre il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo  dal titolo del film di Federico Fellini I vitelloni, (1953)

Il fotoreporter Barillari si definisce paparazzo

Insulti di classe (9)

Prendono di mira gli appartenenti a una classe sociale (spesso umile): azzeccagarbugli, cenerentola, fantozzi, gaglioffo, galoppino, lazzarone, paparazzo, stacanovista, travet

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INSULTI DI CLASSE
 

insulto significato origine
azzeccagarbugli avvocato  da strapazzo  dal soprannome di un avvocato di Lecco nei “Promessi sposi”; era così chiamato per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone disoneste e potenti.
cenerentola umile serva

persona a torto trascurata,

dalla protagonista dell’omonima fiaba popolare resa celebre da Gianbattista Basile (1635)
fantozzi impiegato di basso rango

persona maldestra e sfortunata

dal personaggio di Ugo Fantozzi creato da Paolo Villaggio (1971): era il cognome di un collega di Villaggio in un’azienda in cui l’attore aveva lavorato come impiegato, la Italimpianti
gaglioffo pezzente, mendicante

cialtrone, buono a nulla

manigoldo, furfante

da Galli offa, boccone del Francese: quello mendicato dai pellegrini al Santuario di Santiago de Compostela
galoppino chi corre dappertutto per sbrigare commissioni o faccende altrui da Galopìn, messaggero nelle Chansons de gestes francesi (XI secolo)
lazzarone straccione

mascalzone, canaglia

fannullone, scansafatiche

da Lazzaro, nome del mendicante coperto di piaghe che appare nella parabola del ricco epulone (Vangelo di Luca). Nome spregiativo dato ai popolani di Napoli che si erano rivoltati guidati da Masaniello
paparazzo fotoreporter d’assalto dal nome di un fotografo nel film “La dolce vita” (1960) di Federico Fellini. Il cognome era appartenuto a un oste calabrese nel romanzo. Il nome pare derivi dal personaggio di un libro di George Gissing che Fellini stava leggendo all’epoca: Coriolano Paparazzo era il nome del proprietario d’albergo che ospitò lo scrittore inglese a Catanzaro durante il viaggio in Italia del 1897 descritto in “Sulla riva dello Jonio”
stacanovista lavoratore troppo zelante dal minatore russo Alexei. Stachanov (1906-1977) che nel 1935 segnò un primato nella quantità di carbone estratto individualmente. Lo stacanovismo movimento sorto nell’Unione Sovietica dopo il 1935 per incrementare la produttività mediante l’emulazione fra lavoratori
travet  impiegato di rango modesto e mal retribuito  dal nome del protagonista della commedia di Vittorio Bersezio (1828-1900) Le miserie d’ Monsù Travet (dal piemontese travet ‘travicello’): era uno scrivano povero, soggetto alle soverchierie del capoufficio, di cui era vittima rassegnata

Il Cottolengo a Torino

Insulti mentali (8)


Sono offese sulle facoltà mentali considerate insufficienti, inadeguate, compromesse: bacucco, barbagianni, beghina, calandrino, cottolengo, maccabeo, mammalucco, manicheo

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INSULTI MENTALI
 

insulto significato origine
bacucco persona vecchia e rimbecillita da Abacuc, profeta ebraico (V secolo a.C.)
barbagianni uomo sciocco e incolto da barba Gianni “zio Giovanni”: il nome Giovanni era spesso usato con intenti spregiativi
beghina bigotta, bacchettona da Lamberto di Liegi, detto “Le begue” (balbuziente) fondatore dell’organizzazione religiosa laica delle beghine
calandrino persona sciocca e credulona dal nome di un personaggio credulone nel Decameron del Boccaccio (sec. XIII): dal pittore fiorentino Nozzo di Pierino, chiamato calandrino perché semplice come una calandra (uccelletto simile all’allodola)
cottolengo stupido, rimbambito da don Giuseppe Bernardo Cottolengo, che fondò a Torino un ospizio per malati incurabili (1832)
maccabeo stupido, sciocco dal soprannome (“martellatori”) del movimento ebraico di ribellione contro il seleucide Antioco IV Epìfane nel II secolo a.C. La desinenza in -eo è considerata ridicola
mammalucco persona sciocca, goffa dai Mamelucchi, milizia scelta composta da schiavi bianchi (turchi, slavi e greci) impiegati dai sultani come guardie del corpo
manicheo persona dogmatica, intollerante, che suddivide il mondo in buoni/cattivi senza sfumature da Mani, filosofo persiano (III secolo) secondo cui il mondo è retto dai princìpi del Bene e del Male, in perenne contrasto fra loro 

Insulti fisici (6)

Orco al Parco dei mostri a Bomarzo

Prendono di mira l’aspetto fisico e in particolare gli acciacchi (fisici, ma spesso anche psicologici) dell’età: arpia, baggina, befana, carampana,  megera, orco

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INSULTI FISICI
 

insulto significato origine
arpia donna di aspetto sgradevole e carattere malevolo, avaro le harpyai, rapaci, erano mostri dell’antica Grecia rappresentati con volto di donna, corpo di vari animali e ali di uccello
baggina persona vecchia e rimbambita soprannome del Pio Albergo Trivulzio di Milano: una storica residenza per anziani (1766) che prende il nome da Baggio, quartiere di Milano
befana donna vecchia e brutta da epiphania, festa che celebra la rivelazione attraverso il Dio incarnato; svolgendosi d’inverno, si è innestata in antiche tradizioni contadine romane che celebravano la morte della natura (una vecchia) in attesa della rinascita primaverile
carampana donna brutta, vecchia, trasandata e volgare da Ca’ Rampani, palazzo di Venezia (della famiglia Rampani) che fu adibito a ricovero per ex prostitute
megera donna molto brutta, spec. vecchia, di carattere astioso e collerico da Megera, una delle tre Erinni (v. anche furia)
orco mostro malvagio

pedofilo

da Orcus, dio latino della morte e dell’oltretomba

Film di Kubrick (1962)

Insulti sessuali (6)


Sono la categoria meno rappresentata: assatanato,  lolita, maddalena, messalina, onanista, sardanapalo

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INSULTI SESSUALI
 

insulto significato origine
assatanato in preda a fortissima passione: libidine o collera   da Satana (l’avversario), nella tradizione ebraica il capo dei diavoli
lolita ragazza provocante, disinibita e attraente dal nome della protagonista dell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (1899-1977). Il suo personaggio, però, non è una ragazzina perversa, è una povera bambina che viene corrotta 
maddalena peccatrice pentita dal nome della prostituta che si pente e asciuga coi suoi capelli i piedi di Gesù
messalina donna depravata e immorale dal nome. di Valeria Messalina (25-48), imperatrice romana famosa per le sue dissolutezze 
onanista masturbatore, segaiolo dal personaggio biblico Onan di Cananea, a cui fu imposto di sposare la vedova del fratello; ma piuttosto che generare un figlio che per la legge non sarebbe stato suo, preferì disperdere il seme (coitus interruptus, quindi: non masturbazione)
sardanapalo persona dedita al lusso e ai piaceri dal nome con cui i Greci chiamarono Assurbanipal (VII secolo a.C.) celebre per la sua dissolutezza

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La mamma è sempre la mamma (anche negli insulti) https://www.parolacce.org/2024/05/09/lista-insulti-alla-madre/ https://www.parolacce.org/2024/05/09/lista-insulti-alla-madre/#comments Thu, 09 May 2024 18:00:25 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20478 E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue… Continue Reading

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Striscione offensivo dei tifosi del Pescara contro quelli dell’Ascoli

E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, rumeno), in inglese e nelle lingue dell’est, dal russo al cinese, oltre all’arabo e diverse altre.
In italiano gli insulti alla madre sono una quarantina ed esprimono una fantasia molto malevola. Perché sviliscono, con immagini ripugnanti o sessuali, la figura più sacra: la persona che ci ha trasmesso la vita. Un colpo dinanzi al quale nessuno può restare indifferente: come ha ricordato papa Francesco (paragonando il sentimento religioso con l’attaccamento alla madre), «Se il dottor Gasbarri, un grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. E’ normale». Come diceva il comico toscano Francesco Nuti «Te la mi’ mamma tu la lasci stare, va bene?».

Questo genere di insulti ha influenzato non soltanto i modi di dire, ma anche le culture: le battaglie rap consistono spesso nell’improvvisare rime offensive sulla madre di un’altra persona (“yo mama…“, “tua madre…“), in una sfida che rappresenta non solo un duello linguistico e simbolico, ma è anche un rito di affiliazione fra giovani, come racconterò più avanti. Pensate che in russo il gergo volgare si chiama proprio “Mat”, termine che deriva dalla stessa radice di “madre” (dall’espressione “yob tvoyu mat”, «fotti tua madre»).

Battaglia rap a suon di insulti alla madre: è uno show in Australia

Nella nostra lingua gli insulti alla madre sono più numerosi nei dialetti, per lo più del Sud: in italiano ci sono 5 espressioni, contro le 36 fra: napoletano (11), veneto e friulano (8), sardo (6), toscano (3),  pugliese (3),  siciliano e calabrese (2) e lombardo (1). Un’ulteriore prova che si tratta di offese molto antiche: infatti le dicevano anche Cicerone e Shakespeare. Degno di nota il fatto che prevalgono le espressioni di tipo incestuoso: rappresentano metà delle locuzioni censite.

Gli insulti alla madre sono uno dei 4 temi universali (cioè diffusi in ogni cultura) delle parolacce insieme agli insulti fisici, alle espressioni oscene e ai termini escrementizi. E sono offese del tutto particolari perché colpiscono una persona non direttamente, ma offendendone un’altra: una sorta di vendetta trasversale. Una strategia molto efficace, visto il rapporto così intimo e profondo con la figura materna. Insomma, la mamma è anche…. la madre degli insulti.
Come nasce questa usanza? E come si manifesta, in italiano e in altre lingue?

Figlio di… 

Locandina di Eleazaro Rossi, comico.

L’espressione “figlio di puttana”, con le sue diverse varianti, è presente in tutte le lingue: inglese (son of a bitch), francese (fils de pute, Ta mère la pute), tedesco (hurensohn), spagnolo (hijo de puta), portoghese (filho da puta), rumeno (Fiu de curvă) arabo (Ibin Sharmootah: la puttana di tua madre), russo (Сукин сын). In cinese si usa l’espressione 王八蛋wáng bā dàn) che significa letteralmente “uovo di tartaruga”: dato che la tartaruga abbandona le uova dopo averle covate, l’espressione denota un figlio di madre ignota (mignotta per l’appunto: vedi sotto), nato da una relazione extraconiugale. Ma ci sono anche due altre spiegazioni: un tempo si pensava che le tartarughe concepissero solo con il pensiero, rendendo impossibile ricostruire la paternità della prole (dunque, in questo caso, “figlio di padre ignoto”). Oppure, secondo un’altra interpretazione ancora, all’origine dell’espressione c’è la somiglianza fra la testa della tartaruga che esce dal guscio e il glande  che emerge dal prepuzio: l’espressione indica quindi una donna che ha perso la virtù.

In spagnolo esistono anche altri modi pittoreschi per dirlo: “anda la puta que te pari” (Torna dalla prostituta che ti ha partorito) e “tu puta madre en bicicleta”, ovvero “tua madre puttana in bicicletta”.

In Italiano è una delle espressioni considerate più offensive dopo le bestemmie (e a pari merito con “succhiacazzi”), secondo la mia ricerca sul volgarometro. Ed è l’offesa che raccoglie più denunce e processi, secondo uno studio.

Perché? Per motivi giuridici, sociali e psicologici.

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BASTARDI E ILLEGITTIMI
 

Film del 2003. L’espressione significa “avere una natura cattiva”

In passato, i figli delle prostitute (e in generale quelli nati fuori dal matrimonio) erano disprezzati: la struttura sociale si basava sulle coppie matrimoniali ufficiali, nelle quali – fino all’avvento dei test genetici – era più immediato stabilire l’appartenenza sociale e i diritti ereditari, dato che “Mater semper certa est, pater numquam” (“L'[identità della] madre è sempre certa”, quella del padre no). E proprio dall’impossibilità di accertare in modo oggettivo la paternità è nata l’ossessione per il controllo sul sesso femminile: la moralità della donna era l’unica condizione per assicurare stabilità sociale e ordine. I figli nati fuori dal matrimonio erano visti come una minaccia a questo ordine, poiché potevano complicare le questioni di eredità e le alleanze familiari.

Nel mondo antico erano considerati “bastardi” (altro termine offensivo legato alle figure genitoriali) i figli di coppie conviventi, quelli nati da una prostituta o frutto di una relazione adulterina o incestuosa. Questi figli, denominati “illegittimi”, erano penalizzati nell’ambito del diritto successorio (non potevano ereditare il patrimonio dei genitori), erano esclusi dalle cariche pubbliche, non potevano svolgere alcune professionisposare persone appartenenti ai cosiddetti mestieri onorabili. In più, per la religione, il sesso al di fuori del matrimonio era considerato immorale, e di conseguenza, i figli nati da queste unioni erano  stigmatizzati come prova visibile di un comportamento peccaminoso.

E questa prospettiva è arrivata fino ai tempi moderni: in Italia solo dal 1975 con la riforma del diritto di famiglia i figli nati fuori dal matrimonio acquisirono gli stessi diritti dei figli “ufficiali”. E solo dal 2012 è sparita, con la riforma della filiazione, la legge 219, la distinzione fra “figli legittimi” e “figli naturali”.

Questo genere di insulti sono un retaggio della cultura patriarcale? Secondo Francine Descarries, femminista e docente di sociologia all’Université du Québec à Montréal, la risposta è sì: «Le donne sono sempre state considerate proprietà degli uomini, siano esse figlie, mogli o madri. Attaccare la madre significa contaminare la proprietà dell’uomo. Quindi, quando insultiamo la madre di un uomo, attacchiamo i suoi beni, proprio come i suoi vestiti o la sua casa».

La testata di Zidane a Materazzi: l’artista algerino Adel Abdessemed ne ha fatto una statua.

In effetti, ricordate perché Zinedine Zidane diede una testata a Marco Materazzi, giocandosi così la finale dei Mondiali di calcio 2006? Perché Materazzi gli aveva detto: “Non voglio la tua maglia, preferisco quella puttana di tua sorella.
L’ipotesi ha del vero: nessuno nega il peso del maschilismo nella nostra cultura. Tuttavia, in questo caso, c’è una ragione molto più immediata, come evidenzia la psicologia: la madre è l’affetto più profondo che abbiamo, la fonte delle nostre sicurezze, le nostre radici. Non solo gli uomini, ma anche le donne si sentirebbero offese se qualcuno denigrasse la loro madre. E, in ogni caso,
insultare i familiari di qualcuno è, in generale, un’offesa pesante: tant’è vero che in napoletano si offende non solo la madre (“mamm’t”), ma anche la sorella (“soreta”), il padre (“patete”), o il fratello (“frateto”).  Toccare i rapporti di sangue, quelli più stretti, fa sempre male. Del resto, non condividiamo con loro parte del nostro patrimonio genetico?

Gli insulti alla madre sono molto antichi: già Plutarco, nella “Biografia di Cicerone” ricorda la battuta di quest’ultimo a Metello Nepote che gli chiedeva “Chi è tuo padre?”. Cicerone gli rispose: “Nel tuo caso,” disse Cicerone, “tua madre ha reso la risposta a questa domanda piuttosto difficile.”

E nel “Timone d’Atene” William Shakespeare inserisce questo dialogo:

PITTORE – Sei un cane!

APEMANTO – Della mia stessa razza è tua madre: che altro potrebbe essere quella che ha fatto te, s’io sono un cane?

 

MODI DI DIRE

In questa categoria ho censito 11 espressioni:

“5 figli di cane”, film di gangster del 1969

♦ figlio della colpa: figlio nato al di fuori del matrimonio, fra conviventi o adulteri 

♦ figlio della serva: persona considerata inferiore per nascita e trattata di conseguenza, anche in modo sgarbato e villano. Usato soprattutto in senso figurato per chi viene emarginato da un gruppo, o trattato con minor considerazione rispetto agli altri.

♦ figlio di nessuno: trovatello, o figlio naturale. Era usato anche come insulto o con valore spregiativo. In senso figurato, anche bambino molto trascurato dai genitori.

♦ figlio di puttana (dal latino puta, fanciulla) / di troia (femmina del maiale, sozza fisicamente e moralmente) / di zoccola (femmina del topo di fogna, notoriamente prolifica. Ma può derivare dal fatto che nel 1700 le prostitute dei quartieri spagnoli indossavano le stesse scarpe vistose, con alti zoccoli, delle nobildonne, che li usavano per non sporcare di fango le loro vesti) / di baldracca (da Baldacco, antico nome di Baghdad. Era anche il nome di un’osteria di Firenze frequentata dalle meretrici) / di mignotta (un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all’anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M.Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d’insulto) / di bagascia (dal francese bagasse,  “serva” o “fanciulla”) 

♦ figlio d’un cane: l’espressione è equivalente a “figlio di puttana”, ma aggiunge una valenza spregiativa il riferimento all’animale (considerato inferiore all’uomo) considerato vile, crudele e comunque inferiore all’uomo. In inglese “son of a bitch” significa letteralmente “figlio di una cagna”: i cani sono disprezzati per il fatto di avere rapporti sessuali davanti a tutti e con partner diversi

In napoletano:

♦ figlio’ e’ ntrocchia: figlio di puttana. La parola ntrocchia deriva dal latino “antorchia”, torcia: nell’antichità le prostitute giravano di notte in strada con una torcia accesa per attirare clienti. L’equivalente di “lucciola”, insomma. L’espressione può essere usata anche in senso ammirativo (vedi prossimo riquadro)

♦ chella puttan ‘e mamm’t: quella puttana di tua madre

In veneto, friulano:

♦ tu mare putana: tua madre puttana

♦ tu mare grega: “grega” significa “greca”, donna straniera: spesso le prostitute dei bordelli erano di origine straniera, e in friulano “grego” designa anche una persona infida, doppia 

In siciliano:

♦ ‘dra pulla i to matri: quella puttana di tua madre

♦ figghiu d’arrusa / buttanazza: figlio di puttana

DA INSULTI A COMPLIMENTI

L’attore Samuel L. Jackson fa spesso il motherfucker, un tipo tosto.

L’espressione “figlio di puttana”, oltre a indicare i figli delle prostitute, designa anche una persona spregevole e priva di scrupoli che compie azioni disoneste: i figli delle prostitute, del resto, crescevano per strada, o senza un’educazione, e spesso vivevano di espedienti per riuscire a cavarsela.
Al punto che l’espressione “figlio di puttana” (e in napoletano “figl ‘e ndrocchia” e “figl ‘e bucchino”) può essere usata, in modo scherzoso, anche come complimento: indica chi riesce a cavarsela nelle situazioni difficili grazie a un’abilità spregiudicata. E questo vale anche per l’espressione spagnola de puta madre”, di madre puttana, che però è usata come rafforzativo enfatico: equivale al nostro “della Madonna”, “cazzuto”, “molto figo”, “da paura”: come dire, figlio di una madre spregiudicata e tosta. Anche l’espressione inglese “motherfucker” (letteralmente: uno che si fotte la madre, ovvero “uno capace di fottere sua madre”) significa
“persona meschina, spregevole o malvagia” o si può riferire a una situazione particolarmente difficile o frustrante. Ma può essere usato anche in senso positivo, come termine di ammirazione, come nell’espressione badass motherfucker (acronimo: BAMF), che significa ”persona tosta, impavida e sicura di sé”.

Arma letale: le espressioni incestuose

In spagnolo la “concha” è la conchiglia, ma qui significa vulva.

Gli insulti alla figura materna possono utilizzare una variante se possibile ancora più offensiva: quella che evoca la sessualità della madre. Giocano, cioè, sul tabù dell’incesto, il più forte e antico: evocando la sessualità della propria madre costringono il destinatario dell’insulto a un pensiero altamente sgradevole, ripugnante e imbarazzante. Un “incantesimo” verbale pesantissimo, innescato evocando i suoi genitali, gli atti sessuali o una vita sessuale dissoluta. Il sesso evoca sempre la nostra natura animalesca, dalla quale cerchiamo sempre di prendere le distanze: a maggior ragione nei rapporti affettivi che non hanno (e non devono avere) risvolti erotici.
Dunque, abbinare pensieri osceni alla figura materna è un’arma linguistica micidiale, ed è presente in molte lingue:
oltre al già ricordato russo  “Ёб твою мать” (“yob tvoyu mat”, scopa tua madre, all’origine del “mat”, il gergo volgare), c’è l’albaneseqifsha nënën” (mi fotto tua madre) o “Mamaderr” (Tua mamma è una maiala) e l’araboKos immak” (La figa di tua madre) e Nikomak (scopa tua madre). E anche il rumenoDute-n pizda matii“, torna nella figa di tua madre, e il cinese ha due espressioni per “scopa tua madre”屌你老母 (diu ni lao mu, cantonese) e  操你妈 (cao ni ma, mandarino). E il persiano: Kiram tu kose nanat, ovvero “il mio cazzo nella figa di tua madre”, Madar kooni “tua madre è lesbica”, Kos é nanat khaly khoob hast “La figa di tua madre è buona”, Sag nanato kard “Un cane ha scopato tua madre”, Pedarbozorget nanato kard “Tuo nonno ha scopato tua madre”, Nanat sag suk mizaneh “Tua madre fa pompini ai cani”, Molla nanato kard “Un mullah (teologo) ha scopato tua madre”, Madareto kardam “Mi sono scopato tua madre”, Kiram to koone nanat “il mio cazzo nel culo di tua madre”.

In francese c’è “nique ta mère” (scopa tua madre) e “Ta salope de mère” (quella maiala di tua madre), in spagnolo(vete a) la concha de tu madre” (vai nella figa di tua madre), “Chinga tu madre” (“Scopa tua madre”), “Tu madre culo” (“Il culo di tua madre”). E in finlandese c’è l’espressione  “Äitisi nai poroja” che significa “Tua madre scopa con una renna”: ogni cultura adatta gli insulti al proprio contesto.

 

MODI DI DIRE

E’ la categoria più numerosa, con 20 espressioni:

In veneto:

“A fess d mamt”, un brano disco degli Impazzination (2012).

♦ quea stracciafiletti de to mare: quella strappa frenuli (del prepuzio) di tua madre

♦ va in figa de to mare / va in mona: vai nella figa di tua madre, ovvero: torna da dove sei venuto. E’ usato anche in modo bonario, come sinonimo di “Ma và a quel paese”

♦ quea sfondrada de to mare: quella sfondata di tua madre

♦ chea rotinboca de to mare: quella rottinbocca di tua madre 

♦ va in cùeo da to mare: và nel culo a tua madre.

In mantovano:

♦ cla vaca at ta fàt: quella vacca che ti ha fatto

In toscano:

♦ la tu mamma maiala / la maiala di tu mà: tua madre maiala

In napoletano:

♦ a fess d mam’t: la figa di tua madre (usato anche come esclamazione di disappunto, o per mandare qualcuno a quel paese)

♦ bucchin e mamt: la bocchinara di tua madre

♦ mocc a mamm’t / vafammocc a mamm’t: in bocca a tua madre / vai a farti fare un rapporto orale da tua madre

♦ ‘ncul a mamm’t: in culo a tua madre

♦ figl’e bucchino (figlio di un rapporto orale): persona scaltra e senza scrupoli capace di cavarsela in ogni situazione

In pugliese:

La birra “De puta madre”, una Ipa tosta.

♦ lu piccioni spunnatu di mammata: la figa sfondata di tua madre

♦ a fissa i mammeta : la figa di tua madre

In calabrese:

♦ Fiss’i mammata: la figa di tua madre

♦ In culu a memmata e a tutta a razza da tua: In culo a tua madre e a tutta la tua famiglia

In sardo:

♦ mi coddu cussa brutta bagass’e mamma: Mi fotto quella brutta puttana di tua madre

♦ t’inci fazzu torrai in su cunnu: Ti faccio tornare nell’apparato riproduttivo di tua madre

♦ su cunnu e mamma rua: La figa di tua madre

♦ su cunnu chi ta cuddau a sorri tua baggassa impestara luride e’merda: La figa che ti ha partorito a te e a tua sorella impestata lurida di merda 

♦ su cunnu chi ti ndà cagau: La figa che ti ha cagato

♦ sugunnemamarua bagassa, babbu ruu curruru e caghineri coddau in culu e in paneri de su figllu de su panettieri: La figa di tua mamma bagascia e tuo padre finocchio inculato dal figlio del panettiere

 Offese generiche (e da rapper)

“Yo mama”, film del 2023 su un gruppo di mamme che si mettono a rappare.

Le offese alla madre non sono soltanto di tipo sessuale. Esistono anche insulti generici usati per ferire la persona infangando l’immagine della madre. Un atteggiamento piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza, con frasi del tipo “tua madre è brutta”, “tua madre è cicciona”. E questa abitudine sta anche alle origini del rap: la battaglia rap, in particolare, è un duello verbale in rima nei quali gli avversari si fronteggiano improvvisando insulti sempre più spinti sulla madre dell’avversario con la formula “Yo mama” (“your mama”, tua madre). Questa tradizione deriva dalle “dozzine”, duelli d’insulti di origine africana, ma diffusi anche in diverse altre culture. Ma le “dozzine” non sono soltanto un duello verbale nel quale i partecipanti devono mostrare la propria abilità linguistica cercando di sconfiggere l’avversario con insulti sempre più creativi e pesanti. Secondo gli antropologi Millicent R. Ayoub e Stephen A. Barnett, le dozzine erano anche un rituale per rafforzare i legami fra i coetanei. Una sorta di rito di affiliazione: partecipando, il giovane è disposto a lasciare che altri insultino sua madre senza ritorsioni, in cambio di una più stretta integrazione nel suo gruppo di amici. Solo un rapporto molto intimo fra i partecipanti rende possibile gli insulti reciproci alle madri senza passare alle mani. Secondo il sociologo Harry Lefever, questo gioco potrebbe essere anche uno strumento per preparare i giovani afroamericani ad affrontare gli abusi verbali senza arrabbiarsi. Una sorta di allenamento a sopportare le provocazioni: un possibile effetto secondario rispetto alla sfida di sfidarsi con offese che fanno girare la testa.


Di battaglie rap sulla madre abbiamo anche un celebre esempio italiano: il “Mortal kombat” tra Fabri Fibra e Kiffa nel 2001. Dopo una sequela di insulti di vario genere, Fibra (dal minuto 2:08) inizia a insultare Kiffa dicendo “Tua madre non avvisa / Quando si fa calare a gambe larghe sopra la torre di Pisa”, a cui Kiffa risponde con: “Invece tua madre è troppo brava / L’ho vista conficcarsi la Mole Antonelliana”, e così via in un crescendo sempre più osceno e crudo (siete avvisati):

Oltre che nel rap, gli insulti alla figura materna sono diffusi a ogni latitudine. In spagnolo ci sono espressioni fantasiose come Tu madre tiene  bigote” (Tua madre ha i baffi) , o “Me cago en la leche que mamaste” (cago nel latte che hai succhiato dal seno di tua madre). In giapponese c’è l’espressione Anata no okaasan wa kuso desu (Tua madre è un pezzo di merda). In persianoMadar suchte“, Tua madre è bruciata all’inferno, e Nane khar “Tua madre è un’asina”.

Lo scrittore Lu Xun.

Gli insulti sulla madre sono molto diffusi anche in Cina. Già nel 1925 lo scrittore Lu Xun (1881-1936) osservava: «Chiunque abiti in Cina sente spesso dire “tāmāde” (他妈的 = tua madre) o altre espressioni abituali del genere. Credo che questa parolaccia si è diffusa in tutte le terre dove i cinesi hanno messo piede; la sua frequenza d’utilizzo non è inferiore al più cortese nǐ hǎo (ciao). Se, come alcuni sostengono, la peonia è il “fiore nazionale” della Cina, possiamo dire, allo stesso modo, che “tāmāde” ne è il “turpiloquio nazionale”».Secondo Xun, attaccare la madre era un modo per mettere in discussione non solo la reputazione, ma anche il prestigio sociale delle classi altolocate, che basavano il loro potere e prestigio sugli antenati: annientando questi ultimi, con espressioni come “discendente di madre schiava”(而母婢也), “sporco figlio dell’eunuco” (赘阉遗丑), scompare anche il prestigio dei presenti. «Se vuoi attaccare il vecchio sistema feudale, prendere di mira i lignaggi nobiliari è davvero una strategia intelligente. La prima persona ad aver inventato l’espressione “tāmāde” può essere considerata un genio, ma è un genio spregevole».

 

MODI DI DIRE

In italiano non ho trovato frasi fatte con espressioni denigratorie sulla madre. Ce ne sono 8, invece, in alcuni dialetti:

In napoletano:

Tua madre è così grassa: è uno degli insulti contro la madre

♦ chella pereta / loffa ‘e mammeta: quella scorreggia di tua madre

♦ chella zompapereta ‘e mammeta: quella salta scorregge di tua madre: appellativo rivolto alle donne popolane e volgari, o anche alle prostitute

♦ chella latrina / cessa ‘e mammeta: quel cesso di tua madre

♦ chella cessaiola / merdaiola ‘e mammeta : quella lava gabinetti di tua madre 

In veneto:

♦ to mare omo: tua madre è un uomo

Una particolare variante degli insulti materni riguarda evocare la morte della madre oppure insultare i suoi defunti, anche in questo caso nei dialetti:

In livornese:

♦  budello cane di tu madre morta: budella da cane di tua madre morta

♦ il budello de tu ma: le budella di tua madre

In pugliese:

♦ l’ murt de mam’t: i morti di tua madre

E tu, conosci altri modi di dire con insulti alla madre? Scrivilo nei commenti e aggiornerò l’articolo.

Ringrazio Lina Zhou per la preziosa traduzione dell’articolo di Lu Xun.


Ho parlato di questa ricerca a Radio Deejay, ospite della trasmissione “Il terzo incomodo” condotta da Francesco Lancia e Chiara Galeazzi. Qui sotto l’audio dell’intervento:

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Se l’insegnante dice parolacce a lezione https://www.parolacce.org/2024/04/10/parolacce-a-scuola/ https://www.parolacce.org/2024/04/10/parolacce-a-scuola/#respond Wed, 10 Apr 2024 10:00:19 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20406 Funzionano le parolacce a scuola? Nei mesi scorsi, mentre tenevo il workshop “Parolacce e comunicazione” all’università Iulm di Milano, alcuni lettori di questo blog (insegnanti compresi) mi hanno rivolto questa domanda. Avevo già affrontato l’argomento in un articolo di qualche… Continue Reading

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Insegnante dice parolacce a lezione (Dall-E)

Funzionano le parolacce a scuola? Nei mesi scorsi, mentre tenevo il workshop “Parolacce e comunicazione” all’università Iulm di Milano, alcuni lettori di questo blog (insegnanti compresi) mi hanno rivolto questa domanda. Avevo già affrontato l’argomento in un articolo di qualche anno fa. Ne parlo di nuovo oggi, alla luce delle ricerche uscite nel frattempo. 

Parto da una considerazione di fondo: non c’è, e non può esserci, una risposta univoca alla domanda se sia efficace usare il turpiloquio a lezione, perché è troppo generica. Le “parolacce”, infatti, includono un ventaglio di espressioni che vanno dagli insulti alle espressioni colloquiali, dalle oscenità alle imprecazioni: in questa categoria, insomma, rientrano espressioni bonarie e spiritose ma anche offese molto pesanti. Come dico sempre, le parolacce sono come coltelli: si possono usare per ferire ma anche per sbucciare una mela.

Ed è troppo vago anche il pubblico dei destinatari: gli studenti possono andare dai 6 ai 24 anni d’età, dalla prima elementare all’università: persone con sensibilità e maturità emotiva molto diverse fra loro. Sarebbe inaccettabile usare espressioni oscene con bambini di prima elementare, così come sarebbe fuori luogo utilizzare l’umorismo infantile “da gabinetto” con un pubblico di 20enni. 

Resta il fatto che il turpiloquio è  un linguaggio molto potente, e sarebbe troppo sbrigativo limitarsi a censurarlo in un’epoca come la nostra, in cui le parolacce sono onnipresenti e destano meno scandalo d’un tempo. A maggior ragione se ci si rivolge a un pubblico di adolescenti, che sono – da sempre – i più scurrili: il linguaggio sboccato potrebbe essere una via diretta per entrare in confidenza con loro.  

Una scelta a due facce

In generale, secondo le ricerche, usare un linguaggio volgare è una scelta a due facce: non è mai completamente vantaggiosa, ma neppure totalmente svantaggiosa. A seconda di come viene attuata, infatti, può avere effetti positivi o negativi. Ecco quali:

effetti positivi effetti negativi
il turpiloquio è un linguaggio sincero, diretto e spontaneo (se usato abitualmente e non come atteggiamento costruito “a tavolino” per strizzare l’occhio al pubblico) fa perdere autorevolezza
accorcia le distanze, creando un clima confidenziale e informale fa apparire meno competenti / professionali
attira l’attenzione fa apparire incapaci di controllarsi

Gli insegnanti, ma anche i comunicatori, i formatori, chi tiene una conferenza, dovrebbero sempre tener presente questa tabella quando valutano se usare o meno il linguaggio scurrile. Ci sono “pro e contro” in ogni caso: la differenza la fa il “perché” e il “come” sono usate. Ovvero, gli scopi comunicativi. Come ricorda Emily Mullins della Wichita State University «le parolacce non sono in sè un problema: tutto dipende dall’intenzione con cui sono utilizzate». O, come diceva Italo Calvino, le parolacce possono dare un particolare effetto musicale nella “partitura” del discorso: quindi, sono efficaci se al servizio di una narrazione, di un preciso scopo comunicativo.
Ma oltre all’efficacia, c’è anche un altro aspetto di cui tenere conto quando si parla di parolacce a scuola: l’opportunità. L’insegnante è un educatore, e come tale deve dare il buon esempio: dire parolacce rischia di minare gli intenti educativi e la propria autorevolezza. Dunque deve essere un’eccezione e non la regola: una scelta che va commisurata all’età e alla maturità degli studenti, per non rischiare sgradevoli equivoci o che degeneri il clima in classe. Possiamo affermare, in termini generali, che la scelta di dire parolacce a scuola sia diseducativa in modo inversamente proporzionale all’età degli studenti: ovvero, è tanto più diseducativa quanto più è giovane l’età degli studenti. 

Cosa dicono le ricerche

Parolacce in una conferenza (Dall-E)

Che cosa hanno scoperto gli studi sull’uso delle volgarità a lezione? Gli insulti («asino») e le maledizioni («vaffa») hanno effetti negativi perché sono aggressivi e umiliano il destinatario, abbassandone l’autostima. Dirli in modo bonariamente ironico ne attenuerebbe l’offensività, ma sono sempre un azzardo da evitare.
Le imprecazioni (“porca vacca”), rivolte a se stessi o agli strumenti di lavoro, danno un’immagine di aggressività e di “incontinenza emotiva” e sono percepite in modo negativo se sono reiterate. Un conto è imprecare perché un libro voluminoso ti cade sul piede, un altro è imprecare come un marinaio ogni volta che la lavagna luminosa non funziona.
«Gli insegnanti non dovrebbero imprecare davanti gli studenti per mostrare la loro frustrazione, poiché questo comportamento può essere visto come aggressivo. E l’aggressività degli insegnanti è negativamente associata all’apprendimento e alla soddisfazione degli studenti», sottolinea Mark Generous, docente di comunicazione alla California State Polytechnic University.

Il discorso cambia se lo scopo delle parolacce è quello di fare una battuta umoristica, enfatizzare un concetto, o attirare l’attenzione: in questo caso, le volgarità possono essere percepite in modo positivo. «Le parolacce inserite nel contenuto del corso, per enfatizzare, attirare l’attenzione o rendere più chiaro un concetto sono percepite come più appropriate rispetto ad altre categorie», sottolinea ancora Generous. Con una precisazione importante: le battute di spirito “salaci” rischiano di far sembrare il docente «uno che si atteggia, che vuole cercare di fare il simpatico usando il linguaggio dei giovani»: dunque, meglio non avventurarsi su questo terreno se non si ha un senso dell’umorismo collaudato.

Escludendo insulti e maledizioni, insomma, gli studenti, in genere, «hanno sentito gli insegnanti più vicini dopo che hanno detto una parolaccia. Si sono sentiti più a loro agio nel parlare con l’insegnante sia dentro che fuori la classe», dice Mullins. Le parolacce, come abbiamo detto sopra, se usate con intelligenza accorciano le distanze e creano un clima più informale e spontaneo.

Le conclusioni

Ci sono parolacce e parolacce. Ma conta di più lo scopo per cui si dicono (Dall-E)

In sintesi, conclude Generous, «mentre l’uso del linguaggio volgare da parte degli insegnanti non è intrinsecamente negativo, la sua percezione da parte degli studenti e l’impatto sul loro apprendimento e benessere emotivo dipendono fortemente dal contesto, dalla funzione e dall’obiettivo delle volgarità. Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli delle possibili implicazioni del loro linguaggio e cercare di mantenere un ambiente di apprendimento rispettoso e incoraggiante». 

«Gli insegnanti che scelgono di usare parolacce» aggiunge «dovrebbero farlo con giudizio e con uno scopo chiaro, collegandole al contenuto del corso per enfatizzare, chiarire concetti o attirare l’attenzione».

Non si potrebbe dirlo meglio: non esistono formule preconfezionate, parolacce consentite o proibite in quanto tali (escluse ovviamente quelle più offensive). Esistono invece scopi comunicativi e contesti (le personalità e le età degli studenti) che vanno valutati di volta in volta.

I contesti, come sempre, fanno la differenza. Come gestire il turpiloquio in una scuola che sorge in un quartiere disagiato? Provate a immaginare una classe come quella del film “Io speriamo che me la cavo” (1992). Un’opera di fantasia, per quanto ispirata da alcuni temi raccolti dal maestro Marcello D’Orta fra gli alunni delle elementari di Arzano (Napoli), con un linguaggio insolitamente scurrile. Come comportarsi con una classe del genere? Scandalizzarsi sarebbe ridicolo, ma usare il turpiloquio significherebbe dare un pessimo esempio. E ancor più difficile se ci si trova a insegnare in un carcere minorile

In tutti questi casi, il turpiloquio è legato a un lessico povero e limitato: la vera sfida, in questo caso, più che strizzare l’occhio alle volgarità, è allargare la prospettiva dei ragazzi, insegnando parole e pensieri alternativi.

GLI STUDI CONSULTATI

Non è semplice studiare il turpiloquio. Le simulazioni (una lezione in cui un finto professore dice parolacce) non sono uno specchio fedele delle vere lezioni in aula, nelle quali l’interazione, il rapporto si costruisce giorno dopo giorno.  Le ricerche che hanno trovato i risultati più interessanti sono stati dei “focus group” in cui le persone ricordavano episodi in cui un loro insegnante aveva detto espressioni scurrili. In ogni caso, è bene ricordarlo, i risultati degli studi offrono un quadro parziale su un tema così ampio e complesso.Inoltre, ogni cultura e ogni epoca possono avere sensibilità molto diverse sul turpiloquio. Quello che è inaccettabile per uno statunitense, potrebbe essere accettabile per un italiano e viceversa; ciò che era tabù ieri potrebbe non esserlo più oggi.
Fatte queste distinzioni, ecco i principali studi che ho consultato per scrivere questo post:

♦ Karyn Stapleton “Swearing and perceptions of the speaker: A discursive approach”, Journal of Pragmatics 170 (2020) 381e395

♦ Mark A. Generous, Seth S. Frei, & Marian L. Houser “When an Instructor Swears in Class: Functions and Targets of Instructor Swearing from College Students’ Retrospective Accounts”, Communication Reports Vol. 28, No. 2, July–December 2015, pp. 128–140

♦  Mark A. Generous & Marian L. Houser “Oh, S**t! Did I just swear in class?”: Using emotional response theory to understand the role of instructor swearing in the college classroom”, Communication Quarterly, 67(2), 178–198, 2019

♦  Emily Mullins, “Watch your mouth: swearing and credibility in the classroom”, Bachelor of Arts, Wichita State University, 2020

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Italo Calvino ( 1923-1985).

Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha dedicato loro un’acuta analisi che è attuale ancora oggi, anche se sono passati più di 40 anni. Forse può sorprendere che un autore così raffinato si sia dedicato al turpiloquio, ma in realtà è in ottima compagnia, come ho avuto modo di raccontare a proposito di Umberto Eco e molti altri che trovate nel mio libro. Perché le parolacce, come diceva Calvino, possono servire a dare un “effetto speciale” nella partitura del discorso.

Le 117 volgarità ne “Il sentiero dei nidi di ragno”

Per entrare nel mondo di Calvino, parto con l’analisi del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”: pur essendo stato pubblicato nel 1947, epoca di censure e perbenismo, presenta numerosi termini volgari o offensivi. Non è un caso: la storia, infatti, è ambientata in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana sotto dominio nazifascista. In guerra è più rude anche il linguaggio, e un romanzo realista ne deve tener conto.
Calvino utilizza in tutto 31 espressioni triviali per un totale di 117 volte, includendo anche termini forti come puttana, fottuto, bastardo, cornuto e terrone: mica male! E lo fa inglobando anche alcune espressioni colloquiali e dialettali, tranne il celebre “belin”: scelta insolita per un romanzo ambientato in Liguria. 

La scelta stilistica di Calvino è ancor più interessante perché il protagonista del libro è un ragazzo ribelle di 10 anni, Pin, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre. Privo di punti di riferimento, il bambino vive con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, una prostituta che s’intrattiene con i militari tedeschi. Dietro lo sguardo spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, da giovane, aveva lasciato gli studi universitari ed era entrato nella Resistenza, in clandestinità, a contatto con persone di umili origini.

Il romanzo conduce il lettore fin dalle prime righe nei vicoli di un paese ligure, proprio grazie alla spontaneità delle parolacce:

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. – Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella! 

 Già nell’incipit troviamo 3 insulti (muso di macaco, rubagalline, materasso, inteso come “grassona”) e una maledizione (ti si seccasse la voce in gola). Ma è Pin l’autore dell’espressione più pesante del romanzo, una sequenza di insulti che avrebbe voluto urlare in faccia ad alcuni clienti dell’osteria a cui stava nascondendo di avere in tasca una pistola: Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!

Una sequenza di alto impatto, costruita con una escalation di insulti in decasillabi quasi perfetti.

Nel ventaglio di espressioni scelte da Calvino per questo romanzo, prevalgono i termini colloquiali e gli insulti: Calvino si tiene alla larga dal lessico osceno, nonostante la sorella di Pin faccia la prostituta. Da segnalare l’assenza di espressioni molto diffuse come “cazzo”, “stronzo”, “coglioni” e “vaffanculo”. Ecco la lista completa delle parolacce presenti nel romanzo:

 [ per approfondire, apri la finestra cliccando sul + qui sotto ] 

TUTTE LE PAROLACCE
 

Imprecazioni (3)

  frequenza brano
mondoboia 25 Mondoboia, proprio come pensavo io.
mondo cane 2 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane,
merda! 1 – Merda! – gli fa Zena e gli volta le spalle.

Maledizioni (2)

Ti venisse un cancro 2 Ti venisse un cancro all’anima
Ti si seccasse la voce in gola 1  

Insulti (20)

scemo 9  mio marito è un po’ scemo ma è il miglior marito del mondo
bastardo 8 tutti questi bastardi fascisti che mi hanno fatto del male la pagano uno per uno.
carogna 8 mi dicevo: dove sarà andato a sbattere quella vecchia carogna,
cagna 6 Il capitano di sua sorella cagna e spia.
ruffiano 4 Il ruffiano lo andate a fare voi se ne avete voglia
cornuto 4 il tuo distaccamento… il distaccamento dei cornuti!
vacca 4 Quella vacca della tua bisnonna
porco 4 Egoista porco!
macacco / muso di macacco 3 Questa poi me la paghi, muso di macacco
puttana 3 Domando io se è il modo di mandare a puttane il mulo
scimmia 3 mia sorella, quella scimmia,
stupido 2  però il piantone è uno stupido e gli dà ai nervi
brutto muso 2 Brutto muso, – gli fa Giraffa, amichevole.
terrone 2 quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», poveri emigrati, guardati come estranei.
fottuto 1 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane, – fa Pin, – però sei anche un fottuto a lasciarmi lì mentre m’avevi dato la parola d’onore.
rubagalline 1 tu e quel rubagalline del tuo padrone!
materasso 1 Tu e quel materasso di tua sorella!
mangiasapone 1 Garibaldi ci ha portato il sapone e i tuoi paesani se lo son mangiato. Mangiasapone
cretino 1 E le toccai il nasino – e lei disse brutto cretino
sbirro 1 quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. 

Termini escrementizi (2)

piscia/pisciare 9 Nelle vene non mi scorre più del sangue, ma del piscio giallo
cacca/cacare 4 sporco sulle spalle di cacca di falchetto,

Termini colloquiali (4)

bordello 1 senti gli sputafuoco che bordello?
balle 2 le cose sono sicure o sono «balle», non ci sono zone ambigue ed oscure per loro
culo 1 Io vi spacchi i corni, io vi sfondi i culi…

 

strafottere 1 Me ne strafotto di tutte le vostre armi!

 

Le parolacce come musica

Avendo utilizzato a piene mani il turpiloquio nella sua prima opera, Calvino non ha mai avuto un atteggiamento snob o moralista verso le parolacce. Anzi, ne ha fatto oggetto anche di una riflessione molto acuta in un articolo del 1978 (uscito in origine sul “Corriere della sera”, poi raccolto nel saggio “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”). Nonostante siano passati 46 anni, è un’analisi ancora attuale. Calvino afferma che le espressioni triviali hanno un “insostituibile valore” per tre motivi.

Primo: hanno una forza espressiva ineguagliabile, dovuta alle loro connotazioni negative. Le parolacce sono «una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso, parlato o scritto», e la loro espressività è data proprio dal fatto che sono «regressive, fallocentriche o misogine». Inutile tentare di addolcirle, come ricordo spesso: le parolacce nascono come colpi sotto la cintura ed è ingenuo pensare di attenuarle.
Il disprezzo per il sesso che molte espressioni sottendono «ha un senso marcatamente conservatore d’affermazione di superiorità su un mondo inferiore. Prova ne è che il turpiloquio non ha mai liberato nessuno. Direi che, spesso, è vero il contrario».

Ma, per avere questi effetti espressivi, le parole oscene «vanno usate al momento giusto» perché «sono esposte più delle altre a un’usura espressiva e semantica, e in questo senso credo ci si debba preoccupare di difenderle: difenderle dall’uso pigro, svogliato, indifferente. Naturalmente, senza tenerle sotto una campana di vetro, o in un “Parco Nazionale”, come preziosi stambecchi verbali: bisogna che vivano e circolino in un “habitat” congeniale. La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti. Anche nelle altre lingue europee mi pare che le voci equivalenti siano tutte più pallide. Va dunque rispettata, facendone un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra».

Insomma, il turpiloquio è un ventaglio di espressioni a cui dobbiamo ricorrere in quanto «riserva di creatività, non in quanto repertorio di voci infiacchite. La grande civiltà dell’ingiuria, dell’aggressione verbale oggi si è ridotta a ripetizione di stereotipi mediocri. Giustamente ha osservato un linguista che dire “inintelligente” è molto più offensivo che dire “stronzo”». L’osservazione vale a maggior ragione oggi, epoca di grande inflazione delle parolacce in diversi contesti: non solo cinema, radio, giornali e tv, ma anche (e soprattutto) Internet. Anche quando si vuole attaccare una persona o un’idea, si utilizzano le solite espressioni logore, senza fantasia.

Secondo: i termini osceni sono le migliori espressioni se si vuole avere un effetto “denotativo diretto”. Per designare quell’organo o quell’atto meglio usare la parola più semplice, quando si intende parlare davvero di quell’organo o di quell’atto. Le parolacce, insomma, servono a chiamare le cose con il loro nome, sono il linguaggio più diretto. Ma con un’avvertenza, purtroppo non approfondita da Calvino: «la trasparenza semantica di una parola è inversamente proporzionale alla sua connotazione espressiva». Tradotto, significa: se una parola è molto ricca di sfumature emotive di significato, diventa una parola oscura. Un esempio? La parola “cazzo” che, quando non designa l’organo sessuale maschile è usata come sinonimo di nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Finisce così per significare tutto e il contrario di tutto.

Terzo valore delle parolacce: sono una forma di posizionamento sociale. «L’uso di parole oscene in un discorso pubblico (per esempio politico) sta a indicare che non si accetta una divisione di linguaggio privato e linguaggio pubblico. Per quanto comprenda e anche condivida queste intenzioni, mi sembra che il risultato di solito sia un adeguamento allo sbracamento generale, e non un approfondimento e uno svelamento di verità. Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio».

Il che è ancor più valido nella nostra epoca in cui i politici di ogni schieramento, da Bossi in poi, hanno fatto del turpiloquio uno degli aspetti costanti della comunicazione: tutti fanno a gara per apparire informali nel linguaggio e nell’abbigliamento, mentre i contenuti politici passano in ombra.

Le guerre e i traduttori di insulti

Calvino torna sulle parolacce anche in una sua opera matura, uno dei suoi capolavori: “Il cavaliere inesistente” (1959). Il romanzo è ambientato all’epoca di Carlo Magno, immaginato a scontrarsi con i Mori, ossia gli islamici. Nel primo scontro fra i due eserciti, Calvino scrive che, nelle prime fasi, quando i nemici entrano in contatto fra loro per la prima volta, vi sia un’armata di interpreti che traducono gli insulti pronunciati in arabo, spagnolo e francese.

Cominciavano i duelli, ma già il suolo essendo ingombro di carcasse e cadaveri, ci si muoveva a fatica, e dove non potevano arrivarsi, si sfogavano a insulti. Lì era decisivo il grado e l’intensità dell’insulto, perché a seconda se era offesa mortale, sanguinosa, insostenibile, media o leggera, si esigevano diverse riparazioni o anche odî implacabili che venivano tramandati ai discendenti. Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario. 

– Khar as-Sus! – Escremento di verme! 

– Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! Zabalkan! Merde! 

Questi interpreti, da una parte e dall’altra s’era tacitamente convenuto che non bisognava ammazzarli. Del resto filavano via veloci e in quella confusione se non era facile ammazzare un pesante guerriero montato su di un grosso cavallo che a mala pena poteva spostar le zampe tanto le aveva imbracate di corazze, figuriamoci questi saltapicchi. Ma si sa: la guerra è guerra, e ogni tanto qualcuno ci restava. E loro del resto, con la scusa che sapevano dire «figlio di puttana» in un paio di lingue, il loro tornaconto a rischiare ce lo dovevano avere. 

Una gustosa trovata narrativa, che ci ricorda un aspetto a cui di solito non pensiamo: gli insulti hanno effetto solo nella misura in cui c’è qualcuno che li riceve, li comprende e dà loro un peso. Altrimenti, sono solo fiato sprecato.

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Vaccate, cazzate e altre cose da nulla https://www.parolacce.org/2023/11/28/spregiativi-cose-situazioni/ https://www.parolacce.org/2023/11/28/spregiativi-cose-situazioni/#respond Tue, 28 Nov 2023 14:05:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20139 “Non vedere una mazza”. “Non capire un tubo”. “Dire cazzate”. Ci avete fatto caso? Alcune espressioni usano insulti come sinonimi di “niente” e “di scarso valore”. E per esprimere questi concetti così sfuggenti, usano un grande ventaglio di espressioni fantasiose,… Continue Reading

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Un poster di “Manifesti abbastanza ostili

“Non vedere una mazza”. “Non capire un tubo”. “Dire cazzate”. Ci avete fatto caso? Alcune espressioni usano insulti come sinonimi di “niente” e “di scarso valore”. E per esprimere questi concetti così sfuggenti, usano un grande ventaglio di espressioni fantasiose, che ho riunito in questo articolo.
Sono più di 50, e offrono uno sguardo sulle cose che la nostra cultura considera prive di valore. Una prospettiva arbitraria e sorprendente: ci si aspetterebbe che i riferimenti a rifiuti o escrementi siano la categoria più nutrita, visto che sono l’emblema dello scarto. E  invece sono più numerosi i riferimenti a oggetti, alimenti e organi sessuali.
Perché usiamo queste immagini? Per esprimere il nostro punto di vista emotivo. Un conto è dire “Con questa nebbia non si vede niente”,  ma se dico: “Con questa nebbia non si vede un cazzo (o un cazzo di niente)” esprimo la rabbia e il disprezzo verso la situazione. E do un valore enfatico, rafforzativo alla mia affermazione: “non vedere un cazzo di niente” significa non vedere completamente nulla.
Ho suddiviso i termini di questo tipo in 2 grandi famiglie:

  • i sinonimi di nulla, niente 
  • i sinonimi di “cosa da poco”, “ di scarso valore”

Le espressioni che ho raccolto hanno diversi gradi di offensività: si va dalle parole neutre alle espressioni enfatiche fino ai modi di dire volgari e blasfemi (evidenziati entrambi in rosso). 

Sinonimi di “nulla”

Come si può nominare il nulla? L’impresa, a ben pensarci, è impossibile: se il nulla non esiste, non possiamo averne esperienza e quindi descriverlo. I termini che lo designano sono:  zero, nullità, niente, vuoto, nessuna cosa, alcunché. Ci sono alcuni sinonimi con una valenza più espressiva:i rafforzativi nonnulla, nisba (dal tedesco “nichts”, niente), nullaggine, alcunché, checchessia. Ma nessuno di questi possiede un’espressività adatta a veicolare il disprezzo, la rabbia, insomma: una coloritura emotiva. Perché non rimandano a un’immagine concreta: per evocare il nulla, abbiamo bisogno di dargli una consistenza anche minima. Ecco come. 

ALIMENTI

♦ un fico / fico secco: nel mondo antico, il fico era considerato un cibo da poveri, di scarso valore economico. “Fico secco” è un’allusione a un episodio evangelico (Matteo XXI,18–19): Gesù, avendo fame, vide un albero di fichi, che però erano senza frutti. Allora disse. “Mai più nasca frutto da te, in eterno”. E subito il fico si seccò. 

♦ un’ostia: il sottile disco di farina di frumento (impastata con acqua naturale e cotta al forno) che il sacerdote consacra nel sacrificio della messa. E’ quindi un cibo di poco conto, e il suo uso come sinonimo di “nulla” è una forma di blasfemia anti religiosa 

♦ un cavolo: è considerato un ortaggio di scarso valore, e la sua sillaba iniziale si presta a farne un sinonimo eufemistico di “cazzo”

♦ (campare) d’aria: non avere nulla da mangiare

OGGETTI

♦ un tubo: per la sua forma cilindrica è un sinonimo allusivo di “cazzo”

♦ (non capire / fare) un accidente: l’accidente è la disgrazia fortuita, qui equivale a rafforzare il concetto di “nulla”

♦ una mazza: è un riferimento fallico, equivalente di “cazzo”. Secondo alcune interpretazioni potrebbe essere anche un riferimento al generale Francesco Mazza che nel 1909 fu nominato commissario straordinario per gestire i danni del terremoto di Messina: fece una marea di errori e angherie 

♦ una ceppa : la ceppa è la base del tronco di un albero, da cui si dipartono le radici. E’ un riferimento fallico

♦ un corno : riferimento fallico (tant’è che il corno portafortuna ha origine dal fallo, come raccontavo qui)

♦ (essere) carta straccia: scritto o denaro di nessun valore

♦ (non valere) una cica: è la membrana che si trova nell’interno della melagrana, di nessun valore 

♦ (non valere) una cicca : mozzicone di sigaretta  

♦ (non valere) una cicca frusta: La « cicca » in dialetto milanese è la biglia colorata, in origine di terracotta. Se erano fruste, cioè consumate, non andavano bene.  

♦ (non valere) un soldo bucato, non spendibile quindi senza valore    

♦ (non valere) un quattrino: moneta di rame di valore infimo 

 

SESSO
♦ un cazzo / un cazzo di niente: è il disprezzo verso il nostro lato animalesco, rappresentato dall’organo sessuale, come ho raccontato più diffusamente qui .

RELIGIONE
♦ una madonna, un cristo: qui i termini religiosi sono usati, per spregio verso la fede, come sinonimi di nulla  .

LETTERE

♦ (non capire) un’acca (fam.), in latino l’H, inizialmente si pronunciava aspirata, successivamente, con l’evoluzione della lingua, ha perso questa sua caratteristica aspirazione quando presente e quindi non valere più nulla

♦ (non importare) un ette (fam., in disuso): deriva dalla congiunzione latina “et”, “e”, una parola piccola e di poco valore.

 Cose da poco, di scarso valore

Come definire un oggetto senza valore? I criteri seguiti dalla nostra lingua sono due: la dimensione e l’utilità. In pratica, qualifichiamo qualcosa come così piccola o inutile da essere irrilevante, impercettibile, ininfluente, insignificante. 

OGGETTI

♦ cosa da niente, cosuccia, coserella

♦ pinzillacchera (dal napoletano pizzillo, pezzettino) 

♦ carabattola (lettuccio, oggetto di poco conto)

♦ (contare / valere come il) due di picche: la carta che vale di meno nel mazzo

♦ bazzecola da bazza, carta di poco valore vinta all’avversario 

♦ bagattella (da gabbatella, gabbare: oggetto falso), cosa frivola e di poco conto

♦ bubbola, da bubbolo, sonaglio (suono falso)

♦ corbelleria (da corbello, cesto di vimini: eufemismo di coglione)

SESSO

Film del 1971 diretto da Fernando Merino.

♦ del cazzo / cazzata, belinata, minchiata, bischerata (da bischero, pene; il termine designa il pirolo, legnetto per tendere una corda negli strumenti musicali): il disvalore attribuito all’organo sessuale è usato per esprimere disprezzo

♦ (del) menga: il termine ha un’origine oscura, probabilmente è  originato da un effetto di rima nella frase goliardica “è la legge del Menga, chi ce l’ha nel culo se lo tenga”, ovvero ‘chi ha subito un danno lo deve sopportare. L’espressione, da sola, equivale a “del cazzo” 

♦ coglioneria, coglionata: atto o cosa da coglioni

♦ fesseria da fessa (fessura): è uno dei rari casi di disprezzo attribuito all’organo sessuale femminile

♦ monata da mona (vulva), vedi sopra.

ESCREMENTI, SCARTI

La celebre recensione di Fantozzi al film “La corazzata Potemkin” (Il secondo, tragico Fantozzi”, 1976)

♦ stronzata, cagata, merdata / di merda

♦ aria fritta: discorso inconsistente al di là delle parole usate

♦ fetecchia: cosa di poco conto (da fetore, flatulenza)

♦ quisquilia: da quisquiliae, immondizia

   

ALIMENTI

♦ cavolata / del cavolo (qui usato per eufemismo di “cazzo”)

♦ boiata: (da boj, bollire: vivanda semiliquida): schifezza, porcheria, stupidaggine

♦ baggianata (da baggiana, fava in senso fallico): stupidaggine

♦ giuggiola frutto del giuggiolo buono ma di piccole dimensioni (e ricorda i testicoli)

♦ ostiata: stupidaggine, errore, cosa di poco conto (da “ostia” come cibo di poco conto).

DERIVATI DA INSULTI

Idea regalo per Natale: un libro di giochi che è tutto un programma.

♦ inezia (da inetto, “incapace”, quindi cosa fatta da un incapace).

♦ sciocchezza / sciocchezzuola, scemenza, stupidaggine, cretinata: atto compiuto da una persona poco intelligente, quindi di nessun valore

♦ puttanata, troiata, vaccata: stupidaggine, sciocchezza (lett.: cosa da donnaccia)

 

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Cameriere e clienti al “Karen’s diner” a Sydney.

Il più famoso è “La parolaccia” a Roma: un ristorante dove i camerieri usano un linguaggio volgare con i clienti. Ora la formula potrebbe diventare globale: una società australiana ha aperto infatti una catena di 8 ristoranti del genere, “Karen’s diner”, dall’Australia al Regno Unito fino all’Indonesia. Sono gli unici casi o ce ne sono altri? Sì: non molti (se ne conoscete altri, segnalateli nei commenti a fine articolo), e qui vi racconto le loro storie cercando di capire i motivi del loro successo, e a volte di alcune figuracce: insultare un cliente è un azzardo pericoloso, giocato sul filo del rasoio, e occorre uno spirito realmente ironico e giocoso per alleggerirli, altrimenti le offese pesano come macigni

La madre di tutti i ristoranti

L’ingresso di Cancio “La parolaccia”.

Partiamo da un punto fermo: la formula del ristorante insultante è stata inventata in Italia, per puro caso (non per marketing) nel 1951. In un’osteria, “Da Cencio” (vezzeggiativo dal nome del titolare, Vincenzo De Santis) aperta 10 anni prima. Qui, una sera, l’attore Massimo Serato aveva sentito per caso la titolare del locale che cantava stornelli popolari sboccati. Serrato, divertito, chiese alla donna se poteva replicare lo show la sera successiva. L’attore si presentò all’osteria con un gruppo di amici vestiti di tutto punto: i camerieri li sbeffeggiarono chiamandoli “pinguini” e passarono un’allegra serata fra stornelli e parolacce.

Massimo Serato

Da allora la sua fama crebbe: vi fu paparazzata la principessa Soraya, moglie ripudiata del re di Persia e fu frequentata da molti attori come Anna Magnani, Alberto Sordi, Vittorio Gassman. Ed è aperta tuttora, con un clima di caciara fra insulti, linguaggio sboccato, piatti tradizionali (il locale è nel cuore di Trastevere) e karaoke. Oltre ai camerieri avvezzi a insultare, infatti, nel locale si esibisce un animatore accompagnato da un pianista. Spiritoso l’avviso sul sito Internet per il giorno di chiusura: “domenica semo chiusi. Magnate a casa. Non fare il permaloso, stai al gioco. Tacci (mortacci) tua!”. 

Il locale è stato citato da vari film. Il più celebre (e divertente) è “Fracchia la belva umana” (1981) nel quale però è stato ribattezzato “Da Sergio e Bruno, gli incivili”.

Gli altri in giro per il mondo

Le parolacce accorciano le distanze, creano un clima di schiettezza, di confidenza, di gioco e di libertà: ecco perché la formula del ristorante “a insulto libero” ha fatto presa. Con l’aggiunta che un cameriere che ti insulta rompe un tabù, quello della cortesia e della buona educazione. Questo spiega perché molti cercano questa esperienza insolita.
I ristoranti di questo genere nati all’estero non sembrano aver copiato la formula italiana: sono nati a volte in modo spontaneo, altre con un evidente intento di marketing. Ma quando gli insulti sono giocati senza la leggerezza di un autentico spirito goliardico, in molti casi sconfinano
nella mancanza di rispetto e in un clima greve, tutt’altro che divertente. Spesso i locali di questo genere preferiscono camerieri di sesso femminile, perché un insulto detto da una ragazza suona meno minaccioso per i clienti (ma dipende da cosa e come lo dice, comunque…).

WIENERS CIRCLE - Chicago (Usa) dal 1983
  

Le panche del Wiener’s circle di Chicago.

E’ un chiosco di hot dog, celebre perché, durante i turni notturni, camerieri e clienti usano un linguaggio volgare. La tradizione è nata nel 1992, quando Larry Gold, uno dei proprietari, chiamò “stronzo” un cliente ubriaco, per attirare la sua attenzione. Da allora, di notte, camerieri servono hot dog e insulti ai clienti, in un clima goliardico. E con questo spirito, nel 2016, il locale ha inserito in menu il “Trump footlong”, un hot dog lungo 30 cm. Quell’anno, infatti, il senatore Marco Rubio aveva affermato, in campagna elettorale, che Trump avesse le mani piccole “E voi sapete cosa si dice sui tizi che hanno le mani piccole”, ha aggiunto velenosamente, riferendosi alle dimensioni del sesso. Al che Trump gli ha replicato “Te lo garantisco, non c’è problema. Te lo garantisco”. Così i titolari del chiosco hanno lanciato l’hot dog “superdotato”, ovviamente con lo slogan “Make America great again”.

La locandina con il riferimento agli “Shit hole countries” (Paesi-cesso) di Trump

E quando, nel 2018, Trump definì i Paesi africani, Haiti e l’Honduras come “shit hole countries”, ovvero “Paesi cesso, Paesi di merda”, il locale ha scritto sulla propria insegna “Le persone di tutti i Paesi sono benvenute in questo cesso”. Una buona dose di autoironia, oltre che di satira politica.
L’estate scorsa il Wieners circle ha ospitato come cameriere il cantante Ed Sheeran, che durante una tappa del suo tour ha servito un centinaio di hot dog, ma non si è sentito di insultare nessuno.“Il nostro nuovo apprendista ha ancora molto da imparare” hanno scritto sul profilo Twitter del chiosco. “È troppo educato e amichevole”.

Qui il sito ufficiale. E qui un video andato in onda sul programma “Conan” sulla TBS:

 

DICK’S LAST RESORT - Las Vegas (Usa), dal 1985
  

L’ingresso del “Dick’s last resort” a Las Vegas.

Il nome significa “L’ultima risorsa di Dick”, ma in inglese “dick” indica anche il sesso maschile: il nome vuol dire anche “l’ultima risorsa del cazzo”. E’ una catena di 12 fra bar e ristoranti negli Stati Uniti. La formula prevede uno staff volutamente sarcastico, che insulta i clienti. A questi ultimi viene fornito un cappello di carta con scritti vari insulti: devono indossarlo durante la loro permanenza nel locale.  I camerieri sono volutamente grezzi e provocatori: lanciano senza riguardo i tovaglioli e le posate sui tavoli dei clienti, e danno risposte maleducate. 

Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:

 

KAREN’S DINER - Sydney (Australia), dal 2021
  

I camerieri del Karen’s diner di Brighton posano con  il dito medio. Clienti avvisati

Il nome “Karen”, nel gergo australiano, indica “donna anziana e scortese, ignorante e arrogante” (megera). Durante la pandemia da Covid-19, il termine è diventato popolare perché designava, in modo sarcastico, le donne di 50-60 anni che si opponevano al lockdown e al distanziamento sociale per puro egoismo personale. E in questo contesto è nata l’idea del locale: «Il famigerato meme di Karen stava diventando virale nello stesso momento in cui il nostro personale doveva far rispettare i Green Pass e altre restrizioni, il che implicava il dover gestire molti comportamenti “alla Karen” da parte dei clienti. In realtà le persone erano solo frustrate dal lockdown, ma questo ci ha fatto venire l’idea di capovolgere il mantra dell’ospitalità e creare un locale in cui il personale potesse essere scortese con i clienti ed essere pagato per questo», racconta uno dei fondatori, Aden Levin. 

Il ristorante, all’inizio, doveva essere temporaneo, e rimanere aperto solo per 6 mesi. Ma ha suscitato dibattiti accesi: sui giornali, alcuni temevano che un clima di insulti potesse degenerare, a danno dei camerieri. Tutta pubblicità: il ristorante non solo è rimasto aperto, ma ha aperto 8 filiali fra Regno Unito e Indonesia. Non sono mancate, tuttavia, le scivolate nel cattivo gusto, e a spese dei clienti, più che dei camerieri: nel 2022 il locale è finito nella bufera per un video diventato virale su TikTok: un cameriere faceva commenti offensivi su una cliente minorenne, e dava del “pedofilo” al padre che stava cenando con lei. I proprietari hanno preso le distanze dal comportamento. Da allora al personale è stato imposto di evitare gli insulti basati su razzismo, sessismo e omofobia.

Al Karen’s Diner la maggior parte dei camerieri è di sesso femminile perché «è meglio quando una donna, o un uomo effeminato interpreta una Karen, piuttosto che un uomo minaccioso che insulta i clienti», hanno spiegato i titolari. Tuttavia, guardando i video registrati all’interno, le cameriere, sempre corrucciate, non sembrano molto spiritose. 

Qui il sito ufficiale, e qui un video girato nel locale:

LA TIENDA DEL MUÉRGANO - Barranquilla (Colombia), dal 2022
  

Le cameriere della “tienda del Muergano”.

E’ un ristorante nel quale le cameriere insultano i clienti (la frase tipica è «Che cosa prendi, figlio di puttana?»).
L’atteggiamento rimane comunque ironico, e i clienti hanno altrettanta libertà di rispondere a tono.
Il locale colombiano (l’unico del genere che ho trovato nei Paesi latini) ha fatto furore da quando alcuni influencer colombiani ne hanno parlato pubblicando articoli e video recensioni.

 

Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:

Quelli che hanno chiuso
  

DURGIN-PARK, Boston (Usa). Negli anni ‘70 era noto per le sue cameriere impertinenti e scontrose. Secondo la storia, il ristorante tendeva ad assumere per lo più vedove anziane che non necessariamente avevano bisogno di un reddito ma cercavano qualcosa da fare, e trovavano che lavorare a Durgin-Park fosse molto socievole. A quel tempo, le persone che entravano, per la maggior parte, erano uomini che uscivano da lunghi turni e tendevano a essere scortesi con loro, e arrivarono al punto che iniziarono a ricambiare subito. Poi il locale ha cambiato gestione e ha chiuso nel 2019.

Edsel Fung con alcuni clienti

SAM WO, San Francisco (Usa): Era un ristorante cinese, ritrovo della “beat generation”, frequentato da scrittori come Allen Ginsberg e Charles Bukowski. Ma divenne famoso per un altro motivo: la presenza di Edsel Ford Fung, “il cameriere più grezzo del mondo”. Fung era un omaccione: alto un metro e 80, capelli a spazzola, accoglieva i clienti al grido di «Siediti e stai zitto», imprecava se qualcosa andava storto, non esitava a definire «ritardati» o «ciccioni» i clienti che non gli piacevano (e spesso non li serviva neppure). «Praticava un malvagio sarcasmo che assumeva aspetti di performance art» scrivevano le guide turistiche dell’epoca. Citato in vari film e romanzi americani, Fung è morto nel 1984. Il suo ruolo è stato ereditato dalla figlia, altrettanto scortese e irascibile. Fino alla chiusura del locale nel 2012 per motivi sanitari (feci di ratto in cucina). 

COACH AND HORSES, Londra (Regno Unito). Era uno dei locali più in voga di Soho. Divenne celebre per i modi rudi del proprietario Norman Balon, che vi lavorò dal 1943 fino al 2006. «Sono scortese per natura. Non ho pazienza con nessuno», diceva. E così non esitava a dire frasi come «Non sei un fottuto cliente abituale. Quelle stronze laggiù sono fottutamente clienti abituali». Lui, comunque, era orgoglioso di questa nomea tanto che aveva fatto stampare, sulle scatole di fiammiferi del locale, la scritta “Il barista più rude di Londra”. Qui sotto un breve documentario su Balon:

 Se vi è piaciuto questo articolo, potete leggere anche: 

⇒ I 20 ristoranti più sfacciati del mondo, ovvero i locali esteri con insegne volgari in italiano: da “Pizza cazzo” alla “Cantina della baldracca”, fino alla “Zoccola del pacioccone”.

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“Chissene”, “fiodena” e altre 22 parolacce accorciate https://www.parolacce.org/2023/09/16/abbreviazioni-parolacce/ https://www.parolacce.org/2023/09/16/abbreviazioni-parolacce/#respond Sat, 16 Sep 2023 13:30:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19999 I più famosi sono “vaffa”, “rinco” e “chissene”. Ma come ve la cavate con “giamairo”, “mastica” o “arrodugò”? Sono tutte forme abbreviate di parolacce: diminutivi, forme tronche (apocopi), acronimi. In questo modo le espressioni diventano più veloci e incisive. Un… Continue Reading

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I più famosi sono “vaffa”, “rinco” e “chissene”. Ma come ve la cavate con “giamairo”, “mastica” o “arrodugò”? Sono tutte forme abbreviate di parolacce: diminutivi, forme tronche (apocopi), acronimi. In questo modo le espressioni diventano più veloci e incisive. Un requisito che, quando si tratta di offendere, di reagire a un torto, ha una sua importanza. Non a caso in inglese le parolacce sono chiamate “4 letters words” (parole di 4 lettere), perché le espressioni scurrili più usate sono appunto di 4 lettere: fuck, shit, cunt, piss, cock, tits, crap…

L’esigenza di parlare in modo veloce ed efficace è diffusa soprattutto nel gergo giovanile. “Raga”, “tranqui”, “situa” sono solo alcuni degli esempi di abbreviazioni al servizio di una comunicazione più rapida. Un’esigenza nata nelle grandi metropoli del Nord già negli anni ‘60, e oggi resa più pressante dall’utilizzo del telefonino: dagli Sms fino a X (twitter), le principali piattaforme digitali hanno infatti limiti stringenti di capienza del testo, e questo spinge gli utenti ad accorciare i messaggi e le parole di cui sono composti. In questo modo, le espressioni scurrili diventano non solo più corte, ma anche più ermetiche: le capisce chi già ne conosce il significato, sono un linguaggio in codice. Diventano insomma un’allusione, più morbida rispetto alla versione integrale.

La lista delle 24 parolacce abbreviate

Qui sotto la lista di 24 espressioni di questo genere, che ho ricavato da Slengo (dizionario online dei neologismi), e dal libro “Scrostati gaggio! – Dizionario storico dei linguaggi giovanili” di Renzo Ambrogio e Giovanni Casalegno. Potete segnalarne altre nei commenti: aggiornerò la lista.

ESPRESSIONE SIGNIFICATO
arroddugò Abbreviazione di “arrori du coddiri” (sardo), che ti fotta un orrore, uno spavento. Ovvero che tu sia colpito da una disgrazia pesante. Può essere usato come maledizione ma anche come formula di ammirazione
B.M. o BM Acronimo di “bimbominkia”, utente di Internet spesso giovane, di scarsa cultura e capacità linguistica, dal carattere infantile, autoreferenziale, arrogante
chittasa  Apocope di “chi ta s’ancula” (romanesco), ovvero “chi ti si incula”: non conti nulla per me.
corca Apocope di “cor cazzo” (romanesco), ovvero “col cazzo”: per nulla al mondo
cazzomene Apocope di “Che cazzo me ne frega” o “Che cazzo me ne fotte”. Esiste anche la variante “cazzotene” (“che cazzo te ne frega”) 
chissene/chisse Apocope di “chi se ne frega” o “chi se ne fotte”
fiodena Apocope di “fijo de ‘na mignotta” (romanesco): figlio di puttana
fottesega Abbreviazione di “non me ne fotte una sega” (toscano), ovvero “non mi importa per niente”.
giamaica Apocope di “già m’hai cacato er cazzo” (romanesco): “già mi hai cagato il cazzo”, ovvero non ti sopporto più.
giamairo Apocope di “già mi hai rotto i cojoni” (romanesco), “già mi hai rotto i coglioni”.
KTM Acronimo dell’imprecazione “chitemmuort” (napoletano), “chi ti è morto”, una maledizione rivolta ai parenti defunti di qualcuno (mannaggia a chi ti è morto, all’anima di chi ti è morto)
LMCS Acronimo di “li morti che sei” (pugliese), altra offesa contro i defunti
mastica Apocope di “ma ‘sti cazzi” (romanesco): non mi interessa.
mongo Apocope di “mongoloide”: stupido, idiota
pampa Apocope di “pampasciune” (pugliese): coglione, fesso. 
randa  Apocope di “randagio” (lombardo): tamarro, truzzo
rimba Apocope di “rimbambito”
rinco Apocope di “rincoglionito”
rompi Apocope di “rompiscatole”, “rompiballe”, “rompicoglioni”: spesso ha una connotazione vezzeggiativa  
stika Apocope di “sticazzi” (romanesco): chi se ne frega
tama Apocope di “tamarro” (Piemonte)
unca Apocope di “un cazzo” 
vaffa Apocope di “vaffanculo”
zama Apocope di “zamarro”: tamarro 
PU.TRO.ZO.MI.
L’avvocato Giuseppe d’Alessandro, cassazionista e autore del “Dizionario giuridico degli insulti”, segnala un acronimo che non avevo mai sentito. Ma viene utilizzato, poiché è finito in una sentenza, la numero 182/2022, del Tribunale del lavoro di Roma. Il giudice ha condannato una società romana a cui una dipendente aveva fatto causa per molestie sessuali e discriminazione sul lavoro. La donna lavorava in un ufficio di logistica. Oltre a essere bersaglio di continui apprezzamenti fisici, racconta la sentenza, la donna veniva chiamata da alcuni colleghi “PUTROZOMI”, acronimo di “puttana, troia, zoccola, mignotta”. Quando si tratta di insultare, la fantasia non ha limiti.

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I calciatori della Germania posano con la mano sulla bocca all’inizio dei Mondiali: una protesta contro la FIFA, che aveva vietato di indossare fasce arcobaleno in Qatar (come solidarietà al mondo LGBT).

Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di mira, e quando.
La Fifa, infatti, durante il torneo aveva
alzato una barriera protettiva virtuale per i calciatori, il Servizio di protezione dei social media (SMPS): un sistema di intelligenza artificiale che ha monitorato le principali piattaforme di social media (Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, YouTube) alla ricerca di post o commenti insultanti. Che sono stati in parte censurati in tempo reale sugli account di giocatori, allenatori,staff, squadre, in parte segnalati alle piattaforme.

Ora, a distanza di mesi dall’evento, la Fifa ha pubblicato un report che fa un bilancio dell’esperienza. E offre molti interessanti spunti di riflessione, anche se l’Italia non ha partecipato al torneo: è una delle prime volte in cui un torneo mondiale è stato monitorato dall’intelligenza artificiale (sebbene affiancata da quella umana) in un’operazione di protezione (o censura, a seconda dei punti di vista) in tempo reale e su scala globale. Alle squadre e ai giocatori la Fifa ha dato infatti un software di moderazione che nasconde automaticamente i commenti offensivi sui loro account: in questo modo sono stati occultati al pubblico 286.895 commenti.

In più lo studio ha risposto ad alcune curiosità: quanto sono frequenti gli insulti a squadre e giocatori? [ Risposta: poco ] Quali offese sono più frequenti e da dove arrivano? [ quelle generiche, e dall’Europa ]  Ci sono squadre più bersagliate di altre? [ la Francia ]. Con molte sorprese: razzismo e omofobia non sono stati i temi più frequenti della fogna virtuale.

Il sistema protettivo

La fasce anti discriminazione consentite dalla Fifa ai Mondiali femminili in Australia e Nuova Zelanda

Che il calcio sia uno sfogatoio dell’aggressività non è una novità. Molti calciatori diventano bersaglio dei tifosi, a ogni latitudine. E spesso questo può pregiudicare la loro serenità e il loro rendimento in campo. L’ex attaccante del Brasile Willian Borges da Silva ha sperimentato in prima persona gli abusi online: i tifosi del Corinthians insultavano lui e la sua famiglia ogni volta che non giocava all’altezza delle loro aspettative. Così, per evitare questi episodi, ha deciso di trasferirsi in Inghilterra (per il Fulham). 

«Un ambiente online tossico è un posto difficile e rischioso per i giocatori. L’odio e la discriminazione nell’ambiente online avere effetti dannosi sul loro benessere generale con attacchi di ansia, depressione, bassa autostima, disturbi del sonno, cambiamenti nelle abitudini alimentari, sentimenti di inadeguatezza, ritiro sociale e isolamento» ammonisce il report. 

Perciò, in vista dei mondiali, la Fifa ha attivato il Servizio di protezione dei social media (SMPS) chiamato “Threat Matrix” della società britannica Signify.ia: i giocatori di tutte le 32 Federazioni hanno fruito di un servizio di monitoraggio, segnalazione e moderazione dei commenti offensivi nelle lingue delle squadre che partecipavano al torneo. In pratica, un sistema di intelligenza artificiale, impostato in modo da riconoscere migliaia di parole-chiave insultanti nelle 7 lingue ufficiali della Fifa (inglese, francese, tedesco, spagnolo, arabo, portoghese e russo), ha analizzato oltre 20 milioni di post e commenti. Gran parte veniva da utenti di Instagram (43%), seguito da Twitter (26%) e Facebook (24%), il resto da TikTok (6%) e YouTube (1%).

Gli insulti? Un’eccezione

Fra i 20 milioni di commenti, il sistema ne ha segnalati 434mila (il 2,17%) agli operatori umani per ulteriore controllo: di questi, quasi 287mila (1,4%) sono stati bloccati (cioè resi invisibili sugli account dei partecipanti al Mondiale e al pubblico) e 19.600 (0,1%) sono stati segnalati alle piattaforme dei social media in quanto verificate come offensive. 

Voglio sottolineare le percentuali in gioco: i commenti sospettati come offensivi erano il 2,17%, quelli effettivamente bloccati l’1,4% e quelli più gravi, segnalati alle piattaforme,solo lo 0,1%.

Una statistica del tutto in linea con i trend che avevo rilevato nel linguaggio parlato (lo studio qui): le parolacce usate nell’italiano rappresentano lo 0,2% (in questo caso, però, ho conteggiato una singola parola, mentre nel report Fifa si conteggiano i post o i commenti, che possono contenere più di un termine insultante). Ed è un fatto insolito che sui social i commenti offensivi siano così bassi, dato che – rispetto al linguaggio parlato – ci si può nascondere dietro uno schermo e un nome falso. In ogni caso, per valutare seriamente la rappresentatività di questo dato bisognerebbe sapere quali e quante parole-chiave siano state impostate nel monitoraggio (e questo non è dato sapere).

Il report precisa che la Fifa «migliorerà ulteriormente i filtri di moderazione SMPS in vista del Campionato del mondo femminile Australia e Nuova Zelanda 2023» che terminerà in agosto.

Gli autori? Chissà

La nota dolente del report riguarda la possibilità di identificare ed eventualmente sanzionare gli autori di commenti irrispettosi: sono stati censiti 12.600 autori di post offensivi (in teoria ne avrebbero scritti 34 a testa) e solo 306 di loro (il 2,4%) sono stati effettivamente identificati per nome, cognome e indirizzo. Le loro identità sono state messe a disposizione dalla FIFA alle Federazioni affiliate e alle autorità giurisdizionali «per supportare l’azione intrapresa nel mondo reale contro coloro che hanno inviato commenti offensivi, discriminatori e minacciosi alle squadre e ai giocatori partecipanti durante la Coppa del Mondo FIFA». Ma il report segnala che «la risposta iniziale di Meta (proprietaria di Instagram e Facebook, ndr) alle loro segnalazioni era spesso una risposta automatica “che il team di revisione non era stato in grado di esaminarle”».
In più, prosegue il report, «
è stato rilevato un abuso razzista proveniente da un account in cui persino il nome dell’account conteneva termini chiaramente offensivi e razzisti, violando chiaramente i termini di servizio di Meta. Ciò ha segnalato una vulnerabilità nel processo di revisione della piattaforma, poiché l’account offensivo è rimasto attivo per più di 4 mesi dopo la fine del torneo, nonostante fosse stato segnalato il giorno della finale».
Non a caso, il p
residente della Fifa Gianni Infantino ha commentato: «Ci aspettiamo che le piattaforme di social media si assumano le proprie responsabilità e ci sostengano nella lotta contro ogni forma di discriminazione».

Dei 12.618 account che hanno inviato messaggi offensivi durante il torneo, è stato possibile identificare le loro provenienze per 7.204. Tre quarti dei “leoni da tastiera” vivono fra Europa (38%) e Sud America (36%).

Gli insulti più usati

Quali tipi di insulti sono stati rilevati? Per lo più generici (26,24%), seguiti da termini osceni (17,09%) e sessismo (13,47%). Solo 4° l’omofobia (12,16%) e il razzismo (10,7%), anche se a quest’ultima voce bisognerebbe aggiungere xenofobia (0,92%), anti Rom (0,37%), antisemitismo (0,18%), e forse anche islamofobia (1,94%), per un totale del 14,11%. Difficile, comunque, districarsi nella miriade di categorie con cui sono stati censiti gli insulti: come l’abilismo (che io ho tradotto con “insulti anti disabili”), o gli “insulti allusivi” (dog whistle: “banchieri internazionali” come sinonimo allusivo di “ebrei”), più altri difficilmente valutabili.

Ciò che conta, comunque, è la prevalenza di insulti generici o osceni, per un totale del 43,33%, quasi la metà dei casi: omofobia e razzismo, che tanto fanno scalpore sulle cronache, messi insieme arrivano solo a un quarto dei casi. Sono episodi emendabili ma non sono i più diffusi. E tra l’altro sono quelli che destano più preoccupazioni alla Fifa, che nel suo statuto ha inserito la lotta alla discriminazione in tutte le sue forme.

Per fare un confronto, «le finali di AFCON 2021 ed EURO 2020 sono state più colpite pesantemente dai contenuti razzisti e omofobi, con il 78% di tutti gli abusi rilevati che rientrano in una di queste due categorie. L’abuso razzista e omofobo è in genere il più eclatante e più facilmente identificabile e perseguibile dalle piattaforme».

D’altronde, nello sport, come nelle guerre, nel traffico o nelle riunioni di condominio (ovvero i contesti ad alto tasso di aggressività) si offende più per sfogare le proprie pulsioni aggressive che per volontà di emarginare: e tutto l’arsenale delle offese va bene pur di per ferire (simbolicamente) un avversario.

I più bersagliati (e quando)

Interessanti le statistiche su quale sia stata la nazione più bersagliata dagli insulti: la Francia, seguita da Brasile e Inghilterra, E più giù Messico, Argentina e Uruguay. La Germania (la nostra bestia nera ai Mondiali) è in coda alla classifica. Lascio agli esperti di calcio ulteriori interpretazioni che non sono in grado di dare.
Interessante, comunque, notare che la partita che ha acceso maggiormente gli animi non è stata la finale Argentina-Francia, bensì lo scontro Inghilterra-Francia, due rivali storiche, bersagliato da oltre 12mila commenti offensivi. Seguono la finale Argentina-Francia, e Marocco-Portogallo, entrambi sopra i 10mila. Accese anche le reazioni durante i match che hanno visto coinvolta la Germania (contro il Giappone e il Costa Rica) oltre ad Arabia Saudita-Messico.
«
La violenza e la minaccia sono diventate più estreme man mano che il torneo andava avanti con le famiglie dei giocatori sempre più referenziate e molti minacciati se sono tornati in un determinato Paese. Nelle fasi finali del torneo, il targeting individuale è stato più pronunciato, a causa di prestazioni, incidenti o rigori sbagliati» conclude il report. Il tifo si è acceso man mano che la posta in gioco si faceva più rilevante.

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La classifica dei giornali più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2023/04/14/parolacce-sui-giornali/ https://www.parolacce.org/2023/04/14/parolacce-sui-giornali/#respond Fri, 14 Apr 2023 08:11:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19763 Fino agli anni ’90, certe espressioni si leggevano solo sui giornali satirici, come “Cuore“, il “Vernacoliere” o “Il Male“. Ma negli ultimi anni le parolacce si sono diffuse anche su testate di altri generi: prima sui giornali politici d’opposizione, come… Continue Reading

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Prima pagina di Libero (2017): il titolo è giocato con un doppio senso volgare.

Fino agli anni ’90, certe espressioni si leggevano solo sui giornali satirici, come “Cuore“, il “Vernacoliere” o “Il Male“. Ma negli ultimi anni le parolacce si sono diffuse anche su testate di altri generi: prima sui giornali politici d’opposizione, come “La Padania“, “Il Giornale“, “Libero“. E oggi le parolacce si leggono quasi su ogni quotidiano, comprese le testate generaliste considerate più autorevoli, come il Corriere della sera, La Repubblica o Il Foglio. Eufemismi, asterischi, puntini di sospensione hanno ceduto il passo a un crudo realismo. Perché siamo arrivati fin qui? Quali sono i giornali italiani che pubblicano più parolacce nei loro articoli? E quali sono le espressioni volgari più usate?

Una società che monitora i media nazionali, Volocom, ha fatto un’interessante ricerca per rispondere a queste domande. Al netto delle imprecisioni linguistiche, lo studio – che parolacce.org ha ottenuto in versione integrale – offre interessanti spunti di riflessione. Segno dei tempi, dato che le espressioni scurrili sono sempre più usate soprattutto nella vita quotidiana, di cui – ricordiamolo – i giornali sono lo specchio. Basti ricordare che dal 2016 (governo Renzi) le ingiurie sono state depenalizzate. Un atto che ha sancito quanto il turpiloquio sia ormai considerato accettabile quasi ovunque: in una mia precedente ricerca ho scoperto che, rispetto agli anni ’90, oggi diciamo 2/3 in più di volgarità e 3 volte più spesso. Con il rischio che stiamo inflazionando il loro potere espressivo.

Il Web è più volgare della carta

Prima pagina del “Fatto quotidiano” con una parolaccia in apertura.

Per la ricerca, Volocom ha censito 38 espressioni scurrili. In ordine alfabetico sono le seguenti: bagascia, bastardo, battona, bocchino, cacasotto, cagacazzo, cagata, cazzo, cesso, checca, chiavata, coglione, cretino, culattone, deficiente, figa, frocio, imbecille, leccaculo, merda, mezzasega, mignotta, minchia, pippa, pirla, pompino, puttana, ricchione, rompipalle, scopata, sfigato, stronzata, stronzo, stupido, succhiacazzi, trombata, vaffanculo, zoccola. E’ un discreto campione, ma presenta alcuni limiti di cui parlerò più avanti. 

Nel 2022 queste 38 parole sono apparse 63.919 volte, con un aumento del 16% rispetto al 2021. Ciò significa che, sugli organi di stampa, le parolacce appaiono oltre 175 volte al giorno sulle principali testate italiane. Rispetto al 2021, il turpiloquio è aumentato del 10% sulla carta stampata e del 20% sul Web.

Un altro dato importante: le parolacce sono usate maggiormente sui giornali online (60,9%) rispetto a quelli di carta (39,1%). Per diversi motivi: innanzitutto, perché il Web è considerato un medium più colloquiale e diretto, che strizza l’occhio a un pubblico giovane e moderno (e per lo più maschile, dato che gli uomini dicono più volgarità delle donne). I giornali, per farsi leggere in un’epoca di generale sfiducia verso le istituzioni (“i giornaloni”) hanno iniziato a somigliare ai social media anche nel linguaggio informale.
Per converso, la carta stampata è considerata ancora un mezzo più autorevole o quantomeno più vincolato a regole formali.

Del resto, siamo abituati al fatto che sui social si dicono più parolacce rispetto a quante si pronunciano di persona: è l’effetto della CMC, computer mediated communication. Quando siamo nascosti da uno schermo ci sentiamo meno esposti direttamente, quindi più liberi di dire parolacce senza rischiare la faccia. 

Prima pagina de “La verità”: attacca la Annunziata per una parolaccia, ma usa una parolaccia (“balle”) in un titolo vicino (i cerchi sono miei).

Ma c’è anche un altro, e più determinante fattore che spinge a usare le parolacce: il fatto che funzionano come “acchiappa clic”. Le scurrilità fanno sempre audience, perché attirano l’attenzione, soprattutto dei navigatori in cerca di notizie piccanti. E più pubblico significa più introiti pubblicitari.

Gli analisti di Volocom sottolineano questa tendenza con un caso emblematico: «il “Corriere della Sera” nel 2022 ha pubblicato sul cartaceo 20 articoli dove compare la parola “cazzo”, mentre sul suo sito web le citazioni sono più del doppio. Stesso discorso per “Il Giornale”, che sul suo sito riporta la parola 89 volte contro le 38 dell’edizione cartacea».
In ambo i casi, comunque, gioca anche un’esigenza di realismo: oggi che siamo più abituati al linguaggio rude (presente al cinema, alla radio, in tv), possiamo permetterci di leggere una frase senza censure. Ulteriore segnale che le parolacce si stanno inflazionando. Al punto che spesso si crea un corto circuito mediatico altamente contraddittorio: la medesima testata può ospitare un editoriale perbenista sulla volgarità dilagante, e il giorno dopo sparare una scurrilità su un titolo a tutta pagina, in nome dell’audience

Le testate più sboccate: il buongiorno si vede dal… Mattino

Qual è la testata che pubblica più parolacce? Sorpresa: non è né “Libero” né “Il Giornale”, bensì “Il Mattino” edizione di Benevento: nel 2022 ne ha pubblicate 1.242, pari al 2% del totale. Spalmate su tutto l’anno, sono una media di oltre 3 al giorno.

Seguono “Il fatto quotidiano” con 560 parolacce, e a pari merito al terzo posto “Il foglio” e, per l’appunto, “Libero” entrambi con 488 espressioni. Dunque, a parte un quotidiano di cronaca, sono soprattutto le testate con un forte orientamento politico a utilizzare un linguaggio sboccato: “Il fatto quotidiano” è vicino al Movimento 5 stelle, mentre “Il foglio” e “Libero” sono più vicini al centro-destra. “La Repubblica”, vicina al centro-sinistra, con 352 espressioni manca il podio e si classifica al quarto posto. Una tendenza che avevo già rilevato in una mia precedente indagine storica. Non bisogna dimenticare infatti che – da Umberto Bossi a Beppe Grillo – i politici hanno imparato che le parolacce sono utili ad attirare l’attenzione, ad apparire più schietti e diretti.

Meno sorprese sulle testate Web: vince a mani basse “Dagospia” con 2.398 espressioni (più di 6 al giorno), seguito da Liberoquotidiano.it (616) e corriere.it (551). Dagospia, infatti, dedica molto spazio a notizie di gossip e di spettacolo, usando un linguaggio volutamente popolare e immagini piccanti. Sorprende invece la presenza sul podio di un quotidiano blasonato e conservatore come il “Corriere della sera”: sul Web non censura le espressioni più forti, probabilmente per attrarre più pubblico e apparire al passo coi tempi. Basti dire che per scurrilità nel 2022 il “Corriere” ha superato “FanPage” e ilgiornale.it, entrambi con 518 parolacce. 

Le parolacce più usate

La ricerca ha identificato, nella lista dei 38 lemmi, quali sono i più usati: i primi 10 in classifica coprono quasi il 70% delle espressioni censite.

parolaccia % sul totale testata cartacea che la usa di più testata online che la usa di più
stupido 21,5% Libero Informazione.it
merda 14% Il fatto quotidiano Dagospia
cazzo 11,6% Il fatto quotidiano Dagospia
cretino 6,6% Il foglio Informazione.it
cesso 6,5% Quotidiano del Sud (Cosenza) Informazione.it
bastardo 5,3% Corriere dell’Umbria Informazione.it
imbecille 4,3% Libero Informazione.it
puttana 4,3% La Repubblica Informazione.it
stronzo 3,1% Il fatto quotidiano Dagospia
sfigato 2,8% Il Mattino della domenica Informazione.it

Dunque, “stupido” è l’insulto più usato, in un caso su 5. Non è uno dei più pesanti: nei primi 10 posti appaiono epiteti come “puttana” e “stronzo”, che in una mia precedente indagine (il volgarometro)  sono risultate fra le parole più offensive in italiano. Significativo che siano state usate di più da due quotidiani a diffusione nazionale come La Repubblica e Il fatto quotidiano.  

Da notare che “cazzo” – la parolaccia più usata nell’italiano parlato (come avevo riscontrato in una mia recente indagine) – sui giornali risulta invece al 3° posto, superata da “stupido” e “merda”.

Sui giornali, quindi, si usano espressioni diverse rispetto al parlato: nelle prime 10 posizioni figurano espressioni che nell’italiano parlato si usano meno, come cretino (22° nel parlato), cesso (19°), bastardo (15°), imbecille (26°), puttana (20°). 

Per quanto riguarda i termini più grevi, salta all’occhio che siano stati usati da testate autorevoli: bocchino (più usato da “Il foglio”), cagacazzo (“Alto Adige”), figa (“Il fatto quotidiano”), vaffanculo (“Il fatto quotidiano”), stronzo (“Il fatto quotidiano”), coglione (“Il fatto quotidiano”), scopata (“Il fatto quotidiano”), succhiacazzi (“Il fatto quotidiano”), culattone (“La stampa”). Dunque, “Il fatto quotidiano” risulta essere il giornale cartaceo che usa il turpiloquio con maggior disinvoltura, almeno per quanto riguarda le espressioni più forti.

Da segnalare, infine, che la categoria degli insulti generici (coglione, stronzo, bastardo, imbecille, deficiente, cretino, rompipalle, stupido…) è quella più rappresentata: quasi una parolaccia su 3 rientra in questa categoria.

I contesti delle parolacce

Prima pagina de “Il Giornale” con un epiteto volgare e sessista sull’ex cancelliera Merkel.

L’analisi di Volocom non ha rilevato in quale senso siano state usate le parolacce censite: l’analisi si è limitata a censire le espressioni scurrili senza approfondire in quale contesto e in quale significato fossero usate. Un indizio sul loro uso arriva però dalla sezione dei giornali in cui sono apparse: quasi sempre sulle pagine della cultura e degli spettacoli: quelle in cui si raccontano le cronache della tv, dei libri, del cinema, tutti contesti dove le volgarità sono presenti in modo rilevante. Per raccontare la cronaca di una rissa in tv, ad esempio, si devono riferire fra virgolette gli improperi utilizzati dai protagonisti.

Fanno però eccezione gli insulti generici: appaiono di più, oltre che nelle pagine degli spettacoli, in quelle della politica. Perché come ben sappiamo i nostri politici si combattono più a suon di insulti che di argomentazioni razionali. D’altronde, come raccontavo in questo articolo, varie ricerche hanno mostrato che l’uso del turpiloquio in politica per lo più paga.

I limiti della ricerca

La ricerca, pur molto interessante, presenta alcuni limiti che è doveroso segnalare.

  1. la scelta dei lemmi scurrili: lo studio non indica con quali criteri siano stati scelti i 38 della lista. Sarebbe stato più sensato censire i termini scurrili più frequenti nell’italiano parlato (vedi qui), Ad esempio l’indagine ha trascurato termini molto utilizzati come culo,  porco, cagare (ci sono però cagata, cagasotto e cagacazzo), incazzare,  troia, fottere, figata, tette, sega, baldracca, terrone, cornuto, negroE ancor più completo sarebbe stato inserire le oltre 300 parolacce del nostro vocabolario elencate nel mio libro.
  2. la categorizzazione delle parole scurrili: è stata fatta in modo linguisticamente scorretto.  Gli analisti di Volocom hanno utilizzato un criterio etimologico, non sempre corretto, fra l’altro: ad esempio, “mezzasega” è classificato come insulto generico mentre invece è un insulto sessista. Poco senso ha scorporare in una categoria a parte le espressioni dialettali (pirla, minchia, pippa) che sono usate in realtà come insulti. E “succhiacazzi” catalogato come insulto omofobo, può essere usato anche come insulto sessista. Insomma, avrebbe avuto più senso utilizzare un criterio semantico e funzionale: le parolacce andavano catalogate a seconda del significato che avevano all’interno delle frasi. Solo così si può capire se la parola “cazzo” – dal punto di vista etimologico, un’oscenità sessuale – sia stata usata come insulto (“testa di cazzo”), come imprecazione (“Cazzo!”) o come enfasi (“Che cazzo vuoi?”). Senza dubbio questa impostazione avrebbe comportato uno sforzo di analisi ben maggiore.
  3. non è specificata la consistenza del campione: quante testate cartacee sono state censite? Quante testate online? Qual è il totale degli articoli esaminati? E il totale delle parole censite? La risposta a quest’ultima domanda sarebbe stata molto interessante perché avrebbe permesso di calcolare la frequenza d’uso delle volgarità.
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Le parolacce degli antichi Greci https://www.parolacce.org/2022/12/15/le-parolacce-degli-antichi-greci/ https://www.parolacce.org/2022/12/15/le-parolacce-degli-antichi-greci/#comments Thu, 15 Dec 2022 16:24:59 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19471 Gli antichi Greci dicevano parolacce? Eccome: oltre a molte parole colte (metro, atomo, terapia, democrazia…) abbiamo ereditato da loro anche termini volgari, da cacca a culo. E arrivano dall’antica Grecia diversi modi di dire odierni come “fuori di testa”, “schiatta”,… Continue Reading

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Maschera teatrale in terracotta (200-250 d.C.): fotomontaggio da ASCSA Digital Collections

Gli antichi Greci dicevano parolacce? Eccome: oltre a molte parole colte (metro, atomo, terapia, democrazia…) abbiamo ereditato da loro anche termini volgari, da cacca a culo. E arrivano dall’antica Grecia diversi modi di dire odierni come “fuori di testa”, “schiatta”, “culo rotto” fino al gesto del dito medio. Quando dovevano insultare qualcuno, infatti, gli elleni non erano secondi a nessuno, quanto a fantasia e disprezzo: “locusta”, “montone”, “zotico”, “mangia merda” e “vecchia mummia” sono solo un assaggio del loro ventaglio di insulti, che – ho scoperto – contiene 1.300 espressioni: una stima per eccesso, ma rende l’idea del loro arsenale di espressioni triviali.
E per mandare qualcuno a quel paese utilizzavano espressioni macabre, da “buttati nel baratro” a “che il tuo cadavere sia mangiato dai corvi”. Senza contare gli insulti riservati alle classi basse, agli incolti, agli stranieri, alle prostitute e agli omosessuali passivi. C’è poi un verbo, rhaphanidóo, che significa “ravanellizzare“: era la pena riservata gli adulteri, puniti infilando un ravanello nel sedere depilato con la cenere calda.

Coppa da vino in ceramica: raffigura il partecipante a un banchetto con un’etera, un’escort (480 a.C.).

Dai Greci, insomma, abbiamo ricevuto non solo parte del nostro lessico, ma anche una prospettiva sul mondo, un modo di guardare la realtà, sia nelle vette del pensiero filosofico che nelle bassezze del turpiloquio. Anche se, come vedremo, accanto a suggestive somiglianze ci sono anche rilevanti differenze, soprattutto nel modo di intendere il sesso: i Greci non erano così libertini come potrebbe apparire a prima vista.
Eppure, il turpiloquio antico non è stato ancora esplorato a fondo: gli studi sono pochi e limitati ad alcuni aspetti, e molti dizionari censurano le espressioni oscene. Nel celebre dizionario Rocci, ad esempio, πέος, cazzo, è indicato come “membro virile”: corretto, ma non fedele. Lorenzo Rocci, del resto, era un gesuita e l’impianto del dizionario – pur aggiornato – risale al 1939, epoca in cui era sconveniente utilizzare termini scurrili.  Con questo articolo conoscerete quindi un aspetto della cultura ellenica che nessun professore vi aveva mai insegnato.
Perciò, con buona pace di chi ancora crede che siano un fenomeno moderno, le parolacce risalgono a più di 2mila anni fa: anzi, come ricordavo nel mio libro, quelle greche sono precedute da quelle egizie e babilonesi. Le scurrilità, insomma, sono antiche quanto l’uomo. Questo articolo non vuole essere una rassegna completa sul turpiloquio ellenico (occorrerebbe un libro intero), ma offrirne un’idea concreta e ordinata.

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IL PROBLEMA DELLE FONTI
 

L’antico teatro di Epidauro (360 a.C.)

Ricostruire le parolacce di una civiltà antica non è semplice. I documenti sono pochi: la Storia ci ha tramandato soprattutto la letteratura “alta”: i copisti del passato hanno privilegiato trattati di filosofia, tragedie, poesie rispetto alle opere popolari. All’interno di queste fonti, poi, non è sempre facile identificare quali fossero i termini di registro triviale e quali no, ovvero quali parole suscitassero più o meno scandalo: erano usate per lo più nel linguaggio quotidiano, orale e nessun autore (tranne i grammatici) si preoccupava di precisare se un determinato termine fosse tabù o meno.
Le fonti più antiche sono i frammenti sopravvissuti dei primi poeti lirici greci (600-500 a.C.), che a volte usavano un linguaggio osceno. Soprattutto la poesia giambica, un genere polemico e realistico, caratterizzato da un linguaggio offensivo, osceno e ridicolo. Il suo esponente principale è Ipponatte di Efeso (570-538 a.C.): pare fosse brutto e gobbo, e per reagire allo scherno dei suoi contemporanei componeva versi violenti e feroci.

Busto di Aristofane (1° sec. a.C.)

Altra fonte di rilievo, le commedie attiche del V e IV secolo a.C., che facevano spesso uso di oscenità e umorismo crudo. In questo campo, il sovrano indiscusso è il comico ateniese Aristofane (450-385 a.C.), il Checco Zalone dell’epoca: undici delle sue opere teatrali sono sopravvissute. A queste si aggiungono alcuni testi di lessicografi  ed enciclopedisti.
Ma come orientarsi nel lessico scurrile? Una risorsa formidabile è il dizionario online del lessico scurrile greco (sul sito translatum.gr), che mostra un arsenale notevole: è una raccolta di 1.300 lemmi, e già questo numero dà un’idea concreta di quanto fosse ricco il ventaglio di parolacce nell’antichità. Per fare un confronto, le volgarità nel dizionario italiano sono poco più di 300; salgono a oltre 3.000 solo includendo i termini arcaici o allusivi. Va detto, tuttavia, che in questo dizionario  figurano molti termini che non sono propriamente di registro volgare, da ἀποκόπτω (apokopto, castrare) a χασμώδης (chasmòdes, sonnolento). A questo limite si aggiunge la mancata indicazione delle fonti, tranne rare eccezioni.
Come dizionario, al posto del Rocci, ho utilizzato il GI di Franco Montanari (Loescher).
Alcuni spunti li ho tratti da un libretto antologico “Come insultavano gli antichi”(Melangolo), privo però di un inquadramento culturale. Decisamente meglio il libro “Insults in classical Athens” di Deborah Kamen, docente di lettere classiche all’Università di Washington. Contributi corposi sono tratti da alcuni eccezionali articoli del divulgatore storico Spencer McDaniel: il suo sito, talesoftimesforgotten.com, è ricco di notizie curiose  e interessanti sul mondo antico, al netto di alcune differenze sulla categorizzazione degli insulti. Utile anche uno studio sugli eufemismi di Paolo Martino.

Ho suddiviso le scurrilità elleniche  in 4 grandi categorie, seguendo l’impostazione teorica del mio libro: imprecazioni, maledizioni, insulti (comportamentali, etnici, mentali, escrementizi) e oscenità.

1. Imprecazioni

Anche gli antichi greci imprecavano usando i nomi di varie divinità. Le imprecazioni si costruivano prendendo la parola μά (per) e aggiungendo il nome della divinità al caso accusativo, insieme all’articolo: l’equivalente del nostro “per dio!”:

  • μά τòν Δία (mà tòn Día): “Per Zeus!”
  • μά τήν Ἥραν (mà ten Heran): “Per Hera!”
  • μά τήν Ἀθηνᾶν (mà ten Athenân): “Per Atena!”
  • γιγγρί (ghingrì): interiezione ingiuriosa traducibile con cazzo!, fanculo!, etc. (dal verbo γίγγρας, gridare)

Interessante notare che anche i Greci cercavano di non pronunciare invano il nome degli dèi, scegliendo eufemismi che usiamo ancora oggi: capperi (να τήν κάππαριν, per il cappero), porco cane (μέν τα κύνα, per il cane), porca l’oca (νά τòν χήνα), per l’oca) e cavolo (μά τήν κράμβην, per il cavolo).

2. Maledizioni

Tavoletta di piombo con incise le maledizioni. I fori sono stati lasciati dai chiodi (4° sec. a.C.)

In questo campo i Greci erano maestri indiscussi. Per augurare il male a qualcuno, facevano ricorso a vere pratiche magiche, come racconto più diffusamente nel mio libro. Prendevano un’unghia o un capello del nemico, pronunciavano su di esso la formula di maledizione e poi lo bruciavano o lo gettavano in un pozzo o in un fiume, con una tavoletta su cui era incisa la maledizione. A volte la tavoletta veniva fissata a una parete con i chiodi, come per trafiggere e inchiodare il destinatario. Nella formula erano citati, con un crescendo meticoloso, tutti gli organi del nemico fino alla sua anima. Gli archeologi hanno trovato numerose tavolette di questo genere.
Per quanto riguarda le espressioni più comuni, la più forte era βάλλ’ εἰς κόρακας (báll eis kórakas): “Vai dai corvi!“. La frase significa: che tu possa morire e restare senza sepoltura, in modo che i corvi mangino il tuo cadavere. Al di là dell’immagine truce, era la peggior maledizione per i greci: pensavano infatti che chi non fosse stato sepolto con un funerale rituale, non sarebbe mai entrato negli Inferi, vagando senza metà per l’eternità: la peggior disgrazia immaginabile. Da questa espressione deriva il verbo ἀποσκορακίζω (aposkorakìzo), mandare ai corvi: l’equivalente del nostro “mandare a quel paese”, dato che in questa espressione “paese” sta per “cimitero”, o mandare all’inferno. L’espressione ha avuto così fortuna da essere sopravvissuta nel greco moderno: “άει στον κόρακα” (aei ston kòraka). Con oltre 2mila anni di vita, è sicuramente il “vaffa” più longevo e antico della Storia.
A proposito di morte, l’equivalente del nostro “Va a morì ammazzato” è ἄπαγ᾽ εἰς τὸ βάραθρον (Àpag’eis tò bàrathron), letteralmente “vai nel baratro, nel precipizio”. Da segnalare anche le espressioni ἀποφθείρομαι (apoftheiromai) e ἀπòλοιο (apòloio) che tu sia distrutto, ρρε (èrre!) va in malora! e il notevole διαρραγείης (diarraghèies) scoppia!, crepa! equivalente del napoletano “puozze schiattà” (se volete approfondire le maledizioni in italiano e nei dialetti, ne ho parlato qui).
L’espressione ἐκκορηθείς συ γε (ekkorethèis sý ghè) significa “che tu sia spazzato via”: è l’equivalente del nostro “fuori dai coglioni”. Ma i Greci sapevano anche essere leggeri: l’espressione “datti all’ippica” (Iππευε, Ìppeue) è farina del loro sacco.

L'INVENZIONE DEL DITO MEDIO

La scultura L.O.V.E. di Maurizio Cattelan di fronte alla Borsa di Milano.

E’ il gesto insultante più noto al mondo, ed è un segno fallico: agitato di fronte a un interlocutore diventa un gesto di sfida, di scherno, di minaccia, dato che fra gli animali esibire il fallo è simbolo di preminenza ed autoaffermazione. Ebbene, questo gesto molto diffuso nella cultura angloamericana, è nato in area mediterranea nel 423 a.C., anno in cui Aristofane scrisse la commedia “Le nuvole”. O, quantomeno, questa è la testimonianza scritta più antica che abbiamo di questo gesto, che sicuramente era già molto diffuso ben prima di Aristofane.
Ai versi 650-654 della commedia c’è uno scambio di battute fra Socrate e Strepsiade, un vecchio e rozzo contadino. Il brano gioca il suo effetto comico sull’ambiguità del termine dàktulos, che significa dito ma è anche il dattilo, unità di misura della poesia (una sillaba lunga seguita da due brevi). Ecco lo scambio di battute:

SOCRATE: Ma va’ all’inferno, razza di cafone imbecille! Figurarsi coi ritmi come sei bravo

STREPSIADE: Roba che si mangia? A che mai potrà tornare utile?

SOCRATE: In primo luogo a figurare in società, distinguendo i ritmi di battaglia da quelli che si scandiscono col dito

STREPSIADE: Col dito?

SOCRATE: Sì

STREPSIADE: Ma quelli li conosco!

SOCRATE: E cioè?

STREPSIADE: Ecco qua il dito. Ce n’è un altro? A dir la verità, quand’ero ragazzetto, c’era questo [ e mostra il medio ]

SOCRATE: Sei uno stupido cafone.

3. Insulti

Il vocabolario dei Greci era molto ricco di insulti, che riflettono la loro mentalità snob, che disprezzava ignoranti, poveri e stranieri. I Greci insultavano in particolar modo chi svolgeva lavori umili: «sebbene gli ateniesi della classe operaia fossero cittadini a pieno titolo sia legalmente che ideologicamente, erano tuttavia ritenuti (da alcuni) inadatti a esercitare tutti i diritti di cittadinanza» spiega la professoressa Kamen. Dunque, termini come πονηρός (poneròs), plebeo, diventa sinonimo di miserabile, cattivo, mentre il termine αγοραίος (agoràios, letteralmente “piazzista”), mercante, aveva una sfumatura di disprezzo perché i mercanti erano visti come elementi estranei all’economia delle città-Stato. Di tutte le occupazioni umili, i pellettieri (σκυτοδέψης, skutodèpses) e i calzolai (σκυτοτόμος , skutotòmos) erano i più disprezzati perché all’umiliazione di un’attività manuale abbinavano una carnagione pallida, poiché restavano tutto il giorno chiusi in casa: «il pallore, infatti, era associato alla femminilità» ricorda la Kamen. Per una società guerriera quale era quella greca, il concetto di onore – ossia di reputazione pubblica – era centrale: «dire che qualcuno si sottraeva alla leva o mostrava codardia sul campo di battaglia, anche per scherzo, significava metterne in discussione le qualifiche e la capacità di prestare servizio cittadino in una polis democratica» aggiunge la Kamen.
Se qualcuno diceva insulti pesanti contro un defunto, era passibile di giudizio per κακηγορία (kakēgoría, insulto verbale);  i vivi potevano intentare una causa solo se erano stati insultati davanti ad altri testimoni (come nella moderna diffamazione): ma doveva condividere la multa del risarcimento con lo Stato. Gli insulti puniti più duramente erano quelli che implicitamente accusavano qualcuno di aver commesso un reato: assassino, disertore, e simili. In termini moderni, i casi di calunnia.
Fra gli insulti generici si ricordano κατάῥατος (kataràtos) maledetto (da araomai, pregare, nel senso di imprecare, maledire) e παγκατάρατος (pankatàratos) stramaledettissimo.

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INSULTI COMPORTAMENTALI
 

  • ἄγρειος (agreios) zotico, cafone, lett.: contadino
  • ἄνανδρος (ànandros): debole, codardo, lett: non-uomo
  • κλέπτης (klèptes): ladro, imbroglione (da cui cleptomane)
  • νόθος (nòthos): bastardo (figlio illegittimo), falso
  • οἰνοπίπης (oinopipes): ubriacone
  • πανοῦργος (panoùrgos): farabutto, lett.: capace di qualunque cosa
  • προκύων (prokùon) leccaculo, letteralmente “uno che fa come un cagnolino”
  • φλύαρος (flùaros) ciarlatano, cazzaro

INSULTI MENTALI
 

Femmina di locusta mentre depone le uova.

Gli insulti in questa categoria mostrano quanto i Greci dessero valore alla conoscenza, disprezzando gli stolti, gli ignoranti e  gli appartenenti alle classi sociali più basse. Anche loro, quando volevano disprezzare qualcuno, lo paragonavano a un animale, dagli insetti al bestiame.

  • ἄγγαρος (àngaros) stupido, lett.: corriere postale a cavallo
  • ἀμαθής (amathès) stupido lett. ignorante
  • ἀναίσθητος (anaìsthetos) stupido, lett.: insensibile
  • βαρυεγκέφαλος (baruenkèfalos) stupido, lett.: testa pesante
  • βρόκων (bròkoon) zoticone, lett.: locusta o larva di locusta
  • ἐμβρόντητος (embròntetos) rintronato (da un tuono), rincoglionito
  • ἐνδεητικός (endeetikòs) deficiente
  • ἑνδεκάκλινος (endekàklinos) a 11 posti, detto di testa molto grande (testone, crapone)
  • ἑτερεγκεφαλάω (eterenkefalào) essere fuori di testa, lett.: avere il cervello spostato
  • εἰκαιολόγος (eikaiològos) stupido, ciarlatano, cazzaro, lett.: che parla a caso
  • ἰδιώτης (idiòtes) strano, eccentrico (per noi “idiota” significa stupido)
  • κεπφαττελεβώδης (kepfattelebòdes) scemo, lett.: dal cervello di gabbiano e di locusta
  • κριόμυξος (kriòmuxos) scemo come un montone (pecorone)
  • παχύφρων (pachùphron) tardo di mente lett.: “mente grossolana”
  • ὑηνεύς (ueneùs) porco, grossolano.

INSULTI ETNICI
 

Rovine di Corinto: tempio di Apollo e Acrocorinto

Ho inserito in questa categoria un gruppo di insulti di vario genere (a sfondo sessuale, comportamentale, mentale) che però mostrano, nella loro etimologia, un originario disprezzo o visione stereotipata verso una determinata popolazione. I più bersagliati erano gli abitanti di Corinto e di Lesbo, per i loro costumi sessuali considerati dissoluti.

  • ἀβδηριτες (abderites): stupido, sempliciotto, lett.: abitante di Abdera
  • ἀνδροκόρινθος (androkòrinthos): letteralmente “corinzi maschi”, significa città di prostituti, Puttania
  • βοιωτία (boiotìa) balordo, letteralmente “abitante della Beozia”: il termine italiano “beota” deriva proprio da questa parola
  • βάρβαρος (bárbaros), balbuziente, straniero, rozzo, incivile. Barbaro, per l’appunto
  • κορινθιάζομαι (korinthiázomai)  Questo verbo significa  “comportarsi come un corinzio”, ma, poiché la città di Corinto era famosa nell’antichità per le sue numerose prostitute di alto ceto, il verbo significa “andare a con una prostituta”.
  • κορινθιαστης (korinthiastes): uno che frequenta Corinto = puttaniere
  • κυσολάκων (kysolákòn) “culo spartano”, un uomo che fa sesso anale, con un maschio o con una donna: i Greci pensavano che gli spartani preferissero il sesso anale rispetto a quello vaginale.
  • λεσβιάζω (lesbiázō) deriva dal nome dell’isola greca di Lesbo. Significa letteralmente “comportarsi come una persona di Lesbo”, ma l’omosessualità femminile non c’entra: l’espressione significa infatti “praticare un rapporto orale” (sbocchinare), poiché i Greci pensavano che questa pratica fosse la specialità o l’invenzione delle donne di Lesbo.

INSULTI ESCREMENTIZI
  Diversi insulti sono costruiti usando i termini che designano gli escrementi: κόπρος (kópros, da cui coprolalia), σκῶρ  (skôr). Da segnalare che il termine “cacca” nasce dal greco antico κάκκη (kakke) merda, a sua volta derivato da kακός (kakòs), brutto, cattivo.

  • ἀποκοπρόομαι (apokopròomai) diventare merda
  • βδύλλω (bdùllo) cagarsi addosso (per qualcosa)
  • βόλβιτον (bólbiton) significa letteralmente “merda di bue” equivalente dell’inglese bullshit
  • κοπροφάγος (koprophágos) “mangia merda”
  • κοπρίας (koprìas) sconcio buffone
  • κοπριήμετος (koprièmetos) vomitatore di escrementi.
  • κροκοδιλέα (krokodilèa) sterco di coccodrillo
  • κύνεια (kuneia) sterco di cane
  • σπύραθος (spùrathos) merda di capra.
  • σκερβόλλω (skerbòllo) insultare, lett.: gettare merda, smerdare

INSULTI FISICI

Ricostruzione digitale dei bronzi di Riace (5 sec. a.C.)

Gli insulti fisici (denigrare l’aspetto di una persona) sono diffusi in tutte le culture. In greco hanno una valenza particolare: nella cultura ellenica, il brutto è anche cattivo. Ovvero, l’aspetto fisico repellente è considerato sempre espressione di una bruttezza dell’animo, i due elementi viaggiano sempre insieme: è la kalokagathia, ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono è necessariamente bello.

  • ἀινòδρυπτος (ainodruptos) cozza, donna molto brutta (lett. lacerata)
  • αἰσχρός (aischròs): brutto, deforme, vergognoso
  • μαλακός (malakós), significa “molle”, ma, quando è usata per descrivere un uomo, implica che è debole, codardo ed effeminato, sessualmente dissoluto.
  • νωδός (nodòs) sdentato, indebolito
  • σορέλλη (sorèlle) vecchia mummia

4.Le parole del sesso

Scena erotica su ceramica apula (4 sec. a.C.)

Il lessico osceno è ricchissimo, ed è normale: anche le lingue moderne sfruttano la forza dei tabù sessuali per creare espressioni volgari, utilizzate non solo per designare genitali e atti sessuali, ma anche per stigmatizzare comportamenti considerati aberranti o esecrabili (come l’adulterio, la prostituzione, il sesso anale e orale,  come vedremo). I termini erotici, infatti, esprimono anche una visione morale e sociale. Ma prima di illustrare quest’ultima, parto dai termini osceni, che designano genitali, zone erotiche e atti sessuali. Da notare che già le antiche greche usavano i dildo in pietra, cuoio, o legno: forse perché i loro partner erano spesso impegnati in guerre, politica o esercitazioni militari.

Termini osceni

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ANATOMIA

Anatomia generale

  • βορβορόπη (borborópē) Questa parola significa letteralmente “pozza di fango”, cioè ano
  • κῶλος (kòlos) culo, la parola italiana arriva da questa radice greca
  • ὄρρος (órrhos) ano
  • πρωκτός (proktós) ano, da cui il termine proctologo
  • πυγή (pugè) culo
  • φύσις (fysis) genitali (“natura”)

Anatomia maschile

  • κέντρον (kèntron) “pene eretto”.
  • μύκης (mùkes) cazzo, lett.: fungo (da noi: cappella)
  • πέος (péos) cazzo (la radice confluisce nel termine “pene”)
  • δίδυμα (diduma) gemelli, riferimento ai testicoli o alle ovaie
  • ἄγκυρα (ankura) genitali, lett.: ancora (carico pendente, zavorra)

Anatomia femminile

Statua di una baccante addormentata (2° sec. d.C.)

  • βόλβα (bolba) fica
  • δακτυλίδια (daktulidia) fica, ano (letteralmente: ditalino)
  • δέλτα (delta): fica, un riferimento alla lettera greca che, maiuscola, è un triangolo (Δ)
  • κύσθος (kýsthos) genitali femminili (da kùsos, ano); da questa radice deriva il latino cunnus che ha dato origine allo spagnolo coño, al francese con e all’inglese cunt. Termini che in tutte queste lingue hanno una funzione spregiativa, dovuta al fatto che nell’antichità la vulva poteva essere facile veicolo di infezioni e malattie veneree
  • λειμών (leimòn)  genitali femminili, lett.: prato  “genitali femminili
  • μύρτον (myrton), mirto: genitali femminili (il fiore è bianco, colore femminile, e i pistilli ricordano i peli pubici)
  • ῥόδον (ròdon) fica, lett.: rosa (basti pensare al medievale “Roman de la rose”)
  • σέλινον (sèlinon) fica, lett.: sedano
  • χελιδών (chelidòn) fica, lett.: rondine
  • χοῖρος (choîros) maialino,  genitali femminili: forse per la somiglianza fra i peli della vulva e quelli dell’animale (come nell’inglese “pussy”, gatta, o nell’italiano “topa”). Il dio Dioniso era conosciuto anche con l’epiteto di χοιροψάλας (choiropsàlas), “toccatore di fica”

ATTI SESSUALI

I Greci facevano le falloforie, processioni con grandi falli: propiziavano la fecondità dei campi (470 a.C.)

Cominciamo con il sesso orale. I Greci (e anche i Romani) pensavano che, in generale, essere penetrati fosse degradante; ma consideravano «particolarmente  degradante per una persona essere penetrati oralmente, perché la penetrazione orale implicava la contaminazione orale» spiega Spencer McDaniel. «La bocca è un organo che svolge funzioni sociali particolarmente importanti, poiché è l’organo principale utilizzato per la comunicazione. Per questo motivo, gli antichi greci erano estremamente preoccupati per l’importanza della purezza orale». Occorre ricordare, infatti, che la civiltà greca dava molto valore alla parola.
Ma ancor peggio della “fellatio” (rapporto orale su un uomo) i Greci giudicavano il “cunnilingus”, ovvero il rapporto orale su una donna: lo ritenevano, aggiunge McDaniel,  «l’atto sessuale più disgustoso, degradante e poco virile che chiunque potesse compiere su un altro essere umano era il cunnilingus, considerato l’unico modo in cui qualcuno potesse sottomettersi sessualmente a una donna. Per una persona sottomettersi sessualmente a una donna significava che la persona che si sottometteva era  inferiore  alla donna e anche meno virile di lei. Questo, a loro avviso, posizionava il cunnilinctor (o la cunnilinctrix) come il più basso e il meno virile di tutti gli esseri umani. Inoltre, il cunnilingus, come forma di sesso orale, portava lo stigma aggiunto dell’impurità orale. Proprio come il pene di un uomo, si credeva che la vulva di una donna contaminasse la bocca di una persona, rendendola impura e rendendo tossico il suo respiro». Ecco perché i rapporti orali (e anali) erano praticati per lo più con prostitute e schiavi.
Ecco una piccola lista di termini che si riferiscono ad atti sessuali:

  • βαυβών (baubòn) dildo di pelle. La città di Mileto in Asia Minore, era il principale esportatore di dildo di cuoio nell’Egeo: erano piuttosto diffusi in una società in cui gli uomini erano costantemente in guerra o in addestramento militare
  • βινέω (binéo) scopare.
  • γλωττοδεψέω (glottodepséo) “fare un pompino”.  La parola significa letteralmente “lavorare una cosa con la lingua  finché non diventa morbida
  • γλωσσοτέχνης (glossotèchnes) artista nell’usare la lingua
  • δέφω (dépho) masturbarsi (da δέψω, toccare)
  • δουλοκοίτης (doulokoites) fottitore di schiavi
  • κεράστης (keràstes) cornuto (da cui il termine “crasto” in siciliano): il termine però indica gli animali dotati di corna; l’adultero era designato con i termini γαμοκλόπος (gamoklòpos), λιπόγαμος (lipògamos), μοιχεύτρια (moicheùtria)
  • κολλοποδιώκτης (kollopodioktes) segaiolo: dal verbo kòllops (κòλλοψ), manovella, e διώkω (diòko), faccio muovere
  • κυνοικοίτης (kynoikoìtes) fottitore di cani
  • λαικάζω (laikázo)  a “fare un pompino”, da  λαικός, volgare, popolare, “laico”
  • μύζουρις (mýzouris) fellatio, sesso orale. È formato dalla combinazione del verbo μυζάω (muzáō), che significa “succhiare”, e il sostantivo οὐρά (ourá), “coda” ovvero “pene” (letteralmente succhiare la coda)
  • ὄλισβος (olisbos), dildo, fallo finto
  • πυγίζω (pygízo) “inculare” (da πυγή, culo).
  • τριβάς (tribás) “strofinare”,  in senso sessuale (la vulva sulla vulva di un’altra donna).
  • τρύπανον (trùpanon) trapano, anche in senso erotico

Etica sessuale

La gioventù di Bacco: dipinto di William-Adolphe Bouguereau (1884).

Se immaginate la civiltà greca come libertina e dissoluta, beh: sbagliate. In realtà, i Greci (e anche  i Romani) ponevano un forte accento sull’idea di moderazione e autocontrollo: la  σωφροσύνη (sophrosýne, per i Romani temperantia). Quindi bandivano tutti gli eccessi, compresi quelli sessuali. Pare che anche le orge, in realtà, fossero ben poco diffuse: secondo il professor Alastair Blanshard, della Scuola di ricerche filosofiche e storiche dell’università di Sydney, le orge dei Greci e dei Romani furono per lo più un’invenzione propagandistica dei cristiani, per dipingere come dissoluta la civiltà pagana. Lo stesso termine, “orgia”, significa di per sé culto segreto, cerimonia iniziatica, sacrificio: non ha alcuna implicazione sessuale. Ciò non toglie, tuttavia, che alcuni di questi riti potessero comprendere atti sessuali propiziatori della fertilità, ma a fini sacri, di congiungimento col divino.
I Greci, comunque, vivevano la sessualità in modo peculiare. Innanzitutto disprezzavano chiunque corteggiasse i ragazzi (della cosiddetta “pederastia” parlerò più avanti), non si sposasse o si masturbasse. Era considerato vergognoso e poco virile: nelle sue commedie Aristofane prende in giro incessantemente gli uomini di questo genere.  Sicuramente era una società guerriera e maschilista: a Sparta, dove gli uomini passavano gran parte del tempo fra loro, se un uomo non riusciva ad avere un figlio dalla moglie aveva il diritto legale di “prestarla” ad altri affinché la mettessero incinta, senza bisogno – pare – del consenso della donna.
E certamente i Greci non erano paladini dell’amore libertino: basti pensare non solo agli spregiativi riservati agli adulteri (μοιχαλίς moichalis, cornificatrice, adultera), ma anche a un verbo ῥαφανιδόω (rhaphanidóo): “ficcare un ravanello nel culo di qualcuno“. Era la punizione riservata a chi faceva sesso con la moglie di un altro, preceduta dalla depilazione del sedere con cenere calda o pece. Potrebbe sembrare poca cosa viste le piccole dimensioni, ma voglio ricordare che la sua radice è piccante grazie alla presenza di glucosinolati. Era dunque una umiliazione pubblica, una punizione popolare praticata dal marito tradito e dai suoi parenti o amici, che si prendevano la soddisfazione di ridicolizzare l’amante facendolo correre dolorante con il  ciuffo di foglie che usciva dal sedere. A questo si aggiungeva la possibilità, per il marito, di ristabilire il proprio onore uccidendo la moglie fedifraga.
Della punizione del ravanello parla, ancora una volta, Aristofane, sempre nelle “Nuvole”. C’è un dialogo fra due personaggi, “Discorso giusto” (la personificazione dei valori tradizionali) e “Discorso ingiusto” (i nuovi filosofi, capaci solo di ammaliare con le parole), in cui quest’ultimo esalta le capacità retoriche dicendo che possono salvare da situazioni difficili:

DISCORSO INGIUSTO: Se anche ti beccano in flagrante adulterio, basta dire che non hai fatto nulla di male e rovesciare tutto su Zeus: anche lui cede all’amore delle donne. Tu, che sei mortale, come puoi essere più forte di un dio?

DISCORSO GIUSTO: E se per averti dato retta gli infilano un ravanello nel culo e lo depilano con la cenere calda, potrà negare di essere un rottinculo?

Scandalo e spregio – basti ricordare la vicenda teatrale di Edipo – erano riservati anche a chi commetteva incesto: μητροκοίτης (metrokoítès: lett: chi va a letto con la madre). In qualche modo è progenitore dell’inglese “motherfucker” (chi si fotte la madre), anche se quest’ultimo ha un significato metaforico più che letterale: significa “persona senza scrupoli, figlio di puttana, bastardo”.

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ESCORT E DINTORNI

In quest’ottica tradizionalista vanno intesi tutti gli spregiativi per designare le prostitute o in generale le donne dai “facili costumi”:

  • ἄβατος (abatos) vergine, lett.: impenetrabile = figa di legno
  • ἀνασεισίφαλλος (anaseisíphallos): “scuoticazzi”, insulto per una donna
  • ἀνεξικώμη (anexikome) puttana, lett.: donna che sostiene un intero villaggio
  • ἑταίρα (hetaíra) etera: prostituta di classe, escort.
  • ἐπίχαλκος (epichalkos) puttana, lett.: coperta di bronzo
  • ἵππος (ippos) puttana, lett.: cavallo
  • κάπραινα (kàpraina) troia (da κάπρος, cinghiale)
  • κασαλβάς (kasalbas) prostituta (da κάσας, capanna: in italiano, casino designa il bordello)
  • λαικάς (laikas) puttana
  • πανδοσία (pandosia) che si dà a tutti, di prostituta
  • πολιτική (politiché) puttana, lett.: donna pubblica (che i politici siano spesso puttane vale anche oggi)
  • πόρνη (pórnè)  puttana (da cui porno, pornografico)
  • πορνογέννητος (pornoghènnetos) figlio di puttana
  • χαλκιδῖτις (chalcidîtis) prostituta molto a buon mercato che farà sesso con qualsiasi uomo per una sola moneta di bronzo. – marchettara

FALLOCENTRISMO E PEDERASTIA

Adulto (erastès , amante) corteggia un giovane (eròmenos): gli insegnava il senso civico, la cultura e l’amore. In cambio, riceveva piacere fisico.

Per quanto riguarda la “pederastia”, ovvero i rapporti (molto diffusi) fra un uomo adulto e un adolescente (per legge sopra i 12 anni), occorre fare una precisazione importante: era innanzitutto una forma tradizionale e regolamentata di istruzione, nel quale gli adulti trasmettevano il sapere ai giovani. E comprendeva anche la pratica sessuale: una consuetudine frequente per una società maschilista e militare, nella quale gli uomini passavano gran parte del loro tempo fra loro. Ma attenzione: i Greci non erano propriamente omosessuali (nel senso moderno del termine) o bisessuali. Sarebbe fuorviante usare queste categorie. «Invece di pensare alla sessualità in termini di genere o generi da cui una persona era attratta, i greci la pensavano in termini del  ruolo che una persona assumeva durante il sesso» spiega McDaniel. «La concezione normativa della sessualità era estremamente fallocentrica e interamente incentrata sulla penetrazione del pene»: per loro il sesso doveva essere «un’attività in cui un uomo adulto libero doveva dimostrare la sua superiorità maschile usando il suo pene eretto per dominare una persona innatamente inferiore, come una donna, un adolescente o schiavo (tutti e tre considerati inferiori ai maschi liberi e adulti), penetrandolo in uno o più dei suoi vari orifizi. Penetrare era visto come tipicamente maschile, glorioso e superiore, mentre  essere  penetrato era visto come intrinsecamente femminile, vergognoso e inferiore. Per un uomo adulto essere penetrato da qualcuno era considerato la massima vergogna, una disgrazia contro la sua virilità».
In questo senso, quindi, vanno intesi gli spregiativi degradanti, riservati non agli omosessuali in quanto tali, ma a chi aveva un ruolo passivo nel rapporto. Giulio Cesare fu preso in giro tutta la vita per essersi concesso, da giovane, al re Nicomede IV di Bitinia.

  • ἁβροβάτης (abrobates) di andatura effeminata;
  • βάταλος (bátalos) ano, ma anche insulto per un omosessuale passivo (culo, culattone). Dal verbo bateo (βάτέω), montare
  • γυναικίζω (gynaikìzo) essere omosessuale; lett.: fare la donna (nel coito)
  • εὐρύπρωκτος (eurýproktos) “dal culo largo”. Si riferisce a una persona che è stata penetrata analmente così tante volte che il suo ano è spalancato: culattone, culo rotto
  • καταπύγων (katapùgon), piglianunculo / dito medio (lett: attraverso il culo)
  • κατωμόχανος (katomóchanos) con il culo aperto fino alle spalle (perché sfondato)
  • κίναιδος (kínaidos) omosessuale passivo  (da kineo, sbattere)
  • κινέομαι (kineomai) essere sbattuto (kineo ha la stessa radice di cinema, movimento)
  • λακαταπύγων (lakatapùgon) rottinculo; pigliainculo;
  • λακκόπρωκτος (lakkpèrpktos) omosessuale sfondato, lett.: col culo a cisterna
  • πισσοκόπος (pissokopos) chi si depila con la pece, un frocio
  • πυγάργος (pugàrgos) vile, lett.: che ha il culo bianco (in quanto depilato): è un insulto omofobo
  • χαυνοπροκτòς (chaunoproktòs) dal culo molle

LESBISMO

Tazza che raffigura la toeletta di due etere (480 a.C.)

I Greci erano però più tolleranti se si parlava di omosessualità femminile, precisa McDaniel: il lesbismo, termine che deriva dall’isola di Lesbo (ma per gli antichi greci, le donne di Lesbo erano specializzate nella fellatio). Pare che, soprattutto a Sparta, anche le ragazze adolescenti prendessero donne adulte come amanti, una sorta di pederastia femminile. In ogni caso, per i Greci i rapporti saffici (dalla poetessa Saffo, che in realtà era bisessuale, secondo i canoni moderni) non erano considerati veri rapporti, dato che non c’era un uomo che penetrava. I termini che designano le lesbiche erano γυναικεραστρια (gynaikerastria, lett. amante donna), ἑταιρίστρια  lesbica (etairistria, amante etera), σαλμακìς (salmakìs) e  τριβάς (tribàs: vuol dire consumato, riferito al materasso), e questi termini designano anche le prostitute.

In sintesi, i Greci (e anche i Romani) percepivano come innaturale, immorale e vergognoso qualsiasi atto sessuale in cui un uomo adulto nato libero mostrasse sottomissione. Per capire quanto fosse complessa la loro etica, ricorda McDaniel, questi atti sessuali stigmatizzati includono:

  • una donna (o un uomo) con un ruolo passivo nel sesso, ovvero penetrato
  • una donna che succhia il pene di un uomo (perché controlla l’atto e non è una semplice ricevente passiva)
  • un uomo che esegue il cunnilingus su una donna (perché l’uomo si sottomette alla donna)
  • una donna che penetra un uomo o un ragazzo con un dildo (perché questo rappresenta un’inversione di ciò che percepivano come l’ordine naturale)
  • un maschio adulto che si masturba (perché questo dimostra che non è abbastanza dominante e mascolino da trovare una donna, un adolescente o una persona schiava da penetrare)
  • una donna che ha qualsiasi tipo di relazione sessuale con un’altra donna (perché rappresenta una donna che tenta di assumere il ruolo che credevano dovesse essere ricoperto da un uomo).

Altro che libertini…

Questo articolo è dedicato al prof. Vittorio Praga, che mi ha aperto le porte del Greco antico, questa meravigliosa lingua, per i 5 anni del liceo classico.
E ha pure rivisto questo articolo.
Grazie prof!

Di questo studio hanno parlato AdnKronos, Rtl 102.5,  La Sicilia, Cremona Oggi, Tiscali cultura, La Svolta, Meteoweb, Day Italia news, Crema oggi, Tv7, La cronaca 24

E ne ho parlato anche a Radio Rai 1 nel programma Il Mondo nuovo

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