Parolacce e letteratura | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Mon, 09 Dec 2024 15:24:43 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Parolacce e letteratura | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 La gloriosa storia dei nobili Coglioni https://www.parolacce.org/2024/12/02/origine-cognome-colleoni/ https://www.parolacce.org/2024/12/02/origine-cognome-colleoni/#respond Mon, 02 Dec 2024 10:13:56 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21174 I suoi esponenti hanno scritto pagine importanti nella storia d’Italia, dal Medioevo fino al secolo scorso. Sono stati notai, condottieri, benefattori e politici di primo piano. Nonostante un cognome a dir poco ingombrante: Coglioni, poi ingentilito, col passare dei secoli,… Continue Reading

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Il volto di Bartolomeo Colleoni nella statua equestre di Venezia.

I suoi esponenti hanno scritto pagine importanti nella storia d’Italia, dal Medioevo fino al secolo scorso. Sono stati notai, condottieri, benefattori e politici di primo piano. Nonostante un cognome a dir poco ingombrante: Coglioni, poi ingentilito, col passare dei secoli, in Colleoni. Ma gli antichi membri di questa stirpe nobile di Bergamo erano invece molto orgogliosi di questo appellativo così diretto, tanto da averlo inserito nel proprio stemma ufficiale: uno scudo con 3 paia di testicoli. Che sono finiti, tali e quali, nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago (Bg) e sul logo di una delle più antiche fondazioni benefiche, il Luogo Pio della Pietà Istituto Bartolomeo Colleoni di Bergamo. E quegli attributi virili sono oggetto di un rituale scaramantico in uso fra i visitatori di Bergamo: toccare i testicoli dello stemma inciso sulla cancellata della Cappella Colleoni di Bergamo è considerato un porta fortuna.

In questo post racconto la storia eccezionale – per non dire unica – di questa famiglia, che ha fra i propri esponenti il celebre condottiero Bartolomeo Colleoni (circa 1395-1475), ritratto in una famosa statua equestre realizzata a Venezia da Andrea Verrocchio.

Il capostipite: Ghisalberto “il Collione”

Stemma dei Coglioni con gigli 3 (famiglia d’Angiò) e 3 scroti

La famiglia Coglioni, d’origine longobarda, era una stirpe nobile di guelfi, in buoni rapporti con la Chiesa di Bergamo. Il suo primo rappresentante fu Ghisalberto Attonis (figlio di Attone) vissuto nel XII secolo: fu console della città di Bergamo nel 1117, e morì nel 1160.
Ghisalberto era detto “Collione”, dal latino “coleus”, scroto. Il passaggio è: coleus → coleonis (genitivo) → coleone → colione.
Non sappiamo perché si guadagnò quel soprannome: ma, con ogni probabilità, l’epiteto non aveva un senso insultante.
Secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Gradit) la prima attestazione di “coglione” nel significato di “stupido” risale infatti al 1526, in Pietro Aretino (“La cortigiana”): «Io sono in opinione che questo per essere coglione in cremesi, scempio di riccio sopra riccio e goffo di ventiquattro carati diventi il più favorito di questa Corte». All’epoca di Ghisalberto, invece, “collione” designava solo lo scroto. La parola, però, era usata già dagli antichi Romani come metafora per indicare coraggio: “Magnum coleum habet”, ovvero “Ha grandi testicoli.” Anche oggi per indicare una persona in gamba diciamo che “ha le palle”. L’equivalente di “cazzuto”, insomma.

Libro biografico di Pietro Spino (1569): il cognome di Bartolomeo è ancora Coglione.

«Anch’io mi sono fatto questa idea» commenta lo storico medievale Gabriele Medolago, autore di diversi saggi sui Colleoni. «Ghisalberto fu console del Comune di Bergamo: non doveva essere stupido. Era un imprenditore abile, molto intraprendente. Da quanto si evince dalla documentazione dell’epoca, era uno che sapeva il fatto suo».
Dunque, “collione” indicava una persona virile. Forse anche dal punto di vista generativo: Ghisalberto ebbe infatti 5 figli, ma nel Medioevo era piuttosto frequente. E’ da escludere, invece, l’ipotesi che Ghisalberto soffrisse di poliorchidismo, una malattia che consiste nel nascere con più di 2 testicoli: non vi è alcuna prova documentale che lo attesti.

Bartolomeo nel libro di Aliprando Caprioli “Ritratti di Cento Capitani Illustri” (Roma, 1596; © The Trustees of the British Museum)

Il soprannome “Coglione” diventò poi ereditario, cioè fu trasmesso ai suoi discendenti, perché a quell’epoca era iniziato il processo di cristallizzazione dei cognomi. Questi ultimi diventarono un elemento ufficiale dell’identità a partire dal Concilio di Trento (1563), che stabilì l’obbligo di scrivere nomi e cognomi sui registri di battesimo, la prima forma di anagrafe.
Diventando un cognome, l’appellativo di famiglia fu declinato al plurale Colleoni perché indicava una stirpe (de Collionibus) , così come il soprannome “rosso” (di capelli) ha dato origine al cognome Rossi.
Ma, in assenza di anagrafe e carte d’identità, il cognome fu scritto nei modi più diversi: Coglione/Coglioni, Culione, Colonibus, Colonius, Coijoni, De Coglionis, de Coleono, Collionum, Collionis/Collioni, Colleoni.

Lo stemma con i testicoli

Stemma di Colleoni col triplice scroto nel Palazzo della Provincia di Cremona.

Verso la fine del XIII secolo, il cognome Coglioni fu illustrato, com’era tradizione per i nobili, da uno stemma. Il casato fu rappresentato con uno stemma parlante: ovvero con figure che richiamavano direttamente il cognome. Ad esempio, la famiglia Della Torre aveva una torre al centro del proprio stemma. E quale immagine poteva scegliere la famiglia Coglioni se non… uno scroto?

«La famiglia Colleoni ebbe, nel corso della storia, centinaia di diversi stemmi, che si sono avvicendati nel corso delle generazioni, inserendo nuovi elementi a seconda dei matrimoni con altri casati o a ricordo di imprese o per esibire nuove cariche» spiega Medolago. «Lo stemma con lo scroto è uno dei più antichi in assoluto nella storia d’Italia: il primo risale alla fine del XIII secolo o all’inizio del seguente. Poi nel corso del tempo, gli scroti si sono moltiplicati, arrivando a 2 o 3 o più: non sembra esserci un particolare significato simbolico, la figura è usata come mero elemento ornamentale per non lasciare spazi vuoti. E’ il fenomeno della “moltiplicazione araldica”».

L’ingresso della fondazione benefica Logo Pio della Pietà Colleoni: si nota lo stemma con i testicoli.

Nella sua forma matura, lo stemma dei Coglioni presentava un aspetto “troncato” (cioè diviso da una linea orizzontale): rosso con due scroti bianchi in alto, bianco con uno scroto rosso in basso. Il rosso simboleggia audacia, valore, fortezza, nobiltà ma anche spargimento di sangue in battaglia o nel martirio. Mentre l’argento, rappresentato dal colore bianco, è simbolo di innocenza, purezza e castità: un significato che stride con la presenza dei testicoli, ma solo agli occhi di un moderno. L’uomo del Medioevo era abituato a leggere e interpretare i simboli e non si scandalizzava per l’uso iconico di elementi sessuali. «L’ostentazione dei testicoli nello stemma è un’ulteriore riprova che venissero esibiti con orgoglio, a rappresentare una stirpe “con gli attributi”» osserva Medolago.

Le modifiche più rilevanti allo stemma avvennero nel XV secolo per merito delle imprese di Bartolomeo Colleoni (di cui parlo sotto): l’aggiunta di due teste di leone con le fauci spalancate e unite da una banda diagonale concesso dalla regina Giovanna II di Napoli; l’inserimento del capo d’Angiò (gigli d’oro in campo azzurro), concesso da Renato d’Angiò; e le bande azzurro e oro e i gigli di Borgogna, concesse da Carlo il Temerario di Borgogna.

Il grido di battaglia: coglia!

Uno dei pochi ritratti contemporanei di Bartolomeo Colleoni

Fu proprio con Bartolomeo (1395-1475) che l’appellativo Coglioni raggiunse grande fama in Italia e in Europa. Egli era un soldato di ventura (oggi diremmo un mercenario), ed era una forza della natura: scappò a nuoto da una nave di pirati che l’avevano catturato; riuscì a evadere dai Forni (prigioni) di Monza dove l’aveva fatto rinchiudere Filippo Maria Visconti. E fu il primo a usare in modo significativo le armi da fuoco in battaglia contro i nemici: prima di lui, si usavano solo per abbattere le mura nemiche.

Tutti i potenti dell’epoca lo volevano dalla propria parte, o quantomeno non volevano averlo come nemico, per la fama d’astuzia e di ferocia che precedeva “il bergamasco”: «Asciutto in volto, con gli occhi chiari, fissi e penetranti, forti il naso e le narici, grande, vigorosa e imperiosa la bocca, sporgente il labbro inferiore, in atteggiamento di prepotenza soldatescaebbe l’avidità delle ricchezze, e uno sfrenato desiderio di gloria e di grandezza» scrive Bortolo Belotti in “La vita di Bartolomeo Colleoni”.

Sigillo di Zavarino Colleoni (1280) con scritta Colionum e scroti (© The Trustees of the British Museum ).

Bartolomeo cambiò molte casacche nella sua carriera, navigando fra mille intrighi e cambiando rotta a seconda dei venti politici: oscillò tra i Visconti e gli Sforza, per approdare infine al committente più prestigioso: Venezia. Che alla fine della sua carriera gli tributò l’onore di dedicargli una statua equestre: onore interessato, visto che fu lo stesso Bartolomeo a pretendere un monumento in cambio di 100mila zecchini d’oro che avrebbe lasciato in eredità alla Serenissima. La statua, alta 4 metri, fu realizzata in bronzo da Andrea del Verrocchio, ed è tuttora uno dei monumenti equestri più celebri al mondo. Bartolomeo aveva dato disposizioni che la statua fosse eretta in piazza San Marco: ma i veneziani, che non tolleravano questa smania di protagonismo (per di più da parte di un bergamasco), lo collocarono sì vicino a San Marco…. intesa come la Scuola Grande di San Marco, nella piazza dei Santi Giovanni e Paolo. Una beffa.

La statua equestre di Bartolomeo Colleoni a Venezia.

Il letterato Antonio Cornazzano, che dimorò presso la corte di Bartolomeo a Malpaga e ne scrisse la biografia in latino, lo chiama Bartholomeus Coleus cioè scroto. La stessa forma venne usata da Guglielmo Pagello nell’orazione funebre alla morte del condottiero. Lo stesso Bartolomeo si firmava “de Colionibus”.

Il condottiero era talmente orgoglioso del proprio cognome da farne un temuto grido di guerra«Coglia, coglia!», cioè «Coglioni, coglioni!». Come dire: «Tiriamo fuori le palle!». L’espressione è diventata il nome di un progetto, Coglia, che si propone di  valorizzare la figura di Bartolomeo.

Dame con grandi testicoli in mano (dipinti nella residenza di Colleoni a Brescia)

Quest’ultimo, in vita, continuò a rappresentare i testicoli nel suo stemma, composto (come scrisse in un atto pubblico) da «duos colionos albos in campo rubeo de supra et unum colionum rubeum in campo albo infra ipsum campum rubeum» («due coglioni bianchi su sfondo rosso, e un coglione rosso su sfondo bianco sotto») seguiti dal motto “Bisogna”.
Quello stemma fu riprodotto in tutti i suoi palazzi: il castello di Malpaga (frazione di Cavernago), il palazzo Colleoni alla Pace a Brescia e infine nella maestosa cappella funebre Colleoni a Bergamo. Al palazzo di Brescia alcuni dipinti raffigurano fanciulle con in mano enormi scroti, come potete vedere nelle foto qui a lato.

Dallo scroto ai leoni

La trasformazione dei 3 scroti in cuori rovesciati nello stemma di Colleoni.

Dopo la scomparsa di Bartolomeo, la stirpe dei Coglioni non ebbe rappresentanti altrettanto celebri. E nei secoli successivi la censura pose fine a quel cognome licenzioso: «Nel periodo che segue al Concilio di Trento (1545-1563)» scrive Gianfranco Rocculi in un saggio sull’araldica, «i testicoli dello stemma furono convertiti in altrettanti cuori rovesciati: durante la Controriforma, infatti, non appariva decoroso mostrare quegli attributi “di potenza e virilità” che erano stati tanto in auge nel carnale e corrusco Medioevo». E Coglioni cedette il passo alla più neutrale forma Colleoni, che per diverso tempo fu – erroneamente – interpretata come “Co’ leoni”, anche perché i leoni furono effettivamente presenti nello stemma concesso a Bartolomeo dalla regina Giovanna II di Napoli. Probabilmente la forma Colleoni si diffuse dopo il 1600, dato che ancora nel 1596 è citato come Bartolomeo Coglione nel libro “Ritratti di cento capitani illustri con li loro fatti in guerra brevemente scritti intagliati da Aliprando Caprioli” .

Il gonfalone ufficiale di Cavernago: in basso a destra nello stemma si notano i 3 scroti.

Dopo che l’Italia settentrionale passò sotto il dominio austriaco a partire dal XVI secolo, i Colleoni si schierarono con gli Asburgo: essendo una delle 64 famiglie di conti, la famiglia aveva una sede ereditaria nell’Herrenhaus, la camera alta del Consiglio Imperiale austriaco. L’ultimo esponente di spicco della famiglia fu Guardino Colleoni (1843-1918) eletto due volte deputato e poi senatore a vita.

Oggi nel Bergamasco ci sono ancora 987 famiglie che portano il cognome Colleoni: in tutta Italia sono 1.380. Chissà se conoscono la vera origine del proprio appellativo. L’antico stemma testicolare è tuttora presente nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago, nel cui territorio sorgono due castelli di Bartolomeo, quello di Cavernago e quello di Malpaga.

Ed è tuttora in attività il “Luogo Pio della pietà – Istituto Bartolomeo Colleoni“, da lui fondato a Bergamo nel 1466  “per fornire doti alle fanciulle povere e legittime, al fine di facilitarne il collocamento in legittimo matrimonio”. Oggi l’ente – uno dei più antichi al mondo ancora in attività – mantiene il patrimonio artistico di Colleoni e aiuta le donne in difficoltà. Il suo logo ufficiale ha mantenuto i 3 scroti dell’antico stemma.

Il cancello della Cappella Colleoni a Bergamo: gli scroti sono lucidati dall’usura dei turisti che li toccano.

Nel frattempo si è diffusa una singolare tradizione a Bergamo: quella di toccare con le mani i testicoli raffigurati sullo stemma del cancello della Cappella Colleoni. Un gesto considerato porta fortuna, come lo è a Milano schiacciare con il tacco i testicoli del toro (simbolo di Torino) disegnato in un mosaico sul pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II. I testicoli sono simbolo di fecondità e in questo risiede il loro beneaugurante potere.

Questo articolo è stato ripreso da BergamoNews.

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Giuda, Pinocchio e arpia: quando le persone diventano insulti https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/ https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/#comments Thu, 01 Aug 2024 08:59:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20694 “Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura… Continue Reading

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Il presidente Usa Joe Biden disegnato come Pinocchio da un gruppo di lavoratori autonomi che gli contesta varie promesse mancate.

“Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura retorica dell’antonomasia, che consiste nell’attribuire il nome di un personaggio famoso a una persona con caratteristiche simili. Sei un bugiardo? Ti paragono al mentitore per eccellenza, la sua personificazione: Pinocchio.
In italiano questi lemmi sono circa 2mila (da mongolfiera a daltonico, dal sandwich al bikini), e fra loro ho censito anche 63 termini offensivi, usati per la loro capacità di evocare caratteristiche negative.  

Avevo già parlato in questo articolo di alcuni insulti dello stesso genere: quelli derivati da toponimi (nomi di luogo, regioni, città: beota, lesbica e così via) o da etnonimi (nomi di popolazioni: zingaro, vandalo, etc). Ora è il turno delle offese derivate da nomi di persone, sia realmente esistite oppure immaginarie. In ambo i casi il passaggio da nome proprio a nome comune comporta una perdita di specificità: un nome proprio si riferisce a un solo individuo, mentre un nome comune ne indica molti. Tant’è vero che spesso il nome proprio, una volta entrato nel vocabolario, perde l’iniziale maiuscola.  Un altro aspetto interessante di questi termini, è che riferendosi a personaggi specifici, è più facile individuare l’epoca in cui questi insulti sono nati.

Una caratteristica su tutte

Alvaro Vitali nei panni di Pierino (1982)

Come funzionano i deonomastici? Si estrapolano alcune caratteristiche della persona (l’aspetto fisico, il comportamento, la mentalità) per indicare quanti possiedono queste medesime qualità. Si condensa l’identità di una persona in una sua caratteristica: l’avarizia per Arpagone, l’aggressività selvaggia per il cerbero.

Un passaggio, questo, che è comprensibile solo se si hanno le basi culturali per capire il riferimento: definire un avvocato “azzeccagarbugli” o un politico “gattopardo”, sono offese che arrivano a destinazione se si conoscono i romanzi di Alessandro Manzoni e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Ecco perché, in genere, questi insulti hanno una carica offensiva minore o ridotta rispetto a quelli derivati da altre metafore: in gran parte dei casi si tratta di spregiativi, più che di insulti a pieno titolo. A parità di significato, “maccabeo” è molto più debole di “coglione” quanto a carica insultante ed espressiva. Ma restano pur sempre offensivi: tanto che molti di loro (lanzichenecco, masaniello, torquemada, barabba, Giuda, megera, cassandra, cerbero, azzeccagarbugli, donchisciotte, Pierino, arpagone) sono stati oggetto di querela, e spesso hanno comportato una sentenza di condanna verso chi li ha pronunciati, come ha rilevato una ricerca dell’avvocato cassazionista Giuseppe D’Alessandro (che ha da poco pubblicato un agile dizionario degli insulti).

Ho raccolto gran parte di questi 63 termini nel libro “Dalie, dedali e damigiane, dal nome proprio al nome comune” di Enzo La Stella (Zanichelli); altri li ho ricavati dai libri di D’Alessandro. In questa raccolta mi sono limitato ai lemmi presenti nel dizionario (lo Zingarelli 2025). 

La maggior parte dei personaggi (54%) sono stati scelti come metafore svilenti per il loro modo di comportarsi (violento, fastidioso, disonesto), seguito dagli insulti di classe (14%) , mentali (12,5%) fisici e sessuali (a pari merito con 9,5%). Dunque, è il comportamento, più che l’aspetto fisico o la posizione sociale a identificarci e qualificarci?  L’ipotesi è suggestiva, ma per affermarla con certezza occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli delle altre lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese….) per vedere se anch’esse privilegiano questo aspetto nel coniare i termini deonomastici.

Tornando all’italiano, quali fra questi 63 appellativi deonomastici sono i più pesanti? A mio parere: giuda, teppista, arpia, caino, megera, pulcinella, lazzarone e messalina.

E voi li conoscete tutti? E sapete anche qual è la loro origine, ovvero quale personaggio (storico o immaginario) li ha ispirati?
Mettetevi alla prova
: per sapere le risposte basta cliccare sulle strisce blu.

Insulti comportamentali (34)

Il bacio di Giuda (Cimabue, XIII sec:)

Sono la categoria più numerosa, perché indicano aspetti molto diversi del carattere: dalla parsimonia all’aggressività, dalla maleducazione all’inganno: arpagone, attila, barabba, barbablù, cacasenno, cagliostro, caino, cassandra, cerbero, donchisciotte, fariseo, fregoli, furia, gattopardo, giacobino, giuda, gradasso, hooligan, lanzichenecco, manigoldo, maramaldo, masaniello, paolotto, pierino, pinocchio, pulcinella, qualunquista, squinzia, santippe, torquemada, teddy boy, teppista, vitellone

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INSULTI COMPORTAMENTALI
 

insulto significato origine
arpagone avaro, tirchio da Arpagone, protagonista dell’”Avaro” di Moliere (1668): è un vecchio vedovo avaro. Il nome è ispirato al latino harpagare, rubacchiare (l’arpagone era un uncino usato dai Romani per arpionare navi nemiche)
Attila uomo feroce, devastatore, distruttore spietato da Attila, re degli Unni (395-453)
barabba malvivente, delinquente da Barabba, il malfattore liberato al posto di Cristo (circa 40 d.C.)
barbablù marito violento e brutalmente geloso dal nome del protagonista di una fiaba di Charles Perrault  (1875): era un uomo molto ricco che aveva fatto sparire 6 mogli
cacasenno saputello, sputa sentenze da Cacasenno, figlio di Bertoldino e nipote di Bertoldo, stupido comprimario dell’omnima novella di Adriano Banchieri, (1670)
cagliostro imbroglione, avventuriero, ciarlatano da Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro (1743-1795) che riuscì a truffare mezza Europa con le sue finte scienze occulte
caino fratricida, traditore dall’omonimo personaggio biblico che uccise il fratello Abele
cassandra menagramo, catastrofista da Cassandra figlia di Priamo (re di Troia), che si era negata ad Apollo e fu punita col dono della profezia unito alla maledizione di non essere mai creduta
cerbero custode, guardiano arcigno

persona intrattabile e sgarbata

mostruoso cane a tre teste posto a vigilare all’ingresso dell’Ade
donchisciotte chi si erge a difensore di principi e ideali generosi e nobili ma superati o comunque irraggiungibili dal nome di Don Chisciotte, il fantasioso e ingenuamente spavaldo protagonista del romanzo ‘Il fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia’ di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) 
fariseo ipocrita dal nome di una antica setta giudaica (i perushim) molto attaccati alla legge e severi custodi della tradizione 
fregoli chi cambia spesso atteggiamento od opinione, in modo opportunistico dal trasformista Leopoldo Fregoli (1867-1936)
furia donna iraconda e aggressiva dalle Furie, personificazioni della vendetta femminile nella mitologia romana (corrispondono alle Erinni greche)
gattopardo chi in apparenza appoggia le innovazioni ma in realtà non vuole cambiare nulla  e mira solo a conservare i propri privilegi dal protagonista dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (1958), il principe di Salina (tutto deve cambiare perché nulla cambi)
giacobino rivoluzionario, chi sostiene idee radicali, intransigenti dal “Club des Jacobins”’ (1793), frequentato da rivoluzionari, chiamato così perché fondato nel Convento dei domenicani di S. Giacomo (Jacob)
giuda traditore dall’apostolo che tradì Gesù in cambio di 30 denari
gradasso bullo,  fanfarone, millantatore, spaccone Gradasso, rinomato guerriero saraceno nei poemi cavallereschi
hooligan  tifoso estremista e violento da Patrick Hooligan, buttafuori e ladro irlandese vissuto a Londra alla fine del 1800
lanzichenecco scagnozzo, sgherro soldato mercenario tedesco del periodo rinascimentale. Dal tedesco Landsknecht ‘servo (Knecht) del paese (Land)’
manigoldo boia, carnefice

furfante, briccone

dal nome tedesco Managold, un carnefice (XIV secolo)
maramaldo persona vile e malvagia che infierisce sui vinti e gli inermi da Fabrizio Maramaldo, che nel 1530 uccise a Gavinana Francesco  Ferrucci, ferito e impossibilitato a difendersi 
masaniello agitatore, capopopolo da Tommaso Aniello soprannominato Masaniello (1620-1647), protagonista della vasta rivolta che vide nel 1647, la popolazione napoletana insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo spagnolo 
paolotto bigotto conformista soprannome dei membri della società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata nel XIX sec. da Federico Ozanam
pierino ragazzo molto vivace e impertinente da Pierino, protagonista di molte barzellette italiane ispirato al fumetto Pierino di Antonio Rubino che fu pubblicato sul Corriere dei Piccoli negli anni dieci del XX secolo.
pinocchio bugiardo da Pinocchio, burattino protagonista dell’omonimo romanzo di Carlo Collodi (1881): quando diceva bugie, gli si allungava il naso
pulcinella buffone, persona poco seria dal nome dell’omonima maschera napoletana della commedia dell’arte
qualunquista chi  critica in modo generico e semplicistico o indifferente la politica e i problemi sociali dal Fronte dell’uomo qualunque, movimento politico fondato nel 1944 dal giornalista Guglielmo Giannini 
squinzia ragazza smorfiosa e civettuola da Donna Quinzia, personaggio di “i consigli di Meneghino”, una commedia di Carlo Maria Maggi (1630-1691) 
santippe moglie bisbetica e brontolona da Santippe, moglie petulante di Socrate
torquemada chi usa metodi di repressione crudeli e spietati e degni di un inquisitore da Tomás de Torquemada (1420 – 1498) religioso spagnolo, primo grande inquisitore dell’Inquisizione spagnola
teddy boy giovane teppista ragazzo (boy) vestito alla moda del regno negli anni ‘50: portavano lunghe giacche col collo di velluto nello stile di Edoardo VII, (Edward, vezzeggiativo Teddy)
teppista chi commette atti vandalici, mascalzone violento dalla Compagnia della Teppa di Milano, che nel 1816 raccoglieva giovani gaudenti e rissosi (la teppa è il muschio di cui erano ricchi i fossati del Castello Sforzesco)
vitellone giovane che trascorre il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo  dal titolo del film di Federico Fellini I vitelloni, (1953)

Il fotoreporter Barillari si definisce paparazzo

Insulti di classe (9)

Prendono di mira gli appartenenti a una classe sociale (spesso umile): azzeccagarbugli, cenerentola, fantozzi, gaglioffo, galoppino, lazzarone, paparazzo, stacanovista, travet

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INSULTI DI CLASSE
 

insulto significato origine
azzeccagarbugli avvocato  da strapazzo  dal soprannome di un avvocato di Lecco nei “Promessi sposi”; era così chiamato per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone disoneste e potenti.
cenerentola umile serva

persona a torto trascurata,

dalla protagonista dell’omonima fiaba popolare resa celebre da Gianbattista Basile (1635)
fantozzi impiegato di basso rango

persona maldestra e sfortunata

dal personaggio di Ugo Fantozzi creato da Paolo Villaggio (1971): era il cognome di un collega di Villaggio in un’azienda in cui l’attore aveva lavorato come impiegato, la Italimpianti
gaglioffo pezzente, mendicante

cialtrone, buono a nulla

manigoldo, furfante

da Galli offa, boccone del Francese: quello mendicato dai pellegrini al Santuario di Santiago de Compostela
galoppino chi corre dappertutto per sbrigare commissioni o faccende altrui da Galopìn, messaggero nelle Chansons de gestes francesi (XI secolo)
lazzarone straccione

mascalzone, canaglia

fannullone, scansafatiche

da Lazzaro, nome del mendicante coperto di piaghe che appare nella parabola del ricco epulone (Vangelo di Luca). Nome spregiativo dato ai popolani di Napoli che si erano rivoltati guidati da Masaniello
paparazzo fotoreporter d’assalto dal nome di un fotografo nel film “La dolce vita” (1960) di Federico Fellini. Il cognome era appartenuto a un oste calabrese nel romanzo. Il nome pare derivi dal personaggio di un libro di George Gissing che Fellini stava leggendo all’epoca: Coriolano Paparazzo era il nome del proprietario d’albergo che ospitò lo scrittore inglese a Catanzaro durante il viaggio in Italia del 1897 descritto in “Sulla riva dello Jonio”
stacanovista lavoratore troppo zelante dal minatore russo Alexei. Stachanov (1906-1977) che nel 1935 segnò un primato nella quantità di carbone estratto individualmente. Lo stacanovismo movimento sorto nell’Unione Sovietica dopo il 1935 per incrementare la produttività mediante l’emulazione fra lavoratori
travet  impiegato di rango modesto e mal retribuito  dal nome del protagonista della commedia di Vittorio Bersezio (1828-1900) Le miserie d’ Monsù Travet (dal piemontese travet ‘travicello’): era uno scrivano povero, soggetto alle soverchierie del capoufficio, di cui era vittima rassegnata

Il Cottolengo a Torino

Insulti mentali (8)


Sono offese sulle facoltà mentali considerate insufficienti, inadeguate, compromesse: bacucco, barbagianni, beghina, calandrino, cottolengo, maccabeo, mammalucco, manicheo

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INSULTI MENTALI
 

insulto significato origine
bacucco persona vecchia e rimbecillita da Abacuc, profeta ebraico (V secolo a.C.)
barbagianni uomo sciocco e incolto da barba Gianni “zio Giovanni”: il nome Giovanni era spesso usato con intenti spregiativi
beghina bigotta, bacchettona da Lamberto di Liegi, detto “Le begue” (balbuziente) fondatore dell’organizzazione religiosa laica delle beghine
calandrino persona sciocca e credulona dal nome di un personaggio credulone nel Decameron del Boccaccio (sec. XIII): dal pittore fiorentino Nozzo di Pierino, chiamato calandrino perché semplice come una calandra (uccelletto simile all’allodola)
cottolengo stupido, rimbambito da don Giuseppe Bernardo Cottolengo, che fondò a Torino un ospizio per malati incurabili (1832)
maccabeo stupido, sciocco dal soprannome (“martellatori”) del movimento ebraico di ribellione contro il seleucide Antioco IV Epìfane nel II secolo a.C. La desinenza in -eo è considerata ridicola
mammalucco persona sciocca, goffa dai Mamelucchi, milizia scelta composta da schiavi bianchi (turchi, slavi e greci) impiegati dai sultani come guardie del corpo
manicheo persona dogmatica, intollerante, che suddivide il mondo in buoni/cattivi senza sfumature da Mani, filosofo persiano (III secolo) secondo cui il mondo è retto dai princìpi del Bene e del Male, in perenne contrasto fra loro 

Insulti fisici (6)

Orco al Parco dei mostri a Bomarzo

Prendono di mira l’aspetto fisico e in particolare gli acciacchi (fisici, ma spesso anche psicologici) dell’età: arpia, baggina, befana, carampana,  megera, orco

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INSULTI FISICI
 

insulto significato origine
arpia donna di aspetto sgradevole e carattere malevolo, avaro le harpyai, rapaci, erano mostri dell’antica Grecia rappresentati con volto di donna, corpo di vari animali e ali di uccello
baggina persona vecchia e rimbambita soprannome del Pio Albergo Trivulzio di Milano: una storica residenza per anziani (1766) che prende il nome da Baggio, quartiere di Milano
befana donna vecchia e brutta da epiphania, festa che celebra la rivelazione attraverso il Dio incarnato; svolgendosi d’inverno, si è innestata in antiche tradizioni contadine romane che celebravano la morte della natura (una vecchia) in attesa della rinascita primaverile
carampana donna brutta, vecchia, trasandata e volgare da Ca’ Rampani, palazzo di Venezia (della famiglia Rampani) che fu adibito a ricovero per ex prostitute
megera donna molto brutta, spec. vecchia, di carattere astioso e collerico da Megera, una delle tre Erinni (v. anche furia)
orco mostro malvagio

pedofilo

da Orcus, dio latino della morte e dell’oltretomba

Film di Kubrick (1962)

Insulti sessuali (6)


Sono la categoria meno rappresentata: assatanato,  lolita, maddalena, messalina, onanista, sardanapalo

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INSULTI SESSUALI
 

insulto significato origine
assatanato in preda a fortissima passione: libidine o collera   da Satana (l’avversario), nella tradizione ebraica il capo dei diavoli
lolita ragazza provocante, disinibita e attraente dal nome della protagonista dell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (1899-1977). Il suo personaggio, però, non è una ragazzina perversa, è una povera bambina che viene corrotta 
maddalena peccatrice pentita dal nome della prostituta che si pente e asciuga coi suoi capelli i piedi di Gesù
messalina donna depravata e immorale dal nome. di Valeria Messalina (25-48), imperatrice romana famosa per le sue dissolutezze 
onanista masturbatore, segaiolo dal personaggio biblico Onan di Cananea, a cui fu imposto di sposare la vedova del fratello; ma piuttosto che generare un figlio che per la legge non sarebbe stato suo, preferì disperdere il seme (coitus interruptus, quindi: non masturbazione)
sardanapalo persona dedita al lusso e ai piaceri dal nome con cui i Greci chiamarono Assurbanipal (VII secolo a.C.) celebre per la sua dissolutezza

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Striscione offensivo dei tifosi del Pescara contro quelli dell’Ascoli

E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, rumeno), in inglese e nelle lingue dell’est, dal russo al cinese, oltre all’arabo e diverse altre.
In italiano gli insulti alla madre sono una quarantina ed esprimono una fantasia molto malevola. Perché sviliscono, con immagini ripugnanti o sessuali, la figura più sacra: la persona che ci ha trasmesso la vita. Un colpo dinanzi al quale nessuno può restare indifferente: come ha ricordato papa Francesco (paragonando il sentimento religioso con l’attaccamento alla madre), «Se il dottor Gasbarri, un grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. E’ normale». Come diceva il comico toscano Francesco Nuti «Te la mi’ mamma tu la lasci stare, va bene?».

Questo genere di insulti ha influenzato non soltanto i modi di dire, ma anche le culture: le battaglie rap consistono spesso nell’improvvisare rime offensive sulla madre di un’altra persona (“yo mama…“, “tua madre…“), in una sfida che rappresenta non solo un duello linguistico e simbolico, ma è anche un rito di affiliazione fra giovani, come racconterò più avanti. Pensate che in russo il gergo volgare si chiama proprio “Mat”, termine che deriva dalla stessa radice di “madre” (dall’espressione “yob tvoyu mat”, «fotti tua madre»).

Battaglia rap a suon di insulti alla madre: è uno show in Australia

Nella nostra lingua gli insulti alla madre sono più numerosi nei dialetti, per lo più del Sud: in italiano ci sono 5 espressioni, contro le 36 fra: napoletano (11), veneto e friulano (8), sardo (6), toscano (3),  pugliese (3),  siciliano e calabrese (2) e lombardo (1). Un’ulteriore prova che si tratta di offese molto antiche: infatti le dicevano anche Cicerone e Shakespeare. Degno di nota il fatto che prevalgono le espressioni di tipo incestuoso: rappresentano metà delle locuzioni censite.

Gli insulti alla madre sono uno dei 4 temi universali (cioè diffusi in ogni cultura) delle parolacce insieme agli insulti fisici, alle espressioni oscene e ai termini escrementizi. E sono offese del tutto particolari perché colpiscono una persona non direttamente, ma offendendone un’altra: una sorta di vendetta trasversale. Una strategia molto efficace, visto il rapporto così intimo e profondo con la figura materna. Insomma, la mamma è anche…. la madre degli insulti.
Come nasce questa usanza? E come si manifesta, in italiano e in altre lingue?

Figlio di… 

Locandina di Eleazaro Rossi, comico.

L’espressione “figlio di puttana”, con le sue diverse varianti, è presente in tutte le lingue: inglese (son of a bitch), francese (fils de pute, Ta mère la pute), tedesco (hurensohn), spagnolo (hijo de puta), portoghese (filho da puta), rumeno (Fiu de curvă) arabo (Ibin Sharmootah: la puttana di tua madre), russo (Сукин сын). In cinese si usa l’espressione 王八蛋wáng bā dàn) che significa letteralmente “uovo di tartaruga”: dato che la tartaruga abbandona le uova dopo averle covate, l’espressione denota un figlio di madre ignota (mignotta per l’appunto: vedi sotto), nato da una relazione extraconiugale. Ma ci sono anche due altre spiegazioni: un tempo si pensava che le tartarughe concepissero solo con il pensiero, rendendo impossibile ricostruire la paternità della prole (dunque, in questo caso, “figlio di padre ignoto”). Oppure, secondo un’altra interpretazione ancora, all’origine dell’espressione c’è la somiglianza fra la testa della tartaruga che esce dal guscio e il glande  che emerge dal prepuzio: l’espressione indica quindi una donna che ha perso la virtù.

In spagnolo esistono anche altri modi pittoreschi per dirlo: “anda la puta que te pari” (Torna dalla prostituta che ti ha partorito) e “tu puta madre en bicicleta”, ovvero “tua madre puttana in bicicletta”.

In Italiano è una delle espressioni considerate più offensive dopo le bestemmie (e a pari merito con “succhiacazzi”), secondo la mia ricerca sul volgarometro. Ed è l’offesa che raccoglie più denunce e processi, secondo uno studio.

Perché? Per motivi giuridici, sociali e psicologici.

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BASTARDI E ILLEGITTIMI
 

Film del 2003. L’espressione significa “avere una natura cattiva”

In passato, i figli delle prostitute (e in generale quelli nati fuori dal matrimonio) erano disprezzati: la struttura sociale si basava sulle coppie matrimoniali ufficiali, nelle quali – fino all’avvento dei test genetici – era più immediato stabilire l’appartenenza sociale e i diritti ereditari, dato che “Mater semper certa est, pater numquam” (“L'[identità della] madre è sempre certa”, quella del padre no). E proprio dall’impossibilità di accertare in modo oggettivo la paternità è nata l’ossessione per il controllo sul sesso femminile: la moralità della donna era l’unica condizione per assicurare stabilità sociale e ordine. I figli nati fuori dal matrimonio erano visti come una minaccia a questo ordine, poiché potevano complicare le questioni di eredità e le alleanze familiari.

Nel mondo antico erano considerati “bastardi” (altro termine offensivo legato alle figure genitoriali) i figli di coppie conviventi, quelli nati da una prostituta o frutto di una relazione adulterina o incestuosa. Questi figli, denominati “illegittimi”, erano penalizzati nell’ambito del diritto successorio (non potevano ereditare il patrimonio dei genitori), erano esclusi dalle cariche pubbliche, non potevano svolgere alcune professionisposare persone appartenenti ai cosiddetti mestieri onorabili. In più, per la religione, il sesso al di fuori del matrimonio era considerato immorale, e di conseguenza, i figli nati da queste unioni erano  stigmatizzati come prova visibile di un comportamento peccaminoso.

E questa prospettiva è arrivata fino ai tempi moderni: in Italia solo dal 1975 con la riforma del diritto di famiglia i figli nati fuori dal matrimonio acquisirono gli stessi diritti dei figli “ufficiali”. E solo dal 2012 è sparita, con la riforma della filiazione, la legge 219, la distinzione fra “figli legittimi” e “figli naturali”.

Questo genere di insulti sono un retaggio della cultura patriarcale? Secondo Francine Descarries, femminista e docente di sociologia all’Université du Québec à Montréal, la risposta è sì: «Le donne sono sempre state considerate proprietà degli uomini, siano esse figlie, mogli o madri. Attaccare la madre significa contaminare la proprietà dell’uomo. Quindi, quando insultiamo la madre di un uomo, attacchiamo i suoi beni, proprio come i suoi vestiti o la sua casa».

La testata di Zidane a Materazzi: l’artista algerino Adel Abdessemed ne ha fatto una statua.

In effetti, ricordate perché Zinedine Zidane diede una testata a Marco Materazzi, giocandosi così la finale dei Mondiali di calcio 2006? Perché Materazzi gli aveva detto: “Non voglio la tua maglia, preferisco quella puttana di tua sorella.
L’ipotesi ha del vero: nessuno nega il peso del maschilismo nella nostra cultura. Tuttavia, in questo caso, c’è una ragione molto più immediata, come evidenzia la psicologia: la madre è l’affetto più profondo che abbiamo, la fonte delle nostre sicurezze, le nostre radici. Non solo gli uomini, ma anche le donne si sentirebbero offese se qualcuno denigrasse la loro madre. E, in ogni caso,
insultare i familiari di qualcuno è, in generale, un’offesa pesante: tant’è vero che in napoletano si offende non solo la madre (“mamm’t”), ma anche la sorella (“soreta”), il padre (“patete”), o il fratello (“frateto”).  Toccare i rapporti di sangue, quelli più stretti, fa sempre male. Del resto, non condividiamo con loro parte del nostro patrimonio genetico?

Gli insulti alla madre sono molto antichi: già Plutarco, nella “Biografia di Cicerone” ricorda la battuta di quest’ultimo a Metello Nepote che gli chiedeva “Chi è tuo padre?”. Cicerone gli rispose: “Nel tuo caso,” disse Cicerone, “tua madre ha reso la risposta a questa domanda piuttosto difficile.”

E nel “Timone d’Atene” William Shakespeare inserisce questo dialogo:

PITTORE – Sei un cane!

APEMANTO – Della mia stessa razza è tua madre: che altro potrebbe essere quella che ha fatto te, s’io sono un cane?

 

MODI DI DIRE

In questa categoria ho censito 11 espressioni:

“5 figli di cane”, film di gangster del 1969

♦ figlio della colpa: figlio nato al di fuori del matrimonio, fra conviventi o adulteri 

♦ figlio della serva: persona considerata inferiore per nascita e trattata di conseguenza, anche in modo sgarbato e villano. Usato soprattutto in senso figurato per chi viene emarginato da un gruppo, o trattato con minor considerazione rispetto agli altri.

♦ figlio di nessuno: trovatello, o figlio naturale. Era usato anche come insulto o con valore spregiativo. In senso figurato, anche bambino molto trascurato dai genitori.

♦ figlio di puttana (dal latino puta, fanciulla) / di troia (femmina del maiale, sozza fisicamente e moralmente) / di zoccola (femmina del topo di fogna, notoriamente prolifica. Ma può derivare dal fatto che nel 1700 le prostitute dei quartieri spagnoli indossavano le stesse scarpe vistose, con alti zoccoli, delle nobildonne, che li usavano per non sporcare di fango le loro vesti) / di baldracca (da Baldacco, antico nome di Baghdad. Era anche il nome di un’osteria di Firenze frequentata dalle meretrici) / di mignotta (un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all’anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M.Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d’insulto) / di bagascia (dal francese bagasse,  “serva” o “fanciulla”) 

♦ figlio d’un cane: l’espressione è equivalente a “figlio di puttana”, ma aggiunge una valenza spregiativa il riferimento all’animale (considerato inferiore all’uomo) considerato vile, crudele e comunque inferiore all’uomo. In inglese “son of a bitch” significa letteralmente “figlio di una cagna”: i cani sono disprezzati per il fatto di avere rapporti sessuali davanti a tutti e con partner diversi

In napoletano:

♦ figlio’ e’ ntrocchia: figlio di puttana. La parola ntrocchia deriva dal latino “antorchia”, torcia: nell’antichità le prostitute giravano di notte in strada con una torcia accesa per attirare clienti. L’equivalente di “lucciola”, insomma. L’espressione può essere usata anche in senso ammirativo (vedi prossimo riquadro)

♦ chella puttan ‘e mamm’t: quella puttana di tua madre

In veneto, friulano:

♦ tu mare putana: tua madre puttana

♦ tu mare grega: “grega” significa “greca”, donna straniera: spesso le prostitute dei bordelli erano di origine straniera, e in friulano “grego” designa anche una persona infida, doppia 

In siciliano:

♦ ‘dra pulla i to matri: quella puttana di tua madre

♦ figghiu d’arrusa / buttanazza: figlio di puttana

DA INSULTI A COMPLIMENTI

L’attore Samuel L. Jackson fa spesso il motherfucker, un tipo tosto.

L’espressione “figlio di puttana”, oltre a indicare i figli delle prostitute, designa anche una persona spregevole e priva di scrupoli che compie azioni disoneste: i figli delle prostitute, del resto, crescevano per strada, o senza un’educazione, e spesso vivevano di espedienti per riuscire a cavarsela.
Al punto che l’espressione “figlio di puttana” (e in napoletano “figl ‘e ndrocchia” e “figl ‘e bucchino”) può essere usata, in modo scherzoso, anche come complimento: indica chi riesce a cavarsela nelle situazioni difficili grazie a un’abilità spregiudicata. E questo vale anche per l’espressione spagnola de puta madre”, di madre puttana, che però è usata come rafforzativo enfatico: equivale al nostro “della Madonna”, “cazzuto”, “molto figo”, “da paura”: come dire, figlio di una madre spregiudicata e tosta. Anche l’espressione inglese “motherfucker” (letteralmente: uno che si fotte la madre, ovvero “uno capace di fottere sua madre”) significa
“persona meschina, spregevole o malvagia” o si può riferire a una situazione particolarmente difficile o frustrante. Ma può essere usato anche in senso positivo, come termine di ammirazione, come nell’espressione badass motherfucker (acronimo: BAMF), che significa ”persona tosta, impavida e sicura di sé”.

Arma letale: le espressioni incestuose

In spagnolo la “concha” è la conchiglia, ma qui significa vulva.

Gli insulti alla figura materna possono utilizzare una variante se possibile ancora più offensiva: quella che evoca la sessualità della madre. Giocano, cioè, sul tabù dell’incesto, il più forte e antico: evocando la sessualità della propria madre costringono il destinatario dell’insulto a un pensiero altamente sgradevole, ripugnante e imbarazzante. Un “incantesimo” verbale pesantissimo, innescato evocando i suoi genitali, gli atti sessuali o una vita sessuale dissoluta. Il sesso evoca sempre la nostra natura animalesca, dalla quale cerchiamo sempre di prendere le distanze: a maggior ragione nei rapporti affettivi che non hanno (e non devono avere) risvolti erotici.
Dunque, abbinare pensieri osceni alla figura materna è un’arma linguistica micidiale, ed è presente in molte lingue:
oltre al già ricordato russo  “Ёб твою мать” (“yob tvoyu mat”, scopa tua madre, all’origine del “mat”, il gergo volgare), c’è l’albaneseqifsha nënën” (mi fotto tua madre) o “Mamaderr” (Tua mamma è una maiala) e l’araboKos immak” (La figa di tua madre) e Nikomak (scopa tua madre). E anche il rumenoDute-n pizda matii“, torna nella figa di tua madre, e il cinese ha due espressioni per “scopa tua madre”屌你老母 (diu ni lao mu, cantonese) e  操你妈 (cao ni ma, mandarino). E il persiano: Kiram tu kose nanat, ovvero “il mio cazzo nella figa di tua madre”, Madar kooni “tua madre è lesbica”, Kos é nanat khaly khoob hast “La figa di tua madre è buona”, Sag nanato kard “Un cane ha scopato tua madre”, Pedarbozorget nanato kard “Tuo nonno ha scopato tua madre”, Nanat sag suk mizaneh “Tua madre fa pompini ai cani”, Molla nanato kard “Un mullah (teologo) ha scopato tua madre”, Madareto kardam “Mi sono scopato tua madre”, Kiram to koone nanat “il mio cazzo nel culo di tua madre”.

In francese c’è “nique ta mère” (scopa tua madre) e “Ta salope de mère” (quella maiala di tua madre), in spagnolo(vete a) la concha de tu madre” (vai nella figa di tua madre), “Chinga tu madre” (“Scopa tua madre”), “Tu madre culo” (“Il culo di tua madre”). E in finlandese c’è l’espressione  “Äitisi nai poroja” che significa “Tua madre scopa con una renna”: ogni cultura adatta gli insulti al proprio contesto.

 

MODI DI DIRE

E’ la categoria più numerosa, con 20 espressioni:

In veneto:

“A fess d mamt”, un brano disco degli Impazzination (2012).

♦ quea stracciafiletti de to mare: quella strappa frenuli (del prepuzio) di tua madre

♦ va in figa de to mare / va in mona: vai nella figa di tua madre, ovvero: torna da dove sei venuto. E’ usato anche in modo bonario, come sinonimo di “Ma và a quel paese”

♦ quea sfondrada de to mare: quella sfondata di tua madre

♦ chea rotinboca de to mare: quella rottinbocca di tua madre 

♦ va in cùeo da to mare: và nel culo a tua madre.

In mantovano:

♦ cla vaca at ta fàt: quella vacca che ti ha fatto

In toscano:

♦ la tu mamma maiala / la maiala di tu mà: tua madre maiala

In napoletano:

♦ a fess d mam’t: la figa di tua madre (usato anche come esclamazione di disappunto, o per mandare qualcuno a quel paese)

♦ bucchin e mamt: la bocchinara di tua madre

♦ mocc a mamm’t / vafammocc a mamm’t: in bocca a tua madre / vai a farti fare un rapporto orale da tua madre

♦ ‘ncul a mamm’t: in culo a tua madre

♦ figl’e bucchino (figlio di un rapporto orale): persona scaltra e senza scrupoli capace di cavarsela in ogni situazione

In pugliese:

La birra “De puta madre”, una Ipa tosta.

♦ lu piccioni spunnatu di mammata: la figa sfondata di tua madre

♦ a fissa i mammeta : la figa di tua madre

In calabrese:

♦ Fiss’i mammata: la figa di tua madre

♦ In culu a memmata e a tutta a razza da tua: In culo a tua madre e a tutta la tua famiglia

In sardo:

♦ mi coddu cussa brutta bagass’e mamma: Mi fotto quella brutta puttana di tua madre

♦ t’inci fazzu torrai in su cunnu: Ti faccio tornare nell’apparato riproduttivo di tua madre

♦ su cunnu e mamma rua: La figa di tua madre

♦ su cunnu chi ta cuddau a sorri tua baggassa impestara luride e’merda: La figa che ti ha partorito a te e a tua sorella impestata lurida di merda 

♦ su cunnu chi ti ndà cagau: La figa che ti ha cagato

♦ sugunnemamarua bagassa, babbu ruu curruru e caghineri coddau in culu e in paneri de su figllu de su panettieri: La figa di tua mamma bagascia e tuo padre finocchio inculato dal figlio del panettiere

 Offese generiche (e da rapper)

“Yo mama”, film del 2023 su un gruppo di mamme che si mettono a rappare.

Le offese alla madre non sono soltanto di tipo sessuale. Esistono anche insulti generici usati per ferire la persona infangando l’immagine della madre. Un atteggiamento piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza, con frasi del tipo “tua madre è brutta”, “tua madre è cicciona”. E questa abitudine sta anche alle origini del rap: la battaglia rap, in particolare, è un duello verbale in rima nei quali gli avversari si fronteggiano improvvisando insulti sempre più spinti sulla madre dell’avversario con la formula “Yo mama” (“your mama”, tua madre). Questa tradizione deriva dalle “dozzine”, duelli d’insulti di origine africana, ma diffusi anche in diverse altre culture. Ma le “dozzine” non sono soltanto un duello verbale nel quale i partecipanti devono mostrare la propria abilità linguistica cercando di sconfiggere l’avversario con insulti sempre più creativi e pesanti. Secondo gli antropologi Millicent R. Ayoub e Stephen A. Barnett, le dozzine erano anche un rituale per rafforzare i legami fra i coetanei. Una sorta di rito di affiliazione: partecipando, il giovane è disposto a lasciare che altri insultino sua madre senza ritorsioni, in cambio di una più stretta integrazione nel suo gruppo di amici. Solo un rapporto molto intimo fra i partecipanti rende possibile gli insulti reciproci alle madri senza passare alle mani. Secondo il sociologo Harry Lefever, questo gioco potrebbe essere anche uno strumento per preparare i giovani afroamericani ad affrontare gli abusi verbali senza arrabbiarsi. Una sorta di allenamento a sopportare le provocazioni: un possibile effetto secondario rispetto alla sfida di sfidarsi con offese che fanno girare la testa.


Di battaglie rap sulla madre abbiamo anche un celebre esempio italiano: il “Mortal kombat” tra Fabri Fibra e Kiffa nel 2001. Dopo una sequela di insulti di vario genere, Fibra (dal minuto 2:08) inizia a insultare Kiffa dicendo “Tua madre non avvisa / Quando si fa calare a gambe larghe sopra la torre di Pisa”, a cui Kiffa risponde con: “Invece tua madre è troppo brava / L’ho vista conficcarsi la Mole Antonelliana”, e così via in un crescendo sempre più osceno e crudo (siete avvisati):

Oltre che nel rap, gli insulti alla figura materna sono diffusi a ogni latitudine. In spagnolo ci sono espressioni fantasiose come Tu madre tiene  bigote” (Tua madre ha i baffi) , o “Me cago en la leche que mamaste” (cago nel latte che hai succhiato dal seno di tua madre). In giapponese c’è l’espressione Anata no okaasan wa kuso desu (Tua madre è un pezzo di merda). In persianoMadar suchte“, Tua madre è bruciata all’inferno, e Nane khar “Tua madre è un’asina”.

Lo scrittore Lu Xun.

Gli insulti sulla madre sono molto diffusi anche in Cina. Già nel 1925 lo scrittore Lu Xun (1881-1936) osservava: «Chiunque abiti in Cina sente spesso dire “tāmāde” (他妈的 = tua madre) o altre espressioni abituali del genere. Credo che questa parolaccia si è diffusa in tutte le terre dove i cinesi hanno messo piede; la sua frequenza d’utilizzo non è inferiore al più cortese nǐ hǎo (ciao). Se, come alcuni sostengono, la peonia è il “fiore nazionale” della Cina, possiamo dire, allo stesso modo, che “tāmāde” ne è il “turpiloquio nazionale”».Secondo Xun, attaccare la madre era un modo per mettere in discussione non solo la reputazione, ma anche il prestigio sociale delle classi altolocate, che basavano il loro potere e prestigio sugli antenati: annientando questi ultimi, con espressioni come “discendente di madre schiava”(而母婢也), “sporco figlio dell’eunuco” (赘阉遗丑), scompare anche il prestigio dei presenti. «Se vuoi attaccare il vecchio sistema feudale, prendere di mira i lignaggi nobiliari è davvero una strategia intelligente. La prima persona ad aver inventato l’espressione “tāmāde” può essere considerata un genio, ma è un genio spregevole».

 

MODI DI DIRE

In italiano non ho trovato frasi fatte con espressioni denigratorie sulla madre. Ce ne sono 8, invece, in alcuni dialetti:

In napoletano:

Tua madre è così grassa: è uno degli insulti contro la madre

♦ chella pereta / loffa ‘e mammeta: quella scorreggia di tua madre

♦ chella zompapereta ‘e mammeta: quella salta scorregge di tua madre: appellativo rivolto alle donne popolane e volgari, o anche alle prostitute

♦ chella latrina / cessa ‘e mammeta: quel cesso di tua madre

♦ chella cessaiola / merdaiola ‘e mammeta : quella lava gabinetti di tua madre 

In veneto:

♦ to mare omo: tua madre è un uomo

Una particolare variante degli insulti materni riguarda evocare la morte della madre oppure insultare i suoi defunti, anche in questo caso nei dialetti:

In livornese:

♦  budello cane di tu madre morta: budella da cane di tua madre morta

♦ il budello de tu ma: le budella di tua madre

In pugliese:

♦ l’ murt de mam’t: i morti di tua madre

E tu, conosci altri modi di dire con insulti alla madre? Scrivilo nei commenti e aggiornerò l’articolo.

Ringrazio Lina Zhou per la preziosa traduzione dell’articolo di Lu Xun.


Ho parlato di questa ricerca a Radio Deejay, ospite della trasmissione “Il terzo incomodo” condotta da Francesco Lancia e Chiara Galeazzi. Qui sotto l’audio dell’intervento:

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Italo Calvino e le parolacce https://www.parolacce.org/2024/03/12/parolacce-italo-calvino/ https://www.parolacce.org/2024/03/12/parolacce-italo-calvino/#respond Tue, 12 Mar 2024 14:51:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20356 Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha… Continue Reading

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Italo Calvino ( 1923-1985).

Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha dedicato loro un’acuta analisi che è attuale ancora oggi, anche se sono passati più di 40 anni. Forse può sorprendere che un autore così raffinato si sia dedicato al turpiloquio, ma in realtà è in ottima compagnia, come ho avuto modo di raccontare a proposito di Umberto Eco e molti altri che trovate nel mio libro. Perché le parolacce, come diceva Calvino, possono servire a dare un “effetto speciale” nella partitura del discorso.

Le 117 volgarità ne “Il sentiero dei nidi di ragno”

Per entrare nel mondo di Calvino, parto con l’analisi del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”: pur essendo stato pubblicato nel 1947, epoca di censure e perbenismo, presenta numerosi termini volgari o offensivi. Non è un caso: la storia, infatti, è ambientata in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana sotto dominio nazifascista. In guerra è più rude anche il linguaggio, e un romanzo realista ne deve tener conto.
Calvino utilizza in tutto 31 espressioni triviali per un totale di 117 volte, includendo anche termini forti come puttana, fottuto, bastardo, cornuto e terrone: mica male! E lo fa inglobando anche alcune espressioni colloquiali e dialettali, tranne il celebre “belin”: scelta insolita per un romanzo ambientato in Liguria. 

La scelta stilistica di Calvino è ancor più interessante perché il protagonista del libro è un ragazzo ribelle di 10 anni, Pin, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre. Privo di punti di riferimento, il bambino vive con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, una prostituta che s’intrattiene con i militari tedeschi. Dietro lo sguardo spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, da giovane, aveva lasciato gli studi universitari ed era entrato nella Resistenza, in clandestinità, a contatto con persone di umili origini.

Il romanzo conduce il lettore fin dalle prime righe nei vicoli di un paese ligure, proprio grazie alla spontaneità delle parolacce:

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. – Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella! 

 Già nell’incipit troviamo 3 insulti (muso di macaco, rubagalline, materasso, inteso come “grassona”) e una maledizione (ti si seccasse la voce in gola). Ma è Pin l’autore dell’espressione più pesante del romanzo, una sequenza di insulti che avrebbe voluto urlare in faccia ad alcuni clienti dell’osteria a cui stava nascondendo di avere in tasca una pistola: Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!

Una sequenza di alto impatto, costruita con una escalation di insulti in decasillabi quasi perfetti.

Nel ventaglio di espressioni scelte da Calvino per questo romanzo, prevalgono i termini colloquiali e gli insulti: Calvino si tiene alla larga dal lessico osceno, nonostante la sorella di Pin faccia la prostituta. Da segnalare l’assenza di espressioni molto diffuse come “cazzo”, “stronzo”, “coglioni” e “vaffanculo”. Ecco la lista completa delle parolacce presenti nel romanzo:

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TUTTE LE PAROLACCE
 

Imprecazioni (3)

  frequenza brano
mondoboia 25 Mondoboia, proprio come pensavo io.
mondo cane 2 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane,
merda! 1 – Merda! – gli fa Zena e gli volta le spalle.

Maledizioni (2)

Ti venisse un cancro 2 Ti venisse un cancro all’anima
Ti si seccasse la voce in gola 1  

Insulti (20)

scemo 9  mio marito è un po’ scemo ma è il miglior marito del mondo
bastardo 8 tutti questi bastardi fascisti che mi hanno fatto del male la pagano uno per uno.
carogna 8 mi dicevo: dove sarà andato a sbattere quella vecchia carogna,
cagna 6 Il capitano di sua sorella cagna e spia.
ruffiano 4 Il ruffiano lo andate a fare voi se ne avete voglia
cornuto 4 il tuo distaccamento… il distaccamento dei cornuti!
vacca 4 Quella vacca della tua bisnonna
porco 4 Egoista porco!
macacco / muso di macacco 3 Questa poi me la paghi, muso di macacco
puttana 3 Domando io se è il modo di mandare a puttane il mulo
scimmia 3 mia sorella, quella scimmia,
stupido 2  però il piantone è uno stupido e gli dà ai nervi
brutto muso 2 Brutto muso, – gli fa Giraffa, amichevole.
terrone 2 quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», poveri emigrati, guardati come estranei.
fottuto 1 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane, – fa Pin, – però sei anche un fottuto a lasciarmi lì mentre m’avevi dato la parola d’onore.
rubagalline 1 tu e quel rubagalline del tuo padrone!
materasso 1 Tu e quel materasso di tua sorella!
mangiasapone 1 Garibaldi ci ha portato il sapone e i tuoi paesani se lo son mangiato. Mangiasapone
cretino 1 E le toccai il nasino – e lei disse brutto cretino
sbirro 1 quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. 

Termini escrementizi (2)

piscia/pisciare 9 Nelle vene non mi scorre più del sangue, ma del piscio giallo
cacca/cacare 4 sporco sulle spalle di cacca di falchetto,

Termini colloquiali (4)

bordello 1 senti gli sputafuoco che bordello?
balle 2 le cose sono sicure o sono «balle», non ci sono zone ambigue ed oscure per loro
culo 1 Io vi spacchi i corni, io vi sfondi i culi…

 

strafottere 1 Me ne strafotto di tutte le vostre armi!

 

Le parolacce come musica

Avendo utilizzato a piene mani il turpiloquio nella sua prima opera, Calvino non ha mai avuto un atteggiamento snob o moralista verso le parolacce. Anzi, ne ha fatto oggetto anche di una riflessione molto acuta in un articolo del 1978 (uscito in origine sul “Corriere della sera”, poi raccolto nel saggio “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”). Nonostante siano passati 46 anni, è un’analisi ancora attuale. Calvino afferma che le espressioni triviali hanno un “insostituibile valore” per tre motivi.

Primo: hanno una forza espressiva ineguagliabile, dovuta alle loro connotazioni negative. Le parolacce sono «una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso, parlato o scritto», e la loro espressività è data proprio dal fatto che sono «regressive, fallocentriche o misogine». Inutile tentare di addolcirle, come ricordo spesso: le parolacce nascono come colpi sotto la cintura ed è ingenuo pensare di attenuarle.
Il disprezzo per il sesso che molte espressioni sottendono «ha un senso marcatamente conservatore d’affermazione di superiorità su un mondo inferiore. Prova ne è che il turpiloquio non ha mai liberato nessuno. Direi che, spesso, è vero il contrario».

Ma, per avere questi effetti espressivi, le parole oscene «vanno usate al momento giusto» perché «sono esposte più delle altre a un’usura espressiva e semantica, e in questo senso credo ci si debba preoccupare di difenderle: difenderle dall’uso pigro, svogliato, indifferente. Naturalmente, senza tenerle sotto una campana di vetro, o in un “Parco Nazionale”, come preziosi stambecchi verbali: bisogna che vivano e circolino in un “habitat” congeniale. La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti. Anche nelle altre lingue europee mi pare che le voci equivalenti siano tutte più pallide. Va dunque rispettata, facendone un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra».

Insomma, il turpiloquio è un ventaglio di espressioni a cui dobbiamo ricorrere in quanto «riserva di creatività, non in quanto repertorio di voci infiacchite. La grande civiltà dell’ingiuria, dell’aggressione verbale oggi si è ridotta a ripetizione di stereotipi mediocri. Giustamente ha osservato un linguista che dire “inintelligente” è molto più offensivo che dire “stronzo”». L’osservazione vale a maggior ragione oggi, epoca di grande inflazione delle parolacce in diversi contesti: non solo cinema, radio, giornali e tv, ma anche (e soprattutto) Internet. Anche quando si vuole attaccare una persona o un’idea, si utilizzano le solite espressioni logore, senza fantasia.

Secondo: i termini osceni sono le migliori espressioni se si vuole avere un effetto “denotativo diretto”. Per designare quell’organo o quell’atto meglio usare la parola più semplice, quando si intende parlare davvero di quell’organo o di quell’atto. Le parolacce, insomma, servono a chiamare le cose con il loro nome, sono il linguaggio più diretto. Ma con un’avvertenza, purtroppo non approfondita da Calvino: «la trasparenza semantica di una parola è inversamente proporzionale alla sua connotazione espressiva». Tradotto, significa: se una parola è molto ricca di sfumature emotive di significato, diventa una parola oscura. Un esempio? La parola “cazzo” che, quando non designa l’organo sessuale maschile è usata come sinonimo di nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Finisce così per significare tutto e il contrario di tutto.

Terzo valore delle parolacce: sono una forma di posizionamento sociale. «L’uso di parole oscene in un discorso pubblico (per esempio politico) sta a indicare che non si accetta una divisione di linguaggio privato e linguaggio pubblico. Per quanto comprenda e anche condivida queste intenzioni, mi sembra che il risultato di solito sia un adeguamento allo sbracamento generale, e non un approfondimento e uno svelamento di verità. Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio».

Il che è ancor più valido nella nostra epoca in cui i politici di ogni schieramento, da Bossi in poi, hanno fatto del turpiloquio uno degli aspetti costanti della comunicazione: tutti fanno a gara per apparire informali nel linguaggio e nell’abbigliamento, mentre i contenuti politici passano in ombra.

Le guerre e i traduttori di insulti

Calvino torna sulle parolacce anche in una sua opera matura, uno dei suoi capolavori: “Il cavaliere inesistente” (1959). Il romanzo è ambientato all’epoca di Carlo Magno, immaginato a scontrarsi con i Mori, ossia gli islamici. Nel primo scontro fra i due eserciti, Calvino scrive che, nelle prime fasi, quando i nemici entrano in contatto fra loro per la prima volta, vi sia un’armata di interpreti che traducono gli insulti pronunciati in arabo, spagnolo e francese.

Cominciavano i duelli, ma già il suolo essendo ingombro di carcasse e cadaveri, ci si muoveva a fatica, e dove non potevano arrivarsi, si sfogavano a insulti. Lì era decisivo il grado e l’intensità dell’insulto, perché a seconda se era offesa mortale, sanguinosa, insostenibile, media o leggera, si esigevano diverse riparazioni o anche odî implacabili che venivano tramandati ai discendenti. Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario. 

– Khar as-Sus! – Escremento di verme! 

– Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! Zabalkan! Merde! 

Questi interpreti, da una parte e dall’altra s’era tacitamente convenuto che non bisognava ammazzarli. Del resto filavano via veloci e in quella confusione se non era facile ammazzare un pesante guerriero montato su di un grosso cavallo che a mala pena poteva spostar le zampe tanto le aveva imbracate di corazze, figuriamoci questi saltapicchi. Ma si sa: la guerra è guerra, e ogni tanto qualcuno ci restava. E loro del resto, con la scusa che sapevano dire «figlio di puttana» in un paio di lingue, il loro tornaconto a rischiare ce lo dovevano avere. 

Una gustosa trovata narrativa, che ci ricorda un aspetto a cui di solito non pensiamo: gli insulti hanno effetto solo nella misura in cui c’è qualcuno che li riceve, li comprende e dà loro un peso. Altrimenti, sono solo fiato sprecato.

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L’insegna di una storica trattoria di Milano.

Luca, Carlo e Giorgio sono amici. Eppure, quando s’incontrano, si chiamano affettuosamente “ciccione”, “testa di cazzo” e “buffone”. Le parolacce, infatti, non servono solo a offendere. Possono persino esprimere l’opposto d’un insulto: vicinanza, intimità, affetto. Non è solo una stravaganza: è un fenomeno linguistico sfuggente e molto più profondo di quanto sembri a prima vista. Infatti espressioni simili sono utilizzate non solo fra amici, ma anche fra amanti e nei gruppi sociali di emarginati. Ed è, in realtà, un genere di espressioni molto antico, che risale già al tempo dei Romani. E’, come vedremo, un linguaggio tipico delle feste di piazza (soprattutto il Carnevale), che riesce a cogliere il nostro mondo interiore nel suo divenire e nella sua complessità anche contraddittoria. Ma come funzionano? Cosa vogliono dire?

Relax, libertà e sincerità fra chi si ama

Un meme de “Il terrone fuori sede” che rivendica con ironia l’identità meridionale.

Vediamo un po’ più da vicino queste espressioni. In casi come questi, gli insulti non sono usati in senso letterale: anzi, in realtà il loro contenuto non conta. Conta, invece, il fatto che siano usate parole di un registro linguistico colloquiale: segnalano il passaggio a un tipo informale e più rilassato di comunicazione.
«La locuzione oscena» scriveva Italo Calvino «serve come una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso parlato o scritto.Questa strategia linguistica non può preoccuparsi del fatto che la parola usata sia regressiva, fallocentrica o misogina o altro; anzi, la sua espressività è data spesso dalle sue connotazioni più negative».
Già, ma cosa esprimono esattamente queste espressioni? Avviene uno strano corto circuito, ascoltandole: sono ingiurie affettuose. Il senso affettivo è dato solo dall’intenzione del parlante (espressi dallo sguardo e dal tono di voce), che annulla il contenuto offensivo degli insulti. Un’ulteriore prova che è l’intenzione a fare l’insulto, e non viceversa: posso offendere senza usare nemmeno una parolaccia («Quanto sei intelligente», se detto con intento sarcastico, è un’offesa). E vale anche il contrario: senza l’intenzione aggressiva, l’offesa perde la sua carica esplosiva. Gli insulti affettuosi sono come pistole a salve, ma non del tutto: rimane qualcosa del loro graffiante contenuto originario, il loro colore emotivo. Infatti fanno ridere, e la risata segnala sempre una sorpresa di fronte a una contraddizione, in questo caso un’opposizione fra forze contrarie, come un piatto agrodolce. Le parole squalificanti sono usate infatti per esprimere affetto, cioè il sentimento opposto al disprezzo. Una modalità, questa, che ricorda la figura retorica dell’ossimoro, l’unione di due concetti opposti e inconciliabili: come “ghiaccio bollente”, “fallimento di successo”.

Un libro che esalta il “dirty talk” fra amanti.

Ma queste espressioni non si limitano ai rapporti fra amici. Possono manifestarsi anche quando due amanti, a letto, utilizzano fra loro termini espliciti e offensivi («scopami», «troia») anche se hanno un rapporto d’amore. L’uso del turpiloquio (il “dirty talk“, parlare sporco) serve in questo caso a esprimere l’aspetto animalesco del sesso, che di solito tendiamo invece a censurare, mascherare o a negare.
«Nella corrispondenza intima si incontrano a volte dei termini volgari e ingiuriosi usati in senso affettuoso» osserva Michail Bachtin, critico letterario russo. «Quando si superano certi limiti nei rapporti fra le persone e questi rapporti diventano più intimi e schietti, ecco che ha luogo un cambiamento nell’uso ordinario delle parole, una distruzione della gerarchia verbale; il linguaggio si ristruttura su un tono nuovo e schiettamente familiare; le parole affettuose comuni sembrano convenzionali e false, banali, unilaterali e soprattutto incomplete; hanno una sfumatura gerarchica che le rende inappropriate alla libera familiarità che si è instaurata; ed è per questo che tutte le parole banali sono bandite e sostituite o da parole ingiuriose o da parole create sul loro tipo e modello». Dunque, le parolacce portano una ventata di sincerità oltre che di libertà e informalità.

L’insulto come bandiera

Gay pride a Milano:  lo spregiativo “froci” è esibito con orgoglio.

A volte l’unione paradossale fra buoni sentimenti e volgarità avviene in un campo minato: gli insulti stereotipici, quelli diretti a un intero gruppo sociale. Così capita di vedere omosessuali che si autodefiniscono orgogliosamente “froci” durante le sfilate del gay pride; gli immigrati meridionali che aprono ristoranti come “La taverna dei terroni”, o siti Internet come “Il terrone fuori sede”, realizzato da meridionali che fanno della propria identità una bandiera autoironica.

L’ex presidente Obama chiamato “nigga” (negro) con orgoglio.

O, ancora, o gli afroamericani che si proclamano orgogliosamente “nigga”, cioè nigger, negri. La linguista francese Dominique Lagorgette dell’Università della Savoia a Chambéry chiama queste espressioni “insulti di solidarietà”: sono usati in senso parodico, fanno il verso ai razzisti per rimarcare invece un forte senso di appartenenza. Quando le persone di colore si chiamano fra loro, affettuosamente «negro», si riappropriano della loro identità irridendo i tentativi esterni di emarginazione. Se ne fregano del disprezzo contenuto nell’insulto e lo usano verso se stessi per riaffermare la propria identità a dispetto dell’esclusione sociale.

Gli imperatori romani fra trionfi e sfottò

Il trionfo di Tiberio (8 a.C.) su un vaso d’argento.

Nella Roma antica, durante la cerimonia del trionfo (riservata ai condottieri che avevano conseguito un’importante vittoria), il generale o l’imperatore erano celebrati e al tempo stesso derisi, e lo stesso accadeva durante i funerali: si rimpiangeva e si prendeva in giro il defunto.
Durante i trionfi, in particolare, un corteo formato dalle massime autorità romane, dal generale vittorioso e dai suoi soldati sfilava dalla Porta Triumphalis al Campidoglio. Uno schiavo teneva alzata sulla testa del condottiero una corona d’alloro sussurrandogli: «Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo».

La processione trionfale sull’Arco di Tito (70 d.C.).

Nel frattempo, i legionari intonavano i “Carmina triumphalia”, versi decisamente irridenti: per esempio, dato che Giulio Cesare era un donnaiolo senza capelli, i legionari cantavano «Cittadini, state attenti alle mogli: vi portiamo l’amatore calvo. L’oro in Gallia te lo sei fottuto in donne, qui (a Roma) l’hai preso in prestito». E i soldati andavano giù pesanti: dato che – com’era d’uso fra i Romani (ne ho parlato in questo articolo) –  da ragazzo Cesare si concesse al re Nicomede IV di Bitinia, i legionari cantavano: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, mentre non trionfa Nicomede, che pur sottomise Cesare». Per gli antichi Romani, la passività sessuale era un’onta.
Com’è intuibile, questi insulti erano rivolti come ammonimento al trionfatore perché non s’insuperbisse della vittoria. Erano anche formule “apotropaiche”, scongiuri, atti a distogliere dal vincitore, al culmine del suo successo, l’invidia degli uomini e anche degli dèi.
«La lode e l’ingiuria di piazza sono due facce della stessa medaglia» spiega ancora il critico Bachtin. «Le lodi sono ironiche e ambivalenti. Sono al limite dell’ingiuria: le lodi sono gravide di ingiurie e non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra di esse, così come non è possibile dire dove comincino le une e finiscano le altre. La stessa cosa avviene anche con le ingiurie». Nelle lodi, infatti, la nostra ambivalenza affettiva può inserire anche una sfumatura d’odio, di invidia.

Il salto della catena all’università di Padova (museo Gaudeamus).

Una traccia di questo genere di antichi riti sopravvive ancora oggi nelle tradizioni goliardiche dell’Università di Padova. Fino a pochi anni fa l’ingresso al Cortil Nuovo dell’Università era delimitato da una grossa catena, che per antica tradizione studentesca rappresentava simbolicamente il confine del sacro tempio della cultura. Nessuno studente di Padova osava quindi saltare la catena prima di aver completato il proprio ciclo di studi. Solo il giorno della laurea l’universitario poteva togliersi, senza più alcun timore, la soddisfazione di fare il gran salto, tra i canti irriverenti e le pedate degli amici sul fondoschiena, passando così ritualmente a una nuova condizione: quella di “laureato”. Accompagnato dal ritornello: «Dottore, dottore, dottore del buso del cul va fa ’n cul, va fa ’n cul». Un monito per ricordargli che, anche da “dottore”, rimaneva una persona qualunque, esposta alle miserie della vita.

La lingua di piazza e il mondo in divenire

Pieter Bruegel “Lotta fra carnevale e la quaresima” (1559).

Ma il critico russo Bachtin, nel libro “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, ha ricostruito le origini di queste espressioni, chiamate “lodi ingiuriose”. Il capolavoro di Rabelais, “Gargantua e Pantagruele”, ne è pieno, come questo passo: “E Gargantua piangeva come una vacca, ma, di colpo, quando gli veniva in mente Pantagruele: «Oh, figliolino mio, – diceva, – coglioncino mio, petuzzo d’oro, come sei carino!».  Il figlio di Gargantua è chiamato contemporaneamente con diminutivi (“figliolino”, “carino”) e insulti ammorbiditi dai vezzeggiativi (“coglioncino”, “petuzzo”).
L’uso di queste formule, ricorda Bacthin, è figlio del linguaggio di piazza, quello usato durante le feste popolari, innanzitutto a Carnevale. Nella cultura ufficiale le lodi e le ingiurie sono separate, perché riflettono una gerarchia sociale immutabile «dove il superiore e l’inferiore non si mescolavano mai» osserva Bachtin. «Quanto più il linguaggio è familiare e meno ufficiale, tanto più frequentemente e sostanzialmente questi toni si fondono e tanto più debole diventa la barriera fra lode e ingiuria; esse cominciano a mescolarsi in una sola persona e in una sola cosa, le espressioni che racchiudono in sé l’auspicio di vita e di morte, di semina della terra e di rinascita».
Le feste di piazza, infatti, celebrano i momenti cruciali della natura: soprattutto la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, in un mondo in continua trasformazione: «Il linguaggio grottesco di piazza (soprattutto nel suo filone più antico) era orientato verso il mondo e verso ogni fenomeno del mondo in stato di metamorfosi continua, in stato di passaggio dalla notte al giorno, dall’inverno alla primavera, dal vecchio al nuovo, dalla morte alla nascita. E’ un fenomeno di eccezionale importanza per comprendere le grandi tappe dello sviluppo del pensiero umano del passato. Alla base di tale fenomeno si trova l’idea di un mondo in stato di eterna incompiutezza, che muore e nasce nello stesso tempo, L’immagine bitonale che riunisce le lodi e le ingiurie, cerca di cogliere l’istante stesso dell’alternanza, il passaggio dal vecchio al nuovo, dalla morte alla vita».

Un sentimento del genere, di unione degli opposti, è espresso in questo video comico che Maccio Capatonda ha pubblicato in occasione della festa di San Valentino: ritrae due innamorati che palesemente non si sopportano. Pronunciano frasi romantiche («Sei un’adorabile creatura», «Sei un uomo meraviglioso») ma con un tono aggressivo, irritato e squalificante, in un cortocircuito molto divertente.

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Le parolacce degli antichi Greci https://www.parolacce.org/2022/12/15/le-parolacce-degli-antichi-greci/ https://www.parolacce.org/2022/12/15/le-parolacce-degli-antichi-greci/#comments Thu, 15 Dec 2022 16:24:59 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19471 Gli antichi Greci dicevano parolacce? Eccome: oltre a molte parole colte (metro, atomo, terapia, democrazia…) abbiamo ereditato da loro anche termini volgari, da cacca a culo. E arrivano dall’antica Grecia diversi modi di dire odierni come “fuori di testa”, “schiatta”,… Continue Reading

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Maschera teatrale in terracotta (200-250 d.C.): fotomontaggio da ASCSA Digital Collections

Gli antichi Greci dicevano parolacce? Eccome: oltre a molte parole colte (metro, atomo, terapia, democrazia…) abbiamo ereditato da loro anche termini volgari, da cacca a culo. E arrivano dall’antica Grecia diversi modi di dire odierni come “fuori di testa”, “schiatta”, “culo rotto” fino al gesto del dito medio. Quando dovevano insultare qualcuno, infatti, gli elleni non erano secondi a nessuno, quanto a fantasia e disprezzo: “locusta”, “montone”, “zotico”, “mangia merda” e “vecchia mummia” sono solo un assaggio del loro ventaglio di insulti, che – ho scoperto – contiene 1.300 espressioni: una stima per eccesso, ma rende l’idea del loro arsenale di espressioni triviali.
E per mandare qualcuno a quel paese utilizzavano espressioni macabre, da “buttati nel baratro” a “che il tuo cadavere sia mangiato dai corvi”. Senza contare gli insulti riservati alle classi basse, agli incolti, agli stranieri, alle prostitute e agli omosessuali passivi. C’è poi un verbo, rhaphanidóo, che significa “ravanellizzare“: era la pena riservata gli adulteri, puniti infilando un ravanello nel sedere depilato con la cenere calda.

Coppa da vino in ceramica: raffigura il partecipante a un banchetto con un’etera, un’escort (480 a.C.).

Dai Greci, insomma, abbiamo ricevuto non solo parte del nostro lessico, ma anche una prospettiva sul mondo, un modo di guardare la realtà, sia nelle vette del pensiero filosofico che nelle bassezze del turpiloquio. Anche se, come vedremo, accanto a suggestive somiglianze ci sono anche rilevanti differenze, soprattutto nel modo di intendere il sesso: i Greci non erano così libertini come potrebbe apparire a prima vista.
Eppure, il turpiloquio antico non è stato ancora esplorato a fondo: gli studi sono pochi e limitati ad alcuni aspetti, e molti dizionari censurano le espressioni oscene. Nel celebre dizionario Rocci, ad esempio, πέος, cazzo, è indicato come “membro virile”: corretto, ma non fedele. Lorenzo Rocci, del resto, era un gesuita e l’impianto del dizionario – pur aggiornato – risale al 1939, epoca in cui era sconveniente utilizzare termini scurrili.  Con questo articolo conoscerete quindi un aspetto della cultura ellenica che nessun professore vi aveva mai insegnato.
Perciò, con buona pace di chi ancora crede che siano un fenomeno moderno, le parolacce risalgono a più di 2mila anni fa: anzi, come ricordavo nel mio libro, quelle greche sono precedute da quelle egizie e babilonesi. Le scurrilità, insomma, sono antiche quanto l’uomo. Questo articolo non vuole essere una rassegna completa sul turpiloquio ellenico (occorrerebbe un libro intero), ma offrirne un’idea concreta e ordinata.

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IL PROBLEMA DELLE FONTI
 

L’antico teatro di Epidauro (360 a.C.)

Ricostruire le parolacce di una civiltà antica non è semplice. I documenti sono pochi: la Storia ci ha tramandato soprattutto la letteratura “alta”: i copisti del passato hanno privilegiato trattati di filosofia, tragedie, poesie rispetto alle opere popolari. All’interno di queste fonti, poi, non è sempre facile identificare quali fossero i termini di registro triviale e quali no, ovvero quali parole suscitassero più o meno scandalo: erano usate per lo più nel linguaggio quotidiano, orale e nessun autore (tranne i grammatici) si preoccupava di precisare se un determinato termine fosse tabù o meno.
Le fonti più antiche sono i frammenti sopravvissuti dei primi poeti lirici greci (600-500 a.C.), che a volte usavano un linguaggio osceno. Soprattutto la poesia giambica, un genere polemico e realistico, caratterizzato da un linguaggio offensivo, osceno e ridicolo. Il suo esponente principale è Ipponatte di Efeso (570-538 a.C.): pare fosse brutto e gobbo, e per reagire allo scherno dei suoi contemporanei componeva versi violenti e feroci.

Busto di Aristofane (1° sec. a.C.)

Altra fonte di rilievo, le commedie attiche del V e IV secolo a.C., che facevano spesso uso di oscenità e umorismo crudo. In questo campo, il sovrano indiscusso è il comico ateniese Aristofane (450-385 a.C.), il Checco Zalone dell’epoca: undici delle sue opere teatrali sono sopravvissute. A queste si aggiungono alcuni testi di lessicografi  ed enciclopedisti.
Ma come orientarsi nel lessico scurrile? Una risorsa formidabile è il dizionario online del lessico scurrile greco (sul sito translatum.gr), che mostra un arsenale notevole: è una raccolta di 1.300 lemmi, e già questo numero dà un’idea concreta di quanto fosse ricco il ventaglio di parolacce nell’antichità. Per fare un confronto, le volgarità nel dizionario italiano sono poco più di 300; salgono a oltre 3.000 solo includendo i termini arcaici o allusivi. Va detto, tuttavia, che in questo dizionario  figurano molti termini che non sono propriamente di registro volgare, da ἀποκόπτω (apokopto, castrare) a χασμώδης (chasmòdes, sonnolento). A questo limite si aggiunge la mancata indicazione delle fonti, tranne rare eccezioni.
Come dizionario, al posto del Rocci, ho utilizzato il GI di Franco Montanari (Loescher).
Alcuni spunti li ho tratti da un libretto antologico “Come insultavano gli antichi”(Melangolo), privo però di un inquadramento culturale. Decisamente meglio il libro “Insults in classical Athens” di Deborah Kamen, docente di lettere classiche all’Università di Washington. Contributi corposi sono tratti da alcuni eccezionali articoli del divulgatore storico Spencer McDaniel: il suo sito, talesoftimesforgotten.com, è ricco di notizie curiose  e interessanti sul mondo antico, al netto di alcune differenze sulla categorizzazione degli insulti. Utile anche uno studio sugli eufemismi di Paolo Martino.

Ho suddiviso le scurrilità elleniche  in 4 grandi categorie, seguendo l’impostazione teorica del mio libro: imprecazioni, maledizioni, insulti (comportamentali, etnici, mentali, escrementizi) e oscenità.

1. Imprecazioni

Anche gli antichi greci imprecavano usando i nomi di varie divinità. Le imprecazioni si costruivano prendendo la parola μά (per) e aggiungendo il nome della divinità al caso accusativo, insieme all’articolo: l’equivalente del nostro “per dio!”:

  • μά τòν Δία (mà tòn Día): “Per Zeus!”
  • μά τήν Ἥραν (mà ten Heran): “Per Hera!”
  • μά τήν Ἀθηνᾶν (mà ten Athenân): “Per Atena!”
  • γιγγρί (ghingrì): interiezione ingiuriosa traducibile con cazzo!, fanculo!, etc. (dal verbo γίγγρας, gridare)

Interessante notare che anche i Greci cercavano di non pronunciare invano il nome degli dèi, scegliendo eufemismi che usiamo ancora oggi: capperi (να τήν κάππαριν, per il cappero), porco cane (μέν τα κύνα, per il cane), porca l’oca (νά τòν χήνα), per l’oca) e cavolo (μά τήν κράμβην, per il cavolo).

2. Maledizioni

Tavoletta di piombo con incise le maledizioni. I fori sono stati lasciati dai chiodi (4° sec. a.C.)

In questo campo i Greci erano maestri indiscussi. Per augurare il male a qualcuno, facevano ricorso a vere pratiche magiche, come racconto più diffusamente nel mio libro. Prendevano un’unghia o un capello del nemico, pronunciavano su di esso la formula di maledizione e poi lo bruciavano o lo gettavano in un pozzo o in un fiume, con una tavoletta su cui era incisa la maledizione. A volte la tavoletta veniva fissata a una parete con i chiodi, come per trafiggere e inchiodare il destinatario. Nella formula erano citati, con un crescendo meticoloso, tutti gli organi del nemico fino alla sua anima. Gli archeologi hanno trovato numerose tavolette di questo genere.
Per quanto riguarda le espressioni più comuni, la più forte era βάλλ’ εἰς κόρακας (báll eis kórakas): “Vai dai corvi!“. La frase significa: che tu possa morire e restare senza sepoltura, in modo che i corvi mangino il tuo cadavere. Al di là dell’immagine truce, era la peggior maledizione per i greci: pensavano infatti che chi non fosse stato sepolto con un funerale rituale, non sarebbe mai entrato negli Inferi, vagando senza metà per l’eternità: la peggior disgrazia immaginabile. Da questa espressione deriva il verbo ἀποσκορακίζω (aposkorakìzo), mandare ai corvi: l’equivalente del nostro “mandare a quel paese”, dato che in questa espressione “paese” sta per “cimitero”, o mandare all’inferno. L’espressione ha avuto così fortuna da essere sopravvissuta nel greco moderno: “άει στον κόρακα” (aei ston kòraka). Con oltre 2mila anni di vita, è sicuramente il “vaffa” più longevo e antico della Storia.
A proposito di morte, l’equivalente del nostro “Va a morì ammazzato” è ἄπαγ᾽ εἰς τὸ βάραθρον (Àpag’eis tò bàrathron), letteralmente “vai nel baratro, nel precipizio”. Da segnalare anche le espressioni ἀποφθείρομαι (apoftheiromai) e ἀπòλοιο (apòloio) che tu sia distrutto, ρρε (èrre!) va in malora! e il notevole διαρραγείης (diarraghèies) scoppia!, crepa! equivalente del napoletano “puozze schiattà” (se volete approfondire le maledizioni in italiano e nei dialetti, ne ho parlato qui).
L’espressione ἐκκορηθείς συ γε (ekkorethèis sý ghè) significa “che tu sia spazzato via”: è l’equivalente del nostro “fuori dai coglioni”. Ma i Greci sapevano anche essere leggeri: l’espressione “datti all’ippica” (Iππευε, Ìppeue) è farina del loro sacco.

L'INVENZIONE DEL DITO MEDIO

La scultura L.O.V.E. di Maurizio Cattelan di fronte alla Borsa di Milano.

E’ il gesto insultante più noto al mondo, ed è un segno fallico: agitato di fronte a un interlocutore diventa un gesto di sfida, di scherno, di minaccia, dato che fra gli animali esibire il fallo è simbolo di preminenza ed autoaffermazione. Ebbene, questo gesto molto diffuso nella cultura angloamericana, è nato in area mediterranea nel 423 a.C., anno in cui Aristofane scrisse la commedia “Le nuvole”. O, quantomeno, questa è la testimonianza scritta più antica che abbiamo di questo gesto, che sicuramente era già molto diffuso ben prima di Aristofane.
Ai versi 650-654 della commedia c’è uno scambio di battute fra Socrate e Strepsiade, un vecchio e rozzo contadino. Il brano gioca il suo effetto comico sull’ambiguità del termine dàktulos, che significa dito ma è anche il dattilo, unità di misura della poesia (una sillaba lunga seguita da due brevi). Ecco lo scambio di battute:

SOCRATE: Ma va’ all’inferno, razza di cafone imbecille! Figurarsi coi ritmi come sei bravo

STREPSIADE: Roba che si mangia? A che mai potrà tornare utile?

SOCRATE: In primo luogo a figurare in società, distinguendo i ritmi di battaglia da quelli che si scandiscono col dito

STREPSIADE: Col dito?

SOCRATE: Sì

STREPSIADE: Ma quelli li conosco!

SOCRATE: E cioè?

STREPSIADE: Ecco qua il dito. Ce n’è un altro? A dir la verità, quand’ero ragazzetto, c’era questo [ e mostra il medio ]

SOCRATE: Sei uno stupido cafone.

3. Insulti

Il vocabolario dei Greci era molto ricco di insulti, che riflettono la loro mentalità snob, che disprezzava ignoranti, poveri e stranieri. I Greci insultavano in particolar modo chi svolgeva lavori umili: «sebbene gli ateniesi della classe operaia fossero cittadini a pieno titolo sia legalmente che ideologicamente, erano tuttavia ritenuti (da alcuni) inadatti a esercitare tutti i diritti di cittadinanza» spiega la professoressa Kamen. Dunque, termini come πονηρός (poneròs), plebeo, diventa sinonimo di miserabile, cattivo, mentre il termine αγοραίος (agoràios, letteralmente “piazzista”), mercante, aveva una sfumatura di disprezzo perché i mercanti erano visti come elementi estranei all’economia delle città-Stato. Di tutte le occupazioni umili, i pellettieri (σκυτοδέψης, skutodèpses) e i calzolai (σκυτοτόμος , skutotòmos) erano i più disprezzati perché all’umiliazione di un’attività manuale abbinavano una carnagione pallida, poiché restavano tutto il giorno chiusi in casa: «il pallore, infatti, era associato alla femminilità» ricorda la Kamen. Per una società guerriera quale era quella greca, il concetto di onore – ossia di reputazione pubblica – era centrale: «dire che qualcuno si sottraeva alla leva o mostrava codardia sul campo di battaglia, anche per scherzo, significava metterne in discussione le qualifiche e la capacità di prestare servizio cittadino in una polis democratica» aggiunge la Kamen.
Se qualcuno diceva insulti pesanti contro un defunto, era passibile di giudizio per κακηγορία (kakēgoría, insulto verbale);  i vivi potevano intentare una causa solo se erano stati insultati davanti ad altri testimoni (come nella moderna diffamazione): ma doveva condividere la multa del risarcimento con lo Stato. Gli insulti puniti più duramente erano quelli che implicitamente accusavano qualcuno di aver commesso un reato: assassino, disertore, e simili. In termini moderni, i casi di calunnia.
Fra gli insulti generici si ricordano κατάῥατος (kataràtos) maledetto (da araomai, pregare, nel senso di imprecare, maledire) e παγκατάρατος (pankatàratos) stramaledettissimo.

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INSULTI COMPORTAMENTALI
 

  • ἄγρειος (agreios) zotico, cafone, lett.: contadino
  • ἄνανδρος (ànandros): debole, codardo, lett: non-uomo
  • κλέπτης (klèptes): ladro, imbroglione (da cui cleptomane)
  • νόθος (nòthos): bastardo (figlio illegittimo), falso
  • οἰνοπίπης (oinopipes): ubriacone
  • πανοῦργος (panoùrgos): farabutto, lett.: capace di qualunque cosa
  • προκύων (prokùon) leccaculo, letteralmente “uno che fa come un cagnolino”
  • φλύαρος (flùaros) ciarlatano, cazzaro

INSULTI MENTALI
 

Femmina di locusta mentre depone le uova.

Gli insulti in questa categoria mostrano quanto i Greci dessero valore alla conoscenza, disprezzando gli stolti, gli ignoranti e  gli appartenenti alle classi sociali più basse. Anche loro, quando volevano disprezzare qualcuno, lo paragonavano a un animale, dagli insetti al bestiame.

  • ἄγγαρος (àngaros) stupido, lett.: corriere postale a cavallo
  • ἀμαθής (amathès) stupido lett. ignorante
  • ἀναίσθητος (anaìsthetos) stupido, lett.: insensibile
  • βαρυεγκέφαλος (baruenkèfalos) stupido, lett.: testa pesante
  • βρόκων (bròkoon) zoticone, lett.: locusta o larva di locusta
  • ἐμβρόντητος (embròntetos) rintronato (da un tuono), rincoglionito
  • ἐνδεητικός (endeetikòs) deficiente
  • ἑνδεκάκλινος (endekàklinos) a 11 posti, detto di testa molto grande (testone, crapone)
  • ἑτερεγκεφαλάω (eterenkefalào) essere fuori di testa, lett.: avere il cervello spostato
  • εἰκαιολόγος (eikaiològos) stupido, ciarlatano, cazzaro, lett.: che parla a caso
  • ἰδιώτης (idiòtes) strano, eccentrico (per noi “idiota” significa stupido)
  • κεπφαττελεβώδης (kepfattelebòdes) scemo, lett.: dal cervello di gabbiano e di locusta
  • κριόμυξος (kriòmuxos) scemo come un montone (pecorone)
  • παχύφρων (pachùphron) tardo di mente lett.: “mente grossolana”
  • ὑηνεύς (ueneùs) porco, grossolano.

INSULTI ETNICI
 

Rovine di Corinto: tempio di Apollo e Acrocorinto

Ho inserito in questa categoria un gruppo di insulti di vario genere (a sfondo sessuale, comportamentale, mentale) che però mostrano, nella loro etimologia, un originario disprezzo o visione stereotipata verso una determinata popolazione. I più bersagliati erano gli abitanti di Corinto e di Lesbo, per i loro costumi sessuali considerati dissoluti.

  • ἀβδηριτες (abderites): stupido, sempliciotto, lett.: abitante di Abdera
  • ἀνδροκόρινθος (androkòrinthos): letteralmente “corinzi maschi”, significa città di prostituti, Puttania
  • βοιωτία (boiotìa) balordo, letteralmente “abitante della Beozia”: il termine italiano “beota” deriva proprio da questa parola
  • βάρβαρος (bárbaros), balbuziente, straniero, rozzo, incivile. Barbaro, per l’appunto
  • κορινθιάζομαι (korinthiázomai)  Questo verbo significa  “comportarsi come un corinzio”, ma, poiché la città di Corinto era famosa nell’antichità per le sue numerose prostitute di alto ceto, il verbo significa “andare a con una prostituta”.
  • κορινθιαστης (korinthiastes): uno che frequenta Corinto = puttaniere
  • κυσολάκων (kysolákòn) “culo spartano”, un uomo che fa sesso anale, con un maschio o con una donna: i Greci pensavano che gli spartani preferissero il sesso anale rispetto a quello vaginale.
  • λεσβιάζω (lesbiázō) deriva dal nome dell’isola greca di Lesbo. Significa letteralmente “comportarsi come una persona di Lesbo”, ma l’omosessualità femminile non c’entra: l’espressione significa infatti “praticare un rapporto orale” (sbocchinare), poiché i Greci pensavano che questa pratica fosse la specialità o l’invenzione delle donne di Lesbo.

INSULTI ESCREMENTIZI
  Diversi insulti sono costruiti usando i termini che designano gli escrementi: κόπρος (kópros, da cui coprolalia), σκῶρ  (skôr). Da segnalare che il termine “cacca” nasce dal greco antico κάκκη (kakke) merda, a sua volta derivato da kακός (kakòs), brutto, cattivo.

  • ἀποκοπρόομαι (apokopròomai) diventare merda
  • βδύλλω (bdùllo) cagarsi addosso (per qualcosa)
  • βόλβιτον (bólbiton) significa letteralmente “merda di bue” equivalente dell’inglese bullshit
  • κοπροφάγος (koprophágos) “mangia merda”
  • κοπρίας (koprìas) sconcio buffone
  • κοπριήμετος (koprièmetos) vomitatore di escrementi.
  • κροκοδιλέα (krokodilèa) sterco di coccodrillo
  • κύνεια (kuneia) sterco di cane
  • σπύραθος (spùrathos) merda di capra.
  • σκερβόλλω (skerbòllo) insultare, lett.: gettare merda, smerdare

INSULTI FISICI

Ricostruzione digitale dei bronzi di Riace (5 sec. a.C.)

Gli insulti fisici (denigrare l’aspetto di una persona) sono diffusi in tutte le culture. In greco hanno una valenza particolare: nella cultura ellenica, il brutto è anche cattivo. Ovvero, l’aspetto fisico repellente è considerato sempre espressione di una bruttezza dell’animo, i due elementi viaggiano sempre insieme: è la kalokagathia, ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono è necessariamente bello.

  • ἀινòδρυπτος (ainodruptos) cozza, donna molto brutta (lett. lacerata)
  • αἰσχρός (aischròs): brutto, deforme, vergognoso
  • μαλακός (malakós), significa “molle”, ma, quando è usata per descrivere un uomo, implica che è debole, codardo ed effeminato, sessualmente dissoluto.
  • νωδός (nodòs) sdentato, indebolito
  • σορέλλη (sorèlle) vecchia mummia

4.Le parole del sesso

Scena erotica su ceramica apula (4 sec. a.C.)

Il lessico osceno è ricchissimo, ed è normale: anche le lingue moderne sfruttano la forza dei tabù sessuali per creare espressioni volgari, utilizzate non solo per designare genitali e atti sessuali, ma anche per stigmatizzare comportamenti considerati aberranti o esecrabili (come l’adulterio, la prostituzione, il sesso anale e orale,  come vedremo). I termini erotici, infatti, esprimono anche una visione morale e sociale. Ma prima di illustrare quest’ultima, parto dai termini osceni, che designano genitali, zone erotiche e atti sessuali. Da notare che già le antiche greche usavano i dildo in pietra, cuoio, o legno: forse perché i loro partner erano spesso impegnati in guerre, politica o esercitazioni militari.

Termini osceni

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ANATOMIA

Anatomia generale

  • βορβορόπη (borborópē) Questa parola significa letteralmente “pozza di fango”, cioè ano
  • κῶλος (kòlos) culo, la parola italiana arriva da questa radice greca
  • ὄρρος (órrhos) ano
  • πρωκτός (proktós) ano, da cui il termine proctologo
  • πυγή (pugè) culo
  • φύσις (fysis) genitali (“natura”)

Anatomia maschile

  • κέντρον (kèntron) “pene eretto”.
  • μύκης (mùkes) cazzo, lett.: fungo (da noi: cappella)
  • πέος (péos) cazzo (la radice confluisce nel termine “pene”)
  • δίδυμα (diduma) gemelli, riferimento ai testicoli o alle ovaie
  • ἄγκυρα (ankura) genitali, lett.: ancora (carico pendente, zavorra)

Anatomia femminile

Statua di una baccante addormentata (2° sec. d.C.)

  • βόλβα (bolba) fica
  • δακτυλίδια (daktulidia) fica, ano (letteralmente: ditalino)
  • δέλτα (delta): fica, un riferimento alla lettera greca che, maiuscola, è un triangolo (Δ)
  • κύσθος (kýsthos) genitali femminili (da kùsos, ano); da questa radice deriva il latino cunnus che ha dato origine allo spagnolo coño, al francese con e all’inglese cunt. Termini che in tutte queste lingue hanno una funzione spregiativa, dovuta al fatto che nell’antichità la vulva poteva essere facile veicolo di infezioni e malattie veneree
  • λειμών (leimòn)  genitali femminili, lett.: prato  “genitali femminili
  • μύρτον (myrton), mirto: genitali femminili (il fiore è bianco, colore femminile, e i pistilli ricordano i peli pubici)
  • ῥόδον (ròdon) fica, lett.: rosa (basti pensare al medievale “Roman de la rose”)
  • σέλινον (sèlinon) fica, lett.: sedano
  • χελιδών (chelidòn) fica, lett.: rondine
  • χοῖρος (choîros) maialino,  genitali femminili: forse per la somiglianza fra i peli della vulva e quelli dell’animale (come nell’inglese “pussy”, gatta, o nell’italiano “topa”). Il dio Dioniso era conosciuto anche con l’epiteto di χοιροψάλας (choiropsàlas), “toccatore di fica”

ATTI SESSUALI

I Greci facevano le falloforie, processioni con grandi falli: propiziavano la fecondità dei campi (470 a.C.)

Cominciamo con il sesso orale. I Greci (e anche i Romani) pensavano che, in generale, essere penetrati fosse degradante; ma consideravano «particolarmente  degradante per una persona essere penetrati oralmente, perché la penetrazione orale implicava la contaminazione orale» spiega Spencer McDaniel. «La bocca è un organo che svolge funzioni sociali particolarmente importanti, poiché è l’organo principale utilizzato per la comunicazione. Per questo motivo, gli antichi greci erano estremamente preoccupati per l’importanza della purezza orale». Occorre ricordare, infatti, che la civiltà greca dava molto valore alla parola.
Ma ancor peggio della “fellatio” (rapporto orale su un uomo) i Greci giudicavano il “cunnilingus”, ovvero il rapporto orale su una donna: lo ritenevano, aggiunge McDaniel,  «l’atto sessuale più disgustoso, degradante e poco virile che chiunque potesse compiere su un altro essere umano era il cunnilingus, considerato l’unico modo in cui qualcuno potesse sottomettersi sessualmente a una donna. Per una persona sottomettersi sessualmente a una donna significava che la persona che si sottometteva era  inferiore  alla donna e anche meno virile di lei. Questo, a loro avviso, posizionava il cunnilinctor (o la cunnilinctrix) come il più basso e il meno virile di tutti gli esseri umani. Inoltre, il cunnilingus, come forma di sesso orale, portava lo stigma aggiunto dell’impurità orale. Proprio come il pene di un uomo, si credeva che la vulva di una donna contaminasse la bocca di una persona, rendendola impura e rendendo tossico il suo respiro». Ecco perché i rapporti orali (e anali) erano praticati per lo più con prostitute e schiavi.
Ecco una piccola lista di termini che si riferiscono ad atti sessuali:

  • βαυβών (baubòn) dildo di pelle. La città di Mileto in Asia Minore, era il principale esportatore di dildo di cuoio nell’Egeo: erano piuttosto diffusi in una società in cui gli uomini erano costantemente in guerra o in addestramento militare
  • βινέω (binéo) scopare.
  • γλωττοδεψέω (glottodepséo) “fare un pompino”.  La parola significa letteralmente “lavorare una cosa con la lingua  finché non diventa morbida
  • γλωσσοτέχνης (glossotèchnes) artista nell’usare la lingua
  • δέφω (dépho) masturbarsi (da δέψω, toccare)
  • δουλοκοίτης (doulokoites) fottitore di schiavi
  • κεράστης (keràstes) cornuto (da cui il termine “crasto” in siciliano): il termine però indica gli animali dotati di corna; l’adultero era designato con i termini γαμοκλόπος (gamoklòpos), λιπόγαμος (lipògamos), μοιχεύτρια (moicheùtria)
  • κολλοποδιώκτης (kollopodioktes) segaiolo: dal verbo kòllops (κòλλοψ), manovella, e διώkω (diòko), faccio muovere
  • κυνοικοίτης (kynoikoìtes) fottitore di cani
  • λαικάζω (laikázo)  a “fare un pompino”, da  λαικός, volgare, popolare, “laico”
  • μύζουρις (mýzouris) fellatio, sesso orale. È formato dalla combinazione del verbo μυζάω (muzáō), che significa “succhiare”, e il sostantivo οὐρά (ourá), “coda” ovvero “pene” (letteralmente succhiare la coda)
  • ὄλισβος (olisbos), dildo, fallo finto
  • πυγίζω (pygízo) “inculare” (da πυγή, culo).
  • τριβάς (tribás) “strofinare”,  in senso sessuale (la vulva sulla vulva di un’altra donna).
  • τρύπανον (trùpanon) trapano, anche in senso erotico

Etica sessuale

La gioventù di Bacco: dipinto di William-Adolphe Bouguereau (1884).

Se immaginate la civiltà greca come libertina e dissoluta, beh: sbagliate. In realtà, i Greci (e anche  i Romani) ponevano un forte accento sull’idea di moderazione e autocontrollo: la  σωφροσύνη (sophrosýne, per i Romani temperantia). Quindi bandivano tutti gli eccessi, compresi quelli sessuali. Pare che anche le orge, in realtà, fossero ben poco diffuse: secondo il professor Alastair Blanshard, della Scuola di ricerche filosofiche e storiche dell’università di Sydney, le orge dei Greci e dei Romani furono per lo più un’invenzione propagandistica dei cristiani, per dipingere come dissoluta la civiltà pagana. Lo stesso termine, “orgia”, significa di per sé culto segreto, cerimonia iniziatica, sacrificio: non ha alcuna implicazione sessuale. Ciò non toglie, tuttavia, che alcuni di questi riti potessero comprendere atti sessuali propiziatori della fertilità, ma a fini sacri, di congiungimento col divino.
I Greci, comunque, vivevano la sessualità in modo peculiare. Innanzitutto disprezzavano chiunque corteggiasse i ragazzi (della cosiddetta “pederastia” parlerò più avanti), non si sposasse o si masturbasse. Era considerato vergognoso e poco virile: nelle sue commedie Aristofane prende in giro incessantemente gli uomini di questo genere.  Sicuramente era una società guerriera e maschilista: a Sparta, dove gli uomini passavano gran parte del tempo fra loro, se un uomo non riusciva ad avere un figlio dalla moglie aveva il diritto legale di “prestarla” ad altri affinché la mettessero incinta, senza bisogno – pare – del consenso della donna.
E certamente i Greci non erano paladini dell’amore libertino: basti pensare non solo agli spregiativi riservati agli adulteri (μοιχαλίς moichalis, cornificatrice, adultera), ma anche a un verbo ῥαφανιδόω (rhaphanidóo): “ficcare un ravanello nel culo di qualcuno“. Era la punizione riservata a chi faceva sesso con la moglie di un altro, preceduta dalla depilazione del sedere con cenere calda o pece. Potrebbe sembrare poca cosa viste le piccole dimensioni, ma voglio ricordare che la sua radice è piccante grazie alla presenza di glucosinolati. Era dunque una umiliazione pubblica, una punizione popolare praticata dal marito tradito e dai suoi parenti o amici, che si prendevano la soddisfazione di ridicolizzare l’amante facendolo correre dolorante con il  ciuffo di foglie che usciva dal sedere. A questo si aggiungeva la possibilità, per il marito, di ristabilire il proprio onore uccidendo la moglie fedifraga.
Della punizione del ravanello parla, ancora una volta, Aristofane, sempre nelle “Nuvole”. C’è un dialogo fra due personaggi, “Discorso giusto” (la personificazione dei valori tradizionali) e “Discorso ingiusto” (i nuovi filosofi, capaci solo di ammaliare con le parole), in cui quest’ultimo esalta le capacità retoriche dicendo che possono salvare da situazioni difficili:

DISCORSO INGIUSTO: Se anche ti beccano in flagrante adulterio, basta dire che non hai fatto nulla di male e rovesciare tutto su Zeus: anche lui cede all’amore delle donne. Tu, che sei mortale, come puoi essere più forte di un dio?

DISCORSO GIUSTO: E se per averti dato retta gli infilano un ravanello nel culo e lo depilano con la cenere calda, potrà negare di essere un rottinculo?

Scandalo e spregio – basti ricordare la vicenda teatrale di Edipo – erano riservati anche a chi commetteva incesto: μητροκοίτης (metrokoítès: lett: chi va a letto con la madre). In qualche modo è progenitore dell’inglese “motherfucker” (chi si fotte la madre), anche se quest’ultimo ha un significato metaforico più che letterale: significa “persona senza scrupoli, figlio di puttana, bastardo”.

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ESCORT E DINTORNI

In quest’ottica tradizionalista vanno intesi tutti gli spregiativi per designare le prostitute o in generale le donne dai “facili costumi”:

  • ἄβατος (abatos) vergine, lett.: impenetrabile = figa di legno
  • ἀνασεισίφαλλος (anaseisíphallos): “scuoticazzi”, insulto per una donna
  • ἀνεξικώμη (anexikome) puttana, lett.: donna che sostiene un intero villaggio
  • ἑταίρα (hetaíra) etera: prostituta di classe, escort.
  • ἐπίχαλκος (epichalkos) puttana, lett.: coperta di bronzo
  • ἵππος (ippos) puttana, lett.: cavallo
  • κάπραινα (kàpraina) troia (da κάπρος, cinghiale)
  • κασαλβάς (kasalbas) prostituta (da κάσας, capanna: in italiano, casino designa il bordello)
  • λαικάς (laikas) puttana
  • πανδοσία (pandosia) che si dà a tutti, di prostituta
  • πολιτική (politiché) puttana, lett.: donna pubblica (che i politici siano spesso puttane vale anche oggi)
  • πόρνη (pórnè)  puttana (da cui porno, pornografico)
  • πορνογέννητος (pornoghènnetos) figlio di puttana
  • χαλκιδῖτις (chalcidîtis) prostituta molto a buon mercato che farà sesso con qualsiasi uomo per una sola moneta di bronzo. – marchettara

FALLOCENTRISMO E PEDERASTIA

Adulto (erastès , amante) corteggia un giovane (eròmenos): gli insegnava il senso civico, la cultura e l’amore. In cambio, riceveva piacere fisico.

Per quanto riguarda la “pederastia”, ovvero i rapporti (molto diffusi) fra un uomo adulto e un adolescente (per legge sopra i 12 anni), occorre fare una precisazione importante: era innanzitutto una forma tradizionale e regolamentata di istruzione, nel quale gli adulti trasmettevano il sapere ai giovani. E comprendeva anche la pratica sessuale: una consuetudine frequente per una società maschilista e militare, nella quale gli uomini passavano gran parte del loro tempo fra loro. Ma attenzione: i Greci non erano propriamente omosessuali (nel senso moderno del termine) o bisessuali. Sarebbe fuorviante usare queste categorie. «Invece di pensare alla sessualità in termini di genere o generi da cui una persona era attratta, i greci la pensavano in termini del  ruolo che una persona assumeva durante il sesso» spiega McDaniel. «La concezione normativa della sessualità era estremamente fallocentrica e interamente incentrata sulla penetrazione del pene»: per loro il sesso doveva essere «un’attività in cui un uomo adulto libero doveva dimostrare la sua superiorità maschile usando il suo pene eretto per dominare una persona innatamente inferiore, come una donna, un adolescente o schiavo (tutti e tre considerati inferiori ai maschi liberi e adulti), penetrandolo in uno o più dei suoi vari orifizi. Penetrare era visto come tipicamente maschile, glorioso e superiore, mentre  essere  penetrato era visto come intrinsecamente femminile, vergognoso e inferiore. Per un uomo adulto essere penetrato da qualcuno era considerato la massima vergogna, una disgrazia contro la sua virilità».
In questo senso, quindi, vanno intesi gli spregiativi degradanti, riservati non agli omosessuali in quanto tali, ma a chi aveva un ruolo passivo nel rapporto. Giulio Cesare fu preso in giro tutta la vita per essersi concesso, da giovane, al re Nicomede IV di Bitinia.

  • ἁβροβάτης (abrobates) di andatura effeminata;
  • βάταλος (bátalos) ano, ma anche insulto per un omosessuale passivo (culo, culattone). Dal verbo bateo (βάτέω), montare
  • γυναικίζω (gynaikìzo) essere omosessuale; lett.: fare la donna (nel coito)
  • εὐρύπρωκτος (eurýproktos) “dal culo largo”. Si riferisce a una persona che è stata penetrata analmente così tante volte che il suo ano è spalancato: culattone, culo rotto
  • καταπύγων (katapùgon), piglianunculo / dito medio (lett: attraverso il culo)
  • κατωμόχανος (katomóchanos) con il culo aperto fino alle spalle (perché sfondato)
  • κίναιδος (kínaidos) omosessuale passivo  (da kineo, sbattere)
  • κινέομαι (kineomai) essere sbattuto (kineo ha la stessa radice di cinema, movimento)
  • λακαταπύγων (lakatapùgon) rottinculo; pigliainculo;
  • λακκόπρωκτος (lakkpèrpktos) omosessuale sfondato, lett.: col culo a cisterna
  • πισσοκόπος (pissokopos) chi si depila con la pece, un frocio
  • πυγάργος (pugàrgos) vile, lett.: che ha il culo bianco (in quanto depilato): è un insulto omofobo
  • χαυνοπροκτòς (chaunoproktòs) dal culo molle

LESBISMO

Tazza che raffigura la toeletta di due etere (480 a.C.)

I Greci erano però più tolleranti se si parlava di omosessualità femminile, precisa McDaniel: il lesbismo, termine che deriva dall’isola di Lesbo (ma per gli antichi greci, le donne di Lesbo erano specializzate nella fellatio). Pare che, soprattutto a Sparta, anche le ragazze adolescenti prendessero donne adulte come amanti, una sorta di pederastia femminile. In ogni caso, per i Greci i rapporti saffici (dalla poetessa Saffo, che in realtà era bisessuale, secondo i canoni moderni) non erano considerati veri rapporti, dato che non c’era un uomo che penetrava. I termini che designano le lesbiche erano γυναικεραστρια (gynaikerastria, lett. amante donna), ἑταιρίστρια  lesbica (etairistria, amante etera), σαλμακìς (salmakìs) e  τριβάς (tribàs: vuol dire consumato, riferito al materasso), e questi termini designano anche le prostitute.

In sintesi, i Greci (e anche i Romani) percepivano come innaturale, immorale e vergognoso qualsiasi atto sessuale in cui un uomo adulto nato libero mostrasse sottomissione. Per capire quanto fosse complessa la loro etica, ricorda McDaniel, questi atti sessuali stigmatizzati includono:

  • una donna (o un uomo) con un ruolo passivo nel sesso, ovvero penetrato
  • una donna che succhia il pene di un uomo (perché controlla l’atto e non è una semplice ricevente passiva)
  • un uomo che esegue il cunnilingus su una donna (perché l’uomo si sottomette alla donna)
  • una donna che penetra un uomo o un ragazzo con un dildo (perché questo rappresenta un’inversione di ciò che percepivano come l’ordine naturale)
  • un maschio adulto che si masturba (perché questo dimostra che non è abbastanza dominante e mascolino da trovare una donna, un adolescente o una persona schiava da penetrare)
  • una donna che ha qualsiasi tipo di relazione sessuale con un’altra donna (perché rappresenta una donna che tenta di assumere il ruolo che credevano dovesse essere ricoperto da un uomo).

Altro che libertini…

Questo articolo è dedicato al prof. Vittorio Praga, che mi ha aperto le porte del Greco antico, questa meravigliosa lingua, per i 5 anni del liceo classico.
E ha pure rivisto questo articolo.
Grazie prof!

Di questo studio hanno parlato AdnKronos, Rtl 102.5,  La Sicilia, Cremona Oggi, Tiscali cultura, La Svolta, Meteoweb, Day Italia news, Crema oggi, Tv7, La cronaca 24

E ne ho parlato anche a Radio Rai 1 nel programma Il Mondo nuovo

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Mozart e le parolacce musicali https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/ https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/#comments Thu, 27 Jan 2022 09:33:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19027 L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante… Continue Reading

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Celebre ritratto (postumo) di Mozart: fu dipinto nel 1819.

L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante della sua personalità. Ne parlo qui in occasione del 266° anniversario della sua nascita a Salisburgo il 27 gennaio 1756.

Questo aspetto scabroso del compositore austriaco è noto da relativamente pochi anni: per secoli, le parolacce di Mozart sono state un segreto sussurrato fra gli studiosi, che non volevano rovinare la sua memoria con la macchia dell’oscenità. Le sue lettere alla cugina Anna Maria Thekla, ai parenti e agli amici sono zeppe infatti di espressioni scurrili: «Stronzo! – – merda! – – cacca! – o dolce parola! – cacca! – pappa! – anche bello! – cacca, pappa! – cacca, lecca – o charmante! – cacca, lecca! – mi piace! – cacca, pappa, lecca! – pappacacca, e leccacacca!»,  scriveva alla cugina nel 1778.

Ma l’epistolario di Mozart non è l’unico documento della sua propensione al linguaggio volgare. Accanto al “Flauto magico o al “Requiem” Mozart compose infatti anche alcuni canti licenziosi. Partirò da questi ultimi perché offrono una chiave più diretta per entrare nella sua mentalità.

“Leccami nel culo” e lo scherzo al baritono

Nell’immenso catalogo delle sue composizioni, infatti, figurano anche 4 canoni licenziosi composti fra il 1782 e il 1788, quando Mozart aveva fra 26 e 32 anni. I canoni sono composizioni per sole voci (a cappella) basate sul contrappunto, una combinazione di più linee melodiche. Il canone era considerato la più erudita delle tecniche compositive: come ha osservato lo storico Michael Quinn, «Mozart chiaramente si divertiva dell’incongruenza risultante dai versi scurrili all’interno di un canone». Dunque, un’operazione culturale goliardica: nulla a che vedere con la coprolalia, che nella sindrome di Tourette è invece un tic incontrollabile.

Un cd che raccoglie i canoni licenziosi di Mozart

Il primo di questi canoni si intitola Leck mich im Arsch (K. 231), in si bemolle maggiore, per sei voci. Il titolo è stato tradotto con “Leccami il culo”, ma è una traduzione imprecisa. Letteralmente l’espressione significa “Leccami nel culo”: è un beffardo modo di dire tedesco che ha lo stesso significato irridente di “suca” (me ne infischio di te, non vali nulla).
La moglie di Mozart, Constanze, inviò i manoscritti dei canoni alla casa editrice Breitkopf & Härtel nel 1799 per pubblicarli. Ma l’editore censurò il titolo, cambiandolo in Lasst froh uns sein (Gioiamo), sulla falsariga del tradizionale canto natalizio tedesco Lasst uns froh und munter sein.
La versione originale, senza censura, fu scoperta nel 1991 nella biblioteca di musica dell’università di Harvard. Ecco il testo: «Leccami nel culo Gioiamo! Brontolare è inutile! Ringhiare, ronzare è inutile è la vera disgrazia della vita, Ronzare è inutile, Ringhiare, ronzare è inutile! Perciò siamo felici e contenti, felici!».

Il secondo canone umoristico è Difficile lectu (K 559), brano in fa maggiore per 3 voci. Il testo è in latino, anche se non ha alcun senso compiuto: Difficile lectu mihi mars et jonicu difficileQuesto canone era nato per fare uno scherzo al baritono Johann Nepomuk Peyerl (1761-1800), che aveva un forte accento bavarese: cantato da lui, il verso lectu mihi mars, sarebbe sembrato leck du mich im Arsch, ossia leccami nel culo. La parola jonicu, invece, ripetuta all’infinito, avrebbe dato il suono cujoni, ovvero coglioni. Potete sentirlo distintamente nel video qui sotto, che riproduce l’esecuzione (molto divertente) del brano, ascoltare per credere, dal 30” in poi:  

I documenti dell’epoca riportano che Mozart fece eseguire il canone a Peyerl, che non si accorse del trabocchetto. Così, alla fine dell’esibizione Mozart e altri amici intonarono un terzo canone, il K. 560a, scritto sul retro dello spartito: O du eselhafter Peierl (Oh, asinesco d’un Peierl!). «Oh asino d’un Peierl! Oh Peierlesco asino! Sei pigro come un cavallo, senza muso né garretti. Con te non c’è rimedio; ti vedo già penzolar dalla forca. Stupido cavallo, sei un pigrone, stupido Peierl, sei pigro come un cavallo.Oh caro amico, ti prego oh baciami nel culo, svelto! Ah, caro amico, perdonami, però ti sigillo il culo. Peierl! Nepomuk! Perdonami!».

Il quarto canone licenzioso è Bona nox (K. 561), in la maggiore, per quattro voci. Ecco il testo, che in tedesco è tutto in rima: «Bona nox! Sei proprio un vero bue; Buona notte, cara Lotte; Bonne nuit, pfui, pfui; Good night, good night, abbiamo ancora molta strada da fare domani; gute Nacht, gute Nacht, caga nel letto, [fa’] che scoppi; Buona notte, dormi bene e porgi il culo alla bocca». Il testo, opportunamente ammorbidito nel finale (“dormi, mia cara, dolcemente, dormi in pace, Buona notte! dormite bene, finché non si farà giorno!”) è entrato nel repertorio dei canti tradizionali tedeschi.

Le lettere alla cugina

La copertina della corrispondenza di Mozart con la cugina Maria Anna.

Come ricordavo nell’introduzione, le lettere scritte da Mozart ebbero lo stesso destino dei canoni: furono censurate. Vennero a galla timidamente all’inizio del secolo scorso, quando  lo scrittore Stefan Zweig mandò in via del tutto riservata a Sigmund Freud le lettere che Mozart aveva scritto alla cugina Maria Anna Thekla, ai parenti e agli amici. 

L’epistolario di Mozart è infarcito di espressioni volgari e Zweig voleva sapere che cosa ne pensasse il fondatore della psicoanalisi. Così, dopo aver notato la grande profusione di termini escrementizi, concluse che Mozart era affetto da “immaturità psichica”, rimasta ancorata alla sfera anale. Prendiamo un brano di una lettera scritta il 28 febbraio 1778:

«Ero certo che non poteva resistermi più a lungo. Sì, sì, del fatto mio sono sicuro, dovessi ancor oggi fare uno stronzo duro, pur se tra due settimane sarò a Parigi, glielo giuro. Se dunque lei mi vuole dar risposta dalla città di Augusta con la posta, presto allora mi scriva, così la lettera arriva, ché altrimenti se sono già partito invece della lettera ricevo uno stronzo rinsecchito»..

Eppure, nonostante le apparenze, l’interpretazione di Freud, per quanto suggestiva, non coglie le motivazioni più determinanti del turpiloquio del musicista, come ha mostrato – nel 1991 – il sociologo Norbert Elias nel libro “Mozart, sociologia di un genio”.
I passi scabrosi nelle lettere del genio austriaco avevano in realtà un altro scopo: fare uno sberleffo al linguaggio formale e perbenista di corte. «Allocuzioni, fraseologia di circostanza, formule di saluto, arie d’opera, alessandrini – ogni lettera di Mozart alla cugina traspone puntualmente in parodia l’intero guardaroba del decoro di corte. Mozart critica i fossili linguistici dell’ancien régime, abbandonando impietosamente i loro vuoti meccanismi allo scherno» osserva Juliane Vogel, docente di letteratura tedesca all’Università di Costanza nel commento alle lettere pubblicate da Feltrinelli. «Nella scatologia (il gusto per le battute escrementizie) poté compiersi una socializzazione borghese rivolta contro le forme feudali» aggiunge.

Saluti e peti

L’operazione è evidente soprattutto nelle formule di saluto, riprese e variate fino alla nausea per far affiorare l’automatismo insito nel loro uso, il formalismo che le caratterizza:

  «e allora» scrive Mozart «le porgerò io stesso i miei complimenti di persona, le chiuderò il culo con della cera buona, le sue mani bacerò, con lo schioppo didietro sparerò, l’abbraccerò, un clistere davanti e dietro le farò, ciò di cui posso esserle debitore fino all’ultimo pagherò, un peto gagliardo risuonare farò, forse qualcos’altro cadere lascerò».

Lo spirito goliardico ravviva anche le frasi in cui Mozart racconta il suo presente, arricchite da rime e giochi di paroli assurdi:

«il martedì grasso l’ha festeggiato proprio bene. per farla breve, c’era, a circa 4 ore da qui, non ricordo più il luogo – – be’, un paese o qualcosa del genere; ecco, era una roba come Tribsterillo dove la merda in mare fa zampillo, oppure Burmesquica dove i buchi del culo storti vanno in gita; insomma, per farla corta, era un posto qualunque».

Wolfgang Codadisuino e lo spirito carnevalesco

Nelle lettere, il musicista prende giocosamente in giro anche se stesso:

«Ora devo raccontarle una triste storia che è accaduta in questo momento. Mentre sono tutto intento a scrivere la lettera, sento qualcosa fuori in strada. Smetto di scrivere – – mi alzo, vado alla finestra – – e – – non sento più niente – – mi risiedo, ricomincio a scrivere – – non ho scritto neanche 10 parole che sento di nuovo qualcosa – – mi rialzo – – come mi alzo sento ancora qualcosa, ma molto debole – – però c’è odor di bruciaticcio – – puzza, ovunque mi sposti. Se guardo fuori dalla finestra l’odore scompare, come guardo dentro, rieccolo – – finalmente la mamma mi dice: scommettiamo che ne hai mollato uno? – – non credo, mamma. Sì, sì, è proprio così. Faccio la prova, mi infilo il primo dito nel culo, poi annuso e – – ecce provatum est: la mamma aveva ragione. Ora mi stia bene, la bacio 10.000 volte e sono come sempre il vecchio giovane Codadisuino».

Disegno stilizzato di un angelo in una delle lettere di Mozart alla cugina (1780).

Questo nomignolo affibbiato a se stesso ci mette però su una pista importante: «”vecchio giovane Codadisuino” non è che uno dei molti nomi con cui il cosiddetto “ruolo comico” furoreggiava sulla scena del tempo, munito dei suoi lazzi e delle sue libere improvvisazioni. Egli appartiene alla schiera degli Arlecchino e degli Hanswurst, degli Scaramuccia e dei Fuchsmundi, personaggi che con i loro abiti rattoppati, i cappelli verdi e le giubbe bianche mettevano in discussione la gravità del teatro dell’epoca», osserva ancora la Vogel.

E’ questo lo spirito di Mozart: un giocherellone, un buffone pronto a mettere in ridicolo tutto e tutti, compreso se stesso. In questo, Mozart si inserisce nella tradizione popolare del carnevale, e del realismo grottesco in letteratura, nel quale «tutto è ricondotto agli organi genitali, al ventre e al deretano» scrive il critico letterario Michail Bachtin. E gli escrementi, in particolare, sono un elemento centrale perché simbolo di rinnovamento, fecondando la terra.

Le parolacce tedesche e il mistero Spunicuni

Mozart ritratto nel 1777 a Bologna: aveva 21 anni.

Pur avendo inserito nel giusto contesto storico l’epistolario di Mozart, gli studiosi rimangono perplessi su un punto: la propensione ossessiva per i temi intestinali. «Ostinatamente, a gesti o a parole, la celebrata socialità del Mezzogiorno di lingua tedesca ruota intorno al fulcro delle feci. Sia le lettere della famiglia Mozart che le testimonianze linguistiche della vita sociale del tempo documentano una preferenza, non del tutto comprensibile ai posteri, verso la tematica della digestione» dice ancora la studiosa.

A dire il vero, una ragione per spiegare questa preferenza c’è: il tedesco, pur essendo una lingua ricchissima di vocaboli, ha però un ventaglio ridotto di parolacce, basate molto più sulla sfera anale-escrementizia che su quella sessuale, come raccontavo in un precedente articolo. Non è colpa di Amadeus, insomma, se il suo repertorio scurrile era così limitato: il lessico tedesco non gli offriva molte alternative.
Dunque, il turpiloquio di Mozart è uno dei più ricchi di significati. Tanto da avere un mistero ancora aperto dopo 266 anni: che diavolo vuol dire l’espressione
spunicunifait?

Appare ad esempio in questo brano: «Apropós: come va col francese? – potrò scriverle presto una lettera tutta in francese? – da Parigi, no? – e mi dica, ha ancora lo spunicunifait? – lo credo bene». Lo Spunicunifait, è invocato tre volte nelle lettere alla cugina – scritto con le iniziali maiuscole o minuscole, unito o staccato: «la cui spiegazione è ancora da trovare. Che esso appartenga al vasto regno delle allusioni erotiche è fuori discussione».

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Le parolacce di Dante, spiegate bene https://www.parolacce.org/2021/06/20/turpiloquio-nella-divina-commedia/ https://www.parolacce.org/2021/06/20/turpiloquio-nella-divina-commedia/#comments Sun, 20 Jun 2021 14:00:50 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18702 Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto… Continue Reading

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Dante ha inserito espressioni scurrili nella “Divina commedia” (montaggio su ritratto di Botticelli, 1495).

Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto che nel corso dei secoli – e persino quest’anno – la sua opera è stata pesantemente criticata, da Petrarca in poi, e più volte censurata. Reazioni spropositate, da parte di chi non ha capito la sua arte: la “Divina commedia” è un poema universale, che ritrae tutte le sfumature dell’animo umano. Perciò ha mescolato volutamente diversi registri linguistici – aulici e grotteschi, intellettuali e popolareschi, celestiali e terreni. Ha saputo, insomma, mescolare “alto” e “basso” come solo i grandi poeti sanno fare. Un altro esempio di questo livello è William Shakespeare.
Le parolacce, in particolare, sono servite a Dante per descrivere le peggiori bassezze dell’animo umano, a creare effetti comici e anche a dar voce alle sue passioni religiose, politiche e morali esprimendo la sua profonda indignazione. Dante modellava la lingua a seconda dei personaggi e delle situazioni che voleva descrivere.
Nel 700° anniversario della sua morte, ho deciso quindi di approfondire il turpiloquio di Dante, che probabilmente a scuola non vi hanno raccontato. In questo articolo troverete tutte le strofe (e relative spiegazioni) che contengono parole volgari, così potrete capire le precise ragioni artistiche che lo hanno indotto a usarle: Alighieri infatti ha sempre scelto con grande cura il lessico nel suo poema. 

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PUTTANA E BORDELLO

Nella “Divina commedia” i termini che si riferiscono alle donne di facili costumi non sono solo  nel registro volgare, come nei brani successivi. Nel poema troviamo anche i più neutri meretrice, femmine da conio (cioè da moneta).

brano significato argomento canto e verso
Taide è, la puttana che rispuose 

al drudo suo quando disse “Ho io grazie 

grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”. 

Taide è la prostituta che al suo amante, quando le chiese “Ho io grandi meriti presso di te?, rispose: “Anzi, grandissimi!” .  ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 133

Il brano parla di Taide, una prostituta amante del soldato Trasone nella commedia “Eunuchus” di Terenzio. L’episodio descritto da Dante era stato citato anche da Cicerone come esempio di adulazione:  a una domanda a cui bastava rispondere con un sì, Taide risponde con una frase adulatoria esagerata.


brano significato argomento canto e verso
Di voi pastor s’accorse il Vangelista, 

quando colei che siede sopra l’acque 

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;  

Di voi (cattivi) pastori si accorse l’Evangelista (Giovanni) quando vide la meretrice che siede sopra le acque (la Chiesa) comportarsi da prostituta con i re; simoniaci (chi compra e vende cariche ecclesiastiche) – La Chiesa corrotta e il suo asservimento alla monarchia francese Inferno, 19°, 108

 

brano significato   argomento canto e verso
Sicura, quasi rocca in alto monte, 

seder sovresso una puttana sciolta 

m’apparve con le ciglia intorno pronte; 

Mi sembrò che su di esso sedesse una sfacciata prostituta, sicura come una rocca su un’alta montagna, che ruotava intorno gli occhi seduttivi La Chiesa corrotta e la sua dipendenza dalla monarchia francese  

Purgatorio, 32°, 149

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo, 

disciolse il mostro, e trassel per la selva, 

tanto che sol di lei mi fece scudo 

a la puttana e a la nova belva.     

poi, pieno di sospetto e crudele d’ira, staccò il mostro (il carro) dall’albero e lo trascinò via per la selva, tanto che fu solo quella a impedirmi di vedere la prostituta e la nuova belva (il carro).  

Purgatorio, 32°, 160

Ho unificato il commento di questi 3 diversi brani perché si riferiscono tutti allo stesso bersaglio: la Chiesa, che Dante condanna per la sua sudditanza verso la monarchia francese.

Nel Purgatorio, in particolare, la Chiesa è simboleggiata da un carro, che a un certo punto si ricoprirà tutto di penne e metterà 7 teste cornute (i 7 peccati capitali), sormontato da una volgare meretrice che raffigura la Curia papale corrotta. Dante si ispira al mostro descritto nell’Apocalisse di Giovanni. La bestia rappresenta la degenerazione della Chiesa a causa della corruzione e della simonia; la meretrice se la intende con un gigante (il re di Francia Filippo il Bello) che si preoccupa che non gli venga sottratta.


brano significato argomento canto e verso
Ahi serva Italia, di dolore ostello, 

nave sanza nocchiere in gran tempesta, 

non donna di province, ma bordello!  

Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello! L’Italia preda di divisioni interne Purgatorio, 6°, 78

Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all’Italia, simmetricamente al 6° canto dell’Inferno in cui si parlava di Firenze e al 6° del Paradiso in cui si parlerà dell’Impero. In questa invettiva traspare tutta la rabbia e la delusione di Dante, oltre che la sua passione politica.  

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MERDA

I termini che si riferiscono agli escrementi e alla sporcizia sono numerosi nella “Divina commedia”. Oltre a quelli di registro basso (che vedremo più sotto) troviamo anche letame, sterco, privadi (latrine), cloaca. Tutti termini usati per svilire qualcuno o qualcosa, per mettere in ridicolo, per esprimere disgusto.

brano significato argomento canto e verso
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 

vidi un col capo sì di merda lordo, 

che non parea s’era laico o cherco.     

E mentre scrutavo giù con lo sguardo, vidi un dannato che aveva il capo così pieno di escrementi che non si capiva se fosse chierico o laico (se avesse o meno la tonsura). ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 116

Le pareti della Bolgia sono incrostate di muffa per i miasmi che provengono dal fondo e che irritano occhi e naso. La Bolgia è talmente profonda e oscura che per vedere bene Dante e Virgilio sono costretti a salire sul punto più alto del ponte: da qui vedono gente immersa nello sterco.
Questo brano, in particolare, descrive in modo grottesco e infamante il lucchese Alessio Interminelli: si colpisce il capo e afferma di scontare le adulazioni di cui la sua lingua non fu mai abbastanza sazia.


brano significato   argomento canto e verso
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

mi disse «il viso un poco più avante, 

sì che la faccia ben con l’occhio attinghe                    

di quella sozza e scapigliata fante 

che là si graffia con l’unghie merdose

e or s’accoscia e ora è in piedi stante.       

Dopodiché la mia guida mi disse: «Fa’ in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, così che tu veda bene con l’occhio la faccia di quella donna sudicia e scapigliata che si graffia là con le unghie piene di sterco, e ora si china sulle cosce e ora è in piedi. ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 131

La disgustosa descrizione si riferisce alla prostituta Taide di cui abbiamo parlato sopra.


brano significato argomento canto e verso
Tra le gambe pendevan le minugia; 

la corata pareva e ’l tristo sacco 

che merda fa di quel che si trangugia.  

Gli pendevano le interiora tra le gambe; si vedevano gli organi interni e il ripugnante sacco (stomaco) che trasforma in escrementi ciò che si mangia.

 

seminatori di discordia Inferno, 28°, 27

Coloro che hanno seminato divisioni, nella religione e nella politica sono tagliati a pezzi; un diavolo armato di spada mozza loro parti del corpo e poi le ferite si richiudono, finché non tornano davanti a lui. In questo brano c’è la descrizione grottesca di MaomettoDante lo descrive in termini volutamente crudi e volgari, paragonandolo a una botte che ha perso il fondo e includendo macabri dettagli delle sue mutilazioni: ha un taglio che va dal mento infin dove si trulla, cioè fino all’ano dove si fanno sconci rumori; le minugia, cioè le interiora, gli pendono tra le gambe insieme alla corata, cuore e organi interni, e allo stomaco, definito “il tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia”.  Il dannato si apre il petto mostrando le sue ferite, definendo la propria pena e quella degli altri, spiegando anche la logica del contrappasso; il contesto è fortemente e violentemente comico.  Maometto è stato attaccato da Dante perché nella sua ottica aveva causato guerre e uccisioni in Europa e per l’occupazione dei luoghi santi, eventi che facevano degli Arabi un popolo invasore da cui era necessario difendersi. Una visione figlia dell’epoca in cui la Divina Commedia fu scritta. 

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FICHE

brano significato argomento canto e verso
Al fine de le sue parole il ladro 

le mani alzò con amendue le fiche

gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».    

Quand’ebbe finito di parlare, il ladro alzò entrambe le mani col pollice tra l’indice e il medio, gridando: «Prendi, Dio, poiché le rivolgo a te!» ladri Inferno, 25°, 2

Il gesto delle fiche in un dipinto anonimo del 1620 (Lucca).

Il brano descrive Vanni Fucci, ladro di Pistoia. un uomo violento e rissoso. Vanni partecipò alle lotte interne della sua città compiendo razzie e saccheggi e nel 1292 fu al servizio di Firenze contro Pisa, occasione nella quale forse Dante lo conobbe. Dante lo colloca tra i ladri della VII Bolgia  dove i dannati corrono nudi tra i serpenti e hanno le mani legate dietro la schiena da altre serpi, subendo spesso delle orribili trasformazioni. Per Dante il furto è più grave della violenza fisica, perché implica l’uso dell’intelletto a fin di male.

Dante vede Vanni alla fine del Canto 24°, quando il peccatore è morso alla nuca da un serpente e si trasforma in cenere, per poi riacquistare subito le sue sembianze umane. Virgilio gli chiede chi sia e Vanni si presenta come pistoiese, spiegando poi a Dante di scontare il furto degli arredi sacri compiuto nel duomo di Pistoia nel 1293.

Vanni profetizza a Dante le sventure dei guelfi Bianchi dopo il suo esilio, con la sconfitta di Pistoia, ultima roccaforte dei Bianchi, ad opera di Moroello Malaspina e aggiunge di averlo detto per far del male al poeta. Poi il ladro fa un gesto osceno che diventa blasfemo perché rivolto contro Dio: con ambo le mani fa il gesto delle fiche, ovvero inserisce i pollici fra indice e medio, a mimare l’atto sessuale. E’ l’equivalente osceno del gesto del dito medio: quindi, una doppia bestemmia. Subito dopo una serpe gli si avvolge attorno al collo e lo strozza, impedendogli di dire altro. Fucci è definito da Dante il dannato più superbo da lui visto all’Inferno: Dante ne rimane così disgustato da lanciarsi in una cruda invettiva contro Pistoia, città degna, secondo lui, di tali cittadini.  

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CULO

brano significato argomento canto e verso
Per l’argine sinistro volta dienno; 

ma prima avea ciascun la lingua stretta 

coi denti, verso lor duca, per cenno; 

ed elli avea del cul fatto trombetta. 

I diavoli si voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ognuno di loro aveva stretto la lingua tra i denti, voltandosi alla loro guida (Barbariccia) come a un segnale convenuto; e quello aveva emesso un peto i barattieri, cioè corrotti Inferno, 21°, 139

Il passo descrive i Malebranche, una truppa di 13 diavoli che aveva il compito di controllare che i dannati non uscissero dalla pece bollente. Essi creano con le loro grottesche figure una parentesi comica : in questo brano il loro capo Barbariccia come segnale per “avanti marsch” invece di una tromba militare usa una “trombetta” fatta col culo, ovvero un peto. Un modo efficace per svilire i diavoli mettendoli in ridicolo. 

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POPPE

brano significato argomento canto e verso
Tempo futuro m’è già nel cospetto, 

cui non sarà quest’ora molto antica,                             

nel qual sarà in pergamo interdetto 

a le sfacciate donne fiorentine 

l’andar mostrando con le poppe il petto. 

Io prevedo un tempo futuro, rispetto al quale il presente non sarà molto antico, nel quale dal pulpito sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine di andare in giro a seno scoperto. golosi Purgatorio, 23°, 12

In questo brano parla Forese Donati, che sconta le pene per il peccato di gola: il profumo dei frutti e la freschezza dell’acqua li tormentano con fame e sete. Forese racconta di trovarsi lì grazie alle preghiere della moglie Nella, l’unica donna virtuosa di Firenze. E qui apre una polemica contro le donne dissolute di Firenze, contro cui Dante si era già scagliato nell’invettiva all’Italia del Canto 6°. Forese prevede che di lì a non molto tempo dal pulpito si dovrà proibire espressamente alle donne di Firenze di andare in giro a petto nudo; e quali donne, barbare o saracene, ebbero mai bisogno di un simile divieto? Ma se le Fiorentine sapessero cosa le attende, comincerebbero già a urlare: Forese prevede che su di loro si abbatterà un terribile castigo nel giro di pochissimi anni. 

Le radici del turpiloquio: realismo e Bibbia

Dante e Virgilio guardano gli adulatori (Gustave Dore, 1885).

Dante usò la lingua del popolo, il “volgare”, ponendo le radici del lessico italiano. La sua lingua è una tavolozza espressiva multiforme, che va dai termini più bassamente popolari a quelli aulici. Dante, insomma, non si fa problemi a introdurre anche i registri bassi se sono funzionali alle sue esigenze narrative

Ma c’è un’altra radice, giustamente sottolineata dal filologo Federico Sanguineti: la Bibbia. In molti passi dell’Antico Testamento, ma anche nell’Apocalisse, infatti, i profeti non esitano a citare gli escrementi e le prostitute per esprimere la loro riprovazione nei confronti degli empi, siano essi singole persone o interi popoli. Trovate esempi in abbondanza nel mio libro, che potrà farvi compagnia quest’estate.

Non è un caso che le parolacce più usate da Dante siano proprio “puttana” e “merda”: esprimono entrambe il disprezzo verso la dissolutezza morale, il disgusto per chi ha una condotta empia, la condanna verso persone che hanno piegato la propria anima al male.

Com’era prevedibile, nessuna delle espressioni scurrili trova posto nel Paradiso, dove avrebbero contaminato i temi e gli ambienti più elevati. La maggior parte (7) sono nell’Inferno, le altre 4 nel Purgatorio. Il canto con la maggior presenza di parolacce è il 18° dell’Inferno dedicato a ruffiani e seduttori: persone che, evidentemente, suscitavano la maggiore ira in Dante. Per uno abituato a cantarle chiare – come si vede nella “Divina commedia” – è più che comprensibile.

Statistiche e censure, antiche e moderne

Andrea di Buonaiuto, discesa al Limbo nel cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1365).

In tutto il poema Dante usa 11 volte 6 diverse espressioni scurrili: puttana, bordello, merda, culo, fiche, poppe. Pochissime: dato che la Divina Commedia ha in tutto 101.698 parole, il turpiloquio rappresenta lo 0,01%: un’esigua minoranza, circa un ventesimo di quante ne diciamo oggi nel parlato quotidiano (vedi le statistiche che ho ricavato qui). Eppure sono significative: hanno attirato l’attenzione degli intellettuali dell’epoca e per molti secoli a venire.

Già Petrarca, intellettuale d’élite, precisava di non provare invidia per Dante che era apprezzato da “tintori, bettolai e lanaioli”, cioè la plebe. E un altro umanista dell’epoca, Niccolò Niccoli, sosteneva addirittura che Dante andrebbe allontanato dal circolo esclusivo degli umanisti  “per esser consegnato a farsettai, panettieri e simili  essendosi egli stesso espresso in modo tale da sembrare voler stare a proprio agio solo con un pubblico di bassa estrazione sociale e culturale”. Insomma, la scelta di inserire termini popolari e volgari  è stata un atto di coraggio in un’epoca in cui la cultura era un fatto elitario, snob, aristocratico.

Non stupisce, quindi, che quelle 11 parolacce sono state spesso censurate dai copisti che trascrivevano l’opera. Il filologo Federico Sanguineti ricorda che già nel 1300 Francesco di ser Nardo da Barberino sostituì “merda” con «feccia» (Inferno, 18°); nel codice Barberiniano latino 3975 sono anneriti gli endecasillabi in cui è denunciato il «puttaneggiar» della Chiesa (Inferno 19°). Il codice Canoniciano 115 nella bestemmia di Vanni Fucci (Inferno 25°) la parola «Dio» è sostituita da puntini sospensivi. E la censura prosegue anche oggi: quest’anno una casa editrice, Blossom Books, ha pubblicato una versione olandese della “Divina commedia” per ragazzi in cui è stato cancellato Maometto, per evitare che l’episodio risultasse «inutilmente offensivo per un pubblico di lettori che è una parte così ampia della società olandese e fiamminga». Ricordiamo infatti che Maometto è trattato come uno scismatico che ha diviso al suo interno il cristianesimo, e soprattutto è raffigurato con orrende e grottesche mutilazioni.

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“Che nome gli metterò?” — disse fra sè e sè. — “Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina“. Così pensava Geppetto mentre si apprestava a intagliare il suo celebre burattino. Dare il nome a qualcuno significa scegliere il suo avvenire (nomen omen, un nome un destino, dicevano gli antichi) e anche descrivere la sua personalità. E nella fiction – che sia la letteratura o il cinema – il destino dei personaggi è deciso dalla fantasia degli autori. Per esempio, Alessandro Manzoni scelse di chiamare la coprotagonista dei “Promessi sposi” Lucia Mondella: Lucia per evocare la sua natura luminosa, Mondella per alludere alla sua purezza d’animo e alla fase del lavaggio nelle filande.
Perché allora non scegliere anche un nome spinto per un personaggio immaginario?
In questo articolo ne ho raccolti una ventina (e non è detto che siano tutti: se avete segnalazioni, scrivete nei commenti). In questo modo potremo fare un viaggio insolito nella fantasia. Spesso i nomi volgari sono scelti per dare un effetto comico o satirico al racconto, ma a volte anche per descrivere alcune particolari qualità dei personaggi.  

Personaggi cinematografici

 

TONTOLINI

“Tontolini” di Giulio Antamoro, 1910

Tontolini è il burlesco nome del protagonista di questa pellicola del film muto. E’ un popolano sciocco e maldestro, dal viso buffo e con doti da funambolo. Il ruolo è interpretato dall’attore franco-italiano Ferdinand Guillaume.

 

 

CRETINETTI

“Le creazioni svariate di Cretinetti”, 1909 

Il nome è stato reso celebre da Franca Valeri, che così si rivolgeva al marito Alberto Sordi nel film di Dino Risi “Il vedovo” (1959). Ma quel nomignolo non fu un’invenzione della Valeri: era infatti il nome di un protagonista di film comici nell’era del muto, Cretinetti appunto. Era interpretato dal francese André Deed (pseudonimo di Henri André Augustin Chapais), che in Italia recitò in decine di film dando a Cretinetti una gloria internazionale.

CACCAVALLO

“Totò e Carolina”  di Mario Monicelli, 1955 

In questo film totò interpreta l’agente di polizia Antonio Caccavallo, che si lega a una ragazza che arresta per prostituzione (Carolina De Vico).  La pellicola è stata fra le più censurate nella storia del cinema italiano. Soprattutto per i temi affrontati dal regista (prostituzione, figli illegittimi, la morale perbenista).
In origine il protagonista avrebbe dovuto chiamarsi Antonio Callarone: fu trasformato in Caccavallo per far sì che la vicenda suonasse come una farsa fine a se stessa, senza alcun aggancio alla realtà del tempo, a causa delle molte pressioni della Commissione statale di censura dei film.

ROMPIGLIONI

“Il sergente Rompiglioni”  di Giuliano Biagetti, 1973 

Il sergente protagonista del film, Francesco Garibaldi Rompiglioni (Franco Franchi) coltiva due passioni: la musica classica e la disciplina. E istruisce le reclute in modo dittatoriale e isterico: il suo cognome è infatti una contrazione di “rompicoglioni”. Il film ha avuto un grande successo di pubblico, e nonostante il titolo non è infarcito di volgarità. 

NAKA KATA

“Anche gli angeli mangiano fagioli” di E.B. Clucher, 1973

Sonny (Giuliano Gemma) lavora come uomo delle pulizie in una palestra giapponese dove il maestro è Naka Kata (George Wang). Che lo licenzia dopo aver ricevuto da lui un micidiale calcio nei testicoli durante un combattimento.

 

CULASTRISCE 

“Culastrisce nobile veneziano” di Flavio Mogherini, 1976  

Culastrisce sembra un soprannome boccaccesco, invece allude a un antenato Lanzichenecco del protagonista, il marchese Luca Maria Sbrizon (Marcello Mastroianni).
I mercenari svizzeri, infatti,  oltre alle tipiche alabarde portavano brache con spacchi e inserti di stoffe di colori contrastanti: a strisce per l’appunto. Nel film il soprannome viene usato di rado: probabilmente è stato inserito nel titolo solo per evocare le commedie a base di nudi femminili, mariti cornificati e battute triviali.

 

PISELLONIO

“Brian di Nazareth” di Terry Jones, 1979

Il film è una satira dei Monthy Pyton sulla predicazione di Gesù, incarnata da Brian, suo contemporaneo, un rivoluzionario che viene spesso scambiato per il messia. Marco Pisellonio appare accanto a Ponzio Pilato durante la condanna alla crocifissione: è affetto da sigmatismo (zeppola: la “s” fischiante) e deve il suo nome al fatto che nel film originale il personaggio si chiama Biggus Dickus (“big dick” cioè cazzone).

 

KATZONE

“La città delle donne” di Federico Fellini, 1980

Il film è un viaggio onirico nella femminilità. Uno dei personaggi è il dottor Xavier Katzone, un maturo santone dell’eros che vive nell’adorazione di una femminilità che ormai non esiste più. Qui il protagonista Snaporaz (Marcello Mastroianni) scopre la singolare collezione di orgasmi registrati: sono quelli delle innumerevoli amanti di Katzone, che il padrone di casa ama riascoltare premendo dei pulsanti, disposti lungo una doppia parete ricoperta di marmo, che evoca i loculi di un cimitero. Il dottor Katzone li custodisce nella vana attesa di ritornare agli antichi splendori.
Dunque un cognome scelto volutamente per evocare, in modo ironico, l’erotismo.

 

SMERDINO O SMERVINO, SCERIFFO DI RUTTINGHAM

“Robin Hood – Un uomo in calzamaglia” di Mel Brooks, 1993

Il film è una parodia di “Robin Hood – Principe dei ladri” (1991) di Kevin Reynolds, con Kevin Costner. Uno dei personaggi è lo sceriffo di Ruttingham (invece di Nottingham: evoca il rutto), che nell’edizione originale si chiama Mervyn (nome realmente esistente), mentre in quella italiana si chiama Smervino o Smerdino: dal doppiaggio non si riesce a capire quale delle due versioni sia stata scelta (ascoltate il video qui sotto dal minuto 1:33). Ma l’effetto è lo stesso in ambo i casi.

 

CACCA DI NATALE

South Park, di Matt Stone e Trey Parker, 1997

Tra i personaggi di South Park c’è Mr. Hankey, la Cacca di Natale (the Christmas Poo): è un pezzo di cacca con grandi occhi, una bocca sorridente e un cappello da Babbo Natale. Appare nell’episodio intitolato “Uno stronzo per amico”. I bambini della scuola elementare vogliono mettere in scena un presepe tradizionale, ma una donna di fede ebraica chiede di cancellare dalla recita tutti i riferimenti religiosi. Alla fine sarà proprio Mr Hankey a riportare lo spirito natalizio, e alla fine vola via insieme a Babbo Natale. Il personaggio appare anche in altri 6 episodi (fra cui quello intitolato “Un Natale davvero di merda”).

 

CICCIO BASTARDO,  IVONA POMPILOVA, PIRULON, FELICITY LADÀ

Austin Powers – La spia che ci provava”  di Jay Roach, 1999 

Il film è una parodia del mito degli agenti segreti alla 007. Powers è un agente segreto al servizio di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Rimasto ibernato dagli anni ‘60 a oggi, Powers irrompe nel mondo moderno. Il suo ruolo stride però col suo aspetto fisico piuttosto repellente. A cui lui rimedia col “maipiùmòscio” (nel film originale è il “mojo”, un amuleto),  che gli permette di aver successo con le donne. Fra gli altri personaggi del film ci sono: una ” guardia scozzese ” obesa, Ciccio Bastardo (Fat Bastard); la protagonista femminile, Felicity Ladà (Felicity Shagwell, cioè Felicita Scopabene),  la modella russa Ivona Pompilova ( “Ivana Humpalot” cioè Ivana Scopamolto) e Pirulon (Pirlone), che nel film originale è semplicemente Woody Harrelson che interpreta se stesso.

 

GAYLORD FOTTER e SFIGATTO

“Ti presento i miei” di Jay Roach, 2000

Il protagonista (Ben Stiller) si chiama Gaylord Fotter, un doppio riferimento sessuale: ai gay e all’atto sessuale (come nel film originale, in cui si chiama Gaylord Focker, smile a fucker). Gaylord, detto Greg,  cerca di fare bella figura con i suoceri, in particolare col suocero (Robert De Niro) burbero ex agente della Cia. Fotter cerca di fare di tutto per impressionare favorevolmente i suoceri, ma la sua insicurezza e il nome imbarazzante non lo aiutano. Da segnalare anche il nome del gatto dei suoceri, che nella versione italiana si chiama Sfigatto (Mr Jinx nell’originale: in inglese jinks sono gli scherzi chiassosi), perché ne passa di tutti i colori.

 

THE MOTHERFUCKER

 “Kick-Ass2”, di Jeff Wadlow, 2003

Il film è il sequel di “Kick-Ass”, storia di un ragazzino che diventa supereroe. In questo film il suo coetaneo Chris D’Amico, sconvolto dalla morte della madre, decide di voltare le spalle alla sua precedente incarnazione da eroe e di diventare il primo supercattivo della vita reale, facendosi chiamare Motherfucker, con l’obiettivo di vendicarsi di Kick-Ass. “Motherfucker” letteralmente “uno che si fotte la madre” è l’equivalente di carogna, figlio di puttana. Nella versione italiana non è stato tradotto.

BOGDANA

 “Pazze di me” di Fausto Brizzi, 2013

Il film è una commedia senza molte pretese che racconta la storia di un ragazzo, Andrea Morelli (Francesco Mandelli), unico maschio in una famiglia tutta al femminile. Nel nucleo è presente anche una badante rumena, una scansafatiche cafona che si chiama Bogdana (evidente assonanza con “puttana”). In una scena lei rivela però che quello è “un nome d’arte: il mio vero nome è Niculina” (evidenziando la somiglianza con “culo”).

PHUC

 “The gentlemen”, di Guy Ritchie, 2019

Il film è una storia di gangster della marijuana ambientata nel Regno Unito. Si fronteggiano varie fazioni: protagonista è il boss Michael “Mickey” Pearson (Matthew McConaughey), che ha costruito un impero della cannabis e vuole uscire dal giro. Il boss cinese Lord George gli vuole subentrare, e il suo vice, Occhio Asciutto, congiura per mettersi in mezzo. Uno dei suoi scagnozzi si chiama Phuc, che ha lo stesso suono di “fuck“, fottere. Un gioco di parole provocatorio in una commedia d’azione e sangue decisamente sopra le righe. 

Personaggi letterari

BACIACULO E NASAPETI

“Gargantua e Pantagruele”, François Rabelais, 1542.

Il libro è una satira del suo tempo. In un episodio l’autore racconta che “a quel tempo pendeva nel Parlamento di Parigi un processo su una controversia così alta e difficile «che la Corte del Parlamento non ci capiva più che se fosse alto tedesco». Così il re decise di affidare il giudizio a Pantagruele. I contendenti erano Baciaculo (Baisecul in francese) e Nasapeti (Humevesne): l’episodio è una satira contro la lentezza dei processi e il linguaggio incomprensibile di giudici e avvocati. Alla fine Baciaculo è dichiarato innocente con una lunga e incomprensibile sentenza, che però “lo condanna a tre bicchieroni di latte cagliato, ben mantecati, drogati e preparati secondo la moda del paese, a favore del detto convenuto, pagabili al Ferragosto, di maggio. Ma il convenuto a sua volta sarà tenuto a rifornirlo di tutto il fieno e la stoppa, necessari all’otturazione dei trabocchetti gutturali, con contorno di polpettoni ben arrostiti e conditi. E amici come prima”. E tutti a celebrare la saggezza di Pantagruele.

 

CACASENNO

dalle novelle “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” di Giulio Cesare Croce, 1620

I racconti riprendono e rielaborano novelle antichissime. Cacasenno è più idiota del padre Bertoldino: il suo nome infatti significa che “defeca la saggezza”, termine che in italiano ancora oggi designa le persone saccente, i saputelli. L’autore lo deride fin dal suo aspetto fisico: “Questo Cacasenno era grosso di cintura, aveva la fronte bassissima, gli occhi grossi, le ciglia irsute, il naso e la bocca aguzza, che certo assomigliavasi ad un gatto mammone, ovvero ad uno scimiotto”. Per dire quanto fosse sveglio e intelligente, basta questo scambio di battute con uno dei personaggi, Erminio:

“Dimmi, come hai tu nome?”. E Cacasenno: “Messer no, che non sono un uomo, sono un ragazzo”. Erminio. “Non ti addimando se sei un uomo, dico il tuo nome: come ti chiami?”. E Cacasenno: “Quando uno mi chiama, ed io gli rispondo”. 

I racconti hanno ispirato tre versioni cinematografiche: la più famosa è quella firmata da Mario Monicelli nel 1984. In una scena, re Alboino solleva in aria il figlio di Menghina e Bertoldino, ma il neonato gli defeca in faccia, “e viene di conseguenza chiamato Cacasenno”.

 

AUGELLO

I gialli di Montalbano, 1994-2020

Camilleri aveva il gusto per i dettagli. Perciò non ha scelto a caso i cognomi de propri personaggi: Montalbano deve il suo cognome a Manuel Vàzquez Montalbàn, prolifico autore di gialli spagnolo che aveva ispirato Camilleri.
Mimì Augello, il vice di Montalbano, è’ un don Giovanni, e proprio per questo il suo cognome sembra evocare l’organo sessuale maschile. Invece così non è, come rivela lo stesso Camilleri (citato in questo studio): “questa storia del braccio destro di Montalbano che si chiama Augello, gli piacciono le donne. L’augello è quello che è, il membro maschile, da noi, il membro virile. Quindi, tutti hanno pensato che io avessi voluto chiamare in questo modo il vicecommissario perché è un gran donnaiolo. Ma manco per idea! Augello è un cognome fra i più diffusi che ci sono tra Siculiana e Realmonte, vicinissima a Porto Empedocle, ecco. Poi il lettore, magari, ci vede chissà quale ricerca etimologica, chissà che cosa. Per me era lontanissima, quest’idea. Augello, semmai, nasceva non dal fatto delle sue capacità virili, nasceva, semmai, dal fatto che svolazzava da una donna all’altra. Semmai, poteva essere lontanissimamente questo”.

Personaggi nelle canzoni

MERDMAN 

dall’album “Henna”, Lucio Dalla, 1994

La canzone parla di un “marziano disgustoso” che precipita sulla Terra, Merdman. Ecco alcune strofe che lo descrivono: A parte il puzzo veramente micidiale, aveva in sé qualcosa di familiare, Sui trent’anni, bocca larga e braghe corte, sempre sporco con uno stronzo sulla fronte. Ogni tanto spiaccicava una parola, e con le dita messe li’ a pistola catturava tutto l’audience della gente…. A poco a poco anche la stampa più esigente, lo trovava bello, fresco e divertente… Non parliamo dei bambini anche i più belli, si mettevano uno stronzo tra i capelli”.
La canzone è una feroce satira contro la tv spazzatura che glorifica il peggio degli uomini.

Qualche anno dopo, nel 2003, Elio e le storie tese scriveranno “Shpalman”, una canzone dedicata a un immaginario supereroe che sconfigge i cattivi” “spalmandogli la merda in faccia”.  

 

GADDA E I SOPRANNOMI DI MUSSOLINI

Fra il 1941 e il 1945, Carlo Emilio Gadda (l’autore del “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) scrisse “Eros e Priapo: da furore a cenere” una riflessione storica feroce su Benito Mussolini e la sua dittatura (a cui inizialmente Gadda aveva aderito).
Nel saggio non viene mai menzionato il termine “fascismo”, mentre Mussolini viene ribattezzato con decine di nomignoli insultanti: Furioso Babbeo, Sozzo Nostro, Somaro Principe, Primo Racimolatore e Fabulatore delle scemenze, Giuda-Maramaldo, Paflagone-smargiasso, Priapo Moscio, il Gran Correggione del Nulla, il Predappio-Fava, il Culone in Cavallo, Il Fava impestatissimo, il Batrace Stivaluto, il Priapo Tumefatto, Ejettatore delle scemenze, il Giuda imbombettato, il Capocamorra, Appiccata Carogna, il Merda, Primo Maresciallo del Cacchio, il Mascelluto, Gaglioffo ipocalcico, Gran Cacchio,  Maccherone Ingrognato, Scacarcione Mago, Nullapensante, Priapo Maccherone Maramaldo. Solo per citarne alcuni…

Il saggio fu pubblicato solo nel 1967 e in versione censurata, dopo essere stato rifiutato da molti editori.

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Andrea Camilleri (6 settembre 1925 – 17 luglio 2019).

“Trenta picciotti di un paese vicino a Napoli avevano violentato una picciotta etiope, il paese li difendeva, la negra non solo era negra ma magari buttana”. Questo brano contiene solo 26 parole. Ma sono certo che tutti sapete chi le ha scritte: Andrea Camilleri ne “Il ladro di merendine”. L’autore dei gialli di Montalbano, infatti, si riconosce a prima vista grazie a due tratti inconfondibili: il dialetto siciliano e le parolacce, anzi: le “parolazze”. Ci avete fatto caso? Forse non molto, perché in Camilleri il turpiloquio è così integrato nello stile letterario da non destare sorpresa né scandalo.
Ma quanto sono frequenti le parolacce nei romanzi dello scrittore siciliano? Sono un orpello marginale o svolgono un ruolo importante? Da assiduo lettore di Camilleri, da siciliano e da studioso di turpiloquio, non potevo sottrarmi alla domanda. Così ho deciso di studiarle per celebrare il suo anniversario: oggi avrebbe compiuto 95 anni.

I protagonisti della serie tv su Montalbano.

Data la sua smisurata produzione letteraria, ho scelto di limitare lo studio ai soli romanzi del ciclo di Montalbano, escludendo i racconti brevi (“La paura di Montalbano”, “Un mese di Montalbano”, “Gli arancini di Montalbano”, “La prima indagine di Montalbano”): rimaneva comunque una quantità notevole di romanzi: 28, tutti editi da Sellerio, compreso “Riccardino”, uscito postumo quest’estate.
Così, “con santa pacienza” e “santiando” (imprecando) come avrebbe fatto il commissario alla vista di una pila di scartoffie da firmare sulla scrivania, mi sono messo all’opera. Glielo dovevo, dato che mi ha fatto trascorrere molte giornate di svago leggendo i suoi libri.
Prima di armarvi anche voi di pazienza per leggere i risultati (l’analisi è stata “longa e camurriusa”, cioè lunga e maledettamente complicata) vi anticipo un dato: nei suoi gialli, Camilleri ha usato 52 parolacce diverse, sia in siciliano che in italiano (e può darsi che me ne siano sfuggite altre), per 3.109 volte. Le espressioni volgari appaiono in media quasi una volta ogni 2 pagine. Dunque, il turpiloquio non svolge un ruolo marginale. Anzi, aiuta molto a capire la sua arte. Vedremo come e perché. Ma prima devo raccontarvi come ho ottenuto questi risultati.

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Il metodo della ricerca

Il primo romanzo di Montalbano. E’ quello con più parolacce.

Per studiare quale ruolo hanno le parolacce in un testo, bisogna contarle,  catalogarle e studiarle nel contesto. E per fare tutto questo, bisogna prima cercarle. Impresa non facile, se non si sa quali cercare. Così mi sono avvalso di 5 fonti:
♦ il dizionario dei termini siciliani più usati da Camilleri, compilato dai fan di vigata.org;
♦ il “Camisutra” ovvero l’antologia delle pagine più piccanti delle sue opere, sempre a cura di vigata.org;
♦ il CamillerIndex, database con il glossario di Camilleri;
♦ il mio libro sul turpiloquio;
♦ il mio studio sulle parolacce più pronunciate in italiano.

Ma questa, ahimè, era solo la base, perché strada facendo, rileggendo tutte le sue opere, ne sono emersi diversi altri, e chissà quanti me ne saranno sfuggiti: stiamo parlando di 7.367 pagine in tutto. Un compito immane, alleggerito in parte dall’uso delle versioni ebook dei libri, usando la funzione “cerca”. Da questa scrematura sono emerse 52 espressioni che troverete più avanti. Ho censito ciascun termine in tutti i generi (maschile/femminile), numeri (singolare/plurale), tempi, modi e coniugazioni (per i verbi), e varianti (composti, accrescitivi, diminutivi, peggiorativi, rafforzativi). Sia in italiano che in siciliano. Ad esempio, per il verbo “fottere” ho censito tutte le persone, i tempi e i modi, sia in italiano che in siciliano (futtiri), con le innumerevoli varianti (catafottere, stracatafottere, sfottere).
Non ho conteggiato, invece, le espressioni non usate come insulti: “porco” l’ho calcolato solo quando era usato come offesa verso una persona, ma non per denotare un suino (o il piede di porco inteso come attrezzo da scasso); la parola “Madonna” l’ho conteggiata solo quando era usata come esclamazione (“Madonna!”, “Madunnuzza beddra!”) ma non come nome proprio (“ringraziamo la Madonna”). E così via.

 I risultati: una ogni 2 pagine (ma in calo nel tempo)

I risultati dello studio (clic per ingrandire)

Il censimento, come anticipato, ha dato questo risultato: nei 28 romanzi del ciclo di Montalbano sono presenti 52 parolacce, scritte per 3.109 volte. Su un totale di 7.367 pagine, è una media di 0,42 parolacce a pagina: quasi una ogni 2 pagine. Dato che, facendo una media approssimativa, ogni pagina contiene 200 parole, le volgarità sono lo 0,2% delle parole. La stessa frequenza che avevo riscontrato nella mia ricerca sul turpiloquio nell’italiano parlato. Non è un caso, e vedremo più avanti il perché.
Nel frattempo, però, bisogna segnalare un altro dato: nel corso della sua lunga produzione letteraria durata 25 anni (per la serie di Montalbano) la quantità di volgarità si è progressivamente dimezzata: è passata dal picco delle opere iniziali, che avevano una media di 0,59 parolacce per pagina negli anni ‘90, a 0,44 nel primo decennio degli anni 2000, per concludere con una media di 0,31 negli ultimi 10 anni. Tant’è vero che il libro con la maggior densità di parolacce è “La forma dell’acqua” (1994), con 0,77 parolacce a pagina, mentre quello con la minor densità di parolacce è “La giostra degli scambi” (2015), con 0,19 volgarità a pagina.
Come spiegare questo calo?

Le statistiche libro per libro (clic per ingrandire)

A volte, nella carriera di un autore, il turpiloquio è usato per fare clamore, attirare l’attenzione suscitando scandalo. Poi, una volta che si è affermato, questa esigenza viene meno, anche per rivolgersi a un pubblico più ampio e non incorrere in censure. E’ anche il caso del nostro autore? Improbabile, visto che parolacce anche forti appaiono in tutta la sua produzione: e ne basta anche una sola per fare clamore. Tra l’altro, le espressioni veramente pesanti (pompino, fica, sticchio, chiavare) appaiono pochissime volte: in generale, infatti, gli insulti pesanti sono una minoranza, solo uno su 4. Camilleri sapeva spendere il turpiloquio con equilibrio, solo quando era necessario alla narrazione. Non usava le scurrilità un tanto al chilo, insomma.
Forse, allora, potrebbe aver giocato un fatto anagrafico: quando iniziò a scrivere il primo romanzo della serie, Camilleri aveva già 69 anni; negli ultimi 10 anni della sua produzione aveva superato gli 85 anni d’età, e forse era meno incline alle passioni a tinte forti espresse dal turpiloquio. Può darsi, ma solo in parte. Basta leggere questo passo: 

“Va bene Maria, facciamo in questo modo e poi però prometti che te ne vai. Io ti faccio un regalo, anzi il mio cazzo ti fa un ultimo regalo”.
Ad un certo punto un sorriso ebete gli si disegnò sul volto. Pensavo che la medicina avesse fatto effetto, invece nulla. Solo quel sorriso cretino che continuava ad aleggiare sulle sue labbra. Ci crede che è stato quel sorriso, commissario, a farmi liberare da lui? Ho capito mentre lo guardavo che io lo odiavo, che lo detestavo, che io sì che sarei stata capace di ucciderlo, e allora d’impulso, senza pensarci, presi il tagliacarte che aveva sul comodino e glielo infilai nel cuore. Carmelo non si mosse, non cercò di fermarmi, continuò a sorridere e io a spingere il pugnale. Poi mi sentii libera. Finalmente libera. Lo lasciai sul letto.

Montalbano e le donne: una passione costante.

Questo brano è tratto da “Il metodo Catalanotti”, pubblicato nel 2018, l’anno prima di morire. Quando aveva 93 anni. Per chi non conosce la lucidità di Camilleri, potrebbe sorprendere che un uomo di quell’età sia stato capace di immaginare, e in modo così vivido, una situazione del genere: sesso e sangue. Ma non è l’unica, dato che c’è un’altra passione costante e altrettanto carnale dei suoi racconti: quella per la cucina. Le descrizioni delle scorpacciate luculliane del commissario fra arancini, frittura di pesce, pasta al nivuro di siccia (al nero di seppia) sono memorabili. Un aggettivo quanto mai pertinente, dato che, come Camilleri ha rivelato in un’intervista, parlare di cibo è “come fare penitenza, aspra e dolorosa per chi, come me, a lungo ha gustato i piaceri della buona tavola e ora non può più per l’età e per ferreo diktat medico. Ho preferito continuare a patire nel ricordo di certi sapori, nella memoria di certi odori”.
Camilleri era non solo un attento osservatore delle persone, ma anche delle sensazioni fisiche. E con grande capacità di memoria, evocativa e rievocativa. Dunque, se nel corso della sua lunga produzione ha dimezzato la quantità di termini scurrili, credo l’abbia fatto per una consapevole scelta artistica: li ha considerati meno adatte alle storie che voleva raccontare. E in particolare al protagonista che ha voluto rappresentare: col passare degli anni, infatti, il commissario Montalbano appare sempre più rassegnato alle ingiustizie sociali, agli abusi di potere, alle inteferenze della politica nelle sue indagini. E questa rassegnazione ha spento gradualmente la sua tenacia e la sua rabbia, rendendolo più sfiduciato che “‘ncazzato” e “nirbuso“. E quindi meno incline a sfogarsi con le parolacce

La top ten delle volgarità

E ora vediamo quali sono le 10 espressioni più frequenti, che da sole rappresentano quasi 3 espressioni su 4 (il 72,1%):

PAROLACCIA % SUL TOTALE
1) minchia 17,5
2) fottere/futtere 11,5
3) culo/culu 7,8
4) cabasisi 6,6
5) stronzo/strunzu 6,4
6) buttana / puttana 5,5
7) cazzo 5,0
8) camurria 4,8
9) cornutu /cornuto 3,6
10) sbirro 3,4
TOTALE 72,1%

Questa “top 10” rivela già molte cose. Innanzitutto, un doppio realismo: molti dei termini più usati, infatti, coincidono con i 10 maggiormente pronunciati dagli italiani (minchia, cazzo, culo, stronzo sono anche nella “top 10” delle parolacce più pronunciate dagli italiani). E le espressioni siciliane come minchia (quasi una parolaccia su 5: un’amata minchia, scassare la minchia, non capire una minchia, minchia di ragionamento…), fottere (usato più nel senso di “fregare” che in senso osceno, o anche come “rovinare” nell’espressione rafforzata “catafottere”), camurria (seccatura, da “gonorrea”), cornuto sono effettivamente le più usate dai siciliani: per una serie di romanzi ambientati in Trinacria, non poteva essere altrimenti. A questo scenario abbastanza prevedibile, però, si aggiungono due espressioni inaspettate: “cabasisi” e “sbirro”.

CABASISI E SBIRRI

Una pianta di zigolo, con in vista i tubercoli.

Il primo, “cabasisi”, è in realtà un eufemismo (di cui mi sono occupato in questo articolo): è cioè un termine non volgare che allude ai testicoli. Il nome deriva dalle parole arabe habb, bacca, e haziz, dolce: i dolcichini, cioè i tubercoli del cipero (o zigolo) dolce (Cyperus esculentus) la cui forma ricorda per l’appunto le gonadi maschili. E’ una parola dotta, che in realtà non è popolare fra i siciliani: probabilmente Camilleri l’ha preferita al termine dialettale “cugghiuna” (coglioni) che è un’espressione molto pesante. Camilleri l’ha usata in tutto e per tutto come sostituto di “palle” nelle espressioni “levarsi dai cabasisi”, “rompere/scassare i cabasisi”, “firriamento (giramento) di cabasisi”, “stare supra ai cabasisi” (stare sulle palle). Tant’è vero che le espressioni corrispondenti in italiano sono una minoranza: “palle” è presente solo 11 volte (0,4%), e “coglione” 43 volte (1,4%) ma il termine è usato anche come insulto (“coglione” e “rincoglionito”). Oggi, però, proprio grazie al successo di Camilleri (oltre 100 libri e 25 milioni di copie vendute solo in Italia) “cabasisi” è diventato popolare non solo in Sicilia ma in tutta Italia.

Montalbano e Fazio, sbirri con “teste fine”.

Ancor più particolare l’uso intensivo della parola “sbirro”. Il motivo? Non solo perché i romanzi di Camilleri sono polizieschi, che hanno per protagonista un commissario, Salvo Montalbano.  La parola è uno spregiativo: deriva da birrus (rosso, colore delle divise medievali) indica i servi violenti e ciechi del potere. Ma, in Sicilia, l’appellativo ha anche il significato di spia, delatore, furbo: nel 1800 sotto i Borboni, infatti, il funzionario di polizia Salvatore Maniscalco, palermitano, per garantire l’ordine pubblico organizzò un’efficiente rete di spie e di informatori reclutandoli anche fra i criminali. Ma nella maggior parte delle pagine, questo termine non è usato dai criminali e in senso spregiativo, bensì dallo stesso Montalbano e per lo più in senso positivo, come complimento o con compiaciuto orgoglio: “Fazio era un bravissimo sbirro e ’na gran bella testa fina” (“Il cuoco dell’Alcyon”). Infatti “sbirro” è per lo più presente in espressioni come “istinto di sbirro, doveri di sbirro, testa di sbirro, bravo sbirro”. Insomma, lo sbirro è chi serve lo Stato al servizio della giustizia, usando l’intelligenza. Un “insulto di solidarietà”, come quando le persone di colore chiamano se stessi “negri” ribadendo la propria identità fregandosene del disprezzo degli altri.
Ecco due passi che mostrano questo uso: “
in questo consisteva il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro nato: cogliere, a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio macari (pure) impercettibile che non quatrava con l’insieme, lo sfaglio (differenza) minimo rispetto all’ordine consueto e prevedibile» (“Un mese con Montalbano”). Montalbano,infatti, era uno sbirro anomalo nel carattere e nel modo di fare: era umorale e istintivo, agiva sempre di testa propria. E spesso fuori dagli schemi e dalle procedure, anche organizzando messe in scena per tendere trappole (sfunnapedi) ai sospettati, per farli cadere in contraddizione: “Fare tiatro a Montalbano l’addivirtiva. Come a tutti i veri sbirri. Essiri tragediaturi era forse condizioni ‘ndispensabili per ogni ‘nvistigatori di rispetto. Sulo che abbisognava essere abbili assà (“Riccardino”). 

Sette tipi di parolacce

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Sappiamo dunque quali sono le parolacce più usate nei romanzi di Camilleri (potete vedere il file completo qui). Ma in quali modi sono usate? Un modo per capirlo è classificarle per tipologia. Le ho riunite in 7 grandi famiglie: insulti pesanti e maledizioni; espressioni enfatiche e colloquiali; espressioni scatologiche (cioè escrementizie), insulti leggeri; oscenità (termini sessuali diretti), profanità (termini religiosi usati come imprecazioni) ed eufemismi.
Ecco i risultati, riassunti nel grafico a torta qui a fianco.

[ Cliccare sulle strisce blu per visualizzare le espressioni ]

1) Enfasi

 PAROLACCE Citazioni % sul tot
minchia 545 17,5
fottere / futtere / catafottere / sfottere 357 11,5
culo /culu  /inculare / leccaculo /acculare / rinculo 242 7,8
cazzo / cazzuto / cazzate / incazzare 155 5,0
camurria 148 4,8
sbirro 107 3,4
burdellu / bordello 57 1,8
casino / casinu 49 1,6
cesso 20 0,6
vastaso (cafone) 17 0,5
palle / balle 11 0,4
fissa / fissaria /fesso / fesseria 43 1,4
TOTALE 1751 56,4

In questa categoria, come si può notare, ho inserito diversi termini di origine sessuale (cazzo, minchia, fottere, palle…) per un motivo preciso: queste espressioni, infatti, sono usate nella maggior parte dei casi come rafforzativi espressivi e non come termini osceni. Facciamo qualche esempio: «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto» disse Fazio (“Il sorriso di Angelica”).
Oppure: «Buongiorno, dottor Montalbano. Mi scuso per averla fatta viniri fino a qua e mi scuso di cchiù per averla fatta ‘nfaccialare, ma è bene che lei non sappia chi sono».
«Facciamola finita con ‘sti complimenti del cazzo» fici il commissario. «E mi dica quello che mi deve dire». (“La danza del gabbiano”).
Dunque, le espressioni colorite e colloquiali sono quelle col maggior peso (una su due, il 56,4%) nell’opera di Camilleri. E non è un caso, come vedremo più avanti. 

2) Insulti pesanti e maledizioni

 PAROLACCE citazioni % sul tot
stronzo/strunzu 198 6,4
Buttana / puttana / sputtanare 172 5,5
cornutu, curnutu /cornuto / crastu 113 3,6
porco / porcu 44 1,4
coglione /rincoglionito 43 1,4
fitusu (schifoso) 43 1,4
garruso (frocio) 34 1,1
troia 27 0,9
vaffanculo / affanculo / fanculo 16 0,5
bastardo 15 0,5
negro 6 0,2
cajorda (sozza, puttana) 3 0,1
frocio 1 0,0
zoccola 1 0,0
TOTALE 716 23,1

E’ la seconda categoria più numerosa (un caso su 4, il 23,1%). Gli insulti, infatti, servono a narrare i litigi o in generale le forti emozioni. Ecco un esempio tratto da “La luna di carta”: Ogni automobilista, appena arrinisciva a sorpassarlo, si sintiva in doviri di definirlo: garruso, secondo un camionista; stronzo, secondo un parrino; cornuto, secondo una gentile signora; be…be… be, secondo uno che era balbuziente; ma tutte quelle offise a Montalbano da una grecchia ci trasivano e dall’àutra ci niscivano. Solo una lo fece veramente arraggiare. Un tale, un sissantino distinto, l’affiancò e gli disse: “Asino!”. Asino? Ma come si pirmittiva?. Tra l’altro, questo brano è prezioso rispecchia una profonda convinzione di Camilleri: per quanto “asino” sia considerato in genere un insulto moderato, per lui invece, da uomo di cultura, rappresenta un’offesa pesante: perché significa persona incolta, ignorante.
Difficile, comunque, tracciare un confine netto fra insulti ed esclamazioni pepate: la parola buttana/puttana, la sesta più usata da Camilleri, è spesso usata come imprecazione: «Mi sembri così strano stamattina! Ti senti bene?», disse Livia. «Benissimo, mi sento! Da Dio! Buttanazza della miseriazza buttana e figlia di buttanazza porca e futtuta, quantu mi sentu beni! Benissimo mi sento!». «Non parlare in dialetto e non dire parolac…». «Parlo come mi pare, va bene?». (“La danza del gabbiano”). 

3) Eufemismi
  

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cabasisi/ scassacabasisi 204 6,6
caspita 3 0,1
pisello 2 0,1
TOTALE 206 6,7

Non amando i giri di parole, Camilleri ha fatto poco ricorso agli eufemismi, i dribbling linguistici. Ne ho trovati solo due, che però arricchiscono comunque la tavolozza espressiva dei racconti. Come questo memorabile sfogo (uno dei tanti) dello scontroso dottor Pasquano, il medico legale: «Guardi che stamatina ho i cabasisi che mi fumano» fu la cortese avvertenza iniziale del dottore. Montalbano non s’impressionò e arrispunnì a tono. Pasquano addivintava trattabile sulo se uno sapiva tenergli testa. «E i miei lo sa a cosa assimigliano ? Pricisi ‘ntifici a ‘na locomotiva a vapore». «Che càspita vuole?». Aviva ditto càspita. Non cazzo, non minchia. Il che viniva a significari che era veramenti arraggiato. (“Le ali della sfinge”).
Oppure questo brano tratto da “Un covo di vipere”. «Ma macari mentri uno sinni sta a la sò casa a mangiare lei deve viniri a polverizzarigli i cabasisi?! Ma lo sa che lei non è un essere umano ma un robot tritacoglioni? Lo sa qual è la mia più alta aspirazione? Farle l’autopsia!».
«Dottore, mi scusi, ma…».
«Non la scuso! Anzi, la maledico per l’eternità! Che minchia d’una minchia vuole?».

4) Scatologia
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
merda 55 1,8
cacare /cacarsi 39 1,3
piscia / pisciazza 32 1,0
pìrita 12 0,4
cacca 8 0,3
TOTALE 146 4,7

I termini volgari di significato escrementizio sono pochi. E sono usati più nei modi di dire (“era un omo di merda”, “siamo nella merda fino al collo”, “mi tratti come una merda”) che in senso letterale (“come mosche sulla merda”, “sono annati a ficcare nella discarrica perché nella merda pirchì ‘n mezzo alla merda godivano di più”). Il termine piscia, invece, è usato in senso letterale (“Scusami, ma devo andare a pisciare”, “si lavò con un’acqua accussì càvuda che gli parse pisciazza”).

5) Insulti leggeri
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cretino 86 2,8
imbecille 36 1,2
asino/sceccu 3 0,1
TOTALE 125 4,0

Gli insulti leggeri hanno quasi lo stesso peso (in termini di frequenza) degli eufemismi. Anch’essi contribuiscono ad arricchire la tavolozza espressiva. Come in questo brano: Pellegrino è un cretino che si crede sperto (furbo, ndr), mentre sempre cretino resta”. Oppure: Lui s’addivirtiva a fare il cretino totale col Questore, il problema era che il Questore lo cridiva veramente un cretino totale (“La pazienza del ragno”).

6) Profanità
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
Gesù 39 1,3
Madonna / Madunnuzza 34 1,1
Cristo 20 0,6
TOTALE 93 3,0

Le profanità sono i termini religiosi usati in senso profano, ovvero come esclamazioni. Conoscendo bene la sensibilità religiosa degli italiani e soprattutto dei siciliani, Camilleri sapeva di muoversi in un campo minato. E infatti non ha mai ecceduto sia per quantità che per qualità (nei suoi libri non ci sono bestemmie). Si è limitato a un uso marginale e colloquiale. Come in queste battute:  «Non lo sa? Sono scomparsi». «O Madunnuzza santa! Che viene a dire scomparsi?» (“La gita a Tindari”). Oppure: «Non sto facendo nulla di pericoloso». «Non ci credo». «Ma perché, Cristo santo?». (“Il cane di terracotta”).

7) Oscenità
  

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
scopare 17 0,5
ficcare / ficcata 16 0,5
minne 16 0,5
fica 4 0,1
minata / minarisilla 3 0,1
uccello 3 0,1
chiavare 2 0,1
pompino 2 0,1
sega / segaiolo 2 0,1
tette 2 0,1
sticchio 1 0,0
suca 1 0,0
TOTALE 69 2,2

Ancor più rari i termini osceni usati in senso letterale, cioè sessuale. In alcuni brani è stato inevitabile, non solo per per descrivere alcuni delitti a sfondo sessuale, ma anche per raccontare scene passionali o modi di dire pesantemente scandalosi. Come questo botta e risposta fra Montalbano e Gegè Gullotta, ex compagno delle elementari nonché organizzatore di un bordello all’aperto: «Pronto? Pronto? Montalbano? Salvuzzo! Io sono, Gegè sono». «L’avevo capito, càlmati. Come stai, occhiuzzi di miele e zàgara?». «Bene sto». «Hai travagliato di bocca in queste iurnate? Ti perfezioni sempre di più nel pompino?». «Salvù, non metterti a garrusiare (scherzare, ndr) al solito tuo. Io semmai, e tu lo sai, non travaglio ma faccio travagliare di bocca». «Ma tu non sei il maestro? Non sei tu che insegni alle tue variopinte buttane come devono mettere le labbra, quanto dev’essere forte la sucatina?». «Salvù, magari se fosse come dici tu, sarebbero loro a darmi lezione. A dieci anni arrivano imparate, a quindici sono tutte maestre d’opera fina». (“Il cane di terracotta”)

NOMI RIVELATORI

In questa categoria di volgarità sessuali andrebbe inserita anche la scelta del cognome del vice di Montalbano, Mimì Augello: un cognome rivelatore (nomen-omen), dato che Augello (uccello) era un Don Giovanni. Così come l’ingenuo Agatino Catarella è un naif puro (dal greco agathòs, buono, è kàtharos, puro).

Le 4 radici letterarie di Montalbano

Camilleri con Vàzquez Montalbàn.

Per comprendere le ragioni per cui Camilleri ha inserito il turpiloquio nei suoi libri, occorre inquadrare la sua produzione identificando il filone letterario a cui attinge. Non basta dire che è il “giallo”: perché i suoi polizieschi sono molto particolari, perché sono la sintesi di numerosi riferimenti letterari.
Innanzitutto i polizieschi di Leonardo Sciascia, per l’ambientazione in Sicilia e gli intrighi di mafia e corruzione (oltre che per l’affermazione che “il giallo è un genere per eccellenza trasparente, la forma letteraria più onesta”); per quanto riguarda il linguaggio, Sciascia è un autore con uno stile “alto” seppure non privo di parole volgari, ma attribuiti per lo più a criminali, come il mafioso Mariano nel “Giorno della civetta”: (l’umanità)
la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”.
Nello stesso filone, Camilleri ha come modello anche Georges Simenon, di cui sceneggiò in tv il commissario Maigret: e come Maigret Montalbano è istintivo, umorale e applica una sua personale giustizia ai casi.
Il terzo modello è ovviamente
Manuel Vázquez Montalbán: il suo investigatore Pepe Carvalho aveva, oltre alla passione per la cucina, un linguaggio sboccato almeno tanto quanto il commissario Montalbano (il cui nome è appunto un omaggio all’autore spagnolo). Nei gialli di Carvalho, tra l’altro, non mancano le riflessioni sociali e politiche dell’autore, e anche questo è un elemento in comune con Camilleri.
Non mancano le influenze (più marginali nei gialli) di Luigi Pirandello, soprattutto per i dialoghi interiori del commissario e per il contrasto fra realtà e apparenza.
Ma nessun influsso linguistico, che invece arriva, e molto, da Carlo Emilio Gadda: oltre ad aver scritto un celebre poliziesco (“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) ha usato il dialetto, introducendo anche vari termini inventati di sana pianta (anche se inseriti in tutt’altro contesto, grottesco e multistilistico). 

UN SICILIANO REINVENTATO

Catarella, macchietta da opera dei pupi.

Ed è soprattutto nell’uso dei termini dialettali che si collocano le radici di Camilleri: nella mia analisi ne ho riscontrati 26 su 52 (la metà esatta) di cui 15 sono usati esclusivamente in siciliano, altri anche con il corrispettivo italiano (che prevale nella gran parte dei casi, tranne per i termine “buttana”). Come ha osservato lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, il siciliano di Camilleri è anche in molti casi siciliano “reinventato, una sorta di gramelot”, cioè un linguaggio a volte senza senso letterale ma usato come strumento espressivo. Basti pensare  a termini come facchisi (fax), uozap (Whatsapp), “Gli occhi gli facevano pupi pupi”, e al celebre “pirsonalmente di pirsona” dell’agente Agatino Catarella. Buttafuoco osserva che questo gramelot è “a uso di messa in scena, come nell’opera dei pupi”: osservazione acuta, dato che spesso Camilleri inventa scene comiche molto corporee, che vedono spesso come protagonista proprio Catarella che costantemente storpia i cognomi delle persone che chiamano al centralino della polizia: Peritore che diventa “Piritone” (grosso peto), Cavazzone che diventa Cacazzone e così via.
Camilleri, infatti, usa spesso alcuni “tormentoni”, cioè situazioni ricorrenti, anche attraverso l’uso di espressioni volgari: la più celebre è “la facci a culu di gaddrina di Pippo Ragonese, il commentatore televisivo che “era sempri dalle parti di chi cumannava”. Oppure “quella grannissima camurria del dottor Lattes”, l’untuoso capo di gabinetto del questore Bonetti-Alderighi.

Le 5 esigenze narrative

Ma al di là di questi riferimenti letterari, l’uso delle parolacce risponde a precise esigenze narrative di Camilleri. Ne ho identificate 5:

Duello verbale col dottor Pasquano, medico legale.

REALISMO: voleva rappresentare fedelmente l’ambientazione siciliana colloquiale, la naturalezza del parlato quotidiano. Camilleri, da abile regista televisivo e teatrale, era un maestro non solo nelle trame ricche di colpi di scena che tengono avvinto alle pagine il lettore, ma anche nei dialoghi. Sempre ritmati, verosimili, efficaci: «Quindi zoppichiava?» (chiese Montalbano). «Non è detto» (rispose Pasquano) «Ha altro da dirmi?». «Sì». «Me lo dica». «Si levi dalle palle». (“La danza del gabbiano”).
Ecco come lo stesso Camilleri racconta la cura con cui si dedicava a ottenere il realismo della lingua parlata: «Scrivo una pagina, la correggo, la rifaccio, a un certo punto la considero definitiva. In quel momento me la leggo a voce alta. Chiudo bene la porta, per evitare di essere ritenuto pazzo, e me la rileggo, ma non una volta sola: due volte, tre. Cerco di sentire – e in questo la lunga esperienza di regista teatrale evidentemente mi aiuta – soprattutto il ritmo». E in questa ricerca di realismo, il siciliano è uno strumento essenziale: non solo perché i suoi gialli sono ambientati in Sicilia, ma soprattutto perché per lui il dialetto è la lingua più immediata, viva, spontanea, senza filtro: «La parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la lingua, di quella stessa cosa, esprime il concetto». In pratica, il dialetto esprime l’essenza delle cose, la loro natura profonda senza le sovrastrutture artificiali della cultura. L’italiano, invece, è la lingua dell’astrazione, dei temi generali, ma anche della distanza dai sentimenti e dalla spontaneità.

AMBIENTAZIONE: i suoi gialli raccontano il mondo delle caserme e dei criminali. Sia nel loro gergo, che nella crudezza di alcune ambientazioni violente. «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto. Macari pirchì sei recidivo, hai due precedenti sempri per ricettazione» disse Fazio. (“Il sorriso di Angelica”).

Montalbano: un commissario umorale e passionale.

CARATTERI DEI PERSONAGGI: molti di loro sono umorali. Non solo Montalbano, ma anche la fidanzata Livia, il vice Augello, il dottor Pasquano. E il turpiloquio rappresenta fedelmente il loro nirbuso. Le parolacce sono il linguaggio delle emozioni, rappresentate in tutta la loro ricchezza: rabbia, sorpresa, frustrazione, disgusto, paura, irritazione… «Mimì, mi hai rotto i cabasisi. Dimmi subito che minchia ti capita». (La gita a Tindari) Oppure: «Lo vedi? Lo vedi?» scattò il commissario. «E dire che avevi promesso! E te ne vieni fora con una domanda a cazzo di cane! Certo che è morta, se dico aveva e viveva!». Augello non fiatò. (“La gita a Tindari”)

EROTISMO: è un tema di fondo, giocato sia nella passione carnale (le donne piacciono anche a Montalbano, non solo ad Augello), sia a volte nei delitti e nelle violenze sessuali. I termini osceni sono usati o per esprimere e indurre eccitazione, oppure per rappresentare lo squallore della violenza. “le coppie non mercenarie e cioè amanti, adùlteri, ziti, se ne andavano dal posto, smontavano («in tutti i sensi» pensò Montalbano) per lasciare largo al gregge di Gegè, buttane bionde dell’est, travestiti bulgari, nigeriane come l’ebano, viados brasiliani, marchettari marocchini e via processionando, una vera e propria Onu della minchia, del culo e della fica” (“Il cane di terracotta”).

UMORISMO: a volte servono ad allentare la tensione, spezzare il ritmo con siparietti o battute comiche. “Quando niscì da casa pronto per la partenza, c’era Gallo, l’autista ufficiale del commissariato, che gongolava. «Taliasse ccà, dottore! Guardi le tracce! Che manovra! Ho fatto firriàre la macchina su se stessa!».
«Complimenti» fece cupo Montalbano.
«Metto la sirena?» spiò Gallo nel momento che partivano.
«Sì, nel culo» rispose Montalbano tòrvolo. E chiuse gli occhi, non aveva gana di parlare. ( “La voce del violino”)

Insomma, Camilleri è come un pianista capace di passare dal jazz al rock, dal liscio alla disco music. Aveva, insomma, grande padronanza espressiva dei più diversi registri linguistici: una consapevolezza che non può prescindere dalle parolacce, come ricorda questo brano tratto da “La pensione Eva” (non appartenente al ciclo di Montalbano): «Aveva imparato che la Pensione Eva si poteva chiamare casino oppure burdellu e che le fìmmine che ci stavano dintra e che si potivano affittare erano nominate buttane. Ma burdellu e buttane erano parolazze che un picciliddru perbene non doveva dire».  Ecco perché chi lo ha conosciuto da vicino racconta che, nei momenti di rabbia (che anche a lui non mancavano, come a tutti) Camilleri si sfogava anche dicendo parolacce, che sono il linguaggio delle emozioni forti e della sincerità: e, ne siamo certi, lo faceva usando l’improperio giusto al momento giusto, con pertinenza e senso delle proporzioni. In tutte le sfumature linguistiche, dalla più aulica alla più greve.
Dunque, se qualcuno affermesse che nei gialli di Camilleri le parolacce svolgono un ruolo marginale, direbbe “una sullenne minchiata”.

Se vi è piaciuto questo post, potrebbero interessarvi anche le mie analisi linguistiche sui testi di Leonardo da Vinci e sulle parolacce nelle canzoni : ho studiato tutte quelle scritte da Fabrizio De Andrè, Elio e le storie tese, Pino Daniele, Lucio Dalla, Franco Califano, Enzo Jannacci.

Dedico questo articolo al mio amatissimo papà, Giovanni Tartamella, scomparso lo scorso 25 settembre.
Sei stato immenso, come il vuoto che sento. 

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