Parolacce e pubblicità | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 29 Nov 2024 12:22:04 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Parolacce e pubblicità | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Le pubblicità più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/#respond Wed, 02 Oct 2024 10:13:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20858 A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso… Continue Reading

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Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.

A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi

In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia onesta, veritiera e corretta. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.

Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.

IMMAGINI E ALLUSIONI

Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.

In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“.  Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».

Le 33 pubblicità più volgari

Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossi sono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdi sono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre
(con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose). 

2021-oggi

2011-2020

2001-2010

1991-2000

1971-1980
 

Il metodo e i risultati

Campagna Netflix con cibi che evocano la vulva.

Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «
Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega  il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».

Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.

SEMPRE PIU' USATE
 

Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino.  «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale».
Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.

I contenuti: la fantasia scarseggia

Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano
15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:

termine frequenza
culo* 6
darla 5
palle 3
patata/patatina 3
fanculo*   3
puttana 2
farsi 2
venire 2
figata 2
troia 1
stronzetta 1
pompa 1
passera 1
pacco 1
cagare 1

*Inclusi i gesti

Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.

La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale).  E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile. 

In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.

Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”.  Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato. 

Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione

«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.

FUOCHI DI PAGLIA
Ma, in generale, funzionano le pubblicità scurrili? «Ho sentito dire spesso dagli esperti di marketing che non si costruisce così il rapporto di fedeltà fra un cliente e una marca» commenta Guggino. «Usando questo approccio hai un momento di gloria all’inizio, ma esaurito il clamore, censurata la campagna, il prodotto ritorna nel buio».

Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.

Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla
Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale». 
A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione». 

Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:

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Campagne sociali: la volgarità funziona?

I ristoranti più sfacciati del mondo

 

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Cameriere e clienti al “Karen’s diner” a Sydney.

Il più famoso è “La parolaccia” a Roma: un ristorante dove i camerieri usano un linguaggio volgare con i clienti. Ora la formula potrebbe diventare globale: una società australiana ha aperto infatti una catena di 8 ristoranti del genere, “Karen’s diner”, dall’Australia al Regno Unito fino all’Indonesia. Sono gli unici casi o ce ne sono altri? Sì: non molti (se ne conoscete altri, segnalateli nei commenti a fine articolo), e qui vi racconto le loro storie cercando di capire i motivi del loro successo, e a volte di alcune figuracce: insultare un cliente è un azzardo pericoloso, giocato sul filo del rasoio, e occorre uno spirito realmente ironico e giocoso per alleggerirli, altrimenti le offese pesano come macigni

La madre di tutti i ristoranti

L’ingresso di Cancio “La parolaccia”.

Partiamo da un punto fermo: la formula del ristorante insultante è stata inventata in Italia, per puro caso (non per marketing) nel 1951. In un’osteria, “Da Cencio” (vezzeggiativo dal nome del titolare, Vincenzo De Santis) aperta 10 anni prima. Qui, una sera, l’attore Massimo Serato aveva sentito per caso la titolare del locale che cantava stornelli popolari sboccati. Serrato, divertito, chiese alla donna se poteva replicare lo show la sera successiva. L’attore si presentò all’osteria con un gruppo di amici vestiti di tutto punto: i camerieri li sbeffeggiarono chiamandoli “pinguini” e passarono un’allegra serata fra stornelli e parolacce.

Massimo Serato

Da allora la sua fama crebbe: vi fu paparazzata la principessa Soraya, moglie ripudiata del re di Persia e fu frequentata da molti attori come Anna Magnani, Alberto Sordi, Vittorio Gassman. Ed è aperta tuttora, con un clima di caciara fra insulti, linguaggio sboccato, piatti tradizionali (il locale è nel cuore di Trastevere) e karaoke. Oltre ai camerieri avvezzi a insultare, infatti, nel locale si esibisce un animatore accompagnato da un pianista. Spiritoso l’avviso sul sito Internet per il giorno di chiusura: “domenica semo chiusi. Magnate a casa. Non fare il permaloso, stai al gioco. Tacci (mortacci) tua!”. 

Il locale è stato citato da vari film. Il più celebre (e divertente) è “Fracchia la belva umana” (1981) nel quale però è stato ribattezzato “Da Sergio e Bruno, gli incivili”.

Gli altri in giro per il mondo

Le parolacce accorciano le distanze, creano un clima di schiettezza, di confidenza, di gioco e di libertà: ecco perché la formula del ristorante “a insulto libero” ha fatto presa. Con l’aggiunta che un cameriere che ti insulta rompe un tabù, quello della cortesia e della buona educazione. Questo spiega perché molti cercano questa esperienza insolita.
I ristoranti di questo genere nati all’estero non sembrano aver copiato la formula italiana: sono nati a volte in modo spontaneo, altre con un evidente intento di marketing. Ma quando gli insulti sono giocati senza la leggerezza di un autentico spirito goliardico, in molti casi sconfinano
nella mancanza di rispetto e in un clima greve, tutt’altro che divertente. Spesso i locali di questo genere preferiscono camerieri di sesso femminile, perché un insulto detto da una ragazza suona meno minaccioso per i clienti (ma dipende da cosa e come lo dice, comunque…).

WIENERS CIRCLE - Chicago (Usa) dal 1983
  

Le panche del Wiener’s circle di Chicago.

E’ un chiosco di hot dog, celebre perché, durante i turni notturni, camerieri e clienti usano un linguaggio volgare. La tradizione è nata nel 1992, quando Larry Gold, uno dei proprietari, chiamò “stronzo” un cliente ubriaco, per attirare la sua attenzione. Da allora, di notte, camerieri servono hot dog e insulti ai clienti, in un clima goliardico. E con questo spirito, nel 2016, il locale ha inserito in menu il “Trump footlong”, un hot dog lungo 30 cm. Quell’anno, infatti, il senatore Marco Rubio aveva affermato, in campagna elettorale, che Trump avesse le mani piccole “E voi sapete cosa si dice sui tizi che hanno le mani piccole”, ha aggiunto velenosamente, riferendosi alle dimensioni del sesso. Al che Trump gli ha replicato “Te lo garantisco, non c’è problema. Te lo garantisco”. Così i titolari del chiosco hanno lanciato l’hot dog “superdotato”, ovviamente con lo slogan “Make America great again”.

La locandina con il riferimento agli “Shit hole countries” (Paesi-cesso) di Trump

E quando, nel 2018, Trump definì i Paesi africani, Haiti e l’Honduras come “shit hole countries”, ovvero “Paesi cesso, Paesi di merda”, il locale ha scritto sulla propria insegna “Le persone di tutti i Paesi sono benvenute in questo cesso”. Una buona dose di autoironia, oltre che di satira politica.
L’estate scorsa il Wieners circle ha ospitato come cameriere il cantante Ed Sheeran, che durante una tappa del suo tour ha servito un centinaio di hot dog, ma non si è sentito di insultare nessuno.“Il nostro nuovo apprendista ha ancora molto da imparare” hanno scritto sul profilo Twitter del chiosco. “È troppo educato e amichevole”.

Qui il sito ufficiale. E qui un video andato in onda sul programma “Conan” sulla TBS:

 

DICK’S LAST RESORT - Las Vegas (Usa), dal 1985
  

L’ingresso del “Dick’s last resort” a Las Vegas.

Il nome significa “L’ultima risorsa di Dick”, ma in inglese “dick” indica anche il sesso maschile: il nome vuol dire anche “l’ultima risorsa del cazzo”. E’ una catena di 12 fra bar e ristoranti negli Stati Uniti. La formula prevede uno staff volutamente sarcastico, che insulta i clienti. A questi ultimi viene fornito un cappello di carta con scritti vari insulti: devono indossarlo durante la loro permanenza nel locale.  I camerieri sono volutamente grezzi e provocatori: lanciano senza riguardo i tovaglioli e le posate sui tavoli dei clienti, e danno risposte maleducate. 

Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:

 

KAREN’S DINER - Sydney (Australia), dal 2021
  

I camerieri del Karen’s diner di Brighton posano con  il dito medio. Clienti avvisati

Il nome “Karen”, nel gergo australiano, indica “donna anziana e scortese, ignorante e arrogante” (megera). Durante la pandemia da Covid-19, il termine è diventato popolare perché designava, in modo sarcastico, le donne di 50-60 anni che si opponevano al lockdown e al distanziamento sociale per puro egoismo personale. E in questo contesto è nata l’idea del locale: «Il famigerato meme di Karen stava diventando virale nello stesso momento in cui il nostro personale doveva far rispettare i Green Pass e altre restrizioni, il che implicava il dover gestire molti comportamenti “alla Karen” da parte dei clienti. In realtà le persone erano solo frustrate dal lockdown, ma questo ci ha fatto venire l’idea di capovolgere il mantra dell’ospitalità e creare un locale in cui il personale potesse essere scortese con i clienti ed essere pagato per questo», racconta uno dei fondatori, Aden Levin. 

Il ristorante, all’inizio, doveva essere temporaneo, e rimanere aperto solo per 6 mesi. Ma ha suscitato dibattiti accesi: sui giornali, alcuni temevano che un clima di insulti potesse degenerare, a danno dei camerieri. Tutta pubblicità: il ristorante non solo è rimasto aperto, ma ha aperto 8 filiali fra Regno Unito e Indonesia. Non sono mancate, tuttavia, le scivolate nel cattivo gusto, e a spese dei clienti, più che dei camerieri: nel 2022 il locale è finito nella bufera per un video diventato virale su TikTok: un cameriere faceva commenti offensivi su una cliente minorenne, e dava del “pedofilo” al padre che stava cenando con lei. I proprietari hanno preso le distanze dal comportamento. Da allora al personale è stato imposto di evitare gli insulti basati su razzismo, sessismo e omofobia.

Al Karen’s Diner la maggior parte dei camerieri è di sesso femminile perché «è meglio quando una donna, o un uomo effeminato interpreta una Karen, piuttosto che un uomo minaccioso che insulta i clienti», hanno spiegato i titolari. Tuttavia, guardando i video registrati all’interno, le cameriere, sempre corrucciate, non sembrano molto spiritose. 

Qui il sito ufficiale, e qui un video girato nel locale:

LA TIENDA DEL MUÉRGANO - Barranquilla (Colombia), dal 2022
  

Le cameriere della “tienda del Muergano”.

E’ un ristorante nel quale le cameriere insultano i clienti (la frase tipica è «Che cosa prendi, figlio di puttana?»).
L’atteggiamento rimane comunque ironico, e i clienti hanno altrettanta libertà di rispondere a tono.
Il locale colombiano (l’unico del genere che ho trovato nei Paesi latini) ha fatto furore da quando alcuni influencer colombiani ne hanno parlato pubblicando articoli e video recensioni.

 

Qui il sito ufficiale, e qui sotto un video:

Quelli che hanno chiuso
  

DURGIN-PARK, Boston (Usa). Negli anni ‘70 era noto per le sue cameriere impertinenti e scontrose. Secondo la storia, il ristorante tendeva ad assumere per lo più vedove anziane che non necessariamente avevano bisogno di un reddito ma cercavano qualcosa da fare, e trovavano che lavorare a Durgin-Park fosse molto socievole. A quel tempo, le persone che entravano, per la maggior parte, erano uomini che uscivano da lunghi turni e tendevano a essere scortesi con loro, e arrivarono al punto che iniziarono a ricambiare subito. Poi il locale ha cambiato gestione e ha chiuso nel 2019.

Edsel Fung con alcuni clienti

SAM WO, San Francisco (Usa): Era un ristorante cinese, ritrovo della “beat generation”, frequentato da scrittori come Allen Ginsberg e Charles Bukowski. Ma divenne famoso per un altro motivo: la presenza di Edsel Ford Fung, “il cameriere più grezzo del mondo”. Fung era un omaccione: alto un metro e 80, capelli a spazzola, accoglieva i clienti al grido di «Siediti e stai zitto», imprecava se qualcosa andava storto, non esitava a definire «ritardati» o «ciccioni» i clienti che non gli piacevano (e spesso non li serviva neppure). «Praticava un malvagio sarcasmo che assumeva aspetti di performance art» scrivevano le guide turistiche dell’epoca. Citato in vari film e romanzi americani, Fung è morto nel 1984. Il suo ruolo è stato ereditato dalla figlia, altrettanto scortese e irascibile. Fino alla chiusura del locale nel 2012 per motivi sanitari (feci di ratto in cucina). 

COACH AND HORSES, Londra (Regno Unito). Era uno dei locali più in voga di Soho. Divenne celebre per i modi rudi del proprietario Norman Balon, che vi lavorò dal 1943 fino al 2006. «Sono scortese per natura. Non ho pazienza con nessuno», diceva. E così non esitava a dire frasi come «Non sei un fottuto cliente abituale. Quelle stronze laggiù sono fottutamente clienti abituali». Lui, comunque, era orgoglioso di questa nomea tanto che aveva fatto stampare, sulle scatole di fiammiferi del locale, la scritta “Il barista più rude di Londra”. Qui sotto un breve documentario su Balon:

 Se vi è piaciuto questo articolo, potete leggere anche: 

⇒ I 20 ristoranti più sfacciati del mondo, ovvero i locali esteri con insegne volgari in italiano: da “Pizza cazzo” alla “Cantina della baldracca”, fino alla “Zoccola del pacioccone”.

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70 anni di censure del…. biiip! https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/ https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/#respond Tue, 13 Sep 2022 11:00:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19392 E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita.… Continue Reading

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E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita. Ha ancora senso questo sistema di censura? Negli Stati Uniti sembra destinato a finire in soffitta, mentre in Italia è un sistema ancora molto usato da trasmissioni come “Striscia la notizia” o “Le iene”.
Durante la sua lunga storia, che qui vi racconto, da strumento di repressione delle parolacce sta oggi diventando un loro involontario amplificatore. Una parabola che i suoi inventori, negli Stati Uniti, non avrebbero mai potuto immaginare.

La nascita: le radio americane

Studio radiofonico statunitense in una foto d’epoca

La censura nasce insieme alle prime radio private, subito dopo la prima guerra mondiale.  Il Congresso aveva posto fine al monopolio che la Marina aveva sulle trasmissioni radio. Ma il governo manteneva comunque un controllo severo sui programmi: mandare in onda contenuti offensivi poteva costare la revoca della licenza. Così quando radio WOR di New York, nel 1924, ospitò l’attrice e cantante Olga Petrova – nota per le sue posizioni a favore del controllo delle nascite – i tecnici della radio erano pronti a spegnere il microfono al primo sentore di contenuti scottanti. E così fecero: mentre l’attrice parlava, la luce rossa della messa in onda si spense. Al suo posto, la regia  mandò in onda per qualche minuto un brano musicale.
Decenni dopo fu inventato un sistema di censura più raffinato. Nel 1952 l’emittente radio WKAP di Allentown, in Pennsylvania, decise di avviare un programma “Open mic” (microfono aperto), mandando in onda le telefonate degli ascoltatori. Ma le leggi dell’epoca vietavano di trasmettere conversazioni telefoniche in diretta. Così un ingegnere della radio, Frank Cordaro, inventò un sistema per aggirare il divieto e al tempo stesso non rischiare di trasmettere contenuti inaccettabili: l’uso di due registratori a nastro distanziati di 3 metri l’uno dall’altro. Il primo registrava la trasmissione in onda, il secondo la riproduceva su una bobina di riavvolgimento: in questo modo si avevano 7 secondi di ritardo sulla diretta, sufficienti per cancellare eventuali frasi offensive.
Un sistema simile fu usato da Long John Nebel che nel 1954 conduceva “Party line”, un programma notturno su radio WOR: parlava di ufo, fantasmi, complotti e altri argomenti controversi interagendo con gli ascoltatori al telefono. Il sistema della doppia bobina gli permetteva di stoppare le chiamate offensive o di cancellare le parole inopportune.
Dopo qualche tempo i tecnici radiofonici
iniziarono a utilizzare un oscillatore, un’apparecchiatura del banco regia che genera suoni di prova ad alta frequenza (1000 Hz). Un fischio insopportabile. Un modo per coprire una frase offensiva senza lasciare muto il canale. Una censura, insomma: l’equivalente sonoro di una fascia nera su un’immagine o dei segni tipografici (@#§) negli scritti (e ci sono anche i pittogrammi dei fumetti, di cui ho parlato qui). 

L’arrivo in tv (e le invettive di Sgarbi)

Eventide BD600: dispositivo digitale capace di ritardare una trasmissione di qualche secondo

Oggi lo stesso risultato si riesce a fare con strumenti digitali, come quello nella foto a lato, capace di ritardare di alcuni secondi una diretta per consentire ai tecnici radiofonici di inserire i “beep” quando occorra. E non è l’unico ritrovato in questo campo: Apple, ad esempio, sta lavorando da diverso tempo a una nuova tecnologia in grado di eliminare automaticamente parole e frasi volgari da tutte le canzoni presenti sui propri dispositivi.
Lo stratagemma è poi approdato in tv: nel 1966 un’emittente di Los Angeles trasmise, nello show “Therapy”, le sedute di psicoterapia di gruppo con adolescenti, infarcite di parolacce (bippate).
In Italia, uno dei primi esempi dell’uso di bip censorio in tv fu “Sgarbi quotidiani” su Canale 5: nel 1993, volendo contestare la riforma dell’immunità parlamentare, Vittorio Sgarbi attaccò l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; ma, per non incorrere nel reato di vilipendio alla massima carica dello Stato, le sue invettive furono censurate (col suo accordo) con 7 secondi di “biip”.

L’esordio nella pubblicità e nella comicità

Con il passare del tempo, il “biip” ha assunto nuove funzioni, oltre a quella di censurare. E’ stato usato in alcune pubblicità per dare un effetto realistico e simpatico, come lo spot della salsa piccante Red Hot di Frank, con lo slogan “Metto quella merda (biip) su tutto”. in questo spot, la frase è pronunciata da una cameriera alla (finta) regina d’Inghilterra:

D’altronde, si sa: proibire (o nascondere) qualcosa significa renderlo ancora più significativo. E così i censori spesso rischiano, con i beep, di rendere ancor più evidenti le trasgressioni linguistiche: tutti possono facilmente immaginare quali espressioni sono coperte dai segnali acustici. Tanto che i Monty Python, gruppo comico britannico, già nel 1987 hanno scritto una canzone intitolata “I Bet You They Won’t Play This Song On The Radio” (“Scommetto che non trasmetteranno questa canzone alla radio”): il testo è pieno di allusioni volgari, coperte da vari suoni (fischi, campanelli, trombette, clacson, urla, pernacchie), con un effetto molto divertente. Qui sotto riporto il testo con traduzione e il video:

I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they won’t play this new ### song.

It’s not that it’s ### or ### controversial

just that the ### words are awfully strong.

You can’t say ### on the radio,

or ### or ### or ###

You can’t even say I’d like to ### you someday

unless you’re a doctor with a very large. ###

So I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they damn ### wellprogram it.

I bet you ### their program directors who think it’s a load of horse ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che non suoneranno questa nuova canzone di ###.

Non è che ###  o ###  sia controverso

solo che quelle ###  di parole sono terribilmente forti.

Non si può dire ### alla radio,

O ### O ### O ###

Non puoi nemmeno dire che un giorno mi piacerebbe ### te

a meno che tu non sia un medico con un grande ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che lo programmeranno alla ###.

Scommetto che i loro ###  di direttori di programma pensano che sia un gran carico di ###  di cavallo.

Le contraddizioni del bip

Il conduttore radiofonico Howard Stern

Ed è la comicità di questa canzone a far comprendere la contraddittorietà del beep, che, proprio mentre tenta di eliminare un contenuto scabroso, lo rende ancora più evidente. Non è l’unica contraddizione. Come tutte le censure, il biip limita la libertà di espressione garantita da tutte le democrazie occidentali. Nel 2002 lo scrittore Stephen King, parlando delle trasmissioni radiofoniche molto provocatorie di Howard Stern, disse: “Se dice cose che non ti piacciono, che ti offendono, allunghi la mano e spegni la radio. Non hai bisogno di un politico nel tuo soggiorno per dire che devi mettere un cerotto sulla bocca di quel ragazzo”. Stern, per inciso, durante la sua carriera ha collezionato ammende per un totale di 2.5 milioni di dollari per oscenità e volgarità, un record.

Ma nessun Paese si affida alla sola libertà degli ascoltatori. Perché le parolacce sono materiale esplosivo: parlano di argomenti delicati (sesso, differenze etniche, malattie, potere economico, religione) in modo offensivo e svilente. Soprattutto se arrivano alle orecchie dei bambini, che devono ancora formarsi una coscienza critica. Anche se, bisogna ricordarlo, ci sono parolacce e parolacce (e diversi modi di dirle) e non tutte sono necessariamente dannose: sulla questione ho già scritto un approfondimento qui.

Le pene: multe fino a 600mila euro e sospensioni

Già dal 1927 negli Usa le trasmissioni radio (e poi quelle televisive) erano controllate dalla Federal radio commission – oggi Federal Communication Commission – che comminava sanzioni pesanti a chi metteva in onda oscenità. E questo succede anche in Italia.
La norma oggi in vigore è
il decreto legislativo 208 (testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi) del 2021. Prevede che  nelle fasce d’ascolto riservate ai minori (in particolare dalle ore 16 alle ore 19) non si trasmettano contenuti “nocivi allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori, e, in  particolare,  i programmi che presentano scene di violenza  gratuita  o  insistita  o efferata ovvero scene pornografiche”. Le trasmissioni non devono evocare “discriminazioni di  razza, sesso e nazionalità” né offendere “convinzioni religiose o ideali”. E i film vietati ai minori di 14 anni non possono essere trasmessi prima delle ore 23 e dopo le ore 7. Le pene sono pesanti: multe da  30mila a 600mila euro, e, nei casi più gravi, la sospensione dell’efficacia della concessione o dell’autorizzazione a trasmettere programmi per un periodo da 7 a 180 giorni. Queste sanzioni spiegano perché i responsabili dei canali si prendano la briga di usare il bip censorio.

I conduttori dello “Zoo di 105”

Ne sa qualcosa Radio 105, che nel 2021 ha ricevuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni una sanzione di 62.500 euro per “continue allusioni sessuali marcate dal morboso, offese al sentimento religioso, ricorso gratuito a volgarità e turpiloquio, utilizzo di epiteti, con accezione dispregiativa e denigratoria, per designare le persone omosessuali”. E questo per sole due puntate di “Lo zoo di 105” trasmesse il 26 ottobre e 11 dicembre 2020 dalle ore 14 alle ore 16, in piena fascia protetta. Se avessero usato il bip, avrebbero evitato la multa. Ma probabilmente il programma sarebbe stato un fischio unico, intervallato da poche frasi.

Insomma, il biip censorio mette a nudo il difficile equilibrio fra lecito e illecito, libertà e censura. “Il segnale acustico” dice la scrittrice americana Maria Bustillos, “rivela una verità nascosta: il Super-Io, la coscienza morale che soffoca un impulso indegno. Una lotta che si svolge costantemente sotto la superficie in apparenza tranquilla della vita quotidiana. Il biip richiama l’attenzione su una divergenza di opinioni riguardante l’offensività di una frase. Prima era un fatto inconsapevole, ora lo è. Il “biip” è il rumore di una comunità impegnata nel processo di definizione dei valori, e che lotta per capire se stessa”.

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La T-shirt che contesta Salvini.

L’ultima T-shirt ha fatto infuriare i leghisti: ritrae Matteo Salvini mentre si scatta un selfie su un piedistallo. Indossa lo stesso diadema a 7 raggi della Statua della Libertà. Ma il titolo è ben diverso: “The statue of idiocy“, la statua dell’idiozia. Beffa nella beffa, il ricavato delle sue vendite è devoluto alla nave della Ong “Sea Watch”. Chi di felpe ferisce…
Le T-shirt, infatti, hanno aperto la strada a un insolito matrimonio: quello fra la moda e le parolacce. E non da oggi: negli ultimi 50 anni, infatti, le magliette sono state usate non solo per promuovere marchi, celebrare rockstar o veicolare slogan ideologici. Sono diventate una lavagna espressiva con cui esprimere la propria identità, sfogare emozioni forti, polemizzare, dire battute: così hanno diffuso il turpiloquio nel prêt-à-porter, rendendolo spiritoso, provocatorio, perfino blasfemo. Un fenomeno isolato, tipico dell’abbigliamento goliardico da strada?

Chiara Ferragni e la T-shirt di Vetements.

Tutt’altro. Da qualche tempo, le T-shirt scandalose sono entrate anche nella moda ufficiale: diverse firme hanno lanciato singoli capi o intere linee con scritte volgari. La prima stilista che le ha lanciate è stata l’anarchica Vivienne Westwood già negli anni ’70, ma era ancora una cultura underground. Ma negli ultimi anni ha contagiato anche gli stilisti più noti: la T-shirt griffata “Vetements” con la scritta  “You fuckin’ asshole” (tu, stronzo del cazzo) ha sfilato a Parigi ed è venduta a quasi mille dollari. L’ha indossata anche la trend setter Chiara Ferragni. Altri marchi famosi, come “Supreme“, hanno lanciato modelli volgari.
Le parolacce, infatti, “spaccano”: attirano l’attenzione, fanno scandalo, rompono gli schemi, esprimono schiettezza, humor o ribellione. Nel mondo della moda, sempre affamato di originalità e visibilità, sono una scorciatoia efficace per finire sotto i riflettori e accreditarsi come ribelli schietti e fuori dal coro. Col rischio, però, di perdere quell’aura di raffinatezza che dovrebbe circondare i capi di moda.
Il fenomeno è planetario. In Italia esistono diversi brand dai nomi scurrili: da “Figa power” a “F**K“, fino a “Vaffanculo“. Su 60 marchi volgari registrati all’Ufficio marchi italiano, infatti, il 35% è usato proprio per denotare capi d’abbigliamento. E’ vera creatività o solo espedienti effimeri per far parlare di sè?

Qui sotto potete ammirare le 20 magliette scurrili che hanno segnato la moda e il costume negli ultimi 50 anni. Compreso l’ultimo, che ha appena sfilato – facendo scandalo – sulle passerelle della Settimana della moda a Londra. Se ne avessi dimenticata qualcuna di meritevole, segnalatela nei commenti

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LA PIONIERA? UNA DONNA

Il fenomeno è iniziato come forma di marketing negli anni ‘70, quando le grandi marche dei prodotti di consumo americani (come la Coca-Cola) hanno creato T-shirt promozionali coi propri loghi. Ma, gradualmente, i singoli si sono appropriati di quegli spazi espressivi, per rivendicare la propria identità sessuale, etnica o politica. Insomma, come manifesti ideologici. Uno dei primi esempi fu la T-shirt con la scritta “Il futuro è donna” lanciata negli anni ‘70 dalla prima libreria femminista di New York, la Labyris Book. Nel 1977, Patti Smith si esibì al club CBGB di New York indossando una T-shirt con la scritta “Fuck the clock“, ovvero “Fanculo l’orologio” (oppure “fotti l’orologio”).

Le magliette “attiviste” di Katharine Hamnett

Ma l’episodio più clamoroso risale al 1984, quando la stilista britannica Katharine Hamnett fu invitata a Downing Street insieme ad altri stilisti dal primo ministro britannico Margaret Thatcher per la Settimana della moda. «Tutti i giovani stilisti la odiavano e non volevano andarci», racconta. «Ma io ho pensato che fosse un’occasione unica». Così, prese una T-shirt bianca e ci fece stampare la scritta “Il 58% non vuole i missili parshing”, il risultato di un sondaggio che contestava la sua corsa agli armamenti. La Hamnett la indossò, coprendola con un impermeabile. Quando ebbe davanti la Thatcher, se lo tolse, lasciando in bella mostra lo slogan. I fotografi scattarono flash all’impazzata (potete vedere la storica foto qui), la Tatcher fece un balzo, emise uno squittìo stridulo e scappò via.
E nel frattempo, complici i progressi nella serigrafia personalizzata delle magliette, le T-shirt erano diventate una forma di autoespressione, non solo politica: accanto alle magliette che riproducevano le star del rock o i loro album (Bob Marley, Pink Floyd, Rolling Stoness) o dei fumetti (Topolino, Batman), le località turistiche (I love NY), gli stati d’animo (il sorriso), sono apparse quelle con scritte goliardiche con parolacce.
E, negli ultimi tempi, anche la moda “ufficiale” ha prodotto T-shirt volgari. Sia perché ha inglobato le tendenze della moda da marciapiede, ma anche perché le sfilate sono diventate sempre meno vetrine e sempre più eventi. Eventi teatrali, per far parlare di sè.
E cosa di meglio delle parolacce in passerella? Attirano l’attenzione, fanno scandalo, rompono gli schemi, divertono, fanno pensare. Insomma, sono diventate una scorciatoia – una delle tante – per far parlare di sè. Ma gli slogan impegnati o polemici sono anche una sorta di penitenza, di pegno da pagare per i marchi del lusso: attraverso questi messaggi, più o meno volgari, cercano di mostrare un volto impegnato, schietto e più accettabile. «Ma oggi» ha detto di recente la Hamnett, che produce ancora T-shirt “attiviste” «le magliette di protesta tendono a essere un po’ pacchiane, lanciano messaggi annacquati. E comunque, per cambiare davvero le cose una T-shirt non basta: bisogna agire, far capire ai politici che non li voteremo più se non cambiano rotta».

1) Il dito medio

Una mano in primo piano che brandisce un enorme dito medio: non occorrono scritte esplicative per questa T-shirt che è diventata un classico. Soprattutto la versione a lato, in cui lo stile vintage attenua in parte il significato volgare del gesto. Che è stato riprodotto in infinite varianti e brandito da vari personaggi: da Johnny Cash ai Simpson, fino alla mano fotografata ai raggi X.

 

2) Scopami e dimmi…

La scritta è lunghissima, quasi un romanzo: “Beat Me, Bite Me, Whip Me, Fuck Me Like The Dirty Pig That I Am, Cum All Over My Tits And Tell Me That You Love Me.Then Get The Fuck Out”. Significa: “Picchiami, mordimi, frusta, fottimi come lo sporco maiale che sono, sborrami sulle tette e dimmi che mi ami. Quindi vattene fuori dal cazzo”. La maglietta risale al 1977 ed è una creazione di Malcolm McLaren e della britannica Vivienne Westwood, la stilista del movimento punk sempre sopra le righe e provocatrice.  In questa foto la T-shirt è indossata dalla cantante Joan Jett.

3) Sbattitene i coglioni

Questa maglietta riproduce la copertina dell’omonimo album pubblicato dai Sex Pistols nel 1977: “Never Mind The Bollocks, here’s the Sex Pistols”. Ovvero: sbattitene i coglioni, ecco i Sex Pistols. Un inno senza filtro alla ribellione anarchica incarnata dal celebre gruppo punk inglese. 

 

 4) Il marchio “vaffanculo”

Uno dei pionieri, in Italia, dell’abbigliamento scurrile è stato il marchio “vaffanculo”, lanciato nel 1997. L’idea è di uno psichiatra napoletano, Claudio Ciaravolo, che ha lanciato, sul sito vaffanculo.com, un’intera linea di vestiario (magliette, ma anche scarpe, cintura, borsa, cravatte, anelli, orecchini, ombrello, mutande, orologio e zaino) griffata “vaffa” in tutte le possibili varianti: dito medio, VFFNCL, vaffanculo, fuck off, VFK, da sole o abbinate al dito medio. «L’idea è nata per provocazione culturale» dice. «Le marche non sono altro che nomi vuoti che spesso coprono vestiti di scarso valore, ormai uno vale l’altro. E allora? Vaffanculo!».  

5) Sono con uno stupido

Questa è più di una T-shirt: è una performance. Se chi la indossa si avvicina a un’altra persona, riesce a insultarla senza aprire bocca. Un effetto davvero comico, che ha decretato il successo planetario di questo capo d’abbigliamento.

 

6) Keep calm un cazzo…

Lo slogan “Keep Calm and Carry On” fu coniato dal governo britannico nel 1939 agli albori della seconda guerra mondiale: serviva a invogliare la popolazione a mantenere l’ottimismo e non farsi prendere dal panico in caso di invasione nemica. Ma rimase poco conosciuto fino a quando una copia del poster fu riscoperta nel 2000 da Barter Books , una libreria di Alnwick, nel Regno Unito. Da allora è stato  utilizzato come tema decorativo per una gamma di prodotti, ma in Italia ha preso una piega decisamente goliardica, con decine di varianti.

7) Fanculo al cancro

Negli Stati Uniti è stata fondata un’associazione che affronta un tema delicatissimo senza andare per il sottile: “Fuck cancer”, ovvero: Fanculo al cancro (oppure: fotti il cancro). L’associazione è stata fondata nel 2005 da un malato che voleva aiutare altri malati di tumore ad affrontare la lotta contro questa durissima malattia con uno slogan diretto. Un approccio fuori dagli schemi e inaudito. Ma, come dice il sito, “Tu avrai pure un problema con la parola “fuck”, ma noi abbiamo un problema con la parola ‘cancro'”.

8) F**K, che costumi!

Particolare la storia di un marchio di abbigliamento da spiaggia italiano: si chiama F**K (fuck). In origine, la ditta – con sede ad Andria – si chiamava Giorgio Srl, perché l’aveva fondata nel 1985 l’imprenditore Franco Giorgio. Quando nel 2011 l’azienda andò in crisi, invece di chiudere decise di resistere, lanciando un nuovo marchio. Come chiamarlo? Una collaboratrice aveva sulla scrivania un disegno con quella scritta, che fu adottata “per esprimere la forza e lo spirito combattivo dell’azienda: non arrendersi mai”.

9) Vada a bordo, cazzo!

La frase (e la T-shirt) è ispirata al tragico naufragio della Costa Concordia avvenuto nel 2012. La frase era stata pronunciata dal comandante Gregorio De Falco della Capitaneria di porto, che al telefono aveva esortato il comandante Francesco Schettino a tornare sulla nave che aveva abbandonato. La frase, riportata dai giornali con tanto di audio, ha fatto il giro del mondo.

10) Turismo da figli di Troja

Come promuovere il turismo nella città di Troia (provincia di Foggia)? L’associazione A.c.t.! Monti Dauni, impegnata nella tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico, ambientale della città, nel 2013 lanciò una T-shirt che aveva il seguente slogan: “Figlio di Troja”, con l’ulteriore scritta “di patria ma non di madre”. Sul retro, invece, campeggiava il più pudico slogan “Figlio di Puglia”. Non si sa quanti abbiano avuto il coraggio di indossarla.

11) Stronzo Bestiale for president

Una delle T-shirt che ha fatto il giro del mondo è ispirata da questo sito: reca le scritte “Stronzo Bestiale for president” e “I’m friends with Stronzo Bestiale” (sono amico di Stronzo Bestiale). L’appellativo era stato scelto da un fisico come firma beffarda in una serissima ricerca pubblicata da una rivista scientifica. Ho raccontato la sua storia nel 2014, e ha fatto il giro del mondo (potete leggerla qui).

12) Il brand “Figa power”

Nel 2015 la ditta d’abbigliamento Tes.Med. di Barletta ha lanciato un nuovo brand chiamandolo con un nome che non passa inosservato: “Figa power”. Come spiega il suo sito, “uno strumento ironico di autocelebrazione ed emancipazione femminili”. Ma quante donne avrebbero il coraggio di indossare una maglietta con “FIGA” a caratteri cubitali?

13) Fottitene di quello che ascolti

Nel 2016 la Supreme, marchio hip hop giovanile, lancia la T-shirt “Fuck what you heard” (Fottitene di quello che ascolti). Messa “a panino” sul logo del produttore, la scritta diventa “Fuck what Supreme you heard” (fottitene di quello che di supremo hai sentito).

 

 

14) Un “vaffa” da scoprire

Nel 2016 il marchio Alyx (fondato dallo stilista americano Matthew Williams) lancia una T-shirt con una scritta incomprensibile. Che diventa intellegibile quando si piega in due la maglietta, rivelando la scritta “Fuck you” (vaffanculo). Un virtuosismo sartoriale all’insegna della goliardia.

15) “Stronzo del cazzo” in passerella

Questa T-shirt è stata creata nel 2016 dallo stilista georgiano Demna Gvasalia, fondatore del marchio “Vetements”. Gvasalia è uno degli stilisti che attinge alla moda da strada e la trasforma in abiti di lusso: la t-shirt becera è venduta a 980 dollari.  La maglietta ha sfilato a Parigi ed ha avuto un ulteriore momento di gloria quando è stata indossata dalla trend-setter Chiara Ferragni. Che un paio d’anni dopo ha messo in vendita sul suo sito una maglietta con la scritta “Italian as fuck”, italiano come fottere.

16) Fanculo, paparazzi

Sempre nel 2016 Nick Knight, titolare del sito di moda Showstudio, ha escogitato una maglietta volgare anti-paparazzi. All’apparenza sembra una comune T-shirt nera; ma quando viene illuminata dalla luce di un flash, appare la scritta “Fuck you cunt” (vaffanculo testa di cazzo) scritta in caratteri riflettenti. “L’idea mi è venuta quando ho visto la mia amica Kate Moss (super modella, nella foto) assediata da 20 paparazzi all’aeroporto di Los Angeles. E’ arrivata al punto di doversi nascondere sotto la sua valigia. Ora, con questa maglietta potrà difendersi. Ed esprimersi”. 

17) Anche stasera si tromba domani

E’ una delle numerose e creative T-shirt goliardiche che si possono trovare in vendita in varie località turistiche e non. La maglietta attenua il senso volgare della frase usando un rebus. Un escamotage usato anche da una maglietta che ritrae un’oca fra le lettere “ST” e “ZZO” per comporre la scritta “Sto cazzo”.

 

18) Bastardo, anzi peggio

Vivienne Westwood colpisce ancora. Nel 2017, a 76 anni d’età, ha presentato alle sfilate della Settimana della moda di Londra un modello di T-shirt con la scritta “Mother fucker” (letteralmente: uno che si scopa la madre), ovvero “bastardo, figlio di puttana”. La stilista non si è limitata a disegnare la maglietta, ma l’ha indossata stando a cavalcioni su un modello che sfilava in passerella.

19) Fatti i cazzi tuoi

Questa T-shirt è un messaggio per chi la vede. E anche un modo spiritoso di valorizzare un modo di dire italiano, tanto che – sotto la scritta – campeggia un altrettanto ironico “italian style”. Sono numerose le magliette dedicate ai modi volgari di dire, anche dialettali: da “sti cazzi” a “suca”.

 

20) Uno straccio di scandalo

La maglietta ha fatto scalpore alla settimana della moda di Londra pochi giorni fa. Era una T-shirt da baseball bianca e rossa, e recava la scritta, vergata con un pennarello: “My Other T-Shirts A Cum Rag”, ovvero: “Le mie altre magliette sono stracci per la sborra”. A completare il quadro, era indossata da un modello con le occhiaie enfatizzate dal trucco. L’ha realizzata un giovane stilista, Gareth Wrighton, ed è diventata virale sul Web: che poi abbia successo anche nei negozi (ammesso che sarà messa in commercio) è tutto da vedere.

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QUANDO LA MODA CAMBIA LE LEGGI

Negli ultimi tempi, alcuni stilisti hanno usato le T-shirt volgari anche per scopi personali: si sono fatti ritrarre indossando magliette scurrili, per esprimere uno stato d’animo aggressivo, di protesta o scherzoso, senza bisogno di spiegazioni: la russa Lotta ha posato con una t-shirt “Barbie is a slut” (Barbie è una troia). E la stilista Giovanna Battaglia Engelbert ha postato un proprio ritratto con una maglietta fuxia e lo slogan “Pink as fuck” (rosa come fottere).

Una delle T-shirt volgari che circolano in Cina.

Ma le T-shirt irriverenti sono anche un mezzo per cambiare le leggi: è accaduto negli Usa, dove quest’anno, dopo 8 anni di battaglie legali, lo stilista Erik Brunetti è riuscito in un’impresa difficile negli Usa: registrare il marchio FUCT, un acronimo che sta per “Friends u can’t trust” (amici di cui non puoi fidarti), ma che ha un’evidente assonanza con “fuck”, fottere. Il registro dei marchi l’aveva rifiutato perché “Inneggia all’oscenità e comunica connotazioni sessuali negative”. «Di questo passo» ha replicato Brunetti, «dovremmo censurare l’intera industria dell’intrattenimento: cinema, tv e videogames». E così è arrivato fino alla Corte Suprema, che a giugno ha abolito il divieto di registrare marchi scandalosi. In nome della libertà di  espressione.
A volte, però, le T-shirt scurrili creano situazioni imbarazzanti: un paio d’anni fa aveva fatto scandalo la diffusione, in Cina e altri Paesi asiatici, di magliette con scritte irriferibili in inglese (da “I am a whore”; sono una puttana, a “Too drunk to fuck”, troppo ubriaco per scopare). La maggior parte di quelli che le indossavano ne ignoravano il significato: probabilmente una beffa giocata da alcuni distributori internazionali di T-shirt? Il mistero è ancora aperto.

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I ristoranti più sfacciati del mondo https://www.parolacce.org/2018/07/31/negozi-divertenti-italiani-estero/ https://www.parolacce.org/2018/07/31/negozi-divertenti-italiani-estero/#comments Tue, 31 Jul 2018 08:00:51 +0000 https://www.parolacce.org/?p=14434 La sua storia ha fatto scalpore quest’estate: un imprenditore pugliese, Luigi Aseni, 37 anni, ha avuto successo in Scozia aprendo una catena di bar, i Boteco do Brasil. E ha battezzato le sue società “Skassa Kazz “, “Rumba Kazz” e “Kaka Kazz“. Quella… Continue Reading

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I documenti ufficiali delle società “Kaka Kazz” e Skassa Kazz” dell’imprenditore pugliese Luigi Aseni.

La sua storia ha fatto scalpore quest’estate: un imprenditore pugliese, Luigi Aseni, 37 anni, ha avuto successo in Scozia aprendo una catena di bar, i Boteco do Brasil. E ha battezzato le sue società “Skassa Kazz “, “Rumba Kazz” e “Kaka Kazz“. Quella che gestirà il locale Mango si chiamerà “Mango Pu Kazz“.
La storia è stata scoperta da Milena Gabanelli, per la rubrica DataRoom del “Corriere della Sera”. Mi ha divertito, e allora mi sono chiesto se fosse l’unica del genere. Non lo è: in giro per il mondo – in Europa ma anche in Asia, Africa, America e Oceania – ho trovato 21 negozi, per lo più ristoranti, con nomi volgari. Dalla “Cantina baldracca” (Lisbona) alla società di import “Pirla” (Berlino). Dunque, il mondo è pieno di società del Kazz
.
Ma prima di mostrarvi la lista di questi locali, una domanda sorge spontanea: che cosa scatta nella testa degli italiani che aprono attività all’estero? Perché si affidano a un linguaggio da Cinepanettoni per i loro business?

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BEFFA, MARKETING E NOSTALGIA

Il fenomeno è interessante, oltre che divertente. E ha varie ragioni. Innanzitutto, quando siamo all’estero, cadono i nostri tabù linguistici: gli stranieri non capiscono le parolacce italiane, quindi le diciamo in libertà, senza preoccuparci di scandalizzare  o di indignare qualcuno. Insomma, un bello sfogoE permette di esprimere le proprie emozioni in modo schietto e immediato,in un momento carico di passioni: quando si apre un’azienda si è eccitati per l’avventura, preoccupati per il suo successo, ispirati per trovare nuove strade, arrabbiati per i contrattempi…

Negozio di ottica a Pamplona (Spagna), in Calle del Vínculo. L’accento, dunque, cade sulla “i”: ma se cade sulla “u”, l’insegna acquista ben altro senso. 

E al tempo stesso, usare un nome, un’insegna scurrile è anche uno scherzo, una beffa: immaginate di essere allo sportello della Camera di Commercio britannica e di dire ad alta voce (o scrivere) il nome della vostra società: “Mango Pu Kazz limited”. Tanto l’impiegato non sarà in grado di capirne il significato: riderete alle sue spalle. Una goliardia di contrabbando, una provocazione mimetizzataInfatti nel Regno Unito non se n’è accorto nessuno, e l’attività imprenditoriale di Aseni è stata anche premiata. Ma quando alcuni fornitori italiani si sono visti arrivare fatture intestate alla società “Skassa Kazz”, hanno strabuzzato gli occhi: pensavano fosse uno scherzo, un falso.
E quando un nome simile finisce addirittura in vetrina, su un’insegna, all’estero diventa un’allusione, un messaggio in codice: un italiano, vedendo un ristorante che si chiama “Cantina baldracca” farà una risata. E ne sarà anche incuriosito: il messaggio è rivolto a lui, che è in grado di capirlo anche a migliaia di km dall’Italia. E, tutto sommato, è anche un modo di esprimere la nostalgia dell’Italia.
Dunque, anche questo è marketing: una parolaccia attira sempre l’attenzione. A maggior ragione in un luogo dove non viene detta perché si parla un’altra lingua. E così molti italiani entrano per curiosità o si fanno fotografare davanti all’ingresso.
In giro per il mondo ho scoperto una dozzina di attività con un nome che in Italia sarebbe decisamente improponibile. Sono per lo più ristoranti, bar e fornitori di alimentari, a testimonianza che il cibo muove le nostre passioni. Unica eccezione, un negozio di vestiti.

Ecco la lista dei 21 ristoranti più sfacciati del mondo (tutti verificati).
Se ci andate, fatevi raccontare la loro storia… e condividetela nei commenti

CANTINA BALDRACCA

A Lisbona (Portogallo). E’ una pizzeria italiana, sicuramente fondata da nostri connazionali.
Sul suo menu ha scritto uno slogan in rima: “Cantina Baldracca, quando a fome ataca”, ovvero: “Cantina Baldracca, quando colpisce la fame”.

 

 

 

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BISCHERO

A Ginevra (Svizzera). E’ una focacceria italiana, probabilmente fondata da toscani. Prepara anche lasagne, piadine e parmigiana. Probabilmente gli svizzeri ticinesi capiranno il nome, ma quelli di lingua francese non immagineranno che è un insulto.

Sito ufficiale

CHE CULO!

Phnom Penh (Cambogia). La spiritosa  insegna campeggia su un cocktail bar che serve anche hamburger, poco lontano dalle rive del Mekong. Non ho trovato informazioni sulla sua storia, ed è un peccato: i suoi gestori hanno fatto un bel viaggio per aprire un locale in una cultura molto diversa dalla nostra.

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ROTTINCULO

Dublino (Irlanda): il termine, come noto, può significare sia “fortunato” che “omosessuale” (in senso spregiativo). Chi ha fondato il locale, che nel frattempo ha chiuso, voleva con tutta probabilità puntare sul primo dei due significati: un modo spiritoso di evocare la buona sorte. Il locale era un ristorante italiano, e preparava diversi piatti  siciliani.

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COL ‘CACCHIO

Cape Town (Sud Africa). E’ una catena di pizzerie in Sud Africa. Un cliente ha raccontato così l’origine del nome:
I
l titolare si era rivolto a un italiano per avere consigli su come fare una buona pizza e quando e quanto far lievitare l’impasto. L’italiano, sicuro che il proprietario del ristorante non sarebbe mai riuscito a fare una pizza come quella partenopea, disse: Col cacchio che farai un’ottima pizza! Il ristoratore, raccogliendo la sfida, non solo fece una buona pizza, ma volle chiamare il suo ristorante “Col Cacchio”.

Sito Internet ufficiale 

IL BORDELLO

Londra (Regno Unito). Il locale offre piatti della cucina italiana. E’ un ristorante-pizzeria di grandi dimensioni e il suo nome evoca le case di tolleranza, altrimenti dette “casini”. Il menu prevede vari piatti tipici, dalla caprese alla bruschetta; ma ha una grave lacuna, visto il nome del locale: mancano gli spaghetti alla puttanesca.

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TERRONI

Toronto (Canada). Tutto è iniziato con un negozio che vendeva cibi italiani. Poi è diventato una pizzeria, e oggi è una catena di 8 ristoranti che offrono cibi italiani. Inutile dire che il gruppo è stato fondato da due immigrati italiani d’origine meridionale.

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LA FIGA

Londra (Regno Unito). Il locale, un ristorante di specialità italiane, è stato fondato da un italiano goliarda, che ha osato l’inosabile. Tanto, chi lo capisce? Su Tripadvisor, infatti, un utente, alla fine di una recensione, scrive: “What does La Figa mean?” (cosa significa La Figa?).
Sul Web le recensioni dei nostri connazionali sono quasi tutte positive, e le battute si sprecano: “W la figa!”, “Non è un ristorante del cazzo”, “Sono curioso di entrarci dentro” e “Quando arriva il conto sono cazzi”.
Il nome, per quanto osè, è comunque diffuso nel mondo: c’è una pizzeria “La figa” a Rio de Janeiro (Brasile) e  un “Cafè Figa” a Viña del Mar (Cile) .

Sito Internet ufficiale

PIZZA CAZZO

Golbey (Francia). Il ristoratore ha scelto un nome provocatorio ma musicale, perché basato su un’allitterazione (cioè la ripetizione di lettere: -izza -azzo). Il locale si trova in una piccola città nella Francia orientale, e l’ho inserito qui per “par condicio” dopo il locale precedente. Le poche recensioni sul Web non sono positive.

Segnalazione su un portale di ristorazione 

 

FACCIA DI CULO JEANS

Hong Kong (Cina). E’ l’unico locale di questa lista che non sia un ristorante. Il negozio di abbigliamento è stato fondato da un italiano, Oreste Carboni, che ha ideato il marchio dopo essersi stabilito a Hong Kong (ha sposato una donna cinese). Su Flickr alcuni hanno commentato: “Gli spedisco subito il curriculum, anzi: il curriculo”. Ma il negozio è stato chiuso anni fa.

Segnalazione su Flickr 

LA ZOCCOLA DEL PACIOCCONE

Amsterdam (Paesi Bassi). Il nome è lungo e composito. Ma non per attenuare l’impatto del termine “zoccola”, bensì perché il locale – una pizzeria con forno a legna – è attigua a un altro ristorante, che si chiama per l’appunto “Il pacioccone”. Il locale si trova in un vicolo del centro storico.

Segnalazione su un sito turistico

CULO DEL MONDO

Werdohl (Germania). Il nome lo trovo davvero spiritoso, anche se sarebbe stato più appropriato in Cambogia o in Nuova Zelanda invece che nel cuore d’Europa, nella Germania nord occidentale. Ma tant’è: comunque, a dispetto del nome, il ristorante non sembra il tipico angolo d’Italia all’estero: le recensioni raccomandano le sue bistecche.

Segnalazione su TripAdvisor

VAFFANCULO

Buenos Aires (Argentina). “Il vero sapore della gastronomia italiana: Vaffanculo Cantina Italiana”. Più che uno slogan, sembra uno sfogo rabbioso… Ma tant’è. Il locale propone alcune specialità italiane, soprattutto i primi piatti.

Il sito ufficiale 

LA PUTTANA

Lisbona (Portogallo). Ecco un altro locale in Portogallo, dove negli ultimi anni sono emigrati diversi italiani. E questa attività commerciale è una scelta tipica: una pizzeria. L’insegna fa effetto, anche perché il termine non è così lontano dal suo equivalente portoghese (puta). Se una cameriera o la titolare del locale rispondesse al telefono, però, vivrebbe una situazione imbarazzante: “La Puttana?” “Sim” (“Puttana?” “Sì”).

Sito Internet

CHE FIGATA

Naperville (Usa). In inglese si dice “cool”. L’equivalente italiano è “Che figata”: ed è proprio così che è stato chiamato un ristorante italiano a Naperville. Certo, un nome difficile da dire per gli anglofoni, tanto che in alcuni annunci viene spiegata anche la pronuncia, per quanto a spanne (Kay / Fah-gah-tah). 

PIZZERIA STRONZO

A Santiago del Cile (Cile). Impossibile sapere la storia di questa pizzeria, abbastanza popolare a Santiago. Il titolare non sembra di origini italiane: forse ha imparato questa parola in un viaggio in Italia o da amici italiani. Ha anche lanciato cappellini griffati “Stronzo”, sovrastati dalla scritta “ingredientes naturales” (come del resto è naturale lo stronzo…). Risulta esserci un’altra pizzeria con il medesimo nome a Zurigo.

 

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KAGO SUSHI

Varsavia (Polonia). L’insegna è esilarante ma tutt’altro che invitante per un italiano. Eppure il suo significato è innocente: in giapponese vuol dire “cestino di sushi”. E’ un ristorante di specialità nipponiche nel cuore della capitale polacca. E ha scatenato vari commenti ironici da parte di clienti italiani, tipo: “All you can shit” (invece di “all you can eat”); “Lo chef si chiama Urinawa Suimuri”; “Questo piatto è Ushito Nakagata”.

segnalazione su TripAdvisor

 

POMPINO

Auckland (Nuova Zelanda). Non sono riuscito a ricostruire la storia di questo locale, un caffè ristorante: se sia stato fondato a un emigrato italiano, o no, ma il fatto che in menu abbiano la pasta fa pensare di sì. Uno dei visitatori del sito ha commentato: “Dopo una mangiata al ristorante Pompino, una bella grappa Bocchino”.

segnalazione su TripAdvisor

PORCO DIO

Lleida (Spagna). E’ una pizzeria fondata, c’è da scommetterlo, da italiani. E oltre all’insegna anche il menu non lascia spazio all’immaginazione: le pizze, invece di “margherita” o “quattro stagioni”, si chiamano “vaffanculo”, “baldracca”, “coglione” e così via. La pizza raccomandata si chiama “Madonna santa”. Nelle recensioni, comunque, molti affermano che in questo locale si mangi “da Dio” (alcuni dicono di aver fatto “una cena della Madonna”).

Il sito ufficiale

GNOCCA

Las Palmas (Spagna). E’ un piccolo ristorante a Nord dell’isola Gran Canaria. A giudicare dal menu, a base di lasagne e gnocchi, i suoi gestori sono senz’altro italiani. Il nome probabilmente nasce come variante di gnocco, uno dei piatti forti del locale. Ma ovviamente strizza l’occhio al significato di vulva o anche, più in generale, di “bella donna”. 

Il sito ufficiale

BELIN

Mogan (Spagna). Il ristorante è sul lungomare di Mogan, a Gran Canaria. Si potrebbe pensare a una semplice omonimia con il termine ligure che designa l’organo sessuale maschile (e, per estensione, le persone di scarso valore intellettuale): ma il ristorante è gestito da liguri, quindi la scelta è stata decisamente consapevole

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PIRLA

Berlino (Germania). Non si sa nulla di questa impresa, che importa cibi italiani in Germania. I suoi camion sono fotografati con divertimento dai nostri connazionali lungo le strade tedesche. Vista la scelta lessicale, la ditta deve essere stata fondata da imprenditori di origine lombarda.

Sito internet

Conoscete – all’estero – altre ditte, negozi, attività con nomi scurrili? Segnalatele nei commenti (precisando dove sono, e il loro sito Internet): aggiornerò la lista

Di questo post ha parlato la trasmissione “I Vitiello” su Radio DeeJay il 22 agosto 2019.
Per ascoltarla, cliccate sul riproduttore qui sotto:

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PIRLA project, CACCA club e altre (vere) sigle divertenti https://www.parolacce.org/2018/02/27/acronimi-volgari/ https://www.parolacce.org/2018/02/27/acronimi-volgari/#comments Tue, 27 Feb 2018 09:00:30 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13846 Da bambino, quando leggevo Topolino, mi divertivano gli acronimi delle ditte dietro cui i Bassotti mascheravano le loro attività criminose. Tipo la Federazione Unitaria Rigattieri Trovarobe Organizzati (FURTO). Mi faceva ridere il fatto che le iniziali dei nomi dessero vita… Continue Reading

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La pagina Web del club fotografico CACCA: guarda caso è a… Chicago

Da bambino, quando leggevo Topolino, mi divertivano gli acronimi delle ditte dietro cui i Bassotti mascheravano le loro attività criminose. Tipo la Federazione Unitaria Rigattieri Trovarobe Organizzati (FURTO). Mi faceva ridere il fatto che le iniziali dei nomi dessero vita a parole di senso compiuto, a differenza delle sigle del mondo reale (tipo Cgil, Cisl e Uil) che sono solo sequenze di lettere.
In questi giorni ho scoperto altri acronimi divertenti. Ma con 3 differenze rispetto a quelle dei Bassotti: sono sigle vere, e sono in inglese. E danno vita non a parole, ma a parolacce italiane.
Non sono, però, il frutto della fantasia goliardica di qualcuno, ma indicano enti governativi, invenzioni tecnologiche, associazioni, serissimi progetti di ricerca scientifici e anche una blasonata squadra di calcio. Tranne qualche eccezione, sono per lo più assonanze dovute al caso. La malizia, dunque, sta nell’occhio di chi le legge (e si diverte)...
Ecco la raccolta delle 22 sigle più pazze del mondo, che arrivano dagli Usa ma anche dalla Francia, da Haiti e, solo in un paio di casi, sono stati creati da italiani (fate clic sulle foto per ingrandirle).

PIRLA

In Lombardia è uno degli insulti (bonari) più usati. Per un ridicolo caso del destino, PIRLA designa anche un serio progetto scientifico: il Paleoecological Investigation of Recent Lake Acidification, per gli amici “PIRLA project”. E’ lo studio paleo-ecologico (cioè antico) della recente acidificazione dei laghi. Mica cose da PIRLA.

VAFFA

Non tutti gli acronimi volgari nascono per caso. A volte possono verificarsi un po’ per caso e un po’ per malizia, se gli autori sono italiani. Nel 2011, infatti, alcuni ricercatori dell’Infn e dell’Università di Torino avevano presentato un Prin (Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale) su un sistema di analisi virtuale per l’Lhc, l’acceleratore di particelle al Cern di Ginevra. L’acronimo del sistema era VAFFA: Virtual Analysis Facility For the Alice experiment. Con un “vaffa” le particelle vanno più veloci.


CACCA

L’acronimo sta per Chicago Area Camera Club Association: in pratica, è un club che riunisce gli appassionati di fotografia, organizzando corsi e concorsi. Con una sigla così, era inevitabile che il club Cacca avesse sede a…. Chicago.
Una sigla simile – CAC – designa il centro di informatica avanzata (Center for advanced computing) dell’università Cornell. E l’ignobile acronimo CACAR indica invece il Rapporto di valutazione dei contaminanti artici canadesi (Canadian Arctic Contaminants Assessment Report).

CULO

Il laboratorio di ornitologia della Cornell University (Cornell University Lab of Ornithology) dà origine a un acronimo ridicolo: CULO. Forse, dopo qualche tempo, devono essersi resi conto dell’assonanza imbarazzante, e usano più frequentemente il nome Cornell Lab of Ornithology (CLO). Peccato: sarebbe stato bello leggere uno studio sul cuculo fatto dal… CULO.

FICA e FIGA

Ad Haiti, c’è una squadra di calcio che si crede più brava delle altre. Tanto che, sulla propria casacca, ha cucito il logo FICA. Ma non è presunzione: è l’acronimo di Football Inter Club Association. Per un Paese dove si parlano francese e creolo, un nome inglese è stato una scelta un po’ snob. La FICA, fondata nel 1972, milita nella massima categoria e ha vinto 7 scudetti. Qui in Italia avrebbe molti tifosi pronti a fare un cambio di casacca per lei.

Ma se la squadra FICA è frutto di un’assonanza incidentale, non è il caso della stessa sigla, FICA, che designa invece un particolare tipo di antenna per telefoni cellulari: la Folded Inverted Conformal Antenna (Antenna conforme invertita piegata). Dietro questo malizioso acronimo, infatti, si cela lo zampino di due ingegneri italiani, Carlo Di Nallo e Antonio Faraone, che l’hanno inventata nel 2005, quando lavoravano nei laboratori di ricerca delle Motorola, negli Usa.

Ma non è tutto: FICA è anche la sigla di:

E non poteva mancare anche la variante con la “g”. L’acronimo FIGA designa:

MERDA

All’American Museum of Natural History di New York hanno inventato, per ricostruire i fossili incompleti, una Analisi dei dati di sostituzione delle voci mancanti. La sua sigla, in inglese, suona Missing Entry Replacement Data Analysis: MERDA. Questa procedura, illustrata nel 2003 sul Journal of Vertebrate Paleontology, non ha però un nome casuale, come ho potuto verificare intervistando uno degli autori, Ward C. Wheeler, della divisione di zoologia degli invertebrati al Museo.«Abbiamo scelto quella sigla di proposito, sappiamo cosa vuol dire quella parola in catalano (come in italiano, ndr). Era un acronimo divertente: l’abbiamo scelta per sottolineare la scarsa qualità dei gruppi incompleti di dati. La procedura è tuttora usata per l’analisi di campioni incompleti di fossili».

MONA & SEGA

Questa strana coppia designa due apparati di rilevazione alla Michigan State University: il Modular Neutron Array (MoNA), un rilevatore di neutroni, e il Segmented Germanium Array (SeGA) che invece individua il germanoAnche nel mondo atomico, quando c’è una (MONA) non c’è l’altra (SEGA)?  O forse sono usati in simultanea: ovvero, tecnicamente parlando, in accoppiamento (coupling).
Va aggiunto, a corredo di questo caso, che SEGA indica anche il Serbia Economic Growth Activity, un ente di monitoraggio fiscale degli Usa in Serbia.

OSTIA

No: non è una sigla veneta blasfema. Ostia sta per “The Ocean’S role in miTIgating climAte change“, ovvero il ruolo dell’oceano nel mitigare il cambiamento climatico: è un progetto dell’Istituto di ricerca Geomar Helmholtz per la ricerca oceanica di Kiel (Germania). Gli scienziati si propongono di indagare che cosa succede nel lungo termine alle emissioni e al calore che l’oceano ha immagazzinato dall’inizio dell’industrializzazione. 

PIPPA

La poco nobile sigla PIPPA sta per Pressurized Pile Producing Power and Plutonium (cumulo pressurizzato che produce energia e plutonio): ovvero, in parole povere, una centrale nucleare britannica, quella di Calder Hall, chiusa nel 2003. L’esatto contrario di una PIPPA.

SCOPA

Il sesso, a dispetto delle apparenze, non c’entra. Lo Standing Committee on Public Accounts (SCOPA) ovvero il Comitato permanente sui conti pubblici è un austero organo di controllo delle spese parlamentari in Sud Africa.
Questo ente pubblico monitora, insomma, il buon uso dei fondi dello Stato: se qualcuno li spreca, se c’è un sospetto di corruzione, interviene la SCOPA. Per vedere se qualcuno si è… fottuto i soldi dei contribuenti. Il comitato è composto da 16 – ehm – membri.

PRONACUL

Sembra la marca di una supposta. Invece “Pronacul” è un acronimo che sta per PROmozione del patrimonio NAturale e CULturale: è un progetto, finanziato dall’Unione Europea, che ha come obiettivo la conservazione e la promozione del patrimonio naturale e culturale nell’area adriatico-ionica. Al progetto partecipano infatti, oltre all’Italia, anche  Slovenia, Croazia, Grecia, Bosnia Erzegovina e Serbia. 

Vi è piaciuta questa lista? Su questo sito trovate anche:

• le città del mondo con un nome volgare,

• le parole straniere che sono identiche a parolacce italiane,

• E in questa pagina trovate altri acronimi fra i prodotti stranieri che diventano imbarazzanti in italiano: dalla bevanda Frocho al software Inkulator.

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L’aranciata Pipi, prodotta in Croazia: in Italia avrebbe qualche problema.

Cosa succede quando si esporta all’estero un prodotto di successo? Il rischio di fare flop c’è sempre: gusti e sensibilità cambiano a ogni latitudine. Ma quando il suo nome, in altre lingue, acquista significati imbarazzanti, il fiasco è assicurato.
Ne sanno qualcosa i produttori, grandi e piccoli, che hanno fatto figuracce epocali scoprendo – troppo tardi – che all’estero il nome del loro prodotto (un’auto, una bibita, un telefonino, uno snack) richiamava i termini volgari usati per indicare il sesso, gli escrementi o gli insulti. Col risultato di diventare involontariamente comici, di perdere prestigio o, peggio, di offendere la sensibilità di un intero Paese.
In inglese questo tipo di errori si chiama “brand blunder” (sbaglio di marca), e la storia del marketing ne ha archiviati a decine, commessi anche da multinazionali molto celebri.
Dopo aver parlato dei loghi volutamente volgari, registrati all’Ufficio marchi italiano, dei vini e dei cibi con un nome osè, in questo articolo ho radunato invece 43 “falsi amici”, cioè nomi commerciali che, in un’altra lingua, diventano parolacce.
Alcuni sono effettivamente sfociati in una gaffe internazionale, altri no (o non ancora). I primi 30 casi sono in italiano, e i successivi sono in inglese, spagnolo, francese, svedese, tedesco, cantonese…. Buon divertimento.

In italiano…

33 CASI

PIPI
Come si fa a bere una bibita con questo nome? Eppure esiste: è un’aranciata prodotta a Spalato, in Croazia. E’ stata la bevanda più diffusa negli anni ‘80 e ‘90 (anche nelle versioni limonata e acqua tonica), ma oggi il suo produttore, Dalmacijavino, risulta in guai finanziari. Chissà cosa sarebbe accaduto se avesse tentato di esportare la Pipi in Italia…

PLOPP
Chi è andato in Svezia le ha viste esposte nei supermarket: sono barre di cioccolato al latte con un ripieno di caramello. Ma accostare questo suono, che ricorda – anche in inglese – la defecazione, non è molto beneaugurante… Con l’aggravante che anche il produttore ha un nome respingente, almeno in italiano: Cloetta, che evoca la cloaca.

POM’PIN
Fra le specialità gastronomiche del Belgio ci sono le patate. La ditta Lutosa ne confeziona vari tipi, fra cui le crocchette a forma di pigna: perciò le vende col nome di Pom’pin, contrazione di “pomme de terre” (patata) e “pomme de pin” (pigna). Dato che un marchio del genere sarebbe sconveniente in Italia (richiama il sesso orale), le hanno ribattezzate Pata’Pigna.

SEGA
Il celebre produttore giapponese di giochi elettronici, Sega, è un acronimo formato dalle prime due lettere di Service Games. Ma questa sigla, in italiano, è il nome volgare della masturbazione. Gli appassionati di videogames lo sanno da tempo, e non gli fa più effetto. Ma il problema c’è: così, non potendo cambiare il proprio nome, negli spot pubblicitari “Sega” è pronunciata volutamente in inglese: “siiga”.

FROCHO
SecondCup Coffee è il gemello canadese di Starbucks: una catena di 300 caffetterie fondata nel 1975. Di recente ha inventato (e registrato come marchio) un nuovo prodotto: Frocho, contrazione di frozen chocolate (cioccolato congelato). E’ una bevanda fresca per l’estate, ottenuta mescolando latte, ghiaccio, vaniglia e cacao. Se arrivasse in Italia avrebbe però il sapore dell’omofobia.

INKULATOR
Nel 2013, SurfaceSoft aveva lanciato un’app per Windows 8, descritta come un “modo nuovo e figo di fare calcoli”. Mescolando le espressioni “digital ink” (inchiostro digitale) e “calculator” (calcolatrice), la società informatica aveva sfornato un nome elegante in inglese, ma esilarante in italiano: Inkulator. Dopo l’ilarità e le proteste degli italiani, l’app è stata ribattezzata Kanakku (dai Kanak, abitanti della Nuova Caledonia): ma in tedesco kanake significa immigrato (in senso spregiativo) e in giapponese kanaku significa “persona malvagia”. Insomma, nonostante le buone intenzioni, anche in questo caso SurfaceSoft ha… fatto male i conti.

CHIAPPLE
Negli Stati Uniti, la moda per i cibi organici ha prodotto un preparato a base di semi di chia (Salvia hispanica) e mela. Il suo nome commerciale? Chiapple (composto di chia e apple, mela). Se mai arrivasse sul mercato italiano, difficilmente potrebbe mantenere questo nome (peraltro divertente, per l’assonanza con le chiappe).

 

FESSENGER
Il nome sembra uscito da uno sketch di Crozza: sembra un mix fra fesso e kazzenger, l’imitazione di Roberto Giacobbo. Invece, è il nome di un’altra app per computer: serve come interfaccia per usare Facebook attraverso i Google glass: il nome, infatti, è l’effetto della fusione fra Facebook e messenger.

FANCL

Si chiama così una società giapponese, quotata in Borsa, che produce cosmetici e integratori alimentari. Fondata nel 1981, oggi ha 900 dipendenti e sedi anche in Cina, Taiwan, Hong Kong, Singapore. Certo, il logo che campeggia sulle insegne dei negozi non è beneaugurante verso i clienti.

KHA GAI
La Knorr vende questa zuppa di noodle thailandese, la Tom Kha Gai (a base di pollo con latte di cocco, zenzero e lime) nei mercati del Nord Europa: soprattutto in Germania, Francia, Svizzera, Svezia. Se decidesse di esportarli in Italia, forse potrebbe avere successo… fra gli stitici, vista l’assonanza con “cagai“.

AZZO
Come poteva chiamarsi una raffinata linea di prodotti di bellezza femminili (shampoo, olii, maquillage) di una casa francese? Azzo. Per la precisione: Azzo professionnell (non so se mi spiego). Se decidessero di entrare sul mercato italiano, lo slogan sarebbe bell’e pronto: “Fatti bella. Azzo!”. Da far pronunciare a un toscano.

JETTA
La Volkswagen lanciò la Jetta, una berlina compatta a coda, nel 1979. Non aveva fatto i conti con l’infelice assonanza con la parola “jella” (sfiga) in italiano: un nome, un destino. La vettura, infatti, fu un flop: fu ritirata dal mercato italiano (che non ama quel genere di berline). E a scanso di assonanze negative il nome fu corretto in Vento e poi in Bora.

ZOKOLA
A Poperinge, in Belgio, un produttore di cioccolato ha scelto un nome spiritoso per i propri dolcetti: “Zokola”. Il termine ricalca la pronuncia infantile, in francese, della parola “chocolat”. Se mai volessero esportare le loro praline in Italia, andrebbero avvisati dell’assonanza con zoccola (puttana), una parola sicuramente non adatta ai bambini.

POPO
Il nome di questa confezione di carne trita sembra lo slogan di un vegano: si chiama infatti Popo, il nome infantile della cacca. In realtà è un prodotto finlandese mai sbarcato sul mercato italiano. L’infelice nome deriva dalla fusione delle iniziali di “porsas-porkkana”, ovvero maiale e carote.  Qualcosa di vegano c’è davvero…

BELIN
Come si chiama uno dei più grandi produttori francesi di crackers e patatine fritte? Belin, che in ligure è l’appellativo volgare del pene. Se questa ditta esportasse in Italia susciterebbe l’ilarità dei genovesi. D’altra parte, essendo usato anche come imprecazione, il termine si presterebbe a un facile slogan: “Belin, che snack!”. 

BELINO
Poteva mancare la variante del ligure belin? No, che non poteva. E infatti c’è: in Bulgaria producono una linea di croissant che si chiamano belino. Se si unisce la forma vagamente fallica della brioche, a una campagna ammiccante (ma inconsapevole) come quella raffigurata a lato, il risultato è davvero comico.

 

STRONZO
E’ stata chiamata così una birra artigianale prodotta in Danimarca fino al 2014: ne avevo parlato in un post sui nomi volgari degli alcolici (a cui si aggiunge la birra Minchia, di cui ho parlato qui). Non sappiamo se i titolari del marchio fossero consapevoli del significato della parola, scelta forse per il suo suono espressivo. Sarebbe stata la bevanda perfetta da abbinare alla… Popo di cui sopra.

COLLON
Ha un’infelice assonanza con colon, ma soprattutto con “coglione” (e il corrispettivo veneto “coiòn”) questo dolcetto giapponese: sono lunghi stick di wafer con un ripieno di crema. Se dovessero arrivare in Italia, il cambio di nome sarebbe inevitabile. Per non passare per collon.

 

BOOKEEN
In Francia hanno lanciato un lettore di libri digitali, chiamato Bookeen giocando col termine inglese “book”, libro. Peccato, però, che la pronuncia di questo nome (buchiin) ricordi pericolosamente il termine bucchin, termine napoletano per bocchino (sesso orale). Pensate di chiederlo alla commessa di un negozio: “Vorrei un Bookeen”…

CULINEA
La catena di grande distribuzione Lidl, in Germania ha fatto una bella pensata. Lanciare una linea di piatti pronti (pasta, spuntini, involtini…) chiamandoli con un nome italianeggiante: linea culinaria, ovvero… Culinea. Peccato che l’acronimo diventi ridicolo in italiano. Magari potrebbe andar bene a chi vuol tenere in forma il deretano.

KAGAN
Quando dovevano scegliere il nome per la loro produzione vinicola, una coppia di texani, Emily e Mark Ellenberger, hanno voluto ricordare la loro piccola barca a vela, che si chiamava Kagan. Non immaginavano che un vino con quel nome sarebbe stato tutt’altro che raffinato. E per vini che costano dai 35 agli 80 dollari a bottiglia non è proprio un abbinamento ideale…

MELDA
Arriva dalla Turchia
 una linea di pasta dal nome tutt’altro che invitante: Melda. Li produce una società alimentare di Istanbul, la GTT Foods, che li confeziona anche sotto altri brand (Golda, Afra, Al Fakher, Dona Mia, Bello Grano e Perfetto): nella remota ipotesi che riuscisse a esportarla anche in Italia, il marchio Melda sarebbe decisamente sconsigliabile. Soprattutto per i gestori di un ristorante cinese: “Vuole pasta? Qui abbiamo spaghetti Melda!”.

 

KAGATA
Affidereste la costruzione di un palazzo o di un ponte a una società chiamata Kagata corporation? E’ proprio questo il nome imbarazzante di una blasonata società di ingegneria civile giapponese, con più di un secolo di storia. Il nome svetta, in caratteri occidentali, sul tetto del loro quartier generale a Niigata. Molto fotografato dai turisti italiani e spagnoli.

LADY KAGA
Il marchio imbarazzante indica – dal poco che si può capire con Google Translate – un servizio di guide per turisti. E probabilmente è nato come calco di Lady Gaga. Ma le assonanze intestinali non c’entrano: questo sito, infatti, nasce in omaggio a una città giapponese costiera, che si chiama per l’appunto Kaga. Raccoglie qualche decina di guide turistiche – tutte donne – per tour guidati nella città.

 

CATSY

E’ un cibo per gatti venduto in Svizzera. La marca ha escogitato un gioco di parole basato sull’inglese “cat” (gatto); ma la sua pronuncia, però, in italiano evoca ben altro. “Caro, hai comprato la pappa per il micio?”. “Sì, ‘sti Catsy!”.

STIKEEZ

Tempo fa la catena di supermercati Lidl ha lanciato una linea di pupazzi a ventosa da attaccare al frigorifero: venivano dati in omaggio ogni 15 € di spesa. Sono stati chiamati “Stikeez“, un gioco di parole fra stick (stecco) e kids (bambini). La pronuncia corretta è “stikiz”, ma se letto come è scritto, sembra un’espressione in pugliese: stikeez!

ZOOMER DINO

E’ un piccolo dinosauro-robot per bambini, capace di camminare evitando gli ostacoli. I suoi occhi cambiano colore a seconda dell’umore, e quando si muove emette suoni giurassici. Il suo nome significa, in inglese, “Dino che si impenna“; ma in italiano, se pronunciato nella sua interezza, evoca ben altro.

TOPA

E’ il nome di una marca di carta igienica venduta in Germania. Peccato che il nome, in toscano, evochi l’organo genitale femminile: la topa. A quel punto, tanto valeva usarlo come marchio per assorbenti igienici?

 

QUINOTTO

La quinoa è una pianta erbacea che appartiene alla stessa famiglia degli spinaci e della barbabietola. E’ uno dei cibi sani che vanno per la maggiore. Certo, in Francia non sanno che “quinotto”, vezzeggiativo di quinoa, in italiano ha lo stesso suono di “chinotto“, termine gergale per designare il rapporto orale.

CACAZI

Come si possono chiamare quelle persone che suonano alla tua porta di casa proprio mentre stai dormendo o cenando? In italiano, “cagacazzi”. Forse è per questo che un produttore cinese di campanelli wireless ha deciso di chiamarli “Cacazi“?

LUPILU

La catena di supermercati Lidl colpisce ancora. Ha lanciato una linea di prodotti per bambini, chiamandola – chissà perché – Lupilu. Sembra una trovata di Antonio Albanese: “Cchiù pilu pi’ tutti!”. Nei dialetti meridionali, “pilu” indica il sesso femminile.

 

VINCULUM

Voleva essere un vincolo, cioè un legame forte. Ma questo chip elettronico, Vinculum, prodotto nel Regno Unito, in italiano assume un significato di tutt’altro genere. Diventa, insomma, un componente minaccioso: un hardware molto… hard.

 

MERDA

Quale potrebbe essere il peggior nome per un alimento? “Merda” sarebbe senz’altro in vetta alla classifica. Eppure. In Polonia c’è una ditta avicola che si chiama proprio così: Merda. Sarebbe una pessima idea se decidessero di esportare i loro polli in Italia, Francia o Spagna… Il motivo del nome? L’azienda, come spiega il sito ufficiale, è stata fondata nel 1990 da Florian Merda.

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SESSO

FITTA
Nel 2001 la giapponese Honda produsse una nuova auto compatta, la Fit. Che fu lanciata in Europa con la variante “Fitta”: la casa nipponica, però, scoprì presto che in Svezia, Norvegia e Danimarca quel nome significa “fica”. Da allora l’auto è nota in Europa col più spendibile nome di Honda Jazz.

IPHONE7
Quando, l’anno scorso, Apple ha lanciato l’iPhone7 sul mercato orientale, aveva un enorme problema da risolvere: in cantonese, la lingua parlata a Hong Kong, il numero 7 “sette” (柒) si pronuncia “tsat”, che ha lo stesso suono di un termine gergale che significa “uccello” (nel senso di “pene”). Così, il suo slogan “This is 7” (Questo è il 7) in cantonese diventava “Questo è l’uccello”. I traduttori ne hanno tenuto conto, a costo di rendere lo slogan molto ridondante nella versione in cantonese: “Questo è precisamente iPhone7”, ma questo non li ha messi al riparo dalle ilarità sui social network.
Anche la Samsung era cascata nell’equivoco quando aveva lanciato il “Note 7”: in cantonese suona “bastone del cazzo”.  

PINTO
Negli anni ‘70, la Ford introdusse un nuovo modello, la Pinto, nel mercato brasiliano. La parola designa un cavallo bianco a chiazze di altri colori. Non aveva fatto i conti, però, col fatto che quella parola in portoghese è un termine gergale che significa “cazzo”. Dopo qualche tempo, quando si accorse della gaffe, modificò il nome della vettura in Corcel (cavallo, in portoghese).

LOCUM
Nel 1991, una società immobiliare svedese, la Locum, inviò ai propri clienti internazionali una cartolina con gli auguri di Natale. Per dare un tocco di affettività, trasformò la “O” del proprio nome (scritto minuscolo) in un cuore. Il risultato fu involontariamente comico: in inglese il suo marchio si leggeva “I love cum”, ovvero “Amo lo sperma”.

FOLLADOR
Qui in Italia è uno dei vini più noti e blasonati. Ma in Spagna, il prosecco Follador è visto sotto tutt’altra luce: quel termine, infatti, in spagnolo significa “scopatore” (da follar, scopare). Non sappiamo se questo nome abbia suscitato problemi (oltre che ilarità) nei mercati di lingua spagnola, ma sarebbe difficile cambiare etichetta trattandosi di un cognome (e comunque in Italia i vini con nomi volgari hanno successo, come raccontavo qui).

LACROSSE
Si può chiamare una vettura sportiva di lusso con un nome che richiama l’auto…erotismo? Nel 2004 la General Motors lanciò la Buick LaCrosse: un modello che esiste ancora oggi. Peccato, però, che nel Quebec francofono (Canada) il termine, nel gergo giovanile significa fregatura e anche sega (nel senso di masturbazione).

INSULTI

LUMIA
La Nokia lanciò nel 2011 una gamma di smartphone chiamandoli Lumia, che in finlandese significa “neve”. Non aveva fatto i conti col fatto che quel termine in spagnolo significa puttana. Incredibilmente, però, il nome è stato mantenuto anche quando Nokia è stata acquistata da Microsoft: l’ultimo modello è stato lanciato nel 2016.

PUFFS
I fazzoletti di carta Puffs (soffi, sbuffi) sono stati lanciati negli anni ‘50 negli Usa, dalla multinazionale Procter & Gamble. Ma quando sono stati introdotti nel mercato tedesco, è nato qualche problema: in tedesco, “puff” significa bordello, casa d’appuntamenti. E anche nel mercato inglese non è andata tanto bene, dato che il termine, in slang, significa frocio.

PAJERO
Nel 1982 la giapponese Mitsubishi lanciò un fuoristrada chiamandolo “Pajero”: una vettura che esiste tuttora. Il nome era un omaggio al Leopardus pajeros, ovvero il gatto delle pampas, un felino che vive in America Latina. Ma in spagnolo quella parola significa segaiolo: così, nei mercati di lingua spagnola il fuoristrada è stato ribattezzato Montero (cacciatore montano) e negli Usa Shogun. 

F.U.C.K.S.
Nel 2020 la Subaru ha presentato un nuovo modello con un lungo nome: Forester Ultimate Customized Kit Special la cui sigla è F.U.C.K.S. Peccato che l’acronimo, in inglese, significa “fotte”. Dopo che si sono scatenate le ironie sul Web, la casa giapponese ha dovuto scusarsi.

ESCREMENTI

SCHLITZ
Negli Usa, la birra Schlitz è uno dei marchi più storici nel settore: fu fondata nel 1849 da August Krug e poi acquistata da Joseph Schlitz, da cui prese il nome. Ed è diventato un marchio conosciuto nel mondo. Suo malgrado, però, ha suscitato ilarità in Germania dove il termine significa “fessura”, anche nel senso di vulva.

CALPIS
Calpis è il nome di una bevanda analcolica giapponese, ottenuta dalla fermentazione del latte. Fabbricata fin dal 1919, per gli anglofoni il suo nome (derivato dall’unione di cal, calcio, e pis, burro in sanscrito) non evoca tanto lo yogurt quanto… la piscia di vacca: la sua pronuncia in inglese, infatti, ricorda quella di “cow piss”.

MR2

La Toyota MR2 è un’autovettura sportiva prodotta dalla casa automobilistica giapponese Toyota in 3 serie principali dal 1984 al 2007. La sigla sta per Mid-engine, Rear-wheel Drive, 2 Seats, ovvero  motore centrale, trazione posteriore e due posti. In francese, però, quella sigla ha la stessa pronuncia di “merde” o di “emmerdeur” (rompicoglioni).

GPT
Nel 1988, la General Electric si era unita alla britannica Plessey, creando un gigante delle comunicazioni. In seguito alla fusione, fu creato l’acronimo GPT (Gec Plessey Telecommunications). Peccato che in francese quella sigla si legge “Je pe te”, ovvero “J’ai pété”, “Ho scorreggiato”. Dal 1998 la società ha cambiato nome in “Marconi communications” e infine Telent: non per colpa dell’acronimo, ma perché nel frattempo è stata comprata prima dalla Siemens e poi dalla Ericcson.

KRÄPP
Come poteva chiamarsi una carta igienica in Svezia? Kräpp, che in svedese significa “carta”. Peccato però che in inglese la parola cacca (“crap”) abbia quasi la stessa grafia e pronuncia. Se fosse stata lanciata sul mercato anglosassone, avrebbe fatto una figura… di m.

MIST STICK
Nel 2006, la società statunitense Clairol lanciò un ferro arricciacapelli chiamandolo “Mist stick” (stecco a vapore). Ma in tedesco quel nome suscitò l’ilarità: “mist” significa infatti “merda”. Lo stesso è accaduto a Estée Lauder con un fondotinta chiamato “Country mist”.

PSCHITT!
Questo nome è un’onomatopea: riproduce lo sfiatare del gas quando una bottiglia viene aperta. E infatti designa una bibita gasata – al gusto di limone o di arancia – celebre in Francia, creata dalla Perrier nel 1954 (e ora in mano a Roxane). Anche in questo caso, l’assonanza con l’inglese “shit” (merda) la rende non esportabile nei Paesi anglosassoni.

SHITO
E’ questo l’infelice nome di una salsa piccante tipica del Ghana: nei Paesi anglosassoni, infatti, ricorda terribilmente la parola “shit”, merda. Il nome designa di per sè il pepe, ma la Shito per antonomasia è una salsa di pesce (gamberi, pesce essiccato o crostacei), olio vegetale, zenzero, pomodori, aglio, peperoni e spezie. A un inglese farebbe passare l’appetito. 

 

Ringrazio quanti hanno arricchito questa lunga lista con le loro segnalazioni: Licia Corbolante (Pom’pin, Inkulator, Fessenger, Chiapple); WordLo (Quinotto); Eugenio Tafazzi, Carlo T. (Belin e Belino), Suomitaly (Popo), Lorenzo Tomasin (Kha Gai, Azzo), Rosa Cangiano (Bookeen), WordLo (collon), Olivier (Culinea), Nevio Gentile (Melda), Cinzia (Follador), Paolo Attivissimo e i suoi followers su Twitter, JHack.

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La pubblicità dei “Kagottini”.

Lo confesso: quando ho visto in tv lo spot dei “Kagottini”, da genitore mi è scattato un moto di indignazione.  I “Kagottini” sono l’ultimo gadget per bambini: sono animaletti di plastica che… fanno uscire dal sedere una bolla di gomma slime quando gli schiacci la pancia. Insomma, sono come dice lo spot “animali schifosetti” che fanno la cacca, seppur di plastica.
“Ma come si permettono?” ho pensato. “Sfruttare le parolacce come marketing per vendere un prodotto per bambini… Sono degli irresponsabili: rischiano di insegnare che le parolacce, sotto sotto, si possono dire senza problemi”.
Superato questo momento, ho smesso i panni del genitore apprensivo e indossato quelli del linguista, e ho affrontato la questione a mente fredda. E ho cambiato idea. Confortato anche dal parere di un pedagogo e scrittore al di sopra di ogni sospetto: Gianni Rodari. Secondo il genio della letteratura per bambini, infatti, non solo è lecito scherzare coi nomi della cacca, ma è anche utile, se non addirittura necessario. E tra l’altro Rodari aveva previsto che proprio quest’anno, il 2017, avrebbe segnato una rivoluzione in questo campo…

Libri, pupazzi e spray

I 12 Kagottini (clic per ingrandire)

Prima di parlarne, torniamo per un attimo ai Kagottini. Innanzitutto, ho voluto guardare più da vicino questi pupazzetti, venduti nelle edicole come portachiavi. Li distribuisce una società padovana, la Gameshop, che non produce solo giochini scurrili: vende anche gadget della Disney e della Marvel, da Frozen ai Minion.
I “Kagottini” sono una linea di 12 animali: cagnolini, mucche, ippopotami, pesci, con i nomi riveduti e corretti per alludere ai loro prodotti intestinali: E.S. cremento, Ele pupubomba, Bau Miscappa, Bè Fattagrossa, Clara Tortamolla, Ippo Caccainacqua, e Arturo Siluro. Bisogna ammetterlo: sono spiritosi.

Solo a quel punto, quando mi si è formato il sorriso sulle labbra, mi sono ricordato che io stesso avevo in casa un libro che a mio figlio era piaciuto molto: “La famiglia Caccapuzza”, un racconto divertente su una famiglia di zozzoni. E anche  “La cacca, storia naturale dell’innominabile”, un manualetto divulgativo che racconta l’evoluzione e l’importanza degli escrementi.
Allora mi sono messo a cercare su Google e ho scoperto che non erano affatto casi isolati o di contrabbando: c’era anche il libro “Iacopo Po’ genio della cacca”, geniale nome inventato dall’autore, l’amico Federico Taddia; “L’isola delle cacche” della piscoterapeuta Maria Rita Parsi. E “La canzone della cacca”, di Roberto Piumini, cantata – senza alcuno scandalo – in tantissimi asili d’Italia.
Poi, tornando ai giocattoli, lo “Spray cacca”, che spruzza una schiuma marrone, per fare scherzi realistici. E, sempre in questo campo, il celeberrimo “Cuscino scorreggione” che imita il rumore di un peto (se ci si siede sopra quando è gonfiato).
Insomma, un vero marketing delle deiezioni, se si eccettuano i personaggi Fighetto e Fichetto: il primo è uno dei protagonisti di “Turbo”, un cartoon della Dreamworks, e il secondo è (con Grattachecca) il cartone animato preferito da Bart e Lisa Simpson. Ma in questo caso interviene un altro fenomeno: la trasformazione dell’aggettivo “figo”, in origine volgare, in una parola familiare: ne avevo parlato in questo post.
In tutti questi casi, va subito notato, si tratta di parolacce che hanno meno peso specifico: sono più leggere perché sono usate in modo ironico e affettivo.

Quelle ansie da vasino


Ma qual è il motivo di tanta ossessione per la pupù? La risposta più bella l’ho ritrovata in un libro, “Grammatica della fantasia”, scritto dal più grande autore di storie per bambini, Gianni Rodari.
«Sappiamo quanta importanza abbia nella crescita del bambino la conquista del controllo delle funzioni corporali» scriveva Rodari. «Il passaggio dal pannolino al vasino genera ansia in figli e genitori. E sono minacce se non la fa, premi e trionfi se l’ha fatta. E poi attente ispezioni, discorsi fra adulti sul significato di determinati indizi, consultazioni col medico, telefonate alla zia che sa tutto... Non c’è davvero da stupirsi se nella vita del bambino, per anni, il vasino e ciò che lo riguarda acquistano un rilievo quasi drammatico. E gli adulti, per dire che una cosa non è buona, dicono che “è cacca”.

Gianni Rodari.

Tutte queste ansie l’adulto le stempera nelle barzellette. Ma questo riso al bambino è vietato. E invece è proprio lui ad averne bisogno più dell’adulto. Le storie tabù, che trovo utile raccontare ai bambini. Rappresentano un tentativo di discorrere col bambino di argomenti che lo interessano intimamente… Le sue funzioni corporali e le sue curiosità sessuali. Credo che non solo in famiglia, ma anche nelle scuole si dovrebbe poter parlare di queste cose in piena libertà.
Quanti insegnanti riconosceranno ai loro scolari la libertà di scrivere, se occorre, la parola merda? Le fiabe popolari, in proposito, sono olimpicamente aliene da ogni ipocrisia. E non esitano a far uso del gergo escrementizio. Possiamo far nostro quel riso, non indecente ma liberatorio? Penso onestamente di sì. Niente come il riso può aiutare a sdrammatizzare. C’è un periodo in cui è quasi indispensabile inventare per lui storie di cacca. Io l’ho fatto».

La favola (e la profezia) di Rodari

Ecco come inizia la storia di Rodari sulla cacca: una perla, come tutte le sue altre più celebri.
A Tarquinia si verificano incidenti d’ogni genere: un giorno cade un vaso da un balcone e accoppa mezzo un passante, un altro giorno si stacca la gronda dal tetto e sfonda un’automobile… Sempre nei paraggi di una certa casa… Sempre a una certa ora… Stregoneria? Malocchio?
Una maestra in pensione, dopo attente indagini, riesce a stabilire che i disastri sono in relazione diretta con il vasino di un certo Maurizio, di anni 3 e mesi 5. Alla cui influenza, però, sono da attribuire anche molti lieti eventi, vincite al lotto, ritrovamenti di tesori etruschi, eccetera. In breve: i vari accadimenti – fausti o funesti – dipendono dalla forma, quantità, consistenza e colore della cacca di Maurizio….

(Il seguito lo trovate nel suo libro, un best seller edito da Einaudi).

Ed ecco la conclusione (profetica!!!!) di Rodari: «Se un giorno scriverò questa storia, consegnerò il manoscritto al notaio, con l’ordine di pubblicarlo intorno al 2017, quando il concetto di “cattivo gusto” avrà subìto la necessaria ed inevitabile evoluzione. A quel tempo, sembrerà di cattivo gusto sfruttare il lavoro altrui e mettere in prigione gli innocenti. E i bambini, invece, saranno padroni di inventarsi storie veramente educative anche sulla cacca».
Il libro “Grammatica della fantasia” fu scritto nel 1973: sono passati 44 anni. Siamo davvero pronti a un passo del genere?

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Campagna pubblicitaria della “Birra minchia“.

Si sono diffuse nei libri, nei film, nelle canzoni. Hanno rivoluzionato la politica. E ora le parolacce sbarcano nel mondo del marketing: fra le centinaia di migliaia di loghi registrati all’Ufficio Brevetti e marchi (emanazione del ministero dello Sviluppo economico) ne ho scoperti 60 che contengono parole volgari.
E’ la prima lista dei loghi scurrili depositati negli ultimi 36 anni (la trovate in fondo a questa pagina): dalla “
Birra Minchia” all’abbigliamento “Culo & camicia”, dall’Osteria del porco di Ischia fino alla Festa del cornuto di Rocca Canterano (Roma). Perché le parolacce sono usate non solo come insegna per vestiti, alimenti o gadget, ma anche per attività culturali.
L’ultimo marchio registrato, del resto, ricade proprio in quest’ultimo settore. Riguarda infatti un’onlus di cui avevo parlato in un post tempo fa: l’associazione ambientalista di Rimini “Basta merda in mare”. Ricordate? E’ nata nel 2000 per lottare contro l’inadeguatezza degli impianti fognari di Rimini, che, in caso di maltempo e di affollamento di turisti, scaricavano i liquami nell’Adriatico.
Pochi giorni fa l’Ufficio marchi del ministero ha autorizzato la registrazione del suo nome: se nessuno ne reclamerà il possesso (ipotesi improbabile), il nome brutale dell’associazione godrà delle stesse tutele giuridiche di Google o della Ferrari. Nessuno lo potrà usare senza il loro consenso.

MARCHIO DI M…

La registrazione di “Basta merda in mare” all’Ufficio brevetti e marchi.

Ma arrivare a questo risultato non è stato facile: in prima battuta, infatti, la richiesta di registrazione era stata respinta “perché il segno è contrario al buon costume”. Al buon costume… Ma non è più scandaloso – più di questa parolaccia – che, in Italia, oltre il 20% delle acque fognarie (vedi pag. 4 di questo rapporto) non è depurato, e questi liquami finiscono nel Mediterraneo?
Alla fine, con pazienza e tenacia, i volontari dell’associazione hanno raccontato ai funzionari del ministero le loro lotte ecologiche, fugando i dubbi dei dirigenti grazie alle lettere degli assessori del Comune e della Provincia di Rimini, che testimoniavano l’impegno reale dell’associazione. Che, ricordano i fondatori, ha scelto un nome così ingombrante “per reagire all’indifferenza con cui le istituzioni e la società civile avevano sempre negato il problema” racconta il portavoce dell’associazione, Simone Mariotti. Insomma, se si fossero chiamati “Mare pulito” avrebbero avuto lo stesso programma ma sarebbero rimasti in ombra.
Quel nome, infatti, si è rivelato vincente: i lavori di potenziamento del sistema fognario (154 milioni di €) sono già iniziati: nel 2020 ci saranno zero scarichi a mare. «Ora, grazie alla registrazione del nome, potremo concedere il nostro logo ad altri gruppi di pressione che si stanno formando: abbiamo già filiali in Marche, Puglia, Abruzzo, e abbiamo avviato contatti in Sicilia e in Calabria».
Insomma, come cantava Roberto Benignicon la merda si può fare la rivoluzione” (“L’inno del corpo sciolto”).  

GLI ALTRI LOGHI DI M…

Il sito originario dei “surfisti di merda”: oggi ne usano un altro che ha mantenuto la sigla ISDM.

Ispirato da questa storia, mi sono messo a curiosare nel database dell’Ufficio brevetti e marchi. Pensavo che un marchio così “trashnon avesse precedenti nella storia. E invece mi sbagliavo. Di precedenti, la parolaccia scatologica ne aveva altri 4: “merda” (con la R rovesciata, capirai che pudore) era una marca di abbigliamento, come “De merda veste l’artista”. In Sardegna, inoltre, un gruppo di sportivi goliardi ha depositato il proprio logo, “Surfisti di merda”, e ne ha fatto una linea di abbigliamento, oggi camuffata dalla sigla ISDM: ma se digitate “surfisti di merda” su Google, atterrate sia sul nuovo sito più “fashion” che su quello originario, più esplicito.
Quarto caso, una linea di ombrelli griffata “Tempo di merda”. Geniale. Riassumendo: moda, goliardia, provocazione… non è il ritratto dell’Italia? Il lato trash del “made in Italy“.

QUALCHE STATISTICA

La pubblicità del formaggio “Gran cornuto”.

Sono andato avanti a cercare, digitando parolaccia dopo parolaccia. E di marchi volgari ne ho trovati 60: uno depositato negli anni ‘80, 7 negli anni ‘90, e il resto negli ultimi 16 anni: 32 (il 53,3%) dal 2000 al 2009, e 20 (33,3%) dal 2010 all’anno scorso. Dunque, un fenomeno esploso di recente: ma pur sempre un’eccezione.
Ogni anno, infatti, almeno nell’ultimo lustro, in media vengono depositati 54.000 marchi. Messi insieme, i 60 loghi volgari che ho trovato negli ultimi 36 anni rappresentano quindi un millesimo di quelli registrati in un solo anno.
Dunque, sono
una goccia in un oceano, della quale non sono in grado di quantificare il giro d’affari.
Ma è pur sempre una presenza 
significativa. Del resto, le parolacce che diciamo ogni giorno (lo raccontavo qui) non sono molte: sono 8 ogni mille parole. Ma lasciano il segno: come nella vita quotidiana, anche nel marketing le parolacce sono scorciatoie molto efficaci per attirare l’attenzione. E rispetto ai marchi commerciali, le parolacce non hanno bisogno di campagne martellanti per inciderle nella memoria degli acquirenti: le conosciamo già. E non c’è bisogno di associarle a un testimonial, a un evento, a un spot perché sono già impregnate di emozioni: anzi, sono parole emotive per eccellenza. Sono il linguaggio della trasgressione, della provocazione  e della schiettezza. Ma, occorre ricordarlo, sono parole legate per lo più a emozioni negative: rabbia, disgusto, disprezzo. Perciò se le scurrilità sono usate senza ironia, possono diventare un boomerang: fanno perdere prestigio a chi le dice.

La T-shirt “Figa power” del gruppo Tesmed.

I depositari di questi marchi, tuttavia, non si limitano al sottobosco delle sagre di paese o dei bancarellari di gadget popolari. Nell’elenco ci sono anche 2 multinazionali, l’agenzia matrimoniale francese Adoptaguy che ha registrato il logo “Adotta un figo”, e la società di scommesse inglese Stanley international betting che ha depositato il marchio “Vaffa un goal”. Probabile che anche all’estero esistano loghi scurrili o colloquiali.
Da segnalare anche la presenza di 2 opere artistiche, ovvero uno show tv (“Vecchi bastardi“, condotto da Paolo Ruffini su Italia 1) e un film per il cinema, ancora in lavorazione (“Nonni bastardi“, regia di Carlo Vanzina). Il primo perché è un format tv, il secondo perché potrebbe anche diventare una linea di gadget (T-shirt, adesivi, etc).
E, già che ci siamo, sfatiamo un sospetto che forse vi è passato in mente: le espressioni oscene, ovvero di origine sessuale NON sono la maggioranza. Certo, sono un modo facile e immediato per farsi notare e fare scandalo (come gli spot che fanno leva sul’erotismo), ma nei marchi le oscenità sono la seconda categoria più diffusa (al 21,7%, e ci sono tutte: minchia, cazzo, culo, tette, figa).
La prima, invece, sono gli insulti: 2 loghi su 3 (il 66,7%) sono offese: bastardo, terrone, porco e cornuto. Sembra incredibile che siano nomi di prodotti, vero?

GRIFFE IMPRONUNCIABILI

Porco chi scrive, porco chi legge“: premio per racconti, immagini e video erotici.

Prima di spiegare perché, diciamo di quale tipo di prodotti parliamo: in 1 caso su 3 (il 35%) è abbigliamento, seguito da slogan e titoli (20%), alimenti (16,7%), bevande alcoliche (vini e birre: 13,3%) e oggettistica (8,3%). Le insegne di negozi sono il 5% e le associazioni come “Basta merda in mare”, l’1,7%. Fra queste ho trovato un’onlus di Mariano  Comense, “Porco cane”: una battuta poco riuscita per definire gli “amici del randagio”.
Dicevamo gli insulti. Un logo, registrato nel 2007, è la sagoma di un uomo con un cane al guinzaglio vicino a un escremento: sopra, la scritta “Cane e… bastardo, con preghiera di diffusione”. Sono gli elementi di un adesivo da vendere a chi è stanco delle cacche di cani lasciate dai loro padroni incivili. Ma è un’eccezione: gran parte dei marchi non nascono per offendere qualcuno, quanto per strizzare l’occhio ai clienti (proprio come fanno oggi molti politici).
Non a caso, infatti, l’Ufficio brevetti e marchi ha bocciato i tentativi di registrare lo slogan “Coinquilino di merda” (avrebbero venduto molti adesivi, visto il tasso di litigiosità dei nostri palazzi), la maglia per motocicllisti “Cazzo guardi?”, la “Stronzo beer” (che peraltro esiste in Danimarca, come dicevo qui), l’insegna di ristorante “Al vecchio porco” e il comunque celebre “Vino del cazzo” (ne ho parlato qui: i produttori di vini usano spesso etichette provocatorie).
Parte degli insulti sono stati registrati con scopo culturale, oltre che commerciale. Come il “Festival del teatro bastardo” (Palermo), o il premio letterario (per racconti erotici) “Porco chi scrive, porco chi legge”: in passato ha avuto fra i giurati Milo Manara. Ma in molti casi sono battute goliardiche e autoironiche: la sagra “Weekend con il porco”, la “Festa del cornuto”, i mangimi per suini “Porco mio”.

La birra artigianale “Terrona” di Lecce.

E un fenomeno interessante sono i loghi basati su insulti autoironici: i loghi “Terrone 100%”, “Il dolce del terrone”, “Il terrone fuori sede” sono stati depositati da imprenditori del sud. O il gioco radiofonico “Bastardo quiz”, la griffe “Bbb bastardo dentro”, “Uomo bastardo”, “Tvb Ti voglio bastardo”, “Osteria del porco” (sottotitolo: “I piaceri della carne”). “Porco”, detto per inciso, è la parolaccia più depositata. Spero che anche il concorso di bellezza maschile “Mister figo” sia da catalogare fra gli insulti autoironici.
E in questo scenario poteva mancare l’intramontabile, onnipresente, classico “vaffanculo”? In realtà manca: c’è solo in modo indiretto con l’espressione “Vaffa” per una linea di gioielli e abbigliamento . I tentativi di registrare un’intera linea di abbigliamento, oggettistica e alimentari sono falliti due volte, nel 2002 e nel 2007, a cui si aggiunge l’ultimo tentativo, nel 2015, di registrare l’espressione “Fan culo” (mentre l’assonanza inglese “Fun cool” è stata approvata).

E’ l’ora del… “vaffanculo“.

Ciò non ha impedito a uno psichiatra napoletano, Claudio Ciaravolo, di aprire il sito vaffanculo.com e di lanciare una serie infinita di gadget, oltre alle prevedibili T-shirt: scarpe, cintura, borsa, cravatte, anelli, orecchini, ombrello, mutande, orologio e zaino. Tutti griffati “vaffanculo”.
«L’idea è nata per provocazione culturale» dice. «Le marche non sono altro che nomi vuoti che spesso coprono vestiti di scarso valore, ormai uno vale l’altro. E allora? Vaffanculo!». 
Ciaravolo conta di farne un business internazionale: «All’estero conoscono 3 parole in italiano: ciao, pizza, vaffanculo. Quindi c’è mercato». Ma se il “vaffa” è una parola così famosa ed espressiva, non è meglio che resti un patrimonio di tutti? Vedremo come andrà a finire.

Intanto, prima di presentarvi la lista dei loghi scurrili, uno sguardo al futuro: fra i marchi richiesti l’anno scorso, e in attesa di decisioni, ci sono la grappa trentina “Merda dell’orso”, la scritta “Merda” su quadrifoglio, la linea di abbigliamento (per donne ferite) “Il mio ex ragazzo è un bastardo” e la linea di oggettistica (rigorosamente in legno) “Figa di legno”. «Da intendersi in tono faceto e non offensivo» precisa il richiedente, un milanese.

Qui sotto, la lista dei 60 loghi volgari d’Italia: basta cliccare sul “+” per aprire la finestra e scoprire tutti i dettagli. Buon divertimento.

INSULTI

BASTARDO

Bastardo quiz”: gioco di una radio romagnola (1999)
Bastardo”: linea di vini frizzanti (2002). Ci sono anche: bianco, nerello, chiaro e rosso del bastardo
tvb ti voglio bastardo”: abbigliamento (2003)
bbb bastardo dentro”: vari prodotti (2004)
uomo bastardo“: abbigliamento, 2005
pure bastardo”: borse (2006)
Cane e. . . bastardo con preghiera di diffusione”: adesivo. Sotto la scritta, la sagoma di un uomo con un cane al guinzaglio ed un escremento (2007)
il bastardone”: vini (2007)
Bastardo di vacca burlina”: carni (2008)
Osteria del bastardo” (2009)
Spirito bastardo”: vini (2009)
Tb festival teatro bastardo”: Palermo (2015)
Bastardi”: occhiali, orologi, abbigliamento, scarpe (1997)
Bastardi & pignoli”: abbigliamento, scarpe, cappelleria (2003)
Bastardi e basta!”: abbigliamento, scarpe, giochi, adesivi (2009)
Piccoli bastardi”,con l’illustrazione di un teschio stilizzato con cresta stilizzata e ossa incrociate: abbigliamento, cartoleria (2011)
Vecchi bastardi”: show tv  (Endemol Italia, 2014)
Nonni bastardi”: film (in produzione per Filmauro con regia di Carlo Vanzina, 2016)

CORNUTO

Festa del cornuto”: corne fuoriuscenti da una torre sormontata da scritta stilizzata festa del cornuto alla base scritta Rocca Canterano (Roma, 1997)
Gran cornuto”: formaggio di capra da tavola (Roma, 2001)
Cornuto”: alimentari in genere (2006)


TERRONE

Terrone 100%“: T-shirt (Otranto, 2006)
Terrone”: bevande alcoliche (Barletta, 2008)
Dolce del terrone”: pasticceria e gelateria (Lecce, 2010)
Il terrone fuori sede”, con cartina del sud Italia (2014)
malarazza 100% terrone”: abbigliamento (Sicilia, 2015)
gnostro – 100% terrone”: abbigliamento, gioielli (Avellino, 2016)
grappa terrona Caffo” (Calabria, 2005)
Birra terrona” (Lecce 2013)
salsiccia terrona” (Lecce, 2014)


PORCO

Porco cane”: accessori per cani (1989)
porco cane”: onlus, amici del randagio Mariano Comense (CO), 2007
porco chi scrive porco chi legge” con un’immagine raffigurante un satiro con penna d’oca in mano che, seduto, scrive ed una giovane donna in piedi che legge quanto lo stesso satiro sta scrivendo: libri, premio letterario per racconti erotici (1992)
weekend col porco”: sagra (Padova, 1993)
porco mio”: mangimi per animali (2005)
porco mundi”, con immagine stilizzata di un maialino dai colori rosa nero rosso bianco e verde che sorregge con le mani un piatto di colore bianco bordato di nero sul quale si trova del cibo rosso nero e bianco ed un bicchiere a calice di colore nero celeste e rosa: ristorazione, 2009
porco mio di Calabria”: carne (2008)
porco brado”: carni (Toscana, 2012)
osteria del porco”, sottotitolo: “i piaceri della carne. Ristorazione ( Ischia, 2013)
porco pollo” braceria tipica salentina (2014)

 

OSCENITA'

MINCHIA

birra minchia” (Sicilia, 2015). Dal 2016 c’è anche una nuova, “futtitinni” (fottitene)

 

CAZZO

cazzetti”: pasta (Napoli, 2007): ne avevo parlato qui

 

CULO

Culo & camicia”:  insegna di un negozio di Roma, ma anche linea di  abbigliamento a Napoli (1995)
Faccia di culo”, con un disegno di regina ammiccante con corona: abbigliamento (2004)
coscia e culo”: abbigliamento (2007)

 

FIGA

Figa power”:  linea di abbigliamento del gruppo Tesmed (2014)
Birra della fighetta” (Bra, 2007)
mister Figo”: concorso di bellezza maschile (Caserta, 2001)
Figo”, abbigliamento (2004)
adotta un figo”: agenzie matrimoniali (2012)
figo”: gioielli (2012)

 

TETTE

Tette per un tetto”: abbigliamento (2009)
monsieur tette”: il marchio consiste nella figura composta da un cilindro che sovrasta due seni ed un paio di baffi (2015)

 

SCATOLOGIA (ESCREMENTI)

MERDA

dicitura ” merda ” di fantasia ove la lettera ” r ” appare rovesciata: abbigliamento (2010)
Tempo di merda”: linea di ombrelli (2009)
Surfisti di merda”: abbigliamento (Sardegna, 2009)
De merda Veste l’artista”: abbigliamento (2011)

 

MALEDIZIONI

VAFFANCULO

vaffa un goal”: concorsi pronostici ed elaborazione della relativa sistemistica (1999)
vaffa”: gioielli, cuoio, abbigliamento (depositario: la società: Vaffanculo SRrl, Napoli 2007)
fun cool”: abbigliamento (2006)


Di questo articolo hanno parlato AdnKronos, MeteoWebIl secolo d’Italia.

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Pisello, patata, marroni e meloni: il lato vegano del sesso https://www.parolacce.org/2016/10/16/metafore-vegetali-erotismo/ https://www.parolacce.org/2016/10/16/metafore-vegetali-erotismo/#respond Sat, 15 Oct 2016 22:10:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10995 Pisello, patata, fava, marroni, pere, cocomeri, meloni… Non è un innocente elenco della spesa dall’ortolano: è la maliziosa lista delle metafore vegetali sul sesso. In italiano sono oltre 100 i termini (103 per l’esattezza) che usano frutta e verdura per… Continue Reading

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vegetaliPisello, patata, fava, marroni, pere, cocomeri, meloni… Non è un innocente elenco della spesa dall’ortolano: è la maliziosa lista delle metafore vegetali sul sesso.
In italiano sono oltre 100 i termini (103 per l’esattezza) che usano frutta e verdura per alludere ai genitali maschili e femminili, al seno o ai gluteiUna schiera notevole, anche se rappresenta una piccola minoranza di tutte le metafore sul sesso: le parolacce vegane sono solo il 3% del totale (come raccontavo qui). Per i nomi del sesso, infatti, le metafore più numerose sono quelle ispirate agli oggetti: mazza, manico, piffero, chitarra, scodella, patacca etc.
Tuttavia i vegetali non sono una minoranza silenziosa. Molte di queste immagini, infatti, sono fra i nomi più usati per riferirsi al sesso: pisello, fava e cappella per il pene; marroni per i testicoli; pere e meloni per il seno; patata e fica (per quanto tabù) per la vulva. E’ singolare che i piaceri della carne siano espressi da immagini vegane
Come nell’immagine qui sopra, usata per la campagna pubblicitaria  della “Guide Restos Voir 2014”, una guida gastronomica canadese.

Da Caravaggio agli emoji

lapatatattira_rutacanotta-rossa

Maria Teresa Ruta nella pubblicità maliziosa delle patate.

L’argomento merita di essere approfondito anche per altre ragioni. I vegetali, pur essendo “nature morte”, hanno avuto un importante ruolo simbolico nella letteratura e nell’arte perché sono carichi di significati nel nostro immaginario: persino un genio come Caravaggio ha nascosto messaggi erotici sotto le spoglie di zucche, fichi, melograni e pesche, come racconto più sotto.
E questo avviene non solo in Italia (che è stata antesignana in questo campo), ma in quasi tutte le culture.
E oggi i vegetali sexy tornano in auge negli emoji, dove pesca e melanzana svolgono i ruoli di sesso femminile e maschile nelle chat e nei social network (Whatsapp, Twitter, Facebook, etc). Anche su questo tornerò più avanti.

Per raccontare la loro lunga storia, conviene innanzitutto partire dall’elenco completo di queste metafore, sia in italiano (la mia fonte è il “Dizionario storico del lessico erotico” di Valter Boggione e Giovanni Casalegno) che in altre lingue (se me ne sono sfuggite, vi chiedo aiuto: potete segnalarle nei commenti). Ho escluso da questi elenchi i nomi di alberi, piante e fiori, perché pur appartenendo al regno vegetale non sono in genere commestibili.
Per ogni zona erogena ho inserito un link un articolo dedicato, per chi vuole approfondire.

Pene (58)

italiano altre lingue
agresto, baccello, banana, brugnolo, cappella, cappero, cardo, cardone, carciofo, carota, cece, cetriolo, cicerchia, civaia, cucuzzola, ciliegia, cipolla, corniola,fagiolo, fava, favagello, fungo, fico, ghianda, glande, grano, grappolo, lupino, macerone, mandorla, martignone, melone, oliva, nespola, pannocchia, pastinaca, pesca, pigna, pisello, porro, pinocchio, popone, picio, pinca, pinco, radicchio, radice, ramolaccio, rapano, ravano, rapa, ravanello, scaffo, sorbo, tartufo, torsolo, tubero, veccia Portoghese: banana, mandioca  (manioca), nabo (rapa)

Testicoli (10)

italiano altre lingue
fagioli, ghiande, granelli, granelli, limoni, mandorle, marroni, prugne, pannocchie, verones (castagne cotte), zucche Inglese: cherries (ciliegie), grapes (uva), kiwi, nuts (nocciole)

Vulva (13)

italiano altre lingue
baccello, castagna, fica, fragola, frutto, mandorla, noce, oliva, pomo, prugna, primizia, riccio, zucca Francese: abricot (albicocca) prune (prugna), figue (fico)

Per il clitoride: cerise (ciliegia), framboise (fragola)
Portoghese: maçã (mela)

Seno (10)

italiano altre lingue
cocomero, fragola, frutto,mele, meloni, meloncini, more, pere, pomi, rapuccio  –

Sedere (12)

italiano altre lingue
anguria, cocomero, finocchio, grisomele, mela, melone, melangola, melarancio, meleto, melone, pesca, pomo  –

Letteratura e modi di dire

omdagen

Campagna svedese per promuovere il consumo quotidiano di vegetali.

Molte di queste metafore, dicevo, hanno avuto una notevole fortuna non solo nella lingua parlata ma anche in letteratura. In particolare 4 frutti:

1) il fico: è simbolo di abbondanza, e di fecondità perché contiene un latteOltre ad aver ispirato il termine fica, ha dato origine a un gestaccio “fare le fiche”: mimare l’atto sessuale infilando il pollice (fallo) fra indice e medio (la fica). Un gesto di disprezzo e di sopraffazione.

2) le pesche: per molto tempo, soprattutto fra 1500 e 1600, sono state una metafora molto usata per alludere al sedere. E proprio in questa prospettiva va interpretata un’ode satirica dello scrittore toscano, Francesco Berni, che nel 1521 scrisse “In lode delle pesche”, dove la pesca è metafora dei glutei. “O frutto sopra gli altri benedetto, buono inanzi, nel mezzo e dietro pasto; ma inanzi buono e di dietro perfetto!”. Avete capito bene: Berni allude proprio alla sodomia attiva e passiva, tanto che scrive pure: “io ho sempre avuto fantasia (…) che sopra gli altri avventurato [fortunato] sia, colui che può le pèsche dare [farsi sodomizzare] e tòrre [sodomizzare].
E Berni non manca di sottolineare quanto i preti dell’epoca fossero ghiotti di… quel frutto: Le pesche eran già cibo da prelati, ma, perché ad ogniun piace i buon bocconi, voglion oggi le pesche insino a i frati,  che fanno l’astinenzie e l’orazioni;

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Il doppio senso dei meloni nella campagna del canale Fx.

3) la mela: è simbolo di frutto desiderato, di premio, e anche del peccato. Anche se, bisogna ricordarlo, l’episodio biblico di Adamo ed Eva nella Bibbia non parla di mela, bensì genericamente di “frutto”; il melo è stato inserito nei commenti sacri secoli dopo, per la sua assonanza col male (malum).

4) il melograno: avendo molti semi è simbolo di fecondità, di discendenza numerosa; e ha un succo ricco e gustoso.

In generale, infatti, frutta e verdura hanno un’intima attinenza col sesso innanzitutto per la loro forma, che in molti casi ricorda quella degli organi sessuali. In realtà è una pareidolia, ovvero una sorta di illusione ottica: siamo noi a vedere forme sessuali in oggetti che di sessuale non hanno nulla. La malizia sta nell’occhio di chi guarda.
Pisello, fica, cetriolo, banana, patata evocano proprio le fattezze anatomiche dei genitali. Tanto che un proverbio non troppo allusivo dice: “Gira e rigira, il cetriolo va in culo all’ortolano” (chi vuol fare del bene finisce per essere danneggiato).

Simboli universali

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La pubblicità sexy del ketchup piccante Heinz.

Ed è per questo che i vegetali sono simboli universali di erotismo: non hanno bisogno di essere codificati (tradotti) in altre lingue, perché evocano direttamente il sesso, sotto le innocenti spoglie di vegetali. Ma non è solo questo il loro legame con l’erotismo: frutta e verdura sono simbolo di abbondanza, di fecondità, e anche simbolo di progenitura perché contengono i semi.
In più sono cibi, e il cibo è intimamente legato al sesso e all’oralità (il piacere di succhiare)… tanto che scopare in spagnolo si dice anche comer e in portoghese papar. Non a caso, diversi cibi hanno nomi ispirati al sesso, come raccontavo in questo post. In più, frutta e verdura erano i cibi dei poveri (nell’antichità la carne era lo status symbol di ricchezza) e anche questo spiega la loro diffusione nel linguaggio popolare.

NELL’ARTE

Con tutta questa ricchezza, era inevitabile che i vegetali entrassero nell’arte: nelle immagini, così come nel discorso parlato, possono contrabbandare temi scabrosi sotto le innocenti fattezze della natura. Prima ancora che Giuseppe Arcimboldo facesse le “teste composte”, ovvero i ritratti umani ottenuti combinando cibi, nel 1517 Giovanni Da Udine, aveva inserito – in una cornice degli affreschi di Raffaello su Cupido e Psiche – una zucca fallica, con due melanzane come testicoli, che penetra un fico (v. gallery qui sotto).
Un gioco che nel 1585
Niccolò Frangipane continuò in modo ben più diretto nella “Allegoria dell’autunno”: qui un satiro infila il dito della mano sinistra in un melone, mentre con la destra stringe una fallica salsiccia vicino ad alcune ciliegie. In pratica, il satiro rivela allo spettatore che cosa sta sognando il giovanetto al suo fianco. (v. gallery qui sotto).
Il terzo esempio è un quadro di Caravaggio (1601): “Natura morta con frutta”. Fichi, zucche e melograni aperti sono un’allusione a una femminilità abbondante e disponibile, su cui campeggia una zucca che sembra un pene eretto. E non mancano le pesche, che alludono invece ai glutei (v. gallery qui sotto).
Insomma, la natura morta a sfondo erotico è un’invenzione del Rinascimento italiano, come ha scritto in un interessante saggio lo  storico dell’arte statunitense John Varriano.

vaginaNon stupisce, con questi precedenti, che anche la pubblicità abbia usato questi stratagemmi per alludere al sesso in diverse campagne pubblicitarie, come potete vedere nelle foto di questo articolo.
Ma oggi c’è un nuovo modo di usare i vegetali per alludere al sesso: la “computer mediated communication”, ovvero lo stile di comunicazione che usiamo nell’informatica. In parole povere, gli emoji, le icone che usiamo sulle chat e i social network (ne ho parlato anche qui).
Quando sono state introdotte nel 2010, anche se c’era l’icona della banana, ha preso piede come simbolo sexy la melanzana. Perché? Perché negli Usa, Paese puritano, era un’icona ancora neutra, che poteva contrabbandare intenzioni maliziose senza destare sospetti, insieme alla pesca (per alludere alla vulva o al sedere: vedi immagine). Insomma, siamo ancora alla frutta…

Dedico questo post a Dario Fo, il primo giullare-Nobel ad aver pubblicato un libro sulle parolacce.

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