Parolacce e sesso | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Thu, 14 Nov 2024 22:51:08 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Parolacce e sesso | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Da anghilla a zinforgna: i nomi del sesso nei dialetti https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/ https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/#comments Mon, 11 Nov 2024 09:15:15 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21039 Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che… Continue Reading

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Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque, politicante che promette più “pilu” (vulva) per tutti.

Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che designano gli organi genitali sono un universo in buona parte inesplorato. Perché è così ampio e complesso da dare le vertigini. Lo dico  con cognizione di causa, perché ho compilato il primo studio ragionato di queste espressioni in tutti i dialetti italiani. Ho trovato 565 termini, e il conteggio è parziale, dato che molti dialetti non hanno una grande documentazione sul Web.

In un precedente studio avevo scoperto che in italiano i sinonimi degli organi sessuali sono più di 1.300 (1.339). Questa ricerca sui dialetti spiega il perché: il nostro lessico osceno è tanto ricco perché è alimentato dai dialetti. Sono in tutto una trentina, senza contare le lingue non romanze come gli idiomi albanesi, germanici, greci, slavi, romanì. Dunque, la lunga storia di dominazioni straniere e feudi che hanno frammentato l’Italia ha fatto sì che il nostro patrimonio linguistico sia fra i più ricchi e vari d’Europa.

Questo studio, come tutte le primizie, nasce pieno di imperfezioni e lacune perché le informazioni sui dialetti sono disomogenee e frammentarie: chiedo ai lettori di segnalare nei commenti le voci mancanti o inesatte (grazie!).

Un linguaggio emotivo (anche nei saluti)

Copertina del giornale satirico livornese “Il Vernacoliere”.

E’ un viaggio difficile ma affascinante, perché i dialetti hanno una grande ricchezza espressiva. Basti ricordare i celebri sonetti che il poeta romanesco Gioachino Belli (1832) dedicò ai sinonimi dialettali del pene (“Er padre de li santi”) e della vulva (“La madre de le sante”). Come diceva Andrea Camilleri (lo ricordavo in questo articolo), il dialetto esprime l’essenza, la natura profonda delle cose, ed è linguaggio emotivo per eccellenza essendo per lo più orale e a diffusione familiare.
Basta scorrere, più sotto, la lista delle espressioni per il pene e la vulva. Da notare un fatto curioso: in diversi dialetti, i generi dei sessi sono invertiti. Ovvero, il sesso maschile è indicato con una parola di genere femminile (bighe, minchia, ciolla, pillona, mazza, marra, cella) e quello femminile da parole di genere maschile (cunnu, sticchiu, piccione, palummu, pilu). Non c’è una motivazione particolare dietro questo: si tratta di convenzioni arbitrarie (lo raccontavo in questo articolo), ma resta un fatto degno di nota.

Meme sul saluto friulano che significa “Come sta il pene?” (Average Furlan Guy).

E in questo mondo, in buona parte ancora inesplorato nella sua interezza, ci sono espressioni davvero straordinarie. In friulano, per dire “Come va?” “Abbastanza bene”, si usano queste espressioni: “Cemût le bighe?” “Cjalde ma flape”, ovvero, letteralmente: “Come sta l’uccello?” “Caldo ma moscio”. Eccezionale. Ha l’aria d’essere un modo di dire antico, ma non ho trovato una documentazione storica al riguardo.
In compenso, c’è questo ironico video-corso di friulano qui sotto, che spiega come pronunciare correttamente l’espressione (ma senza rivelarne il significato letterale):

Nella goliardica pagina Facebook di Average Furlan Guy, c’è una chat che mostra alcune risposte alternative alla domanda “Cemût le bighe?”. Eccole: “drete e mai strache” (dritte e mai stanche). Oppure “Iè dure vele flape ma iè plui dure vele dure e no savè dulà metile!” (E’ dura averlo floscio, ma è più dura averlo duro e non saper dove metterlo!”).

DIALETTI, LINGUE E SISTEMI

I più ricchi: sardo, veneto e napoletano

La focacceria “Bischero” a Ginevra.

Ho trovato in tutto 565 termini (ho conteggiato come uno tutte le varianti di uno stesso lemma). Quelli che si riferiscono alla vulva sono risultati più numerosi (304, 53,8%), rispetto a quelli per il pene (261, 46,2%). Un dato di segno opposto rispetto a quanto avevo riscontrato in italiano: nella nostra lingua prevalgono infatti i termini che si riferiscono alla sfera sessuale maschile (744 contro i 595 per la vulva). In ambo i casi, uno scenario che ritengo frutto del caso: la ricchezza semantica di una lingua dipende da fattori letterari, sociali, politici che variano nel tempo e nei luoghi.
In base a quanto ho riscontrato, i dialetti meridionali risultano più ricchi delle altre aree, soprattutto per il sesso femminile: il 43,5% dei lemmi proviene da dialetti del Sud, seguito da quelli settentrionali (36,1%). Ma questi risultati vanno presi con le pinze: la quantità di lemmi che ho esaminato, seppur ragguardevole, non è la totalità di quelli esistenti. Perché ho consultato solo i dizionari e le raccolte linguistiche presenti sul Web: per censire in modo completo tutti i termini dialettali osceni, avrei dovuto consultare anche i dizionari cartacei. Ma la ricerca sarebbe durata mesi se non anni.

Questo può spiegare perché il sardo risulta il dialetto con il maggior numero di lemmi: 96. Il dizionario sardo online (trovate le fonti in fondo all’articolo) è uno dei più completi, e in più il sardo è una lingua molto ricca perché presenta 5 varianti fondamentali (nuorese, gallurese, sassarese, logudorese, campidanese). Dopo il sardo segue il veneto (50 lemmi), il napoletano (48), l’emiliano-romagnolo (40), il calabrese (35), il piemontese e il pugliese (33).

Questi risultati (al netto dei limiti di cui parlo in uno dei riquadri finali) sono abbastanza sovrapponibili  al numero di lemmi censiti nei principali dizionari dialettali: il sardo è il più ricco (120mila lemmi), seguito da napoletano (80mila), siciliano e piemontese (50mila),  veneto e friulano (40mila), calabrese e milanese (30mila), bolognese e pugliese (20mila).

Le radici: latino, ma anche greco e spagnolo

Ristorante “La gnocca” alle Canarie (Gran Canaria).

Nei termini dialettali che si riferiscono agli organi sessuali si vede un’interessante stratificazione linguistica: dal latino mentula derivano il siciliano minchia, il salentino menchia, il sardo minca; e dal latino cunnus derivano il pugliese cianno/ciunno, il lucano ciunn, il calabro e il siciliano cunnu. In diverse regioni l’antico termine latino “natura” designa il sesso femminile. Notevole il termine purchiacca (diffuso in Campania, Basilicata e Molise) che arriva direttamente dal greco: pyr (fuoco) + koliòs (fodero), fodero infuocato.

Dell’antico termine toscano “potta” (vulva), molto usato nella letteratura passata, è rimasta traccia solo nel bergamasco (pota).

Diversi i termini importati da lingue straniere: il piemontese baghëttë (pene) arriva dal francese baguette, il pugliese pica/pinga (pene) dallo spagnolo pinga (con lo stesso significato), il meridionale ciolla può derivare dallo spagnolo chulla (braciola, pene). E gli esempi potrebbero continuare.
L’area di diffusione di questi termini anatomici sessuali è rimasta per lo più limitata ai territori d’origine: difficile che un friulano conosca il significato di “ciolla” o che un sardo sappia cos’è la pipa in umbro. Tuttavia alcuni termini dialettali si sono diffusi in tutta Italia: per il pene, i toscani bischero e fava, i romaneschi ceppa e mazza, il siciliano minchia. Per la vulva, il veneto mona, l’emiliano patacca/patonza e gnocca, il toscano topa, il romanesco fregna e sorca, il napoletano fessa. Il motivo? Per lo più il cinema e la tv: diversi attori hanno reso popolari i termini dialettali (pensiamo a Tomas Milian e Carlo Verdone per il romanesco, solo per fare qualche nome). Senza dimenticare il celebre sketch di Roberto Benigni, che ha citato i nomi dialettali dei genitali quando fu ospite nel 1991 di Raffaella Carrà a “Fantastico”: un numero che è passato alla storia della tv.

I nomi del pene…

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 2
Piemonte 11
Liguria 17
Lombardia 19
Trentino Alto Adige 2
Veneto 27
Friuli Venezia Giulia 4
Emilia Romagna 18 Nord

100

Toscana 10
Umbria 10
Marche 5
Lazio 9
Abruzzo 10
Molise 5 Centro

49

Campania 18
Puglia 7
Basilicata 1
Calabria 20
Sicilia 10
Sardegna 56 Sud

112

Totale 261

La birra siciliana “Minchia”.

I lemmi che designano il pene, come del resto in italiano, attingono a metafore descrittive di vari tipi. Fra le più salienti, quelle di cibi (frutta e verdura: bananna, fava, tega, codeghin, pizza), di attrezzi o oggetti (arnes, cannello, manego, mazza, manubrio, pindolo, pipo, nerchia, manico, batocchie, sperru, attretzu, ferramenta), di animali (bissa, salmon, pesce, sardela, bissa, usel, canarin) e anche di persone (mastrantoni, frat’ma Giorg).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

membrou [ dal latino membrum, organo, parte del corpo ] 

subiet

PIEMONTE

picio [ da piccolo, bambino ]

baghëttë, bidulu (Vercelli), biga (Cesana), bilò (Alessandria), ciula, intré, penetré, pénis, puvrun, vèrzhä/vérzhë (Salbertrand)

LIGURIA

 belin/belan [ da “bello”, inteso come giocattolo]

anghilla, bananna, bega, canäio, cannello, cannetta, carottua, casso, cicciollo, ciolla, manego, manubrio, mostaciollo, pigneu, pinfao,  pistolla

LOMBARDIA

bìgol/bigul/bigolo [dal greco-latino bombyx ‘verme’ passando per il diminutivo *bombiculus ‘vermicello’ ‘piccolo verme ] usèl/osel

arnes, belen/belinon (Cremona),  bigatt, bilì (Brescia), birlu, bissa, blin (Mantova), bora, ciula, liben, manübri, manach/manech, mestér (Bergamo), nèstula/nestila (Stazzona/Valtellina), picio, pirla [ ha lo stesso etimo di birillo], pistola  

TRENTINO ALTO ADIGE

bigol

pindolo

VENETO

tega indica il guscio o baccello di fagioli, piselli e fave oseo/oselo (uccello)

barbastreio [ pipistrello],batocio, bega/ begolina/ baolina, beline (Verona), bicio, bigolo, bissa/bisso [biscia], brocia, canarin, canna, cicio, cuco, coa/coda (Belluno), codeghin, manego, merlo, mugoloto, pampano/pimpanoto (Verona), pindol (Belluno), renga (Verona), salado, salmon, sardela, ton, versor

FRIULI VENEZIA GIULIA

bighe/bigul

bimbin (Trieste), cicinut, penis, vet

EMILIA ROMAGNA

üsél (uccello)

barandël (romagnolo), batöć (romagnolo), bĕscar (romagnolo), bligo, birèl/birello, bìgul, bilèn (Parma) / blèin (Reggio Emilia)/ blin (Mirandola)/bilìn (Modena), blig/blëg (romagnolo), càpar (romagnolo), caz, mãnfar (romagnolo), mĕmbar (romagnolo), óca; pisarél, pistulén [di  bambino],  sćifulöt (romangolo), ṣvarẓèl (romagnolo)

TOSCANA

bischero [ legnetto affusolato per tirare le corde degli strumenti musicali o per tappare l’otre], fava

billo, cinci, creapopoli, dami, fava (Garfagnana), lilli/lillo, manfano, pirolo (Siena)

UMBRIA

pipo [da pipa, cannello, oggetto affusolato; o da pipino, piccolo pene]

biscione, cazzo, cello, fava, mitulo, nerchia, picchio, pistello/pistolo, ucello

MARCHE

cazzu

pipin, pistulin, tanganello, uccellu

LAZIO

cazzo, ceppa [pezzo di legno cilindrico], mazza [grosso bastone]

cicio, manico, nerchia [bastone nodoso], pennarolo, pirolo, uscello 

ABRUZZO

 cazzu/cuazze, cella [da uccello]

battocchie, ciufello, ciula, mazz/mazze, nerchije, picc/picch/picco, sterdàzz, vàrr/varre

MOLISE

cazz

margiale, mazza, pica, pizza [ blocco di pasta da infilare nel forno ]

CAMPANIA

cazz

ass ‘e bastone/’e mazz, babbà, battaglio/vattaglio (Avellino), capitone, cicella, cìqquë, cumpàgne mije (“il mio amico”), mazzarello, fratiello, fravaglio, fravolo, ‘ngrì /’ngrillo, maccarone, mazza, pepe (Avellino), pesce, saciccio / sauciccio [ salsiccia]

PUGLIA

ciola [deriva da ciull (bambino, fanciullo) o dallo spagnolo chulla, braciola (a indicare il pene)]

acid/acidduzz/ciddone (Foggia, Andria: derivati da aciddu, uccello),  cicilla, ciucce, fratema (Salento), pica (Salento)/pinga (Trani e Foggia), pizza (Taranto), smargiale (Salento)

BASILICATA

cazz/quazz

CALABRIA

ciolla (Reggio Calabria e Ragusa), marra (zappa)

bacara, battagliùn, cioncia (Crotone); cagnu (Amantea)/cagnolu (Catanzaro); cazzu, frat’ma Giorg’ [“mio fratello Giorgio”], lerpa, mazza, menchia (Salento), micciu [asino/stoppino della candela], nervu, piciollu, pizza (Reggio Calabria); pilloscia, piscia/piasciareddra, sperru [coltellaccio], spoderu (Reggio Calabria: pesce), vronca

SICILIA

minchia/mincia (dalla radice del latino mingere, urinare; o da menta, per la somiglianza tra l’antera del fiore della menta con il glande) , ciolla/ciota

acidduzza/cidduzza [uccellino] bagara, cedda,  ciaramedda/ciaramita, cicia, marruggio, piciolla, zonna (Modica)

SARDEGNA

catzu/gazzu, minca/mincia/mincra (Sassari)/mincra (Nuoro),  pillolla/pillona/pilloni (Cagliari)

algumentu, arma , arreiga, arretranga, attretzu , baddonu , bicchiriola/ bicchirilloi, billella, bodale, bollulla , cedda , chicchia/ chicchiriola , cibudda, cozona , ddodda, dorriminzola, dòrrola, epperi, ferramenta, ghignu, grunilla, leonzedda, longu, maccacca , mastrantoni , mazzolu , minninna , mindrònguru , misèria/ miseresa, moricajola/muricajola/muricadorja, murena, niedda, paldal (Alghero), penderitzone/penducu/penduleu, picca/picchiriola, pilledda, piógliura, piola, pìscia/pisciadore/pissetta/piscitta/pissitta/pissittu , pitranca,  pitza/pizona, pippia, piscitta, puzone/a, secacresche, sira/tzira/ tzirogna, tirile/zirile, trastu, trìsina, tuppajola, tùtturu/tuttureddu, vicu, zubbu

…E i nomi della vulva

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 3
Piemonte 22
Liguria 5
Lombardia 12
Trentino Alto Adige 11
Veneto 23
Friuli Venezia Giulia 6
Emilia Romagna 22 Nord 104
Toscana 15
Umbria 10
Marche 11
Lazio 10
Abruzzo 13
Molise 7 Centro

66

Campania 30
Basilicata 11
Puglia 26
Calabria 15
Sicilia 12
Sardegna 40 Sud

134

Totale 304

La birra pugliese “Ciunna” (vulva).

I lemmi che designano la vulva utilizzano spesso metafore descrittive che alludono al pelo (barbisa, boschetto, pilu, vello), o alla cavità (buso, canestro, fessa, partù, spacchiu) o al fiore (petalussa). Altre metafore attingono a cibi (brogna, cozza, michetta, fidec, fritula, patata, piricoccu, carcioffola, castagna), oggetti (marmitta, chitara, mandola, campana, tabbacchera), animali (passera, fagiana, folpa, cicala, topa, piccione, paparedda, micia) e persone (bernarda, filepa, franzesca).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

 nateua/nateurra/nateuvva/naturë

borna [buco], tchergna [vedi ciorgna in PIemonte]

PIEMONTE

ciornia/ciorgna [origine incerta: da ciamporgna, zampogna o da “ciorgn”, sordo: la forma della vagina ricorda un orecchio che non ascolta]

baoumë (caverna, in senso spregiativo), bigioia, bignola, bornä, bregna/brigna (prugna), canà, chatbornhë (Savoulx), cŗo [buco], daŗbounhérë [cunicolo della talpa]), equis, fiaounë (Fenils), figuë (Ramats), fizolla, marmitta, natuřä (Salbertrand), neira, nonnë (Oulx), partû [buco], picioca, tampë, veŗgonhë (Amazas)

LIGURIA

mussa/mossa [può derivare dal latino mus, topo (mouse, per il pelo), o da “muscolo” (cozza, per l’aspetto). Secondo alcuni deriva da mozzo (buco per la ruota) o da mussare, fare schiuma]

 ghersa/goèrsa/guersa, michetta, petalussa, tacca, vagìnn-a

LOMBARDIA

barbisa [da barba], brugna/brogna [prugna]

bartagna, bernarda,, crenna, fidec [fegato] (Bergamo), figa, fritula, fuinera, lurba, passera, pota  [da “potta”, a sua volta dal francese “lippot”, labbro sporgente] (Bergamo e Brescia), sbarzifula, zinforgna (Sondrio)

TRENTINO ALTO ADIGE

barbigia (da barba)

bernarda, bortola, chitara, ciorciola, fritula [frittella], marugola, natura, sbanzega, scham, scheide

VENETO

mona [da monna, madonna nel senso di donna, o dall’arabo maimun, scimmia, perché ricoperta di peli]

ànara, bagigia/basisa, bareta, bernarda, bigarela, boschetto, buso/busolina, canestro, cantina, cicciota, ciocca,coca,  fagiana, farsora [padella per friggere], fiora, folpa [femmina del polipo], fritola [frittella], natura, pataracia, mandola, pegnata, pipa, pisota, pondra, sepa, sermollina, sissoea, sgnacchera, tenca, tringoeo, zergnapola [pipistrello]

FRIULI VENEZIA GIULIA

mona, frice [dal latino fricare, sfregare]

farsora [padella], fritola, panole, parussule

EMILIA ROMAGNA

patacca/patonza [nel senso di macchia], gnocca [per la somiglianza nell’aspetto]

bagaja, balusa,barnêrda, basagna, brugna, chitara, figa, filĕpa, franzĕsca, frĕgna, natura, obinna, parpaja, patafiocca, pavajòta , pisaia,  prögna, sfessa, tegia, vaggiuola

TOSCANA

 topa [per la somiglianza con i peli pubici]

bricia, budello,campana, cicala, cilla (Siena), fi’a, lallera, micia, mimma, mozza, pacianca (Pisa), passera, pettera, sgnacchera

UMBRIA

pipa [come femminile di pipo]

castagna, cicala, fica, fregna, passera, pisella, picchia, sorca, topa 

MARCHE

fregna

 castagna, cicciabaffa, ciuetta (Ascoli Piceno), cocchia, fessa, mozza, natura, passara/pasarina, pontecana, topa

LAZIO

fregna [dal latino  fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre ‘rompere; o da fringilla, fringuella], sorca [da sorcio, topo]

 bbuscia, cella, cicciabaffina, ciciotta, ciocia, ciomma, ciscia, sorega

ABRUZZO

fregna

boffa, ciuccia, ciuetta, ciufella, cocca,  fregna, mozza (Teramo), patàne, picina/piciocche, tolfa, tope, vello

MOLISE

picchiacc (vedi pucchiacca)

cocchina (Isernia), curciu, fess, panocchie, patata, piccione

CAMPANIA


fessa [da fessura, spaccatura], purchiacca/pucchiacca [dalle parole greche pyr (fuoco) + koliòs (fodero) unite ad un suffisso degradativo -acca, da cui pyrcliacca -> purchiacca -> pucchiacca. Il termine significherebbe letteralmente “fodero infuocato”; oppure dal latino “pucchia”, fonte dove sorge acqua; o ancora, da un’erba spontanea, l’evera pucchiacchella (portulaca) che cresce poco alta sul terreno ricordando i peli pubici]

bbuatta [scatola di latta], braciola, caccavella [pentola], carcioffola, cardogna, cecca, cestunia [tartaruga], ciaccara, ciora/fiora, ciucia, ciòcca, cozzeca [cozza],  mocle, nocca [fiocco], patana, pepaina, pertuso [buco], pescia, pesecchia, pettenessa, piciòcchëlë/pisciocca/pisciotta, pummaròla, sarcenella/sarchiella, scarola, sciùscia, sporta, sterea, tabbacchera

BASILICATA

fissa, ciunnn [dal latino cunnus, cuneo, matrice]

ciola, natura, perdesca, piccione, pishcu/puscio, puliejo, purchiacca, sartacena, tabbacchera

PUGLIA

piccione, palummu [per la somiglianza del monte di Venere con il petto del piccione]

caccone, chichì, cianno/ciunne/ciunna/cunnu, ciota, cozza, cuniglia, curcio/curciu (Salento), fregne,  ndacca (Bari), nerciu,  pattale, pelosa, pertuso, pescia, pinca/ pinga, ptek, picu (Salento), pisciacchio/pisciacco, pitacco, pittinale, ruccu, sciorgio/sorgie, spaccaccia, sticchi

CALABRIA

pilu, ‘mboffa/’mmoffa

bovatta, ciota/ciotu (Cirò),cuniglia, cunnu, fissa, grubba, nicchio/nnicchiu, parpagnu, pennu, picionnu, pitaci, spacchiu, sticchiu

SICILIA

sticchiu/sticcio [dal latino osticulum, diminuitivo di ostium (porta):  “piccola porta” o “piccola bocca”, oppure dal greco astegos, nudo; o da stìchos, riga; o ancora come derivato da fisticchiu, pistacchio, per la forma simile]

ciaccazza, ciciu, cucchia, cunnu, faddacca, nicchio, obarra, pacchio, paparedda, picicio, pilu, sarda

SARDEGNA

cunnu/ciunno, mussi/mutza

attettu, bette/bettu, boddo/ boddoddu/budhúdhu , broddo, bullulla, burba/bulva/burva/vurba/vurva/ulva/urba/urva, busuddu, còccoro , cuperre, festu, fica/figa, giosi, intragnu, leppereddu (leprotto), matzoneppa ,miseria,  natura, niccu, nusca, pacciócciu , peddùnculu , pilarda/ pillittu/pilosu, pilicarju/ pulicarja,  piricoccu , pisciaioru, piscittu, porposeo , proso/prosu, pudda, pùliga/ pulicarja ,santu, sessu/sestu,  topi, tzunnu,ubra, ulla, udda, zimbranti

I LIMITI DELLO STUDIO

Ringrazio i numerosi amici “fiancheggiatori” che mi hanno aiutato a rintracciare/verificare diverse voci dialettali: Marco Basileo, Irene Bertozzi, Luca Brocca,  Paolino Colzera, Serena Corvo, Valentina Coviello,  Massimiliano Fedeli, Sergio Ferro, Michele Gagliardo, Roland Jentsch, Francesca Polazzo, Federico Tapparello, Giulia Villi

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Le pubblicità più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/#respond Wed, 02 Oct 2024 10:13:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20858 A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso… Continue Reading

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Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.

A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi

In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia onesta, veritiera e corretta. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.

Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.

IMMAGINI E ALLUSIONI

Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.

In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“.  Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».

Le 33 pubblicità più volgari

Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossi sono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdi sono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre
(con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose). 

2021-oggi

2011-2020

2001-2010

1991-2000

1971-1980
 

Il metodo e i risultati

Campagna Netflix con cibi che evocano la vulva.

Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «
Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega  il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».

Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.

SEMPRE PIU' USATE
 

Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino.  «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale».
Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.

I contenuti: la fantasia scarseggia

Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano
15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:

termine frequenza
culo* 6
darla 5
palle 3
patata/patatina 3
fanculo*   3
puttana 2
farsi 2
venire 2
figata 2
troia 1
stronzetta 1
pompa 1
passera 1
pacco 1
cagare 1

*Inclusi i gesti

Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.

La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale).  E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile. 

In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.

Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”.  Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato. 

Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione

«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.

FUOCHI DI PAGLIA
Ma, in generale, funzionano le pubblicità scurrili? «Ho sentito dire spesso dagli esperti di marketing che non si costruisce così il rapporto di fedeltà fra un cliente e una marca» commenta Guggino. «Usando questo approccio hai un momento di gloria all’inizio, ma esaurito il clamore, censurata la campagna, il prodotto ritorna nel buio».

Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.

Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla
Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale». 
A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione». 

Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:

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Quando i numeri diventano maliziosi https://www.parolacce.org/2024/02/11/simbolismo-numeri-volgari/ https://www.parolacce.org/2024/02/11/simbolismo-numeri-volgari/#respond Sun, 11 Feb 2024 10:51:07 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20253 Si possono esprimere parolacce con i numeri? In apparenza no: i numeri sono aridi, freddi, mentre le volgarità sono impregnate di emozioni. Eppure, la nostra mentalità fortemente simbolica è riuscita ad assegnare un significato scurrile persino alle cifre, o, almeno,… Continue Reading

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“Naked numbers”, numeri nudi: opera dell’artista olandese Anthon Beeke (per gentile concessione)

Si possono esprimere parolacce con i numeri? In apparenza no: i numeri sono aridi, freddi, mentre le volgarità sono impregnate di emozioni. Eppure, la nostra mentalità fortemente simbolica è riuscita ad assegnare un significato scurrile persino alle cifre, o, almeno, ad alcune. In questo modo i numeri diventano un linguaggio in codice che permette di esprimere contenuti tabù senza apparentemente dire nulla di oltraggioso. Quali sono questi numeri, e qual è la loro storia?

Il 69 e la Rivoluzione francese

Théroigne de Méricourt, rivoluzionaria francese

Il numero più celebre con un significato scurrile è anche il più antico e il più diffuso in tutto il mondo. E’ il 69, che rappresenta una posizione sessuale che consente di praticare il sesso orale ad ambo i partner. Ognuno tiene la testa vicino ai genitali dell’altro, e per farlo i due partner assumono una posizione reciprocamente invertita, proprio come i numeri 6 e 9. Questo simbolo è in auge da più di due secoli: secondo diverse fonti, fu usato per la prima volta in un curioso manuale pubblicato in Francia nel 1790, il “Catechismo libertino ad uso delle ragazze della gioia e delle signorine che intendono abbracciare questa professione”. Era una sorta di manuale per aspiranti prostitute, scritto da una donna Théroigne de Méricourt, nome d’arte di Anne-Joseph Terwagne, una delle protagoniste della Rivoluzione francese, una delle prime femministe della Storia. La posizione, ovviamente, è ben più antica: è citata già nel Kamasutra, dov’è chiamata “Il congresso del corvo”, forse per i movimenti della testa.

Il simbolo 69 è molto popolare: è riprodotto negli emoji attraverso il simbolo zodiacale del cancro, che ricorda la cifra.
E ha ispirato una canzone di Ariana Grande “35+34” (come diceva Totò, “è la somma che fa il totale!”). Ecco il passaggio che non lascia dubbi sull’interpretazione: “
34, 35 (sì, sì, sì, sì), Sì, sì, sì Significa che voglio fare 69 con te, niente cazzate, la lezione di matematica, non è mai stata così bella”.

Esiste anche il “contrario” del 69, ovvero il 96: questo numero indica l’inattività sessuale, perché i numeri sembrano rappresentare due persone che si danno reciprocamente la schiena nel letto.  

I simboli della “smorfia”

Gli altri numeri con un significato scurrile arrivano invece dall’Italia, e in particolare dalla “smorfia” napoletana, la tradizione numerologica associata al gioco del Lotto. La smorfia, infatti, assegna un significato simbolico a ciascuno dei 90 numeri del Lotto, in modo da fornire una sorta di manuale con cui, ad esempio, si può tradurre in cifre un sogno, nella credenza che l’attività onirica funga da premonizione, da profezia sui numeri che saranno estratti a sorte. 

La smorfia potrebbe essere stata influenzata dalla cabala ebraica, una corrente di pensiero nata fra il 1100 e il 1200 in Provenza e in Spagna. La cabala dava un significato simbolico ai numeri. L’ebraico infatti non ha un sistema numerico distinto dalle lettere dell’alfabeto: le lettere rappresentano anche i numeri. Quindi, ogni parola può essere convertita in una cifra, e i cabalisti hanno ricavato con facilità i significati numerici nascosti in ogni parola.

La smorfia (termine che forse deriva da Morfeo, dio del sonno) ha trasformato questo metodo in un gioco, assegnando ai 90 numeri del Lotto significati precisi, ma per lo più in modo arbitrario: «il loro significato è il più delle volte dimenticato trattandosi di cultura tramandata oralmente», spiega Marino Niola, docente di antropologia dei simboli all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa.

Così oggi è impossibile ricostruire perché a determinati numeri (e non altri) siano stati attribuiti significati maliziosi o di altro genere. Una delle eccezioni, guardacaso, è il numero 69 “O sott’e ‘ncoppa” (il sottosopra), che si riferisce proprio alla posizione sessuale di cui abbiamo parlato. Ma questo potrebbe togliere alla Francia la primogenitura dell’espressione: il Lotto fu lanciato a Genova nel 1539, e si diffuse in tutta Italia alla fine del 1600. Quindi prima della Rivoluzione francese. 

Gli altri numeri-simbolo del Lotto che hanno un legame non arbitrario con la realtà sono l’8, la Madonna (festa dell’8 dicembre), il 25 (Natale), il 33 (gli anni di Cristo), e pochi altri: di recente al 10 (e fasule, i fagioli) è stato aggiunto anche il riferimento a Maradona, che indossava la maglia con quel numero.

Lotto, doppi sensi e scurrilità

I numeri estratti erano letti da un banditore, e i riferimenti al corpo e al sesso erano inseriti non solo per la loro forza simbolica, ma anche perché – pronunciati in pubblico – facevano ridere i partecipanti al gioco. In passato, infatti, scrive Giovanni Liccardo nel libro “La smorfia napoletana. Origine, storia e interpretazione” il Lotto era sospeso durante la settimana di Natale, «affinché il popolo non si distraesse dalle funzioni religiose. Avvenne allora che, pur di continuare a giocare, il popolo s’inventò la Tombola. Il gioco del Lotto passava a essere così, da pubblico, privato. I 90 numeri da estrarre furono impressi su supporti di legno, la cui forma cilindrica, ovvero di tombolo, diede il nome alla variante giocata tra le mura domestiche, insieme me col fatto che, introdotti in un “panariello” (cestino) di vimini, i numeri ne cadevano capitombolando».

Lo sguardo malizioso sui numeri, aggiunge Liccardo, non era un aspetto marginale. «La Smorfia napoletana fu, fin dalle origini, quasi tutta fatta di doppi sensi, con pesanti quanto esilaranti incursioni nello scurrile. E la scurrilità raddoppierà quando, nel chiamare 

il numero sortito, nella Tombola, il maestro di gioco pronunci, in luogo del semplice nome, una frase, un detto, quali: 4. “O Puorco: chi ‘o tira, fetente chi ‘o mette” (Maiale chi lo prende, fetente chi lo dà) 16. “Tutte quante ‘o tèneno: ‘o culo” (L’hanno tutti quanti: il culo) 63. “A tene càvera e pelosa: ‘a sposa” (L’ha calda e pelosa: la sposa).

Ecco quindi la lista dei numeri con senso volgare nella Smorfia: ricalcano in modo completo le zone erogene, alcuni atti sessuali, e comprendono anche alcuni insulti.
Alcuni numeri hanno un significato volgare diretto, altri invece sono indicati con allusioni, in vista della lettura pubblica dei numeri estratti.

6 Chella ca guarda ‘n terra (quella che guarda per terra): la vulva.

16 ‘O culo  

22 ‘O pazzo

23 ‘O scemo

28 ‘E zizze (le tette)

29 ‘O pate d”e ccriature (il padre dei figli): il pene

30 ‘E palle d”o tenente (le palle del tenente): Perché siano stati scelti proprio gli attributi di un ufficiale non è dato saperlo,. Alcuni sostengono che sia un riferimento alle “palle” intese come proiettili, ma mi sembra un’interpretazione forzata: anche perché il detto associato a questo numero era “E palle d’o tenente” “Tu ‘e sciacque e i’ tengo mente”, cioè tu le sciacqui e io guardo”. Sono portato a credere che il detto nasca in senso ammirativo, “un ufficiale con le palle” .

Messaggio offensivo all’allenatore Maurizio Sarri, quando passò dal Napoli alla Juve.

67 ‘O totaro into’â chitarra (il totano dentro la chitarra): riferimento alla penetrazione sessuale

69 ‘O sott’e ‘ncoppa (sottosopra, posizione erotica)

71 L’ommo ‘e mmerda (l’uomo di merda): il riferimento potrebbe essere agli spazzini che anticamente ripulivano le strade dagli escrementi dei cavalli. L’espressione designa una persona senza valore, ma anche bieca, malvagia, vigliacca. 

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Vaccate, cazzate e altre cose da nulla https://www.parolacce.org/2023/11/28/spregiativi-cose-situazioni/ https://www.parolacce.org/2023/11/28/spregiativi-cose-situazioni/#respond Tue, 28 Nov 2023 14:05:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20139 “Non vedere una mazza”. “Non capire un tubo”. “Dire cazzate”. Ci avete fatto caso? Alcune espressioni usano insulti come sinonimi di “niente” e “di scarso valore”. E per esprimere questi concetti così sfuggenti, usano un grande ventaglio di espressioni fantasiose,… Continue Reading

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Un poster di “Manifesti abbastanza ostili

“Non vedere una mazza”. “Non capire un tubo”. “Dire cazzate”. Ci avete fatto caso? Alcune espressioni usano insulti come sinonimi di “niente” e “di scarso valore”. E per esprimere questi concetti così sfuggenti, usano un grande ventaglio di espressioni fantasiose, che ho riunito in questo articolo.
Sono più di 50, e offrono uno sguardo sulle cose che la nostra cultura considera prive di valore. Una prospettiva arbitraria e sorprendente: ci si aspetterebbe che i riferimenti a rifiuti o escrementi siano la categoria più nutrita, visto che sono l’emblema dello scarto. E  invece sono più numerosi i riferimenti a oggetti, alimenti e organi sessuali.
Perché usiamo queste immagini? Per esprimere il nostro punto di vista emotivo. Un conto è dire “Con questa nebbia non si vede niente”,  ma se dico: “Con questa nebbia non si vede un cazzo (o un cazzo di niente)” esprimo la rabbia e il disprezzo verso la situazione. E do un valore enfatico, rafforzativo alla mia affermazione: “non vedere un cazzo di niente” significa non vedere completamente nulla.
Ho suddiviso i termini di questo tipo in 2 grandi famiglie:

  • i sinonimi di nulla, niente 
  • i sinonimi di “cosa da poco”, “ di scarso valore”

Le espressioni che ho raccolto hanno diversi gradi di offensività: si va dalle parole neutre alle espressioni enfatiche fino ai modi di dire volgari e blasfemi (evidenziati entrambi in rosso). 

Sinonimi di “nulla”

Come si può nominare il nulla? L’impresa, a ben pensarci, è impossibile: se il nulla non esiste, non possiamo averne esperienza e quindi descriverlo. I termini che lo designano sono:  zero, nullità, niente, vuoto, nessuna cosa, alcunché. Ci sono alcuni sinonimi con una valenza più espressiva:i rafforzativi nonnulla, nisba (dal tedesco “nichts”, niente), nullaggine, alcunché, checchessia. Ma nessuno di questi possiede un’espressività adatta a veicolare il disprezzo, la rabbia, insomma: una coloritura emotiva. Perché non rimandano a un’immagine concreta: per evocare il nulla, abbiamo bisogno di dargli una consistenza anche minima. Ecco come. 

ALIMENTI

♦ un fico / fico secco: nel mondo antico, il fico era considerato un cibo da poveri, di scarso valore economico. “Fico secco” è un’allusione a un episodio evangelico (Matteo XXI,18–19): Gesù, avendo fame, vide un albero di fichi, che però erano senza frutti. Allora disse. “Mai più nasca frutto da te, in eterno”. E subito il fico si seccò. 

♦ un’ostia: il sottile disco di farina di frumento (impastata con acqua naturale e cotta al forno) che il sacerdote consacra nel sacrificio della messa. E’ quindi un cibo di poco conto, e il suo uso come sinonimo di “nulla” è una forma di blasfemia anti religiosa 

♦ un cavolo: è considerato un ortaggio di scarso valore, e la sua sillaba iniziale si presta a farne un sinonimo eufemistico di “cazzo”

♦ (campare) d’aria: non avere nulla da mangiare

OGGETTI

♦ un tubo: per la sua forma cilindrica è un sinonimo allusivo di “cazzo”

♦ (non capire / fare) un accidente: l’accidente è la disgrazia fortuita, qui equivale a rafforzare il concetto di “nulla”

♦ una mazza: è un riferimento fallico, equivalente di “cazzo”. Secondo alcune interpretazioni potrebbe essere anche un riferimento al generale Francesco Mazza che nel 1909 fu nominato commissario straordinario per gestire i danni del terremoto di Messina: fece una marea di errori e angherie 

♦ una ceppa : la ceppa è la base del tronco di un albero, da cui si dipartono le radici. E’ un riferimento fallico

♦ un corno : riferimento fallico (tant’è che il corno portafortuna ha origine dal fallo, come raccontavo qui)

♦ (essere) carta straccia: scritto o denaro di nessun valore

♦ (non valere) una cica: è la membrana che si trova nell’interno della melagrana, di nessun valore 

♦ (non valere) una cicca : mozzicone di sigaretta  

♦ (non valere) una cicca frusta: La « cicca » in dialetto milanese è la biglia colorata, in origine di terracotta. Se erano fruste, cioè consumate, non andavano bene.  

♦ (non valere) un soldo bucato, non spendibile quindi senza valore    

♦ (non valere) un quattrino: moneta di rame di valore infimo 

 

SESSO
♦ un cazzo / un cazzo di niente: è il disprezzo verso il nostro lato animalesco, rappresentato dall’organo sessuale, come ho raccontato più diffusamente qui .

RELIGIONE
♦ una madonna, un cristo: qui i termini religiosi sono usati, per spregio verso la fede, come sinonimi di nulla  .

LETTERE

♦ (non capire) un’acca (fam.), in latino l’H, inizialmente si pronunciava aspirata, successivamente, con l’evoluzione della lingua, ha perso questa sua caratteristica aspirazione quando presente e quindi non valere più nulla

♦ (non importare) un ette (fam., in disuso): deriva dalla congiunzione latina “et”, “e”, una parola piccola e di poco valore.

 Cose da poco, di scarso valore

Come definire un oggetto senza valore? I criteri seguiti dalla nostra lingua sono due: la dimensione e l’utilità. In pratica, qualifichiamo qualcosa come così piccola o inutile da essere irrilevante, impercettibile, ininfluente, insignificante. 

OGGETTI

♦ cosa da niente, cosuccia, coserella

♦ pinzillacchera (dal napoletano pizzillo, pezzettino) 

♦ carabattola (lettuccio, oggetto di poco conto)

♦ (contare / valere come il) due di picche: la carta che vale di meno nel mazzo

♦ bazzecola da bazza, carta di poco valore vinta all’avversario 

♦ bagattella (da gabbatella, gabbare: oggetto falso), cosa frivola e di poco conto

♦ bubbola, da bubbolo, sonaglio (suono falso)

♦ corbelleria (da corbello, cesto di vimini: eufemismo di coglione)

SESSO

Film del 1971 diretto da Fernando Merino.

♦ del cazzo / cazzata, belinata, minchiata, bischerata (da bischero, pene; il termine designa il pirolo, legnetto per tendere una corda negli strumenti musicali): il disvalore attribuito all’organo sessuale è usato per esprimere disprezzo

♦ (del) menga: il termine ha un’origine oscura, probabilmente è  originato da un effetto di rima nella frase goliardica “è la legge del Menga, chi ce l’ha nel culo se lo tenga”, ovvero ‘chi ha subito un danno lo deve sopportare. L’espressione, da sola, equivale a “del cazzo” 

♦ coglioneria, coglionata: atto o cosa da coglioni

♦ fesseria da fessa (fessura): è uno dei rari casi di disprezzo attribuito all’organo sessuale femminile

♦ monata da mona (vulva), vedi sopra.

ESCREMENTI, SCARTI

La celebre recensione di Fantozzi al film “La corazzata Potemkin” (Il secondo, tragico Fantozzi”, 1976)

♦ stronzata, cagata, merdata / di merda

♦ aria fritta: discorso inconsistente al di là delle parole usate

♦ fetecchia: cosa di poco conto (da fetore, flatulenza)

♦ quisquilia: da quisquiliae, immondizia

   

ALIMENTI

♦ cavolata / del cavolo (qui usato per eufemismo di “cazzo”)

♦ boiata: (da boj, bollire: vivanda semiliquida): schifezza, porcheria, stupidaggine

♦ baggianata (da baggiana, fava in senso fallico): stupidaggine

♦ giuggiola frutto del giuggiolo buono ma di piccole dimensioni (e ricorda i testicoli)

♦ ostiata: stupidaggine, errore, cosa di poco conto (da “ostia” come cibo di poco conto).

DERIVATI DA INSULTI

Idea regalo per Natale: un libro di giochi che è tutto un programma.

♦ inezia (da inetto, “incapace”, quindi cosa fatta da un incapace).

♦ sciocchezza / sciocchezzuola, scemenza, stupidaggine, cretinata: atto compiuto da una persona poco intelligente, quindi di nessun valore

♦ puttanata, troiata, vaccata: stupidaggine, sciocchezza (lett.: cosa da donnaccia)

 

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L’obelisco di Buenos Aires con un profilattico in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids nel 2005. Più fallico di così.

Oggi lo usiamo per indicare oggetti  di scarso valore (“del cazzo”), affermazioni inconsistenti (“cazzate”) o addirittura il nulla (“un cazzo”). Eppure, nell’antichità il membro virile aveva un valore così grande da esser considerato sacro, e dotato del potere di favorire non solo la fecondità, ma anche l’abbondanza dei raccolti agricoli o di allontanare gli influssi nefasti. Il mondo antico era infatti fallocentrico: metteva il pene (e chi ne era provvisto) al vertice della vita sociale e religiosa.

In questo articolo parlerò di quest’epoca che ha lasciato tracce non solo nel linguaggio, ma anche in alcuni gesti e tradizioni. I termini fallo, fallimento, falso, priapismo, uccello, testicoli/testimoni, “sto cazzo”, “cazzuto”, fascino, derivano da questa mentalità, così come i monumenti a forma fallica (obelischi, dolmen, torri), le processioni dei ceri e dei gigli, il gesto scaramantico di toccarsi gli attributi, il cornetto portafortuna napoletano, la Befana a cavallo della scopa, la nascita della commedia e dei sacramenti. Altro che cazzate.

I culti fallici, il dio del piffero e le processioni

Pompei, dipinto che raffigura Priapo mentre pesa il suo membro su una bilancia: vale tanto oro quanto pesa.

Cominciamo dal termine “fallo”. Deriva dal greco φαλλός-phallós, a sua volta derivato dal sanscrito phalati (= germogliare, fruttificare) o alla radice della lingua  protoindoeuropea bʰel-phal (= gonfiare, gonfiarsi). Dunque, il fallo è visto come un germoglio: nella mentalità antica (sopravvissuta a lungo) si pensava che il seme maschile fosse il solo responsabile della vita, mentre la donna ne fosse un mero ricettacolo passivo. Aristotele sosteneva che il principio generativo risiedesse esclusivamente nell’uomo. Le donne erano secondo lui sterili, accoglievano il seme maschile ma non partecipavano alla fecondazione. Per inciso, “fallo” in senso di errore (da cui fallimento e falso) deriva da un ulteriore sfumatura di significato di fallere, ovvero “fottere”, nel senso di ingannare. 

Dunque, il fallo era considerato l’origine della vita, un organo con il misterioso potere di fecondare. Di qui la sua sacralità, che era personificata in Priapo, dio greco della fertilità il cui simbolo è un grande fallo eretto. Priapo era figlio di Afrodite (venere) e Zeus (Giove). Hera, moglie di Zeus, per punizione gli conferì un pene enorme (dal dio Priapo deriva il termine “priapismo“, che indica un’erezione dolorosa e persistente).
Il suo animale era l’asino, sia perché dotato di un membro smisurato, sia per un mito: si narra che Priapo insidiasse la ninfa Lotide dormiente, ma il ragliare di un asino svegliò la ninfa impedendo l’accoppiamento. e il Dio, per vendetta, pretendesse il sacrificio annuale di un asino.
Il suo culto, fiorente in Italia intorno al III secolo a.C., era associato al mondo agricolo e alla protezione delle greggi, dei pesci, delle api, degli orti. 

Processione fallica a Komachi (Giappone).

In primavera, il culto di Priapo – sia in Grecia che poi in Italia, presso i Romani – si celebrava con le falloforie, processioni in cui si trasportavano enormi falli di legno per propiziare la fertilità dei campi: ancora oggi a Tyrnavos (Grecia), il Lunedì grasso è ancor oggi celebrato con un festival fallico, il “Bourani” (nome anche di una zuppa di spinaci), con lancio di palloncini fallici e cortei. Lo stesso accade in Giappone con i festival (matsuri) a Kawasaki, Kishiwada e Komaki, dove sfila un fallo in legno di cipresso lungo 2,5 metri e pesante 280 kg. Per gli antropologi, la Sagra dei gigli a Nola, la Corsa dei ceri a Gubbio sono processioni falliche travestite.

La Sagra dei gigli (a sinistra) e la Corsa dei ceri (a destra).

Tornando alla Grecia antica, i rituali terminavano con una pioggia d’acqua mista a miele e succo d’uva, indirizzata verso i terreni, per favorire così l’abbondanza dei raccolti agricoli.
In onore di Priapo furono composti i “Carmina Priapea”, i canti in suo onore; ne riproduco qui sotto alcune strofe:

«Quando tu, un Dio, bandito ogni pudore, ti mostri coi coglioni di fuori, allora posso ben chiamare “fica” la fica e “minchia” la minchia». 

«Mi domandi perché abbia le parti oscene scoperte? E io ti chiedo: perché gli altri Dei non coprono le loro armi? Il signore del mondo tiene in mano il fulmine, apertamente; né si vede il dio del mare coprire il tridente.[…] Chi vide te, Amore, con la fiaccola nascosta? Non mi si incolpi quindi se tengo la minchia sempre di fuori: se mi si abbassa l’arma, sono spacciato!»

Insomma, versi molto salaci che secondo Aristotele furono le prime forme da cui si originò la commedia. Secondo molti  studiosi, inoltre, i monumenti che si stagliano dal terreno sarebbero tutti monumenti fallici: gli obelischi in Egitto, i monoliti in Francia, i dolmen in Gran Bretagna e in Sardegna, i cippi agricoli in Puglia, Grecia e Albania. 

I giuramenti: che Dio mi fulmini… proprio lì

Il servo giura mettendo la mano sulla coscia (in realtà i genitali) di Abramo.

C’è però anche un altro aspetto, nella mentalità antica, che esprime la sacralità dei genitali maschili: i sacrifici e i giuramenti. Nei sacrifici rituali, alle divinità si offrivano gli organi interni, le viscere (gli “exta”: fegato, vescicola biliare, cuore, polmoni e peritoneo) considerate più pregiate, mentre il resto era spartito fra i partecipanti al rito; tra le frattaglie c’erano anche i testicoli della vittima (polimina, polimenta): erano mangiati dai partecipanti per impossessarsi della sua forza vitale e generativa, oppure erano donati alla divinità per ingraziarsela (se era una divinità maschile). 

Ancor più interessante l’uso di giurare tenendo fra le mani i testicoli: si giurava, insomma, sul patrimonio più caro, che veniva messo a conferma e garanzia del patto. Come a dire: “Che Dio mi castri se mento”. Dunque, giurare sui “gioielli di famiglia” rende solenne il patto, perché la posta in gioco (la perdita della capacità generativa) era considerata la più alta possibile: nessuno avrebbe osato giurare il falso con la prospettiva di rimanere castrato.

E questa abitudine era propria non solo del mondo greco e romano, ma anche degli ebrei: nella Genesi (24:2-4) Abramo fa giurare il suo fidato servo che avrebbe trovato una moglie per Isacco nel suo paese d’origine. Il testo biblico dice “Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore”. Qui “coscia” sta per i genitali: per gli Ebrei “il contatto con gli organi da cui ha origine la vita rende infrangibile l’impegno assunto”. Per questo la parola “testicoli” significa letteralmente “piccoli testimoni” del giuramento (e anche degli amplessi, ma questo significato si è aggiunto poi). I giuramenti solenni, fatti in questo modo, erano per i Romani un atto sacro (“sacramentum”) di impegno con la divinità: il cristianesimo prenderà proprio da questi riti l’idea dei “sacramenti”, l’insieme dei segni e dei gesti sacri che mettono  il fedele in comunione mistica con Cristo.

Amuleto contro il malocchio

Pompei, bassorilievo con un fallo alato. Proteggeva una fornace.

Nella mentalità antica, dunque, il fallo era considerato sacro in quanto portatore di vita. Ma questa concezione, in una mentalità magica – convinta cioè che il pensiero potesse influire sulla realtà – ha assegnato al membro virile un ulteriore potere: quello apotropaico di scacciare le forze negative. Gli antichi Romani, in particolare, erano molto superstiziosi: ogni giorno adottavano varie strategie (gesti, riti, sacrifici) per scongiurare la mala sorte. 

Un fallo eiacula su un occhio: un modo per neutralizzare il malocchio (Leptis Magna).

Il loro timore più grande era rappresentato dall’oculus malignus, il malocchio: lo sguardo cattivo, invidioso, che rischiava di trasmettere la cattiva sorte su chi lo riceveva. Credevano infatti che esistessero persone, dotate di occhi deformi o incantatori, capaci di lanciare malefici solo guardando un altro. Capaci, insomma, di esercitare un certo “fascino” sulle altre persone: in latino “fascinus” (dal greco báskanos ‘iettatore, ammaliatore’ a sua volta da básko ‘maledico’). Se io ti affascino, ti faccio il malocchio. E il fallo, con la sua potenza vitale, era considerato l’amuleto perfetto per contrastare il malocchio: aveva il potere non solo di evocare la forza generativa, ma anche di spaventare o di distrarre lo iettatore, allontanando così il suo sguardo nefasto. Tanto che in latino “fascinus” indica sia il malocchio che il talismano (fallico) usato per contrastarlo. 

Due tintinnabula: alato e con donna a cavalcioni.

Ecco perché i Romani collocavano sculture o bassorilievi fallici all’ingresso delle abitazioni e delle botteghe, persino sul pavimento stradale, come sa chi abbia visitato le rovine di Pompei: spesso il fallo era incorniciato in una struttura rettangolare che gli conferiva un’aura sacra.

C’è un bassorilievo del II secolo dopo Cristo rinvenuto a Leptis Magna (l’odierna Libia) che rappresenta un organo maschile dotato di gambe mentre eiacula sopra un “oculus malignus” per neutralizzare i suoi effetti malefici (v. foto).
I Romani usavano le sculture falliche anche come 
tintinnabula, sonagli azionati dal vento che appendevano alle porte d’ingresso (sempre per distrarre gli iettatori). E i falli erano rappresentati in monili da indossare: uomini, donne, bambini (indossavano la “bulla”, un marsupio rotondo contenente amuleti protettivi da portare come collana) e persino i cavalli  portavano amuleti a forma di piccoli peni eretti – generalmente di bronzo, ma anche d’oro, argento, corallo, osso – appesi a dei braccialetti, o più di rado al collo.

Tipico cornetto portafortuna napoletano.

Alcuni di questi amuleti rappresentavano falli con le gambe o alati: forse da questa usanza deriva l’uso del termine “uccello” per designare l’organo maschile. Le ali e le gambe alludevano simbolicamente alla forza, alla grande vitalità del fallo, equiparato a un cavallo alato. Potevano anche avere  zampe e coda di leone (i cosiddetti “falli leonini”) e potevano essere addirittura cavalcati dalle figure più svariate.
A volte il fallo era cavalcato da una figura femminile: il medievista David Williams ha scritto che questa simbologia è all’origine della ben più nota immagine della strega (o Befana) a cavallo della scopa. Ed è proprio dagli amuleti fallici dei Romani che ha origine il cornetto rosso portafortuna diffuso ancora oggi a Napoli.

Il rito di ruotare il tallone sui testicoli del toro della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano: il mosaico si consuma ciclicamente.

In ogni caso, più gli amuleti erano strani e bizzarri, più erano ritenuti potenti, dal momento che erano considerati capaci di distrarre più a lungo gli iettatori. E quando ci si trovava in situazioni di pericolo o di sventura, li si toccava per scaramanzia: e proprio da questa abitudine nasce il gesto di toccarsi gli attributi per allontanare la malasorte. Un gesto che sopravvive ancora oggi, e si manifesta anche in modi creativi, come la tradizione di fare 3 giri, con il tallone del piede destro, sui genitali del toro ritratto nel mosaico del pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano (1877).

Berlusconi in un gesto scaramantico durante la parata del 2 giugno 2004.

Il toro rappresenta la città di Torino: in origine il gesto era una forma di scherno verso la città rivale, e poi è rimasto come rito scaramantico e propiziatorio (si pensa allontani la malasorte e favorisca le gravidanze).
Dunque, tutti questi amuleti e sculture non avevano un significato erotico ma apotropaico, cioè protettivo. L’energia sessuale del fallo era considerata sia protettiva che aggressiva: era scudo e arma, amuleto e icona di fertilità

Il cristianesimo e la caduta… in fallo

Come si è passati dalla visione del fallo divino e onnipotente alla concezione moderna, secondo cui il membro maschile è sinonimo di “cosa da nulla”? La responsabilità è del cristianesimo, per il quale tutto ciò che riguardava la carne e i sensi era peccato. Un’eredità dell’orfismo e del pensiero platonico, per i quali l’anima è immateriale e immortale, mentre il corpo è svilito perché mortale e ingannevole: per queste filosofie, il corpo (“soma” in greco) era la prigione (“sema“) dell’anima. Questa concezione è stata assorbita dal cristianesimo: il corpo può generare piaceri che distolgono l’anima dall’aspirazione alla salvezza, e a maggior ragione il fallo, che da divinità diventa demone: il pene, per Anselmo d’Aosta è la “verga del diavolo“. Nessun organo, diceva sant’Agostino, è più corrotto del pene. 

Scena del “Giudizio universale” di Michelangelo coi genitali coperti da braghe.

Non stupisce quindi che nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento, papa Paolo IV decise di coprire i nudi “scandalosi” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina dipinta da Michelangelo. Fu un suo collaboratore, Daniele da Volterra, a coprire un anno dopo la sua morte la nudità delle figure con le famose “braghe”, cosicché da allora è stato soprannominato il Braghettone (anche se non è stato l’unico a mettere le mutande ai santi, e la censura è continuata anche nei secoli successivi). E proprio nella stessa epoca è cambiato anche il significato di “fascino”: da influsso malefico esercitato dall’invidioso diventa un semplice richiamo, un’attrattiva, un mero potere di seduzione.  

Oggi “cazzo” resta comunque la parolaccia più pronunciata in italiano: una su 4 (vedi la classifica qui; l’etimologia di questa parola l’ho raccontata qui). Se si aggiunge che “minchia” è al 4° posto, le parolacce fallocentriche rappresentano quasi un terzo degli epiteti pronunciati dagli italiani. Probabilmente non è un caso.
E forse un’altra eco della sua antica potenza sta nelle espressioni “Che cazzo vuoi?” (dove ha una funzione rafforzativa), “sto cazzo” (se usata come espressione di stupore e di ammirazione) e “cazzuto” (nel senso di “persona coraggiosa e capace”). Piccoli frammenti di un passato glorioso.

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Gli innumerevoli significati del lato B https://www.parolacce.org/2021/07/20/modi-di-dire-sedere/ https://www.parolacce.org/2021/07/20/modi-di-dire-sedere/#comments Tue, 20 Jul 2021 12:57:32 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18747 Che culo, faccia da culo, stare sul culo, farsi un culo… In italiano, i modi di dire ispirati dal deretano sono tanti. Ma quanti sono? E soprattutto: perché il lato B ha dato vita a così tante espressioni? Ora c’è… Continue Reading

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La copertina del libro di Ghelli con l’emoji della pesca.

Che culo, faccia da culo, stare sul culo, farsi un culo… In italiano, i modi di dire ispirati dal deretano sono tanti. Ma quanti sono? E soprattutto: perché il lato B ha dato vita a così tante espressioni? Ora c’è un libro che risponde per la prima volta a queste domande. Si intitola “Questioni di culo” ed è stato pubblicato da Gingko edizioni di Verona. L’autore è un  toscano trapiantato negli Usa, Samuel Ghelli, docente di Italian studies allo York College di New York.
Ispirato dal sito parolacce.org, Ghelli si è preso la briga di censire tutti i modi di dire sul fondoschiena, classificandoli per aree tematiche e illustrando i loro diversi significati. E’ il terzo libro ispirato da parolacce.org, dopo quello sugli
insulti finiti nelle aule di Tribunale e quello sulle offese rivolte a Benito Mussolini durante il fascismo. 

Prima di capire perché il deretano abbia accumulato tanta ricchezza linguistica, è utile passare in rassegna quanto ha scoperto Ghelli. Le espressioni che si riferiscono al posteriore in italiano sono quasi 270: l’autore, tuttavia, preferisce non darne un numero preciso, perché le varianti possibili (comprese quelle dialettali) farebbero lievitare il conteggio di molto. Il culo, insomma, è una parola polisemica, cioè con molti significati. Ecco perché l’espressione è ben presente nella storia della letteratura (da Cicerone a  Dante e Camilleri), e anche nella canzone e nel cinema.

I 35 significati del deretano

Infatti i glutei possono assumere, come ha scoperto Ghelli, 35 diversi significati. Li riassumo in questa tabella, suddividendoli a loro volta in due macro categorie: significati positivi e significati negativi.

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SIGNIFICATI POSITIVI
 

Significato Esempio
Fortuna Avere culo
Benessere Avere il culo coperto
Felicità Ridere il culo
Coraggio In culo alla balena
Tenacia Farsi il culo
Chiarezza Chiamare culo il culo
Abilità Spaccare il culo ai passeri
Avvenenza Avere il culo parlante
Vincere Fare il culo
Certezza Giocarsi il culo
Intesa  Culo e camicia
Vigore Ritornare il peto in culo

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SIGNIFICATI NEGATIVI
 

Significato Esempio
Imbroglio Inculata
Pigrizia Avere il culo di pietra
Seccatura Bruciare il culo
Insensatezza Ragionare con il culo
Povertà Aver le pezze al culo
Antipatia Stare sul culo
Punizione Fare il culo
Paura Avere la strizza al culo
Fretta Avere il pepe al culo
Omosessualità Essere culattone
Aspetto repellente Essere un buco di culo
Maledire Sfanculare
Adulare Leccare il culo
Sconforto Essere in un cul di sacco
Pericolo Pararsi il culo
Rozzezza Parlare col culo
Irritabilità Avere il culo di paglia
Indecenza Avere la faccia da culo
Lontananza In culo al mondo
Vanità Avere la penna in culo
Pettegolezzo Contare i peli del culo a qualcuno
Avidità Tenere il culo su due sedie
Masochismo Pulirsi il culo a revolverate

Il motto del film “Tutto tutto, niente niente” di Antonio Albanese (2012).

Un dato salta subito all’occhio: i significati negativi (23) sono molto più numerosi di quelli positivi (12): i primi sono i due terzi del totale. Perché? Anatomicamente parlando, si potrebbe rispondere che i glutei, e in particolare l’ano, sono una zona anatomica sensibile e come tale vulnerabile. Infatti, spesso la parola “culo” è usata  come sineddoche, una figura retorica che indica il tutto al posto di una parte. 

E c’è un altro motivo ancora più determinante: le parolacce sono il linguaggio del disfemismo, ovvero esprimono in modo diretto e senza giri di parole i significati più sgradevoli, le emozioni negative (rabbia, paura, disprezzo, dolore). È proprio grazie a questa plasticità espressiva che oggi culo è la 7a parolaccia più pronunciata in italiano, dopo casino e prima di stronzo (vedi la classifica qui) e vaffanculo è al 10° posto. A conferma della sua importanza espressiva, negli ultimi anni ha anche un emoji, cioè un pittogramma che lo rappresenta nelle chat di tutto il mondo: la pesca.

I 4 simboli: posteriore, defecazione, fecondità e sodomia

Bar italiano a Phnom Penh, Cambogia.

Ora, dunque, possiamo tornare all’interrogativo di partenza: perché il lato B ha accumulato così tanti significati? Come mai il sedere è diventato un simbolo così multiforme, capace di dire tutto e il contrario di tutto? Perché, per restare in tema, abbiamo più culo che anima?
Come racconto nella prefazione al libro, a dispetto delle loro vituperate apparenze, le chiappe svolgono anatomicamente una funzione importante: i
due muscoli del gluteo massimo, infatti, sono i più grandi del corpo umano. E’ grazie a loro che riusciamo a mantenere la posizione eretta, a spingere il corpo quando camminiamo e a sopportare il peso della parte superiore del corpo quando siamo seduti. Da questi aspetti anatomici (i glutei come parte posteriore) derivano i modi di dire “culo di pietra”, “avere le pezze al culo”, “stare in culo al mondo”, “stare col culo per terra” e “avere il culo di velluto”. 

Film di Pasquale Festa Campanile (1981).

Ma il sedere è soprattutto il simbolo di due aspetti importanti della nostra esistenza: la defecazione e la fecondità. Come mostra l’incerta etimologia di questa parola millenaria: culo deriva infatti dal latino culus, che a sua volta potrebbe risalire al greco antico “κόλον (kòlon)” ossia “intestino”, oppure dalla radice indoeuropea “*kusl-” da cui il greco antico “κυσός (kysòs)” ossia “buco”. Significato, questo, che rimanda alla sessualità.
Partiamo dal primo significato: il sedere è collegato alle funzioni escretorie ed è una delle prime zone erogene dell’infanzia, come scoprì Freud. Fra gli 1 e i 3 anni d’età, infatti, i bambini imparano il controllo dello sfintere,provando appagamento nel gestire i propri bisogni corporali: in questo modo sviluppano autonomia e autostima. Se il bambino non riesce a superare la fase anale in modo equilibrato, può sviluppare due diverse personalità: espulsiva, ovvero disordinata, crudele, e distruttiva, con tendenza alla manipolazione. Oppure ritentiva, ovvero tirchia, testarda, ostinata, eccessivamente controllata.
Da quest’area di significato derivano i modi di dire come “avere la strizza al culo”, ma anche gli squalificanti “fare le cose col culo”, “faccia di culo”, “leccaculo”. La funzione escretoria, infatti, rende i glutei una parte degna di disprezzo, sebbene sia una funzione fondamentale. Perciò ha ispirato anche locuzioni in cui la personificazione del sedere assume una valenza positiva, come “mi ride il culo”. Il lato B, in alcune espressioni, diventa simbolo dell’intera persona: “muovi il culo” significa “muoviti”. Il deretano, insomma, è una sineddoche in due sensi: “il tutto al posto della parte” se indica l’ano; “la parte al posto del tutto” se indica la persona.

Negozio di abbigliamento a Hong Kong.

Ma il sedere è anche oggetto di attrazione erotica: è un richiamo sessuale perché, spiegano gli zoologi, offrono un segnale visivo di giovinezza e fertilità. Segnalano la presenza di estrogeni e di sufficienti depositi di grasso per la gravidanza e l’allattamento. Danno un’indicazione sulla forma e le dimensioni del bacino, che influiscono sulla capacità riproduttiva.
In più il lato B è una zona erogena: mi riferisco al sesso anale, sia etero che omosessuale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’Italia è uno dei Paesi dove questo genere di coito è più diffuso  (il 56% lo pratica, come ricordo qui). La “sodomia”: un tabù tanto stigmatizzato quanto praticato, come testimoniano numerosi modi di dire che lo equiparano a imbroglio (metterlo nel culo, prendere per il culo) o lo rendono oggetto di disprezzo omofobico (rottinculo). A quest’area si ricollegano anche tutte le espressioni che descrivono il deretano come zona sensibile (avere il pepe al culo), tanto da renderlo oggetto di minaccia (ti rompo il culo, fare il culo), malaugurio (vaffanculo) o intangibile certezza (ci scommetto il culo). 

Sono tutti questi aspetti vitali a spiegare la ricchezza semantica del deretano, che, nota Ghelli, “dice tutto e il contrario di tutto”. Ma allora “culo” è una parolaccia? Quando ha il mero significato di “fondoschiena” ha una valenza colloquiale e popolaresca; ma quando la parola si riferisce all’ano, osserva Ghelli, diventa sconveniente, sia che si riferisca alle funzioni escretorie che (soprattutto) a quelle sessuali, che hanno un evidente stampo omofobico: l’omosessualità maschile passiva è stata a lungo considerata un atto di sottomissione umiliante.

Ma tutta questa ricchezza espressiva è si trova solo in italiano? No: molte altre lingue hanno un ampio ventaglio di modi di dire centrati sul fondoschiena. Come viene usato il lato B nelle espressioni colorite in inglese, francese, spagnolo, portoghese? Ve lo racconto nel prossimo articolo. Se conoscete modi di dire sul deretano in altre lingue, segnalateli nei commenti: ho pubblicato una tabella per confrontare le espressioni italiane con quelle in inglese, francese, spagnolo e portoghese. In alcuni casi coincidono, ma in molti altri emergono fantasie linguistiche originali. E divertenti.

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Perché le parolacce non possono diventare egualitarie https://www.parolacce.org/2021/05/09/turpiloquio-inclusivo/ https://www.parolacce.org/2021/05/09/turpiloquio-inclusivo/#comments Sun, 09 May 2021 17:54:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18659 Possiamo cancellare il sessismo dalle parolacce? La provocazione è stata lanciata l’8 marzo per la festa della donna. Un’agenzia pubblicitaria, la M&C Saatchi di Milano, ha fatto una campagna, “Sw(h)er words”, per “femminilizzare” alcune espressioni volgari italiane. Se una donna… Continue Reading

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Uno dei poster della campagna Sw(h)er words di M&C Saatchi.

Possiamo cancellare il sessismo dalle parolacce? La provocazione è stata lanciata l’8 marzo per la festa della donna. Un’agenzia pubblicitaria, la M&C Saatchi di Milano, ha fatto una campagna, “Sw(h)er words”, per “femminilizzare” alcune espressioni volgari italiane. Se una donna volesse respingere uno scocciatore, non dovrebbe dirgli “Mi hai rotto le palle”, poiché non ha i testicoli. Sarebbe più corretto, anzi, egualitario se dicesse “Mi hai rotto le tube”. 

Insomma, dopo aver inserito la versione femminile di molte professioni (“sindaca”, “rettrice”, “architetta”), ora dovremmo fare la stessa operazione anche con le parolacce. E perché? L’iniziativa non è una provocazione fine a se stessa. Si rifà a un movimento, il “linguaggio inclusivo” avviato nel 1977 in Francia, dalla scrittrice femminista Benoîte Groult: nel libro “So be it” lanciò una battaglia per femminilizzare i nomi delle professioni, alo scopo di rimarcare che non erano appannaggio esclusivo degli uomini.  Cambiare la lingua ci costringe, insomma, a cambiare la nostra mentalità

Questo principio si può applicare al turpiloquio? La risposta è in larga misura no. Sarebbe un’operazione fallimentare in partenza, perché non tiene conto delle specificità delle parole volgari.

Le parolacce sono parole emotive

Film commedia del 2005 di Mike Bigelow.

Rendere inclusivo il turpiloquio è un’operazione molto più complessa rispetto a femminilizzare i nomi delle professioni. Per queste ultime basta per lo più cambiare il suffisso, cioè la vocale finale delle parole, che in italiano indica il genere (-o, -i per il maschile, -a -e per il femminiie). Il “sindaco” diventa facilmente “sindaca”. E, in effetti, alcuni insulti sono diventati inclusivi nel corso della storia: da qualche tempo, ad esempio, “puttana” ha il corrispettivo maschile “puttano” per designare gli uomini che si prostituiscono, fisicamente o moralmente: persone senza scrupoli e inclini a compromessi. 

Ma l’operazione è ben più difficile, se non impossibile per le imprecazioni: se pestiamo il mignolo del piede contro uno spigolo, urleremo “Porca puttana!” e non ci sarà verso di correggerlo in un “Porco puttano!”, nemmeno se siamo profondamente convinti del suo egualitarismo. Perché in quei casi, cioè quando sono in gioco emozioni forti (rabbia, dolore, sorpresa) le parolacce funzionano come un riflesso neurologico e non sono controllabili dal pensiero razionale.
Queste espressioni sono sedimentate nella nostra cultura da secoli e sono registrate nelle aree emotive del nostro cervello (come raccontavo in questo
articolo) perciò sono difficilmente modificabili: non bastano le buone intenzioni razionali, occorrerebbero mesi di allenamento quotidiano per condizionarsi a usare nuovi modi di dire. Ecco perché anche la femminista più convinta, di fronte a una persona che le fa perdere la pazienza, esploderebbe in un “Che rompicoglioni!” piuttosto che “rompitube”.

Molte espressioni hanno origine anatomica, non discriminatoria

In un mio passato articolo ho mostrato che in molte lingue (inglese, francese, spagnolo, portoghese) esiste un equivalente di “rompere le palle”. Sono tutte culture maschiliste? Può anche darsi, ma questa espressione nasce per motivi fisici: i genitali maschili sono esterni, a differenza di quelli femminili, interni. E’ un dato di fatto anatomico, non culturale, che un calcio sui testicoli produca molto più dolore di uno sulla vulva. I genitali maschili sono molto più vulnerabili e delicati di quelli femminili, dunque ben si prestano a indicare una zona anatomica sensibile. Perciò sono usati come metafore per esprimere il dolore, il fastidio in molte espressioni: “rompere il cazzo”, “rompere i coglioni”, “stare sulle palle”, “stare sul cazzo” eccetera. 

Altro slogan della campagna di M&C Saatchi.

Anche “far girare le palle” ha una base fisica: la torsione testicolare, una patologia in cui il funicolo spermatico (il cordone che collega il testicolo all’inguine) ruota intorno al proprio asse, causando dolori lancinanti. Lo stesso dicasi per l’espressione “avere le palle piene” (= essere stufo): la sua origine si riconduce alla fastidiosa saturazione dei testicoli dovuta a prolungata astinenza sessuale. E “avere due palle così” (= noia) si potrebbe ricollegare all‘orchite, l’ingrossamento patologico dei testicoli. A differenza degli insulti, che nascono per descrivere in modo distorto un’altra persona (allo scopo di svilirla), i termini osceni sono descrittivi: per questo, in buona parte, le parolacce sono il linguaggio della spontaneità, della sincerità per quanto cruda. Diverse ricerche (ne parlo in questo articolo) hanno dimostrato che chi dice parolacce è spesso più sincero.
Qualcuno ha tentato di applicare il linguaggio inclusivo anche all’atto sessuale: come ricordavo in questo articolo, gran parte dei verbi che descrivono l’atto sessuale sono transitivi (“ho scopato Maria“), e indicano un atto di sopraffazione. Il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva, sfruttandola o danneggiandola. Perciò alcuni hanno proposto invece di corregere questa prospettiva usando verbi intransitivi (fare sesso, fare l’amore, andare a letto insieme, avere un rapporto): in quest’ottica il sesso diventa
un’attività, non meglio specificata, cui si dedicano insieme due partner su un piano di uguaglianza. Ma sono tentativi culturali di prendere le distanze dal nostro lato animalesco.

Non sempre, comunque, l’anatomia del turpiloquio è scientificamente corretta: il pene è diventato simbolo di forza e vigore, ma a ben vedere è ben più forte (o meglio, resiliente) la vagina, capace di tollerare gli sforzi del parto. Ma l’espressione “a figa dura” (proposta dalla campagna pubblicitaria) non riesce a descrivere questo aspetto, anzi suona innaturale se non ridicola.

E anche se il clitoride è il corrispettivo anatomico del pene, dire “non rompermi il clitoride” (anche’essa proposta dalla campagna) suona artificioso perché è difficile – nella realtà – ledere questo organo. “Rompere le tube” ha lo stesso problema, oltre a essere anatomicamente errata: l’equivalente dei testicoli (gonadi maschili), nelle donne, sono le ovaie (gonadi femminili): “non rompermi le ovaie” sarebbe dunque un’espressione più corretta. Anche se è molto più realistico riuscire a “rompere” (ledere) i testicoli che le ovaie: per il primo risultato basta un calcio ben assestato, mentre per rompere le ovaie occorrerebbe un intervento chirurgico.
Difficile, invece, valutare la versione femminile di “uomo con le palle”, cioè coraggioso, deciso, forte. E’ vero che l’espressione si declina anche al femminile (“è una donna con le palle”), ma suona artificiosa, sia anatomicamente che culturalmente: non è detto che il coraggio o il decisionismo siano attributi esclusivamente maschili. Si potrebbe dire “donna con le ovaie”, ma resta il fatto che la capacità di generare è simbolicamente meno collegata alla forza di quanto lo sia quella di fecondare: ma potrebbe essere un limite della nostra cultura moderna, dato che nell’antichità era molto diffuso il culto di divinità femminili legate alla generazione.
E’ invece adeguato dire “Mi cadono le tette” come equivalente femminile di “Mi cadono le palle”. Infatti,  durante la vecchiaia, il seno diventa cadente tanto quanto i testicoli.

Ma che bisogno c’è di inventare nuovi modi di dire egualitari artificiosi quando li abbiamo già? Se le metafore sessuali maschili o femminili vi sembrano limitanti, potete usare la metafora dei glutei: “quel tipo è un dito al culo”, “mi sta sul culo”, “è uno stracciaculo”, “mi ha fresato il culo”, eccetera. Il culo è unisex, quindi “politicamente corretto” (tranne quando si riferisce all’omosessualità). 

Le parolacce sono sessiste per natura (anche verso l’uomo)

Pretendere che le parolacce siano egualitarie è come aspettarsi che una guerra sia innocua. Le parolacce, infatti, sono sessiste (e razziste, omofobe, classiste) per natura: sono colpi sotto la cintura, perché servono ad abbattere un avversario con un giudizio sommario, e come tale sempre distorto

Un romanzo uscito nel 2020 (Le Mezzelane editore).

Ma attenzione. Le parolacce non sono solo misogine, cioè sessiste verso le donne: lo sono pure verso gli uomini, sono anche misantrope. Avevo affrontato questo argomento in un altro articolo, ma qui voglio evidenziare altri aspetti più centrati sull’anatomia sessuale. 

Fateci caso. Per disprezzare una persona irresponsabile, egoista, superficiale diciamo che è un “cazzone”, un “testa di cazzo”. Se è poco intelligente, lo definiamo un “coglione”, non un “figone”: altrimenti gli faremmo un gran complimento.
L’italiano, infatti, è fallocentrico in ambo i sensi: i genitali maschili possono essere usati sia come metafore di vigore (“cazzuto”, “con le palle”, “incazzato”), ma anche come spregiativi (“testa di cazzo”, “cazzone”, “coglione”, “palloso”). I genitali femminili, invece, sono usati per esprimere attrattività e bellezza (“figo”, “figa”, “figona”, “figone”), a differenza del francese e dell’inglese, dove i genitali femminili (rispettivamente “con” e “cunt”) sono usati come insulti pesanti. L’unica eccezione in italiano è il termine “fesso” che deriva da “fessura” (vulva) in senso spregiativo.
Quindi non bisogna lasciarsi prendere da facili isterismi (o da cazzonaggine, se vi pare più equo) nel giudicare il turpiloquio come maschilista.

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Caccavero e le altre città costrette a cambiar nome https://www.parolacce.org/2020/12/06/paesi-italiani-volgari-censurati/ https://www.parolacce.org/2020/12/06/paesi-italiani-volgari-censurati/#respond Sun, 06 Dec 2020 19:40:13 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17859 Il prossimo a cambiare nome sarà un paesino austriaco. Ha solo 106 abitanti, ma è famoso in tutto il mondo perché si chiama Fucking (“fottendo”, in inglese). L’amministrazione comunale, stanca delle orde di turisti che si fotografavano in pose osè… Continue Reading

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Due turiste brindano davanti al cartello di Fucking, Austria.

Il prossimo a cambiare nome sarà un paesino austriaco. Ha solo 106 abitanti, ma è famoso in tutto il mondo perché si chiama Fucking (“fottendo”, in inglese). L’amministrazione comunale, stanca delle orde di turisti che si fotografavano in pose osè davanti ai cartelli stradali (e spesso li rubavano) ha deciso di  voltare pagina: dal primo gennaio 2021 il paese si chiamerà Fugging. Cancellando così un appellativo che ha quasi mille anni di storia: risale infatti al 1070 e non ha un significato osceno. Deriva da Focko, il nobile bavarese che fondò l’insediamento nel VI secolo a 300 km da Vienna.Un nome ingombrante, e un destino scomodo cancellato con un colpo di spugna verbale. Le città, infatti, possono cambiar nome per diversi motivi: perché vengono accorpate ad altre, o per motivi ideologici o religiosi (come Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh in onore del fondatore del Vietnam) oppure – come nel caso di Fucking – perché sono imbarazzanti.

Ma non bisogna per forza andare all’estero per incontrare casi del genere. Anche in Italia, infatti, diverse località scurrili hanno dovuto cambiare nome nell’ultimo secolo. Sono 8, di cui 6 in Lombardia, una in Veneto e una in Molise. Anche se, come raccontavo in questo articolo, sono molte di più  quelle che hanno invece conservato un nome scurrile, da Troia a Cazzago fino a Chiappa e Pisciarelli. Per varie ragioni, infatti, queste località non sono finite sotto i riflettori dei benpensanti e hanno mantenuto (anche con un certo orgoglio) la propria denominazione.

Visto che siamo in periodo di “lock down”, faremo un viaggio almeno virtuale in questi 8 paesi censurati, di cui vi racconterò la storia. Ma attenzione, i loro appellativi sono tutti omofonie: somigliano cioè a parolacce per il loro suono, ma il loro significato originario non ha in realtà nulla di scurrile.

1) DA CACCAVERO A CAMPOVERDE – Lombardia, Brescia

Il paese di Caccavero trasformato in Campoverde (fotomontaggio).

Campoverde è oggi una frazione di Salò. FIn dal 1016, però, aveva un altro nome: Caccavero. Un termine che non ha origine escrementizia: il termine caccavo/caccabo designava infatti la caldaia usata per la lavorazione di concia dei pellami. Inizialmente il paese si chiamava infatti Cacabario, poi Cacavero. Il nome Caccavero fu cancellato nel 1907 in favore dell’attuale.

 

 2) DA FIGADELLI A SAN FELICE AL LAGO – Lombardia,  Bergamo

San Felice al Lago è  una frazione di Endine Gaiano in provincia di Bergamo. Questo toponimo si riferisce infatti al lago d’Endine. In origine però si chiamava Figadelli, un nome che non alludeva al sesso femminile bensì a un terreno su cui prosperavano i fichi (ficatus). Il nome imbarazzante fu cambiato nel 1925, e 3 anni dopo il paese passò sotto la giurisdizione di Endine Gaiano.

 3) DA CAZZIMANI A BORGO SAN GIOVANNI – Lombardia, Lodi

Borgo San Giovanni è un Comune di quasi 2.500 abitanti e ha una lunga storia. Fin dal 1034 si chiamava infatti Cozemano, poi storpiato in Cazzimani: nome che significava “Ca’ de Zimani”, ovvero casa degli Zimani, nobili lodigiani che avevano possedimenti in quelle località. Nel 1929, sotto il fascismo, il Comune diventò Borgo Littorio. Un nome ancor più ingombrante dopo la Liberazione: così nel 1947 gli fu dato il nome attuale, ispirato al santo patrono della parrocchia.

4) DA CAZZONE A CANTELLO – Lombardia, Varese

Il regio decreto che ha trasformato Cazzone in Cantello.

Oggi Cantello è celebre per i suoi deliziosi asparagi bianchi. Ma un tempo questo paese era famoso per un altro motivo: si chiamava Cazzone. Nessun intento offensivo: Il nome pare derivasse da casone (grossa casa), oppure da cazzun, mestolo, dato che il suo territorio è contenuto in una piccola valle, come su un cucchiaio.
Per secoli l’appellativo non creò particolari problemi. Ma quando, alla fine del 1800, in paese fu collocata una caserma della Guardia di Finanza (Cazzone era vicina al confine con la Svizzera), quel nome cominciò a diventare scomodo: i militari ricevevano lettere dai parenti con intestazioni tipo “Salvatore Scognamillo, Cazzone”, oppure “Gennaro Cacace, Cazzone”. Più che un indirizzo, un insulto. Così, dopo varie lettere di protesta delle Fiamme gialle, il governo corse ai ripari: con il Regio Decreto CLXXV del 18 luglio 1895, re Umberto I e il premier Francesco Crispi decisero che Cazzone sarebbe diventato Cantello. Non tutti, però, ne furono soddisfatti: alcuni abitanti irriducibili formarono un comitato cittadino che chiedeva di tornare al nome originale. Il loro motto: “Cazzoni siamo e cazzoni resteremo“… 

 5) DA FIGAZZO A LIETO COLLE – Lombardia, Como

L’origine del nome di questa località non è chiara, ma è probabile che anch’essa, come Figadelli, alluda a piante di Fico. L’imbarazzante nome fu cambiato nel 1928 con quello più poetico di Lieto Colle, che dal 1956 è diventato una frazione di Parè.

 

6) DA CACCAVONE A POGGIO SANNITA – Molise, Isernia

Lo stemma di Poggio Sannita con la pentola di rame e la scritta latina “Samniticum caccabonense castellum” (castello sannitico caccabonese).

Il paese, poco più di 600 abitanti, sorge su un promontorio roccioso. Fino al secolo scorso si chiamava Caccavone perché in passato era sede della produzione del caccavo, dal latino caccabus, come nel caso di Caccavero (v. sopra). In questo caso, però, il termine designava un pentolone in rame usato dai contadini per la coagulazione del latte. Circa un secolo fa, il 20 febbraio 1921, il consiglio comunale decide di rinunciare a quel nome scomodo che “ricorda nella prima parte una cosa che disgusta, e nella seconda un accrescitivo che riempie la bocca e gli orecchi, suscitando il riso e la derisione della gente”. Così Caccavone viene cambiato in Vinoli, in omaggio alla produzione enologica. Ma nel luglio di quello stesso anno il consiglio comunale, non ritenendo abbastanza caratterizzante il nuovo nome, torna sulla questione: dato che il paese ricadeva nella regione dell’antico Sannio e dato che sorgeva su un poggio, il Comune viene ribattezzato in Poggio Sannita. Su proposta del ministero dell’Interno, il 15 gennaio 1922 un Regio Decreto recepisce la delibera del Consiglio Comunale e cambia la denominazione del Comune. Il caccavo, antico e amato simbolo del paese, rimane comunque presente negli stemmi delle istituzioni locali e nel gonfalone comunale.

7) DA MERDEGÒ A VERDEGÒ – Lombardia, Lecco

In origine questo paese, che oggi ha 2.300 abitanti, si chiamava Mardegorium, dalla fusione di “Martie Horreum”, granaio della via Marzia, un’antica strada militare dedicata a Marte. Mardegorium, nei secoli, diventò Merdagore, poi Merdegò (1837) e anche Merdago. Insomma, un appellativo poco onorevole. Così Merdegò nel 1938 cambiò iniziale e diventò un più accettabile Verdegò. [ ringrazio della segnalazione il lettore Davide Viganò ]

8) DA PORCARIZZA A ISOLA RIZZA – Veneto, Verona

Stemma di Isola Rizza con la scrofa.

Il nome originario di questo paese di oltre 3mila abitanti era “Insula Porcaritia”: “insula” perché l’abitato sorgeva in una spianata al di fuori dei boschi e delle paludi che circondavano la zona, e “porcaritia” nel senso di “recinto di porci“, per gli allevamenti presenti nella zona. Nel corso dei secoli, “Porcaritia” divenne “Porcarizza”. Nel 1872 gli isolani cambiarono il nome del paese in Isola Rizza, dimenticandosi del vecchio nome considerato volgare. In seguito però recuperarono la scrofa con il riso in bocca nello stemma comunale del 1932, che riprendeva il vecchio simbolo della comunità riprodotto ai piedi del campanile dal 1535.

 

LA VAGINA, IL PAESE PREMIATO CON PORNO GRATIS

A volte abitare in un paese dal nome imbarazzante può diventare un (discutibile) vantaggio. Nel 2018 il celebre sito canadese a luci rosse “Porn Hub” ha lanciato una campagna di marketing a sfondo geografico: premiare con un abbonamento gratuito “premium” chi abitava in un paese dal nome osceno. “Per rimediare agli anni di prese in giro, Per rendere questi fortunati residenti fieri delle proprie radici e far provare un po’ d’invidia al resto del mondo”, recitava lo slogan. Erano i “premium places”: nella lista dei 50 paesi ovviamente spiccava la solita Fucking. Ma ce n’era anche uno italiano, che ha un nome sexy ma non scurrile, anzi: scientifico: La Vagina, una frazione di Fosdinovo (Massa-Carrara). È un gruppo di case sorto in un luogo ricco d’acqua e di lavatoi, da cui è derivato il nome (lavaghina, che poi ha perso la h). I pornomani anglofoni l’hanno scovata perché il sesso femminile si chiama così anche in inglese. Se avessero saputo l’italiano, avrebbero  dovuto premiare anche gli abitanti di Scopa, Sega, Troia, La Ficaccia, Gnocca, Cazzago e molti altri paesi italiani dal nome osè… Per PornHub sarebbe stato un pessimo affare.

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Quei ridicoli nomi del piacere solitario https://www.parolacce.org/2020/10/27/modi-di-dire-masturbazione-sega/ https://www.parolacce.org/2020/10/27/modi-di-dire-masturbazione-sega/#comments Tue, 27 Oct 2020 10:24:10 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17730 In questi tempi di “lock down” e di isolamento forzato, l’argomento è tornato d’attualità. Sembra infatti che, per colpa della pandemia, sia aumentato l’autoerotismo: lo fa il 35% degli uomini e il 17% delle donne costretti a casa in smart… Continue Reading

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Sega: il termine più diffuso per indicare l’autoerotismo.

In questi tempi di “lock down” e di isolamento forzato, l’argomento è tornato d’attualità. Sembra infatti che, per colpa della pandemia, sia aumentato l’autoerotismo: lo fa il 35% degli uomini e il 17% delle donne costretti a casa in smart working. L’ha riscontrato un sondaggio su mille lavoratori svolto fra Regno Unito, Usa, Canada e Australia. Anche se, in tempi normali, basta il matrimonio per far impennare il sesso solitario.
Ma al di là delle battute, l’argomento è interessante dal punto di vista linguistico. In italiano, infatti, l’autoerotismo ha una cinquantina di nomi: quelli davvero neutri sono la minoranza. La maggioranza, infatti, sono termini goliardici e divertenti, ma anche ricchi di sfumature moralistiche di condanna (e questo in tutte le lingue del mondo, come vedremo più sotto). L’autoerotismo ha questi due volti, che a ben guardare sono facce della stessa medaglia, ovvero l’imbarazzo.  Perché?

Si fa ma non si dice

La domanda si impone, visto che è un comportamento molto diffuso in natura fra i mammiferi: lo fanno le scimmie, i cani, i cavalli, gli asini, i gatti, i galli e persino i delfini. Tant’è vero che in una grotta tedesce, a Hohle Fels, è stato trovato un fallo di pietra levigata di 28mila anni fa: il primo “dildo” (giocattolo sessuale) della storia. 

Meme ironico sull’aumento di autoerotismo per il Covid.

E oggi? Secondo l’ultimo “Rapporto sulla sessualità degli italiani” (di Marzio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna e Franco Garelli – Il Mulino, 2010), si masturba un italiano su 3. Ma con molte differenze: lo fanno più gli uomini (48%) che le donne (20%), Lo fanno più gli under 24 che gli over 60enni; lo si fa più al nord che al sud. Ma – ed è il dato più significativo – si è masturbato almeno una volta nella vita l’86% dei non credenti,e il 60% dei credenti. Anche se, come vedremo qui sotto, il tabù della masturbazione non è nato in campo religioso ma medico. Ed è recente: si è sviluppato solo negli ultimi 3 secoli.
Dunque, gli imbarazzi nascono da una scelta culturale. I nomi che usiamo, infatti, mettono a nudo i nostri giudizi e paure. Secondo una ricerca più recente (rapporto Eurispes “Sesso, erotismo e sentimenti”, 2018) oggi 8 giovani su 10, soprattutto quelli con più alto titolo di studio, considerano il sesso solitario un’attività “normale”. Ma i termini che lo designano, e i modi di dire che ispirano raccontano un’altra storiaPer capirla, occorre riavvolgere il nastro, con l’aiuto di un libro ben documentato di Jean Stengers e Anne Van Neck “Storia della masturbazione” (Odoya).

[ Cliccare sulla striscia blu per visualizzare il contenuto ]

Dagli Egizi a Gianna Nannini

Il dio egizio Atum.

Per molte religioni antiche l’universo cominciò con un atto autoerotico: Atum, dio egizio della creazione, generò i primi esseri facendo fuoriuscire il proprio sperma. E questo è uno dei motivi per cui la masturbazione è tabù: l’autosufficienza sessuale è una prerogativa divina. Nell’antichità classica la masturbazione era considerata una pratica naturale. Il filosofo Diogene il Cinico (IV secolo a. C.) si masturbava in pubblico: per lui era un bisogno corporale come un altro. Galeno di Pergamo, medico vissuto nel II secolo d. C., consigliava la masturbazione agli uomini per regolare la produzione dei liquidi corporei e alle donne per risolvere i disturbi nervosi.
La Bibbia, invece, non ne parla: l’onanismo (oggi sinonimo di masturbazione) deriva da Onan, personaggio della Genesi. Ma egli in realtà fu condannato da Dio non per autoerotismo, bensì per coitus interruptus: disperdeva il seme per non aver figli da Tamar, la vedova del fratello, che aveva sposato.  

Il cristianesimo, inizialmente, ha ignorato la masturbazione, limitandosi a inquadrarla come “rammollimento” dell’animo o disordine morale. Fu solo San Tommaso d’Aquino nel 1200, a citarla fra i peccati gravi contro natura (perché non rientra nei rapporti coniugali a scopo procreativo). Ma l’ammonimento non fece breccia: nel 1621, il medico inglese Robert Burton nel suo trattato “L’anatomia della malinconia”, la consigliava alle donne depresse.
La pessima nomea dell’autoerotismo risale infatti al 1700 e non per opera della Chiesa, bensì della medicina. Nel 1712 fu pubblicato in Inghilterra “Onania: ovvero l’odioso peccato dell’autopolluzione e tutte le spaventose conseguenze per entrambi i sessi”: l’autore era un medico, tale John Marten (il libello uscì anonimo), che elencava tutti i presunti danni dell’autoerotismo. Un terrorismo psicologico dettato da motivi d’affari: vendere i rimedi ricostituenti (tabacco da fiuto, erbe fortificanti) per chi se ne sentiva in colpa. Il trattato ebbe grande successo e la campagna contro l’autoerotismo prese avvio. Del resto, nell’Illuminismo la pratica era condannata perché dava sfogo agli istinti a scapito della ragione e favoriva la solitudine alla sana vita sociale. E nuoceva all’economia: toccarsi era uno spreco di forze.

Il mito dei danni fisici causati dalla masturbazione: illustrazioni tratte da “The Sexual System and Its Derangements” di Emery C. Abbey, 1877.

Così nel 1760 uscì “L’onanisme”, del medico svizzero Samuel Tissot, il primo trattato “scientifico” in cui si elencavano i danni causati dalla masturbazione. Il piacere solitario causava la cecità perché con l’eiaculazione si perdeva zinco, oligoelemento che proteggeva l’occhio dalla luce. L’autoerotismo rendeva deboli perché con il seme si disperdeva l’energia vitale. E dato che l’orgasmo è simile a una scarica epilettica, si credeva che la masturbazione causasse l’epilessia. Uno dei massimi oppositori della masturbazione fu l’americano John Harvey Kellogg, classe 1852, fratello del capostipite della dinastia dei cereali. Medico avventista, propugnò l’alimentazione a base di fibre per combattere l’autoerotismo, “crimine abominevole”. Una vera crociata anti masturbatoria, combattuta anche con l’ausilio di orribili cinture di castità e corsetti per impedire “atti impuri”.
All’inizio del 1900 Sigmund Freud pose le basi per una rivoluzione culturale, evidenziando che questo comportamento inizia fin dall’infanzia. E negli anni ‘50 il rapporto Kinsey, negli USa, rilevò che era un comportamento molto diffuso fra gli intervistati. Ma occorse aspettare fino agli anni ‘70, subito dopo la rivoluzione sessuale, per togliere la masturbazione dal banco degli imputati in medicina. Da malattia, è diventata cura con benefici effetti sull’umore, l’apparato sessuale, il sistema immunitario e chi più ne ha più ne metta.

“Il grande masturbatore” di Dalì.

Ma l’autoerotismo era già stato “sdoganato” molto prima dagli artisti.  Nel 1913 il pittore austriaco Gustav Klimt ritrasse diverse donne mentre si carezzavano. “Il grande masturbatore” è un dipinto di Salvador Dalí, eseguito nel 1929 e ha un significato più profondo: descrive l’artista come una persona sola, a contatto costante con la morte e il decadimento, e che si rifugia in un mondo sognante e immaginario che viene equiparato a un costante autoerotismo.

E più tardi è diventato perfino una performance dal vivo: nel 1972, l’artista italo americano Vito Acconci, nascosto sotto il un sottoscala di una galleria d’arte di New York, si masturbava raccontando al pubblico, attraverso un altoparlante, le sue fantasie erotiche. L’opera si intitolava “Il semenzaio”. Nel mondo della canzone italiana, il precursore è stato Lucio Dalla nel brano “Disperato erotico stomp” (1977): “mi son fermato a guardare una stella, sono molto preoccupato, il silenzio m’ingrossava la cappella. Ho fatto le mie scale tre alla volta, mi son steso sul divano, ho chiuso un poco gli occhi, e con dolcezza è partita la mia mano”.

La copertina di “California”.

Poi è arrivata la copertina del primo disco di Gianna NanniniCalifornia” (1979) con la Statua della Libertà che impugnava un vibratore: la canzone principale, “America”, è un inno alla masturbazione, sia maschile che femminile (Per oggi sto con me, mi basto e nessuno mi vede / E allora accarezzo la mia solitudine, / (…) Fammi sognare lei si morde la bocca e si sente l’America/ Fammi volare lui allunga la mano e si tocca l’America. Il brano fece scandalo perché l’autrice era una donna e perché la copertina del disco rendeva il tema più evidente. Un’altra donna ha fatto scalpore più di recente, nel 2007: la cantante britannica Marianne Faithfull nei panni di  “Irina Palm”, film che racconta la storia di una donna che si guadagna da vivere facendo “lavori di mano” in un glory hole.
Ma ancor più eclatante il sito Beautiful agony, lanciato nel 2004: mostra i video di persone che riprendono il proprio volto durante un orgasmo, per lo più mentre si masturbano. Un modo, dicono i fondatori del sito, per concentrare l’attenzione dell’erotismo non tanto sui corpi nudi ma sui volti.

Quei 50 nomi pruriginosi

T-shirt ironica in un pastificio emiliano.

Prima di elencare tutti i nomi dell’autoerotismo, è il caso di spendere due parole sul termine apparentemente più neutro perché usato in ambito scientifico: “masturbare”. Già dal punto di vista sonoro crea disagio. Il termine, infatti significa letteralmente manu turbare”, agitare con la mano, anche se “turbare” evoca sconvolgere, alterare la serenità o l’equilibrio di qualcosa. In questo termine, infatti, si concentra tutta la concezione negativa, moralistica, che vede in questo atto un “turbamento”: innanzitutto del corpo, dato che (come abbiamo ricordato sopra), fu prima di tutto la medicina a mettere all’indice i giochi di mano. Ma poi queste credenze furono fatte proprie dalla mentalità puritana del calvinismo inglese, che vedeva il matrimonio e il sesso solo come finalizzati alla procreazione: in questo contesto l’autoerotismo, un atto solitario finalizzato solo al piacere, non poteva che essere giudicato in modo negativo.
E questa ottica rientra permea anche l’espressione “masturbazione mentale (o intellettuale)”, per designare i pensieri fini a se stessi, infruttuosi.
C’è poi l’altro aspetto, quello ridicolo: molte espressioni sono palesemente ironiche (raspa, sega, pugnetta, pippa, manichetto, smacchinare…) forse per compensare l’imbarazzo di riferirsi a un gesto di sfogo solitario, animalesco e meccanico. Eppure, da un altro punto di vista, potremmo considerare questo atto come un’espressione di  autosufficienza: un bastare a se stessi che soddisfa un impulso naturale. Certo, resta pur sempre un’autosufficienz
a illusoria, un surrogato, un ripiego, essendo il sesso un’attività sociale, uno scambio che arricchisce (se funziona).

E ora vediamo l’elenco dei 50 termini che designano il piacere solitario. La fonte principale è stato il “Dizionario storico del lessico erotico” (Walter Boggione, Giovanni Casalegno, Utet), integrato dal dizionario Treccani e da WIkipedia. Fra questi termini, quasi la metà (44%) sono descrittivi, spesso in modo ironico; e altrettanti (42%) sono allusivi; il 14% sono moralistici e solo il 2% è realmente neutro

Scritta sul muro con risposta ironica.

Da notare che solo 4 espressioni indicano specificamente l’autoerotismo femminile (ditalino, solleticarsi col dito, titillarsi, sgrillettarsi): gli altri sono “unisex” (solitario, accarezzarsi, lavorare di mano) ma la maggior parte descrive l’atto maschile (sega, raspa, pugnetta). Segno della mentalità maschilista che vede nel piacere l’espressione di un più forte istinto e appetito sessuale, anche se con notevole ambivalenza: molte espressioni, come vedremo sotto, connotano questo come un atto di debolezza. Se sei un vero uomo hai una donna per soddisfarti, se invece ti tocchi vuol dire che non ne hai (“sfigato” perché debole, brutto, incapace) o sei insoddisfatto.

Ecco la lista completa dei termini divisi per categorie:

termini allusivi: 21 ♦ 5 contro 1 (= riferimento alle 5 dita e al membro)

♦ aggiustarsi con le mani 

♦ avere il braccio per amico 

♦ bricolage

♦ essere della religione del Manicheo (= riferimento alla mano) 

♦ fare manna palmiera (= produrre manna con il palmo della mano)

♦ levare la berretta (riferimento al gesto del braccio, oppure giro di parole per scappellare, cioè scoprire il glande) 

♦ manichetto  (= riferimento alla mano) 

♦ manichino (= riferimento alla mano) 

♦ menarsi l’agresto (= uva acerba: perdere tempo con qualcosa che non è pronto) 

♦ seminare la mandragola nei boschi (= la sua radice ha forma fallica)

♦ Federica (…la mano amica: il termine personifica la mano con un gioco di parole in rima)

♦ gioco solitario

♦ piacere solitario 

♦ ipsazione (= attività su sè stessi) 

♦ self service 

♦ singolare 

♦ solo, assolo 

♦ solitario 

♦ Venere solitaria 

termini moralistici: 7 ♦ amore artifiziato 

♦ corrompersi 

♦ mastuprarsi 

♦ masturbarsi

♦ mollizia 

♦ onanismo 

♦ vizio (solitario)

termini neutri: 1 ♦ autoerotismo
termini descrittivi: 22 ♦ accarezzarsi

♦ ditalino

♦ fregare

♦ lavorare di mano 

♦ macchinetta 

♦ maneggiare 

♦ manipolarsi 

♦ menare 

♦ menatina 

♦ palmeggiare (maneggiare col palmo della mano)

♦ pippa (dalla forma fallica della pipa)

♦ pugnetta (da pugno)

♦ raspa, raspone (da raspa, lima) 

♦ sbattutina del manico 

♦ scazzellare (sollazzarsi) 

♦ sega (per il movimento ripetitivo)

♦ smacchinare 

♦ solimano 

♦ solleticarsi col dito 

♦ sgrillettare 

♦ titillarsi

♦ toccamento

I MODI DI DIRE: DALLA DEBOLEZZA ALLA MONOTONIA

Celebre titolo di un libro di Giacobbe.

I termini che designano l’autoerotismo possono però avere anche altri significati, tutti negativi:

♦ sega, mezza sega, pippa, segaiolo, pippaiolo: debole, inetto, stupido, di nessun valore, imbranato, incapace, nullità, schiappa, mezza calzetta. uomo poco virile, debole e impacciato, inibito con le donne. Chi si dedica al sesso solitario è oggetto di disprezzo: un disonore per i maschi, ritenuti incapaci di trovare una partner.

♦ sega mentale, pippone, menata, pugnetta: discorso lungo, monotono, ripetitivo, insopportabile, cervellotico, noioso, sterile, inconcludente, infruttuoso. E’ un’allusione alla ripetitività dell’atto sessuale.

♦ poche seghe: basta indugi

♦ fare una sega: essere inferiore (“Pino mi fa una sega”)

♦ una sega: niente (“non mi importa una sega”)

L’espressione “fare sega” nel senso di “bigiare, marinare la scuola” non si riferisce al sesso, bensì all’atto di recidere con un colpo netto la frequenza scolastica. 

Nelle altre lingue: da “strozzare il pollo” a “pettinare la giraffa”

L’attrice Cameron Diaz in posa allusiva col titolo: “Il piacere è tutto mio”.

La ricchezza linguistica di termini per descrivere l’autoerotismo non è un’esclusiva dell’italiano. In tutte le lingue, infatti, sono presenti modi di dire allusivi che sono un capolavoro di creatività molto divertente. Da “stringere la mano al presidente” al cruento “strozzare il pollo”, da “pettinare la giraffa” ad “accarezzare la scimmia”, da “frustare la bestia” a “spettinare il pagliaccio”… Fino a “suonare il fagotto di pelle”. Da notare le metafore poetiche create nelle lingue orientali, come “far volare un aquilone”.
La più universalmente diffusa sembra comunque l’espressione a sfondo matematico “5 contro 1”.
Ecco una lista parziale di espressioni in 18 lingue (chi volesse segnalarne altre nei commenti, è benvenuto).

 

inglese colpire il vescovo (bashing the bishop: riferimento alla sagoma dell’alfiere negli scacchi), sfogliare il fagiolo (flicking the bean), strozzare il pollo (choke the chicken), scuotere la carota (cuffing the carrot), mettere la salsa al taco (saucing the taco), fare eruttare il verme (burping the worm), lucidare il muffing (buffin the muffin), dipingere il sottaceto (painting the pickle), incantare il serpente (charming the cobra), far piangere il calvo (making the bald man cry), stringere la mano al presidente (shaking hands with the president), pulire il corno (to polish the horn), schiaffeggiare il sergente (slapping the sergeant), sbucciare un po’ di peperoncino (Peel some chili’s), staccare la prugna da soli (Pulling the Plum Off Yourself), andare da soli in città (Going to Town on Yourself), strappare la maniglia da soli (Tearing The Handle Off Yourself), nutrire l’asino (feeding the donkey). 

masturbazione femminile: pagaiare la canoa rosa (Paddling the pink canoe), visitare la cassetta di sicurezza (Visiting the safety deposit box) far uscire l’omino dalla barca (Flicking the Little Man Outta The Boat, riferimento al clitoride)

francese scuotersi (se branler), ménage à moi (rapporto a me), toccarsi le tagliatelle (se toucher la nouille), mungere la mucca (traire la vache), lucidarsi il manico (s’astiquer le manche), far piangere gli angeli (faire pleurer les anges), lucidarsi l’anello (s’astiquer le jonc), giocare con la bacchetta magica (jouer avec le baguette magique), battersi la coda (Se taper une queue), pettinare la giraffa (peigner la girafe), soffiare il ciclope (moucher le cyclope), fottersi (s’en foutre)

masturbazione femminile: digitarsi (se doigter), mescolare l’insalata (tourner la salade), manomettersi la pancetta (se trifouiller le lardon), far rotolare la palla (se rouler la bille

portoghese sbucciare la banana (descascar a banana), 5 contro 1 (5 contra 1), giocare a biliardo tascabile (Jogar bilhar de bolso), spettinare il pagliaccio (Descabelar o palhaço)
spagnolo   ballare con Manuela (bailar con Manuela, che sta per “manuale”), tirare il collo all’oca (Jalarle el cuello al ganso), cinque contro il calvo (cinc contra el calvo, in catalano), fare  il fieno (echar paja, Venezuela), svuotare la vena principale (drenar la vena principal, Messico)
tedesco 5 contro Willy (5 vs Willy), soffocare Giorgio (den Jürgen würgen), salutare uno dalla palma (einen von der Palme wedeln), strofinare la carota (die Möhre schrubben), cinque contro uno  (Fünf gegen einen)
svedese dare la cera al salame (Vaxa salamin), impastare la baguette (Knåda baguetten), lucidare la spada di maiale (Putsa fläsksvärdet), suonare il flauto di pelle (Spela på skinnflöjten), nutrire il castoro (Mata köttbävern), cavalcare l’ascensore di pelle (Åka skinnhis), far piangere Gesù bambino (Få jesusbarnet att gråta), giocare a ping pong tascabile (Spela fickpingis), frustare la bestia (Piska besten), trascinare Tarzan (Dra en Tarzan) 
danese battere i ciclopi (At tæve kyklopen)
norvegese  lanciare il salmone (nappe laksen)
finlandese disegnare a mano (vetää käteen), disegnare a secco (vetää kuivat), giocare a biliardo tascabile (pelata taskubiljardia), suonare il fagotto di pelle (soittaa nahkafagottia
rumeno stringere la mano al presidente (a da mana cu presedintele), colpire in testa il muto (ai da-n cap lu ‘mutu
polacco frustare il cavallo (walic konia), guidare col freno a mano (jechac na recznym), colpire un tedesco sull’elmetto (Bic niemca po kasku), giocare a biliardo tascabile (Grac w kieszonkowy bilard)
russo accarezzare la scimmia (Lysogo v kulake gonyat)
hindi la tua mano è Dio (apna haath, jagannath)
turco  tirar fuori il 31 (31 çekmek: la parola “el”, mano si traduce in numero 31)
thailandese far volare un aquilone (Chuck Wow, per i maschi); pescare (Tuk Bet, per le donne)
cinese manovrare l’aeroplano (打飞机), sparare un colpo di pistola (打手枪), piacere privato (私人乐趣), mangiare se stessi (吃你自己)
ebraico portare a mano (להביא ביד )
giapponese  10mila sfregamenti (Shiko Shiko Manzuri, per le donne), mille sfregamenti (Shiko Shiko senzuri, per gli uomini)

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Mariangela Melato e Giancarlo Giannini: in questo film hanno fatto un’interpretazione straordinaria.

Quando uscì nelle sale gli fu imposto il divieto di visione ai minori di 14 anni: per le scene erotiche e “per il linguaggio triviale, alquanto persistente”. Eppure è diventato un campione d’incassi e un film cult, che ha segnato la storia del turpiloquio cinematografico. Perché senza tutte quelle volgarità (probabilmente un record) il film non avrebbe fatto epoca. E non sarebbe stato neppure credibile.
Sto parlando di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmüller. Quest’anno il film compie 45 anni: in occasione della Mostra internazionale del cinema di Venezia, ho deciso di dedicargli un articolo. Per mostrare come le parolacce possano essere al servizio di un film profondo, a dispetto delle apparenze scanzonate. E anche perché i suoi dialoghi scurrili sono un vero capolavoro di ritmo, mordacità e comicità. Molte battute folgoranti del film, infatti, sono entrate nella memoria storica e nei modi di dire: ecco perché ho trascritto interi spezzoni del film, che sono ancora oggi un raro esempio di maestria narrativa.

La regista Lina Wertmüller (Wikipedia).

Il film racconta la storia di un marinaio catanese, Gennarino Carunchio (Giancarlo Giannini), che naufraga su un’isola deserta e selvaggia insieme a una donna milanese Raffaella Pavone Lanzetti (Mariangela Melato). I due si innamorano, ma quando poi tornano nella civiltà le loro strade si dividono.
Detta così sembra una trama come tante. Ma in realtà è molto originale, perché la storia si gioca su forti contrasti sociali: quello fra poveri e ricchi, fra sud e nord, fra sinistra e destra, fra uomo e donna. Carunchio incarna infatti il povero, meridionale, comunista e maschilista, e la Lanzetti la ricca, milanese, radical-chic (o socialista) e femminista. Due personaggi interpretati magistralmente dalla coppia Giannini-Melato.
E a questi contrasti sociologici se ne aggiunge un quinto di tipo filosofico: quello fra natura (incarnata dal manesco e pratico Carunchio, oltre che dalle selvagge spiagge della Sardegna) e cultura (la snob ed erudita Lanzetti). “Tu sei l’uomo come doveva essere nella natura, prima che tutto si deformasse”, dice ammirata Raffaella a Gennarino. Aggiungendogli, quando lui le propone di provare a tornare alla civiltà, “Perché rientrare in quegli schemi? E’ un ingranaggio mostruoso”. E infatti quell’ingranaggio alla fine riuscirà a disintegrare il loro amore impetuoso.
Dunque, non un consueto incontro fra uomo e donna, ma un’impossibile sintesi degli opposti: il diavolo e l’acqua santa. Nitroglicerina allo stato puro. Ecco perché, soprattutto fra i due, scoccano scintille sotto forma di litigi, botte e soprattutto insulti. Che esprimono odio allo stato puro. Oltre, naturalmente, alle scintille dell’erotismo, che in questo gioco di contrasti arriva a punti bollenti: “Buttana, io ti odio ma mi piaci”; confesserà Carunchio. E lei perderà la testa.
Se consideriamo che il film fu girato nel 1974 e diretto da una donna, si apprezza ancor più la sua portata rivoluzionaria. Tra l’altro, a ottoobre la Wertmüller riceverà l’Oscar alla carriera.

Di cinema e parolacce parlerò alla 76a Mostra internazionale del Cinema di Venezia (Italian Pavilion, Hotel Excelsior Venezia Lido) mercoledì 4 settembre alle 15:00.
Con un interlocutore d’eccezione: Gianni Canova, critico cinematografico e professore di storia del cinema. Canova ha appena dedicato un numero della rivista 8 e 1/2 (dell’Istituto Luce Cinecittà) proprio al rapporto fra cinema e parolacce.
Dunque, se siete al Lido di Venezia, sarà un’occasione per riflettere – una volta tanto – su come il turpiloquio abbia contribuito a rendere viva la settima arte.

Buttana industriale. E socialdemocratica

Il film si gioca su dialoghi scoppiettanti, nei quali le parolacce sono una continua giostra emotiva, dalla prima (“Questo paradiso di spiaggia lo riempiranno di merda, rifiuti e buste di plastica”) all’ultima battuta (“Ma come cazzo si fa a campare?”).

“Lezione numero 1”: una delle espressioni di Giannini.

La Wertmüller non si è limitata a usare pochi termini scurrili (tre vincono su tutti: buttana, troia, fitusa) ma ha prodotto un vero florilegio di variazioni sul tema, attingendo a più di 30 modi di dire popolari e dialettali, non solo siciliani ma anche napoletani: vaffanculo, rincoglionito, spappolare le palle, palle, cazzo, stronzo, troia, fitusa (in siciliano, puzzolente, schifosa), rompere la minchia, coglione, negro, scemenza, vaffanculo, zoccola, puttana, maiala, cornuto, sticchio (fica in siciliano), vafammocca (in napoletano, vai a fare un bocchino), sgualdrina, cacà u cazz (cagare il cazzo), cazzi da cacare, brutto abissino, terrone, postaccio di merda, porcona, sciacquetta, meretrice, culo, zizze, cretino, fottere, cocò (cocotte, prostituta).
E a questo ricco  repertorio ha aggiunto anche alcune invenzioni espressive che sono passate alla storia: buttana industriale (un rafforzativo grottesco di “puttana”), socialdemocratica (una forma di disprezzo per chi sta al centro ma strizza l’occhio alla sinistra), che diametro (= che culo), faccio quello che stracatacazzo (un rafforzativo di cazzo) mi pare, scarrafuciona (probabilmente un accrescitivo di scarrafona, scarafaggio), sottoschifo di cameriere.

LUI SESSISTA, LEI SNOB

Nel film, tutte queste scurrilità servono ad alimentare la dialettica fra i due protagonisti. E a mostrare il carattere dei due protagonisti così agli antipodi. Lui, Carunchio, usa un dizionario grezzo e di bassa leva anche se creativo; lei, la Pavone-Lanzetti, un lessico più erudito ma meno graffiante. E in questo contrasto le risate sono assicurate. Anche perché le battute sono condite dall’accento siciliano di lui, e da quello milanese (e con l’erre moscia) di lei.

I primi scontri fisici durante lo sbarco sull’isola.

Quando Raffaella, appena sbarcata sulla spiaggia, pretende che Gennaro salga di nuovo in cima al monte dell’isola per guardare se è abitata, e lui si rifiuta, lei sbotta in un “E’ inutile cavare acqua dalle rape”.
Carunchio, che fino ad allora, era riuscito più o meno a controllarsi, sbotta senza freni. “Senti, donna Raffaella Pavone-Lanzetti. Ora mi hai rotto la minchia! Faccio quello che stracatacazzo mi pare, gioia. Ma chi ti credi di essere? Ma vaffanculo!”. E qui inizia uno dei tanti duelli verbali del film.
LEI: “Cafone!”
LUI: “Va-ffan-cu-lo!”.
LEI: “’Sto stronzo!”.
LUI: “Scarraafuciona!”.
LEI: “Butto porco!”.
LUI: “Puttana, troia, zoccola, puttana, maiala!”.
LEI: “Brutto mozzo trinariciuto del cavolo!”.
LUI: “La signora di questa minchia! Meretrice, troia, sgualdrina!”.
LEI: “Stronzonissimo!”.
LUI: “Fitusa, gran mignotta! Vaffammocca a zì Nicola. Nu povirazzo arriva il momento che si caca u cazzo, o no?!”.
LEI: “Vigliacco d’un immaturo! Che roba di sottoproletariato”.
LUI: “E’ finito Gennarino. Buttana, troia. Ora pì ttia sono cazzi da cacare. Ora ci divertiamo, signora. Sono minchie amare”.
LEI: “Eh, la rivolta dello schiavo. La presa della Bastiglia”.
LUI: “Bagascia, sgualdrina, prostituta e cocò (
cocotte, prostituta)”.
LEI: “Spartacus! ‘Sto stronzo. ‘Sto cafone del cavolo!”.
LUI: “Sciacquetta! Porca! E socialdemocratica”.

I due protagonisti litigano sul canotto, prima del naufragio.

Un contrappunto perfetto. Gennarino – da buon maschilista – attacca soprattutto con insulti sessisti: il che appare una scelta povera, visto che Giannini interpreta un dirigente del Partito Comunista, che come tale avrebbe dovuto avere un vocabolario più ricco, anche negli insulti. Ma forse la Wertmüller ha voluto dipingerlo soprattutto come un maschilista siciliano vecchio stampo. Questo, comunque, non gli impedirà (come vedremo più sotto) di argomentare il suo disprezzo anche con analisi sociali ed economiche.
La Melato-Lanzetti, invece, usa insulti snob, perfettamente intonati alla sua personalità. L’elenco è così vario, creativo e divertente che merita di essere pubblicato integralmente: cretino, imbecille, stramicione (pigro, indolente) meridionale, mammalucco, brutto mozzo trinariciuto del cavolo, stronzo, Spartacus, carogna d’un vigliacco, comunista del cazzo, bestiaccia nera, peggio di Hitler, carogna, ridicolo e vile, bestia, esemplare di maschio mediterraneo, roba di sottoproletariato, porco, maleducato, cafone, brutto abissino, mi fai schifo, lei è un verme

CHI STA SOTTO E CHI STA SOPRA

L’aragosta: cibo da ricchi, ma anche da naufraghi capaci di pescare.

Il cuore del film, come ho detto sopra, è il contrasto sociale fra ricchi e poveri. Visto da una prospettiva dichiaratamente marxista. Il film inizia evidenziando le differenze di classe, di vita e di trattamento reciproco dei due protagonisti. Ma la vita selvaggia sull’isola, il ritorno alla primordiale lotta per la sopravvivenza annulla le differenze. Anzi: se sullo yacht Gennarino deve chinare il capo e subìre qualunque angheria dalla riccona, sull’isola è lui ad avere il potere perché è l’unico in grado di procurare il cibo e l’acqua con cui sopravvivere.
Dopo il diverbio iniziale, infatti, i due si dividono. Ma mentre lei non ha la più pallida idea di come procurarsi da mangiare, lui riesce a pescare e cuocere una magnifica aragosta. E non la divide con lei che gliene chiedeva un pezzo per umana pietà.
“Sappia che lei è un miserabile, carogna di un vigliacco! Ci deve essere una legge…. Star lì a mangiare lasciando digiuni gli altri”, lo accusa lei.
“Eh già, ma bisogna riflettere!” risponde il comunista Carunchio. “Se ci stava una legge del genere, stavano in galera tutti i ricchi del mondo! Ma siccome questa legge non c’è, in galera ci stanno solo i poveri”.
Comunista del cazzo! Naturaccia di merda, bestiaccia nera, che carogna! T’el chì come lo usano il potere, ricattando e affamando. E approfittando. Peggio di Hilter. Piuttosto mi lascio morire di fame…”.

Donna Raffaella provata dalla spartana vita da naufraga.

[ Ma i morsi della fame le fanno subito cambiare registro.] LEI: “Mi venda quel pesce. Glielo pago quello che vuole. 100mila, 200mila? Che cavolo vuole per quel pesce? Ce lo pago mezzo milione carogna!”.
LUI: “E continua a insultare eh? Eh lo so, è brutto stare di sotto. Le dico una cosa. Questo pesce non lo vendo. Ho deciso di fare come voi quando bruciate le mele e le arance per tenere alti i prezzi”.
LEI: “Assassino!”.
LUI: “No, io sono ignorante e incompetente. Gli assassini organizzati siete voi! Comunque stammi a sentire femmina. Lezione numero 1: denaro per cumprare chistu pesce nun ce n’è. Se te lo vuoi comprare, questo pesce, te lo devi guadagnare. me spiego? Lavami i mutandi ah!? 
Eh, donna Raffaella non aveva lavato mai le mutande. Perché era stata sempre di sopra.E ora che si trova di sotto ci tocca imparare a lavare i mutandi… Ma il lavoro nobilita l’uomo, a maggior ragione la femmina”.
E così donna Raffaella gli lava le mutande, conquistando il diritto di una porzione di cibo. Ma non si dà per vinta:
“Perché fa pagare tutte a me le rivendicazioni sociali  e le ingiustizie della vita? Cos’è che ci guadagna? Se lei sarà gentile con me le sarò grata” prova a blandirlo.
Ma lui non cede, anzi rilancia: “Se vuoi stare qui, devi lavorare! E’ finita la pacchia, perché la femmina è nata per fare la serva all’uomo. Bacia la mano al padrone!”.
“Mai!”.
“Brutta buttana industriale che mi facisti sputare sangue su quella maledetta barca!”.
“Lei è un verme!”.
“Lezione numero 2: hai capito femmina, che non ti posso permettere più di insultarmi?! Non rispondere, femmina, Stai zitta, obbedisci! In piedi voglio essere servito! Tu mi invitasti mai al tavolo a sedere sullo yacht? La signora di questa minchia: il vino è caldo, la pasta è scotta, il caffè è riscaldato….”.

Il celebre pestaggio sulle dune: una vendetta per i soprusi socio-economici.

Alla fine, le loro posizioni inconciliabili sfociano nella celebre scena del pestaggio sulle dune, in cui Gennarino punisce in Raffaella tutti i soprusi che le classi più umili hanno dovuto subìre da ricchi e potenti:
“Brutta carogna, finalmente posso darti la lezione che ti meriti!”
“Aiuto!”
“E chi ti può aiutare, cretina! Dove scappi brutta fitusa! A calci in culo ti prendo, brutta buttana industriale socialdemocratica!”.
“Vigliacco verme schifoso!”.
“Devi pagare tutto! Questo
[le dà uno schiaffo] è per la crisi economica in cui ci precipitasti a non pagare le tasse e a portare i soldi alla Svizzera, te, e tutti gli altri come a tia!.
Questo
[le dà un calcio] è per gli ospedali che un poveraccio non ci riesce a entrare mai, che magari è meglio perché se ci entra muore. E questo [spintone] è per l’aumento della carne, del parmigiano, delle tariffe filo-tramviarie del treno e l’aumento della benzina. Per l’aumento dell’olio e della cassa integrazione. Questo [pugno] è per l’Iva e per l’una tantum, E questo [altro pugno] è perché ci avete fatto venire paura anche di campare”.

Più espliciti di così non si poteva essere. 

SESSO E VERGOGNA

Giannini e Melato: un rapporto molto fisico, oltre che verbale.

Nella dialettica fra natura e cultura, non poteva mancare una riflessione sul sesso. Quanto c’è di naturale e quanto di “costruito” nel sesso?
Gennaro smonta subito gli atteggiamenti puritani di donna Raffaella, che si indispettisce quando lui le guarda il lato B.
“Ti guardo quanto mi pare e piace! Ti guardo le natiche… E quando stavate sdraiate sullo yacht a prendere il sole con le zizze di fuori, come se noialtri non ci fossimo? E invece credo che voi poccone (porcone) lo sapevate benissimo che eravamo uomini e vi piaceva pensare che ci facevate morire… Bottana industriale, fammele vedere adesso le zizze! Avanti, scoprire il davanzale! Si vergogna la signora? E com’è che prima non ti vergognavi? Voi femmine di lusso, siete brave a provocare”.

Ma a Gennaro non basta un’avventura fisica. Vuole che lei metta da parte tutte le inibizioni e le sovrastrutture culturali per amarlo con una passione totalizzante. La provoca, la coinvolge, e all’ultimo si tira indietro. Una vendetta: come lui era stato schiavo economico, umiliandosi come mozzo, lei sarebbe dovuta diventare una schiava d’amore.

“Bacia la mano al padrone”: una delle frasi maschiliste di Gennaro.

“E ora ti strappo ‘i mutandi. Ti faccio sentire io cos’è un uomo , perché non l’hai conosciuto mai un uomo vero. Buttana industriale, io ti odio ma mi piaci. Confessa che stai a morire… come si lamenta… Fai sì brutta troia! E invece no! Sono io che ti dico di no! Un brutto cafone nero ignorante come a mia, a uno che gli hai detto di cambiarsi la maglietta sudata, che gli hai detto ‘brutto cafone meridionale’, a uno che è stato sempre di sotto come a mia e che ci hai detto che ti fa schifo, non basta che mi dici di sì. Ti devi innamorare. Innamoratissima devi essere, Schiava già ci sei, ma schiava d’amore devi diventare. Devi strisciare come un verme ai miei piedi. Devi chiedere pietà, ti deve prendere un amore nero che ti torce le budella. Passione disperata, peggio di una malattia. Io ti devo entrare dentro la pelle, dentro la testa, dentro il cuore, dentro la pancia. Il tuo dio devo diventare! Passione o niente! Lo devi ancora conoscere Gennaro Carunchio!”. 

LA VOLGARITÀ? INVENZIONE BORGHESE

Quando alla fine sarà riuscito a conquistarla, la Wertmüller fa dire ai due protagonisti un’importante affermazione sul linguaggio scurrile in amore. In amore tutto è lecito, anche le parolacce.
Gennaro dice a lei, che è già pazza di lui:
“La femmina è un oggetto di piacere, trastullo per il lavoratore, puttana da casino!”
“Perché sempre puttana?”.
“Puttana da una parte è un insulto, ma dall’altra può diventare un complimento”.
Detto da una regista donna, è un bell’atto di coraggio. E di onestà intellettuale.

Donna Raffaella, ormai sottomessa e innamorata.

Ma c’è un passaggio ancora più esplicito. Una vera e propria riflessione antropologica sulle parolacce: le scurrilità sono il linguaggio della sincerità, della schiettezza. Chi usa giri di parole e termini forbiti esercita una forma di potere, come i medici quando usano i paroloni scientifici per parlare delle malattie (o gli avvocati quando parlano di leggi).
E’
la celebre scena del “sodomizzami”, che fa da contraltare comico alla scena del “burro” di “Ultimo tango a Parigi”, uscito 2 anni prima.
Raffaella, in preda alla passione, sussurra a Gennaro “Sodomizzami”.
E lui: “Brutta fitusa borghese carognona: ma tu Lo fai apposta per farmi sentire ignorante con queste parole difficili? Ma questa cosa che porcheria è? Io nun te capisco. Che caspita sarebbe?
“Scusa amore”.
“Scusa una cippa di minchia! Che maniera di parlare? Io sono ignorante e me vanto”.
“Scusa amore. Ho detto così perché è una cosa difficile da dire”.
“E poi che è sta cosa? Sodorizzami, sodorazzami, che è?”.
“Sodomizzami… sarebbe…
[e si gira]“.
“Chiddu sarebbe? Ma quanto sei complicata. Ma chiama le cose col nome suo!”.
“Ma amore… era una cosa d’amore… non si può … diventa una volgarità”.
“Che volgarità! Nell’amore non c’è volgarità! Ve la siete inventata voi borghesi la volgarità!”.

Riflessione profonda. Le parolacce sono vietate non perché parlino di cose oggettivamente disdicevoli, bensì perché parlano di cose che ci fanno paura: sesso, limiti, malattie, morte. Siamo noi che stabiliamo quello che non si può dire, comportandoci come “borghesi” (benpensanti, mediocri, codardi). La differenza fra parole pulite e volgarità è una scelta arbitraria. Ecco perché ciò che fa scandalo cambia da epoca a epoca, da Paese a Paese. E da persona a persona.   

VITA AMARISSIMA

La vita nella natura selvaggia dell’isola.

Come molti film degli anni’70, anche questo ha un finale amaro. La passione fra i due protagonisti, che sembra irrefrenabile, sarà spezzata dal ritorno a una vita convenzionale. L’economia vince sulla vita allo stato naturale.
Gennaro, del resto, aveva dubbi anche quando Raffaella sembrava in preda a un amore inattaccabile:
“Se non facevamo naufragio come stavamo io e te? Io di sotto e tu di sopra. Io poveraccio nero e tu riccaccia bianca. Tu facevi la signora e io una specie di sottoschifo di cameriere. La vorrei proprio vedere la signora Lanzetti passeggiare con questo terrone vicino a Milano”.
E così, dopo aver messo alla prova il loro rapporto tornando nel mondo civile, quando lei – rimangiandosi le promesse d’amore eterno – vola via in elicottero insieme al marito, lui le urla:
Fitusa traditrice! Buttana! Accidenti a tia, accidenti a quando ti credetti! Lo sapevo che non mi dovevo fidare di una ricca perché i ricchi ti fottono sempre! Buttana industriale che mi lasci solo!”.
Dopo una sbronza colossale, la moglie di Carunchio lo raggiunge al porto, accusandolo di averlo tradito.E i due litigano. Alla fine, l’amara conclusione di Carunchio, sconfitto su tutta la linea: “Ecco, una buttana di sopra (la Lanzetti era fuggita in elicottero), una buttana di sotto e l’amico mare traditore… Ma come cazzo si fa a campare?”
Nel finale, insomma, le volgarità servono a rafforzare l’amarezza e la delusione di Gennaro, sconfitto su tutta la linea. Insomma: finché il rapporto uomo-donna si gioca sul piano della sopravvivenza e della forza fisica, Gennaro è vincente. Ma nella vita moderna, in città, vince chi ha i soldi: può fare il bello e il cattivo tempo, prevalendo anche sulla forza bruta. I ricchi ti fottono sempre.

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