Nel fotomontaggio, autoritratto di Caravaggio (dal dipinto “Giuditta e Oloferne”)
E’ l’emblema dell’artista maledetto: genio e sregolatezza. Ha dipinto capolavori immortali ma ha passato la sua breve vita (morì a 39 anni) dentro e fuori dalla galera, fuggendo da condanne, gendarmi, creditori, malviventi (e con un paio di omicidi sulle spalle). Caravaggio è uno degli artisti che ammiro di più, e mi è venuta una curiosità: come si esprimeva nella vita di tutti i giorni? In particolare: diceva parolacce, e quali?
Da un personaggio con una biografia del genere ce le possiamo aspettare, ma l’artista non ha lasciato opere scritte. Eppure possiamo conoscere il suo linguaggio grazie a straordinari documenti del suo tempo: i verbali delle denunce, degli interrogatori e delle sentenze a suo carico. Documenti dell’epoca, che offrono una prospetiva unica sul suo linguaggio (spoiler: molto volgare), oltre che sul suo carattere inquieto, travagliato e facilmente infiammabile. Gli importava più della propria onorabilità di artista e di uomo che della fedina penale. E diceva ciò che pensava a muso duro, senza sconti per nessuno: compresi i pubblici ufficiali.
Le parolacce offrono un ritratto eloquente dell’uomo Caravaggio (soprannome di Michelangelo Merisi), a cui sono dedicate due grandi mostre che stanno aprono proprio in questo mese: una a Roma, a palazzo Barberini (Caravaggio 2025, dal 7 marzo al 6 luglio) e una a Firenze a Villa Bardini (Caravaggio e il Novecento, 27 marzo-20 luglio).
Autoritratto di Caravaggio nel Martirio di San Matteo (1600).
A Roma, Caravaggio fu più volte denunciato per schiamazzi notturni, atti vandalici, porto d’armi abusivo, aggressioni, ingiurie, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, diffamazione. Nei verbali dei suoi arresti e processi (conservati all’Archivio di Stato di Roma) emerge il suo linguaggio scurrile, espressione del suo temperamento irruente, competitivo, facilmente infiammabile, attaccabrighe e insofferente verso ogni limitazione.
Fra le imprese che lo hanno portato in tribunale, anche la composizione di due sonetti osceni, in cui prese di mira il suo collega e rivale Giovanni Baglione. Una sorta di “dissing” barocco, che rende Caravaggio simile a un trapper balordo dei nostri tempi. Baglione viene definito “Gian coglione”, le sue opere “pituresse” (croste di nessun valore) buone solo per incartare i salumi o (testualmente) per pulirsi il culo o come falli artificiali. Quei sonetti satirici così caustici, infatti, erano un giudizio artistico sulle opere del rivale, che si fa chiamar “pittore” ma non è capace nemmeno di mescolare i colori. Una prova tangibile di quanto la passione per l’arte coinvolgesse Caravaggio in modo viscerale. La Storia, insomma, non ci ha consegnato solo insulti da risse notturne, che pure furono numerose.
A sinistra, ritratto di Giovanni Baglione; a destra, Caravaggio ritratto da Ottavio Leoni (1621).
Come scrisse Baglione ne “Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti”: “Fu Michelagnolo [Michelangelo], per soverchio ardimento di spirito, un poco discolo, e tal hora cercava occasione di fiaccarsi il collo di mettere a sbaraglio l’altrui vita”. Baglione, infatti, è autore di una delle pochissime biografie di uno che l’aveva conosciuto davvero: sebbene scritta 30 anni dopo la morte del rivale, trasuda ancora livore. Questi atti giudiziari, oltre a svelare il turpiloquio di Caravaggio, sono un’occasione preziosa anche per conoscere la sua filosofia artistica, i colleghi che stimava e quelli che disprezzava, e quali sue opere, all’epoca, avevano suscitato clamore.
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Fra i numerosi verbali giudiziari a carico di Caravaggio (nei quali il giudice interroga testimoni e imputati in latino, e loro rispondono in italiano), ne ho trovati 4 costellati di parolacce. Caravaggio le diceva per sfogare la sua rabbia e disprezzare i suoi nemici, con una predilezione per gli insulti di carattere sessuale: i più feroci, rivolti sia alle donne (turare la potta) che agli uomini (becco fottuto, coglione), più diverse altre espressioni scurrili: forbirsene il culo, avere in culo, cazzone, cacca, fottere.
Testa di Medusa (1597): un possibile autoritratto di Caravaggio.
Un campionario nutrito: il pittore non aveva remore a usare il linguaggio scurrile, avendo un temperamento impulsivo, irruente e aggressivo. L’autocontrollo non era il suo forte. Era un uomo passionale e diretto: non aveva filtri né censure, si esprimeva così persino con i gendarmi. E questo gli ha ovviamente procurato diversi guai, da cui si è salvato soltanto grazie all’intervento dei suoi protettori altolocati (nobili e cardinali). E qui si impone un parallelismo con la sua arte: come nei dipinti voleva riprodurre esattamente quello che vedeva, senza alcun miglioramento estetico, così nel linguaggio non ricorreva a eufemismi. Diceva direttamente ciò che sentiva, anche se era sgradevole e offensivo.
Fra gli episodi per cui fu processato, spiccano i sonetti satirici contro il rivale Baglione, pieni di insulti scurrili, anche indiretti: per denigrare Tommaso Salini, dice che ha “un cazzon da mulo” (quindi sproporzionato, animalesco: oggi però suonerebbe come un complimento) ma non lo usa per “fottere la moglie”. E che le tele del suo amico Baglione sono buone giusto per “turare la potta” (la vulva) della moglie, come sostituti fallici. Immagine pesantissima, offesa irriguardosa e trasversale: perché colpisce anche una persona estranea alle dispute artistiche.
In un sonetto, poi, c’è anche uno sberleffo infantile: i quadri di Baglione valgono così poco che vendendoli ci si può ricavare i soldi per un paio di braghe così sottili da mostrare quando si sporcano di cacca.
Da notare l’uso del’aggettivo “fottuto” nel senso di “spregevole” (nell’espressione “becco fottuto“, ovvero “cornuto spregevole”): oggi è in disuso, suonerebbe come un’espressione tradotta dall’inglese, che fa largo uso del termine “fucked” o “fucking”. E, in una società maschilista, l’epiteto di “becco” era considerato massimamente offensivo per un uomo.
Interessante anche il termine “pituressa” (pitturetta), un diminutivo femminile con valore spregiativo.
Si segnala anche l’espressione “avere in culo” nel senso di “avere in antipatia”: oggi diremmo “stare sul culo”.
Negli atti del processo per diffamazione, Salini cita le espressioni “spione becco” e “furfante spione”, a lui rivolte da Onorio Longo, e Baglione lo conferma, aggiungendo che Longo gli aveva detto anche “infame”e “cornuto”. Tutti insulti in voga a quell’epoca.
Tommaso Salini
Caravaggio incontra per strada Mao (Tommaso) Salini, un collega pittore. Questi dipingeva soprattutto nature morte: cosa che aveva punto sul vivo Caravaggio, tra i primi a inaugurare, a Roma, questo genere di soggetti come elementi autonomi. Secondo Caravaggio Salini era un copione, un plagiatore, e questa cosa era per lui intollerabile. Così, un giorno, lo incrocia per strada, lo fa passare, ma poi lo insegue e gli assesta un colpo di spada in testa. “Michelangelo mi terò molti altri colpi in modo che se non fossero corsi li vicini, et così sentito il rumore facilmente sarei potuto dal detto restare ferito, et forse morto, havendomi di più ingiuriato, e dirme becco fottuto et altre parole ingiuriose”, rifersice Salini nella sua denuncia.
Occorre sottolineare che questo insulto ricorre più volte nelle denunce contro Caravaggio: lo diceva spesso, e forse era anche un’espressione molto in voga all’epoca.
E’ l’anno 1603. Circolano a Roma alcuni componimenti scurrili, citati a memoria, e trascritti su carta passano di mano in mano. I sonetti satirici prendono di mira il pittore Giovanni Baglione e il suo amico Tommaso “Mao” Salini. Quando Baglione ne viene a conoscenza, denuncia Caravaggio insieme ai suoi amici Onorio Longhi, Ottavio Leoni e Orazio Gentileschi, considerati corresponsabili o almeno informati sui fatti. Fra Baglione e Caravaggio c’era un’esplicita rivalità, come fra Salieri e Mozart: ma mentre i due musicisti avevano rapporti civili, Caravaggio e Baglione si disprezzavano apertamente. Con Caravaggio, in particolare, c’era una rivalità aperta: Caravaggio non stimava Baglione, come non stimava quanti cercavano di imitare, senza riuscirci, il suo stile realistico.
1) Amor vincit omnia (Caravaggio); 2) e 3) Amor sacro e amor profano (Baglione). Nella versione 2) Amore è con la corazza, nella 3), dopo le polemiche, è senza.
La loro rivalità era nata nel 1602, quando Caravaggio aveva dipinto Amor Vincit Omnia per il marchese Vincenzo Giustiniani. Il quadro, che rappresenta il trionfo dell’amore su tutte le arti, ebbe grande successo a Roma. Il modello che aveva posato per l’opera era Cecco Boneri: allievo, factotum e forse anche amante di Caravaggio.
In quello stesso anno, Baglione dipinse il medesimo soggetto “Amor sacro e amor profano”, per il fratello del marchese, il cardinale Benedetto Giustiniani. In una prima versione Amore era vestito con una corazza, ma non rispondeva alla giusta iconografia: “sembra che indossi una caffettiera”, fu il commento sarcastico di Caravaggio. In tutta risposta Baglione ne fece un’altra versione, nella quale l’amore divino irrompeva su un diavolo con un volto simile a quello di Caravaggio, e un putto che somigliava al suo modello. Come se li avesse sorpresi in atteggiamenti equivoci. Per quest’opera Baglione ricevette come compenso una collana d’oro dal cardinale Giustiniani, con disappunto dei colleghi.
L’anno successivo i Gesuiti commissionarono a Baglione una resurrezione di Cristo per la Chiesa del Gesù: il dipinto – oggi perduto, ne resta solo un bozzetto – fu molto criticato da Caravaggio e dai suoi amici, che lo dileggiarono con due sonetti. Quando Salini li ascoltò, li trascrisse e li mostrò a Baglione: entrambi avevano ottimi motivi per farla pagare a Caravaggio.
Bozzetto della Resurrezione di Baglione (andata perduta)
Ecco il testo della denuncia di Baglione: “Avendo io depinto un quadro della resurrettione di Nostro Signore , detto Micalangelo pretendeva farlo lui, perciò esso Micalangelo per invidia, et detti Honorio Longo et Horatio (Gentileschi) suoi amici et adherenti, sono andati sparlando del fatto mio, con dir male di me et biasimare l’opere mie, et in particolare hanno fatto alcuni versi in mio dishonore et vittuperio [vergogna], et datili et dispensatili a più et diverse persone… Li suddetti querelati sempre m’hanno perseguitato, sono stati miei emoli [emuli] et m’hanno avuto invidia vedendo che le mie opere sono in consideratione più che le loro…do querela di questi versi infamatorii fatti contro di me”. La denuncia fece sicuramente infuriare Caravaggio, che non invidiava affatto Baglione (quantomeno per la pittura), e non era affatto un suo emulo (anzi, era vero il contrario).
E così Caravaggio si trovò per l’ennesima volta alla sbarra degli imputati. Il processo è un documento prezioso, non solo perché rivela le parolacce usate a quell’epoca, ma anche per comprendere la concezione artistica di Caravaggio. Il giudice, infatti, cercò prima di far confessare agli imputati d’aver composto i versi; non riuscendoci, cercò di otttenere da Caravaggio un giudizio positivo su Baglione. Ma una volta messo alle strette, come vedremo, Caravaggio non riuscirà a trattenere la sua completa disistima nei confronti del rivale.
Ed ecco il testo del primo sonetto:
Gioan Bagaglia tu non sai un acca
le tue pitture sono pituresse [dipinti di scarso valore] volo [voglio] vedere con esse che non guadagnarai mai una patacca che di cotanto panno da farti un paro di bragesse [paio di mutande] che ad ognun mostrarai quel che fa la cacca Porta là adunque i tuoi desegni e cartoni che tu hai fatto a Andrea pizicarolo [salumiere] o veramente forbetene [ puliscitene] il culo o alla moglie di Mao turegli la potta che con quel suo cazzon da mulo più non la fotte. Perdonami dipintore se io non ti adulo che della collana che tu porti indegno sei [la collana d’oro con cui il dipinto fu pagato] et della pittura vituperio [disonore]. |
Giovanni Bagaglia, tu non sai niente,
i tuoi dipinti sono di scarso valore, con loro non guadagnerai nemmeno un soldo con cui comprare un paio di braghe con cui tutti potranno vedere Dunque, porta i disegni che hai fatto al salumiere oppure usali per pulirti il culo, oppure per otturare la fica della moglie di Salini, che pur con quel cazzo da mulo non la fotte. |
E questo è il secondo:
Gian coglion senza dubio dir si puole [può]
quel che biasimar si mette altrui che può cento anni esser mastro di lui. Nella pittura intendo la mia prole poi che pittor si vol chiamar colui che non può star per macinar con lui. I color non ha mastro nel numero si sfaciatamente nominar si vole [non ha maestria nel numero di colori, anche se si proclama sfacciatamente un maestro] si sa pur il proverbio che si dice che chi lodar si vole si maledice. Io non son uso lavarmi la bocca né meno di inalzar quel che non merta come fa l’idol suo che è cosa certa. Se io mettermi volesse a ragionar delle scaure [deformità] fatte da questui [ costui] non bastarian interi un mese o dui. Vieni un po’ qua tu ch’e vò’ biasimare l’altrui pitture et sai pur che le tue si stano in casa tua a’ chiodi ancora vergognandoti tu mostrarle fuora. Infatti i’ vo’ l’impresa abandonare che sento che mi abonda tal materia massime [soprattutto] s’intrassi ne la catena d’oro che al collo indegnamente porta che credo certo meglio se io non erro a piè gle ne staria una di ferro [come carcerato]. Di tutto quel che ha detto con passione per certo gli è perché credo beuto avesse certo come è suo doùto [perché credo avesse bevuto come suo solito] altrimente ei saria un becco fotuto. [un cornuto fottuto] |
Senza dubbio Gianni si può definire un coglione, perché si mette a criticare chi può essere suo maestro per cento anni. Parlo della pittura, perché si fa chiamare pittore persino chi non è capace di preparare i colori.Non è un vero maestro nei colori, eppure si ostina a farsi chiamare tale, ma si sa il proverbio: “Chi si loda, si maledice da solo.”Io non sono abituato a parlare a vanvera, né tantomeno a esaltare chi non lo merita, come invece fa il suo idolo, senza dubbio. Se volessi raccontare gli errori che ha fatto questo individuo, non basterebbero un mese o due.Vieni qua, tu che vuoi criticare i dipinti altrui, eppure sai bene che i tuoi restano appesi ai chiodi in casa, perché ti vergogni di mostrarli in pubblico.Infatti voglio abbandonare questa impresa, perché mi rendo conto che ci sarebbe fin troppo da dire, soprattutto se parlassi della catena d’oro che porta indegnamente al collo. Anzi, credo che, se non mi sbaglio, gli starebbe meglio una catena di ferro ai piedi.Tutto ciò che ha detto con tanta passione è certamente dovuto al fatto che era ubriaco, come al solito. Altrimenti, non ci sarebbe altra spiegazione: sarebbe solo un cornuto spregevole. |
Dunque, versi satirici, pesantemente infamanti e ingiuriosi: in sintesi, le opere di Baglione andavano bene come carta per i salumi o come carta igienica, la sua pittura era un disonore, dato che non sa usare i colori. E Baglione oltre a essere un incapace era un “coglione” (rima fin troppo facile e prevedibile), un “cornuto fottuto“, un beone. Caravaggio, come gli altri imputati, negò di esserne l’autore, per evitar di pagarne le conseguenze: “Io non me deletto de compor versi né volgari né latini”, cioè né in latino né in italiano, aggiungendo, anzi di non aver mai sentito “né in rima, né in prosa, né volgari, né latini, né de nessuna sorte nelle quali se sia fatto mentione di detto Giovanni Baglione“. Secondo alcuni storici i sonetti potrebbero essere stati scritti da Onorio Longhi, ma è pur vero l’espressione “becco fotuto” è quasi un marchio di fabbrica di Caravaggio, visto quanto spesso la usava. La verità su quei sonetti non la sapremo mai. Ma senz’altro Caravaggio ne condivideva il contenuto.
Dato che nessuno degli imputati ammise di aver scritto i sonetti, il giudice cercò di approfondire quale opinione Caravaggio avesse sull’arte di Baglione, per accertare se emergessero livori. L’artista si presenta come pittore («L’essercitio mio è di pittore»), e il giudice gli domanda se conoscesse altri colleghi. Caravaggio risponde citando vari nomi, come il Pomarancio, il Caraccio e anche Baglione, precisando però che “non tutti sono valent’huomini”, ovvero che sappiano “depinger bene et imitar bene le cose naturali”. Un documento straordinario perché ci dà, in prima persona, il manifesto della sua arte: per lui consiste nel riprodurre fedelmente la realtà.
Poi Caravaggio aggiunge che Baglione non è suo amico perché “non mi parla”. Il giudice allora gli chiede un giudizio sul rivale: “Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione”. Prima stoccata.
E, interrogato sul dipinto della Resurrezione, del quale Baglione riteneva che Caravaggio fosse invidioso, l’artista risponde senza tanti giri di parole: “Quella pittura della resurrettione a me non piace perché è goffa et l’ho per la peggio che habbia fatta, et detta pittura io non l’ho intesa lodare da nessun pittore et con quanti pittori io ho parlato, a nessuno ha piaciuto”, tranne “da uno che va sempre con lui, che lo chiamano l’angelo custode”: Mao Salini. Seconda e definitiva stoccata.
Alla fine il giudice, non avendo altra prova se non la disistima verso Baglione, condanna Caravaggio e i suoi amici a un mese di arresti domiciliari. Ma la pena fu presto ridotta grazie all’interessamento dell’ambasciatore francese a Roma, Philippe De Béthune.
Una spada: particolare del dipinto “La buona ventura” (1596/7)
Caravaggio viene fermato dalle guardie alle 5 del mattino mentre circolava per Roma con addosso spada e pugnale. Le guardie gli chiedono se avesse la licenza per le armi: il pittore la mostra, e tutto sembra risolto. Il capo delle guardie gli dice “Bona notte signore” e Caravaggio in tutta risposta gli ringhia un rabbioso: “Ti ho in culo” (mi stai sul culo). Scatta l’arresto, e quando l’artista è ammanettato urla “Ho in culo te et quanti par tuoi si trovano”. E tutto finisce sugli atti della denuncia a carico di Caravaggio, che passò l’ennesima notte in galera.
Un oste raffigurato ne “La cena in Emmaus” (1601/2)
L’episodio avviene all’Osteria della Lupa, una taverna dove Caravaggio si fermava spesso a mangiare. Quel pomeriggio, verso le 17, l’artista era in compagnia di due amici. E avviene un episodio per il quale il cameriere, Pietro da Fusaccia, lo denunciò alla magistratura: “Havendoli portato otto carcioffi cotti, cioè quattro nel buturo [burro] et quattro col olio, detto querelato mi ha domandato quali erano al buturo et quelli all’olio. Io li ho risposto: che li odorasse, facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel buturo et quelli all’olio”.
La risposta, probabilmente accompagnata da un gesto (il cameriere avvicinò il piatto al naso) fece andare Caravaggio su tutte le furie: non era un trattamento rispettoso e adeguato al suo rango. E, obiettivamente, una risposta molto provocatoria. Così, racconta un testimone “Avendo avuto a male Michelangelo si levo in piedi in collera et gli disse: “Se ben mi pare, becco fottuto, ti credi di servire qualche barone!. Et prese quel piatto con dentro i carciofi e lo tirò al garzone nel viso”, ferendolo “al mustacchio” (ai baffi). Poi, racconta il giovane, Caravaggio prese subito mano alla spada, ma i suoi amici lo trattennero, evitando che lo scontro degenerasse.
Massimo Centini “Luci ed ombre di un artista maledetto” (Diarkos, 2024)
Giuliano Capecelatro “Tutti i miei peccati sono mortali” (Saggiatore, 2003)
Michele di Sivo, Orietta Verdi “Caravaggio a Roma. Una vita dal vero” (De Luca, 2011)
Riccardo Gandolfi “Le Vite degli artisti di Gaspare Celio” (Olschki, 2021)
Luigi Garofalo, Barbara Biscotti “Caravaggio, rivalità artistiche e diffamazione” (Corriere della sera, 2019)
Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori, Scultori et Architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1642
Rossella Vodret Adamo “Dentro Caravaggio” (Skira, 2017)
Francesca Curti, Orietta Verdi “Caravaggio, Lena e Maddalena Antognetti. Una storia da riscrivere” (Storia dell’arte rivista, 2022)
Clovis Whitfield “Caravaggio a Roma: dalla miseria alla gloria. Considerazioni sui nuovi documenti sul primo tempo romano del genio lombardo” (About Art online, 2017)
Sergio Rossi ““Lena” e le donne di Caravaggio. Splendori e miserie di artisti e cortigiane nella Roma del primo Seicento” (About Art online, 2021)
Marco Bona Castellotti “Caravaggio arrivò a Roma nel 1596” (Il Sole 24 ore, 2011)
Marco Mascolo “Caravaggio nero, una notizia milanese” (Il Manifesto, 11 aprile 2021)
Aleksander Gielo “Erotismo, violenza e ortodossia nelle opere di Caravaggio” (Kainowska, 2018)
Così l’intelligenza artificiale disegna una persona altezzosa (Dall-E).
Un lettore di questo blog, Luigi P., mi ha chiesto qual è l’origine dell’espressione “tirarsela”. La risposta la trovate più sotto. Ma il quesito era intrigante e mi ha acceso altre curiosità: che cosa vuol dire precisamente “tirarsela”? A quale atteggiamento si riferisce? A chi si crede superiore agli altri, a chi fa il sostenuto. Il termine più preciso è altezzoso. Poi mi sono venuti in mente altri sinonimi: sbruffone, montato, puzzone e molti altri. Insomma, si è aperto un mondo affascinante, tutto da esplorare: volevo capire, attraverso la lingua, qual è il difetto che con questi termini viene messo alla berlina. E, soprattutto, perché.
Gli insulti, infatti, sono sempre giudizi sommari, etichette affibbiate a chi è considerato “anormale”. In questo caso, segnalano un tragico errore di valutazione: nessuno, infatti, può credere d’essere superiore agli altri in ogni aspetto, ovvero come persona nella sua interezza. Eppure, la tentazione della superbia, di sentirsi superiori agli altri è sempre dietro l’angolo. Perché facciamo fatica a tenere in equilibrio il nostro Ego con quello degli altri.
Sordi nei panni del Marchese del Grillo: la frase rappresenta bene la prospettiva dei superbi.
«La superbia è una percezione accecata della verità» sottolinea nel libro “Superbia” (Il Mulino) Laura Bazzicalupo, docente di filosofia politica all’università di Salerno. «Il superbo vede solo ciò che vuol vedere: avanza avvolto in una nebbia delirante, anche se usa lucidamente la propria intelligenza. Il superbo è in una prigione mentale. E’ un peccato della verità: non voler prendere atto di chi siamo, crederci onnipotenti. Ma è anche una condanna esistenziale: chi non percepisce i propri limiti, non si giudica superbo e in più ritiene di valere più di tutti gli altri. La verità su ciò che si è viene rifiutata e negata. E’ la presunzione di credere d’essere unico». Tanto che, quando fallisce, il superbo se ne stupisce (delirio di onnipotenza).
Una donna altezzosa creata dall’Intelligenza artificiale (Dall-E).
Gli epiteti che condannano questi comportamenti sono numerosi: ne ho trovati 76 (più sotto li elenco tutti, ricostruendo le loro etimologie, compresa quella di “tirarsela”): per tre quarti prendono di mira i superbi, gli altri sono riservati ai vanitosi. Esprimono una valutazione etica negativa, e anche un avvertimento: i superbi sono condannati perché giudicati fastidiosi, sbagliati, pericolosi. Sbagliati e pericolosi perché non colgono la verità.
Ma perché gli altezzosi danno fastidio? Il termine “borioso” li paragona alla bora, il vento più violento del Mediterraneo. I termini che li designano, infatti, mostrano quanto siano insopportabili i loro modi di fare:
i superbi fanno rumore (trombone, fanfarone, sbruffone),
esagerano nel descrivere le proprie imprese o capacità (millantatore),
mettono il loro Ego, le loro opinioni, le loro imprese davanti a tutti (spandi merda. presuntuoso),
stanno a petto in fuori (gasato, pallone gonfiato, impettito)
pretendono che tutto sia dovuto e di non sottostare alle regole (arrogante),
sanno sempre tutto loro (cacasentenze),
disprezzano, ignorano o calpestano gli altri (strafottente, sprezzante, puzzone).
D’altronde, chi si comporta da persona superiore ci fa sentire automaticamente inferiori, e questo non è mai piacevole: la nostra autostima si fonda anche sulla stima che riceviamo dagli altri. “Ma chi si crede d’essere?” è la reazione più immediata di fronte a un altezzoso.
Nessuno, però, può dirsi immune da questi comportamenti perché l’Ego, la nostra identità, si forma in un difficile equilibrio fra ciò che siamo (e crediamo di essere), e i riscontri che ci arrivano dagli altri, che possono rinforzare o contraddire la nostra percezione e mandarci in crisi, mostrarci dolorosamente i nostri limiti – a meno che li rifiutiamo in blocco.
Gli insulti ai superbi e vanitosi ci ricordano, anche a brutto muso, tutto questo. Ho raccolto tutti i termini, in due macro categorie: quelli rivolti a chi si sente superiore, e quelli per chi si vanta. Sono tutti termini con una connotazione negativa (evocano, cioè, immagini o emozioni sgradevoli), ma non tutti sono di registro volgare: gli insulti veri e propri li ho evidenziati in grassetto. Potete leggere le parti che vi interessano cliccando sul + dei box azzurri.
Verdone nei panni di Armando Feroci, tipico “galletto”.
In tutto ho trovato 54 espressioni, che ho suddiviso per tipologie (con le inevitabili approssimazioni): atteggiamenti fisici (8), metafore di esagerazione (17), comportamenti eccessivi (22) e atteggiamenti mentali (7).
Sono dunque i comportamenti a qualificare i superbi: disprezzano gli altri, fanno i saccenti, fanno rumore, si mettono sopra o prima degli altri. Sono pieni di sé, hanno sempre ragione loro, guardano tutti dall’alto in basso. Tant’è vero che sono soprattutto i comportamenti e le esagerazioni gli aspetti più colpiti attraverso l’uso di termini volgari. Sono comunque tutti termini con connotazione negativa, e diversi sono spregiativi.
Da notare che diversi termini sui superbi sono per lo più rivolti ai maschi (bauscia, faraone, fanfarone, galletto, bulletto, spaccone, gradasso, spaccone): segno che questo tratto “testosteronico” è considerato più tipico degli uomini che delle donne.
Dopo aver letto questi termini, mi sono domandato: qual è l’opposto della superbia? Spesso gli insulti sono costruiti come coppie di contrari, entrambi offensivi. Ad esempio, della corporatura si insultano i due estremi opposti, panzone/mingherlino. Nel caso della superbia, bisogna cercare gli opposti della sicurezza, della sfacciataggine, della onnipotenza. In molti casi sono difetti altrettanto negativi: arrendevole, dubbioso, esitante, impacciato, incerto, indeciso, insicuro, irresoluto, sfiduciato, sfigato, sottomesso, tentennante. Ma alcuni (alla mano/alla buona, dimesso, discreto, mansueto, mite, modesto, moderato, pudico, riservato, schivo, timido, umile, vergognoso) raccontano un’altra verità, ovvero che fra i due estremi (eccessiva sicurezza di sé / scarsa sicurezza di sé), il secondo è meno grave, anzi, in molti casi è un pregio: quando incontriamo una persona davvero modesta, alla mano, discreta la apprezziamo istintivamente. Come dice il Vangelo: gli ultimi saranno i primi, chi si umilia sarà esaltato (mentre “chi si loda s’imbroda”: chi si vanta in modo eccessivo rischia di fare cattiva figura).
Una felpa con scritta “La superbe”. Essere superbi va di moda.
In francese, ma anche in italiano, l’aggettivo superbo può essere usato anche in senso positivo: come sinonimo di grandioso, imponente, eccellente. Possiamo definire superba una cattedrale gotica, un grattacielo, una lasagna al forno… Perché? Perché riconosciamo questa eccellenza come limitata a quel particolare aspetto (l’imponenza, la qualità eccelsa) di un oggetto, scrive acutamente la professoressa Bazzicalupo. Siamo disposti a riconoscere l’eccellenza smisurata delle opere, ma non possiamo attribuirla all’uomo che ne è l’artefice. La natura pone limiti agli esseri viventi; se qualcuno eccede quei limiti infrange l’ordine naturale ed è degno di condanna. Le opere o la performance di qualcuno sono “superbe” solo in quello. Infatti, quando si parla di uomini che hanno realizzato opere “superbe”, ci affrettiamo a citare anche i loro difetti: i tradimenti di Picasso, la volgarità di Mozart, e così via.
Meryl Streep nei panni di Miranda Priestly, tirannica direttrice nel film “Il diavolo veste Prada”.
Per gli esibizionisti, i termini si dividono esattamente a metà fra quelli che condannano la vanità (11) e quelli che stigmatizzano l’eccessivo gusto per l’apparenza estetica (11). I primi sono più offensivi dei secondi, e fanno la caricatura di chi tenta in ogni modo di mettersi in mostra. I vanitosi sono paragonati anche ad animali (civetta, coquette, pavone).
In queste liste spicca la presenza di termini esclusivamente femminili (civetta, coquette, squinzia, smorfiosa), perché la civetteria è considerata un tratto più tipico delle donne. I termini riguardanti l’eccessiva eleganza, invece, sembrano più rivolti al genere maschile (bellimbusto, cicisbeo, damerino, dandy, gagà): una critica alla ricercatezza negli abiti che è tollerata per le donne, ma meno per i maschi.
E qual è il difetto opposto alla vanità? I termini esprimono per lo più un giudizio negativo (arruffato, barbone, castigato, cialtrone, dimesso, disadorno, disordinato, malmesso, negletto, poveraccio, sciamannato, sciatto, severo, sgualcito, spoglio, straccione, terra terra, trasandato, trascurato) che positivo (essenziale, frugale, misurato, sobrio, semplice, senza pretese, spartano). A conferma che, in qualche modo, l’abito fa il monaco: o, se preferite, anche l’occhio vuole la sua parte.
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I suoi esponenti hanno scritto pagine importanti nella storia d’Italia, dal Medioevo fino al secolo scorso. Sono stati notai, condottieri, benefattori e politici di primo piano. Nonostante un cognome a dir poco ingombrante: Coglioni, poi ingentilito, col passare dei secoli, in Colleoni. Ma gli antichi membri di questa stirpe nobile di Bergamo erano invece molto orgogliosi di questo appellativo così diretto, tanto da averlo inserito nel proprio stemma ufficiale: uno scudo con 3 paia di testicoli. Che sono finiti, tali e quali, nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago (Bg) e sul logo di una delle più antiche fondazioni benefiche, il Luogo Pio della Pietà Istituto Bartolomeo Colleoni di Bergamo. E quegli attributi virili sono oggetto di un rituale scaramantico in uso fra i visitatori di Bergamo: toccare i testicoli dello stemma inciso sulla cancellata della Cappella Colleoni di Bergamo è considerato un porta fortuna.
In questo post racconto la storia eccezionale – per non dire unica – di questa famiglia, che ha fra i propri esponenti il celebre condottiero Bartolomeo Colleoni (circa 1395-1475), ritratto in una famosa statua equestre realizzata a Venezia da Andrea Verrocchio.
Stemma dei Coglioni con gigli 3 (famiglia d’Angiò) e 3 scroti
La famiglia Coglioni, d’origine longobarda, era una stirpe nobile di guelfi, in buoni rapporti con la Chiesa di Bergamo. Il suo primo rappresentante fu Ghisalberto Attonis (figlio di Attone) vissuto nel XII secolo: fu console della città di Bergamo nel 1117, e morì nel 1160.
Ghisalberto era detto “Collione”, dal latino “coleus”, scroto. Il passaggio è: coleus → coleonis (genitivo) → coleone → colione.
Non sappiamo perché si guadagnò quel soprannome: ma, con ogni probabilità, l’epiteto non aveva un senso insultante.
Secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Gradit) la prima attestazione di “coglione” nel significato di “stupido” risale infatti al 1526, in Pietro Aretino (“La cortigiana”): «Io sono in opinione che questo per essere coglione in cremesi, scempio di riccio sopra riccio e goffo di ventiquattro carati diventi il più favorito di questa Corte». All’epoca di Ghisalberto, invece, “collione” designava solo lo scroto. La parola, però, era usata già dagli antichi Romani come metafora per indicare coraggio: “Magnum coleum habet”, ovvero “Ha grandi testicoli.” Anche oggi per indicare una persona in gamba diciamo che “ha le palle”. L’equivalente di “cazzuto”, insomma.
Libro biografico di Pietro Spino (1569): il cognome di Bartolomeo è ancora Coglione.
«Anch’io mi sono fatto questa idea» commenta lo storico medievale Gabriele Medolago, autore di diversi saggi sui Colleoni. «Ghisalberto fu console del Comune di Bergamo: non doveva essere stupido. Era un imprenditore abile, molto intraprendente. Da quanto si evince dalla documentazione dell’epoca, era uno che sapeva il fatto suo».
Dunque, “collione” indicava una persona virile. Forse anche dal punto di vista generativo: Ghisalberto ebbe infatti 5 figli, ma nel Medioevo era piuttosto frequente. E’ da escludere, invece, l’ipotesi che Ghisalberto soffrisse di poliorchidismo, una malattia che consiste nel nascere con più di 2 testicoli: non vi è alcuna prova documentale che lo attesti.
Bartolomeo nel libro di Aliprando Caprioli “Ritratti di Cento Capitani Illustri” (Roma, 1596; © The Trustees of the British Museum)
Il soprannome “Coglione” diventò poi ereditario, cioè fu trasmesso ai suoi discendenti, perché a quell’epoca era iniziato il processo di cristallizzazione dei cognomi. Questi ultimi diventarono un elemento ufficiale dell’identità a partire dal Concilio di Trento (1563), che stabilì l’obbligo di scrivere nomi e cognomi sui registri di battesimo, la prima forma di anagrafe.
Diventando un cognome, l’appellativo di famiglia fu declinato al plurale Colleoni perché indicava una stirpe (de Collionibus) , così come il soprannome “rosso” (di capelli) ha dato origine al cognome Rossi.
Ma, in assenza di anagrafe e carte d’identità, il cognome fu scritto nei modi più diversi: Coglione/Coglioni, Culione, Colonibus, Colonius, Coijoni, De Coglionis, de Coleono, Collionum, Collionis/Collioni, Colleoni.
Stemma di Colleoni col triplice scroto nel Palazzo della Provincia di Cremona.
Verso la fine del XIII secolo, il cognome Coglioni fu illustrato, com’era tradizione per i nobili, da uno stemma. Il casato fu rappresentato con uno stemma parlante: ovvero con figure che richiamavano direttamente il cognome. Ad esempio, la famiglia Della Torre aveva una torre al centro del proprio stemma. E quale immagine poteva scegliere la famiglia Coglioni se non… uno scroto?
«La famiglia Colleoni ebbe, nel corso della storia, centinaia di diversi stemmi, che si sono avvicendati nel corso delle generazioni, inserendo nuovi elementi a seconda dei matrimoni con altri casati o a ricordo di imprese o per esibire nuove cariche» spiega Medolago. «Lo stemma con lo scroto è uno dei più antichi in assoluto nella storia d’Italia: il primo risale alla fine del XIII secolo o all’inizio del seguente. Poi nel corso del tempo, gli scroti si sono moltiplicati, arrivando a 2 o 3 o più: non sembra esserci un particolare significato simbolico, la figura è usata come mero elemento ornamentale per non lasciare spazi vuoti. E’ il fenomeno della “moltiplicazione araldica”».
L’ingresso della fondazione benefica Logo Pio della Pietà Colleoni: si nota lo stemma con i testicoli.
Nella sua forma matura, lo stemma dei Coglioni presentava un aspetto “troncato” (cioè diviso da una linea orizzontale): rosso con due scroti bianchi in alto, bianco con uno scroto rosso in basso. Il rosso simboleggia audacia, valore, fortezza, nobiltà ma anche spargimento di sangue in battaglia o nel martirio. Mentre l’argento, rappresentato dal colore bianco, è simbolo di innocenza, purezza e castità: un significato che stride con la presenza dei testicoli, ma solo agli occhi di un moderno. L’uomo del Medioevo era abituato a leggere e interpretare i simboli e non si scandalizzava per l’uso iconico di elementi sessuali. «L’ostentazione dei testicoli nello stemma è un’ulteriore riprova che venissero esibiti con orgoglio, a rappresentare una stirpe “con gli attributi”» osserva Medolago.
Le modifiche più rilevanti allo stemma avvennero nel XV secolo per merito delle imprese di Bartolomeo Colleoni (di cui parlo sotto): l’aggiunta di due teste di leone con le fauci spalancate e unite da una banda diagonale concesso dalla regina Giovanna II di Napoli; l’inserimento del capo d’Angiò (gigli d’oro in campo azzurro), concesso da Renato d’Angiò; e le bande azzurro e oro e i gigli di Borgogna, concesse da Carlo il Temerario di Borgogna.
Uno dei pochi ritratti contemporanei di Bartolomeo Colleoni
Fu proprio con Bartolomeo (1395-1475) che l’appellativo Coglioni raggiunse grande fama in Italia e in Europa. Egli era un soldato di ventura (oggi diremmo un mercenario), ed era una forza della natura: scappò a nuoto da una nave di pirati che l’avevano catturato; riuscì a evadere dai Forni (prigioni) di Monza dove l’aveva fatto rinchiudere Filippo Maria Visconti. E fu il primo a usare in modo significativo le armi da fuoco in battaglia contro i nemici: prima di lui, si usavano solo per abbattere le mura nemiche.
Tutti i potenti dell’epoca lo volevano dalla propria parte, o quantomeno non volevano averlo come nemico, per la fama d’astuzia e di ferocia che precedeva “il bergamasco”: «Asciutto in volto, con gli occhi chiari, fissi e penetranti, forti il naso e le narici, grande, vigorosa e imperiosa la bocca, sporgente il labbro inferiore, in atteggiamento di prepotenza soldatesca …ebbe l’avidità delle ricchezze, e uno sfrenato desiderio di gloria e di grandezza» scrive Bortolo Belotti in “La vita di Bartolomeo Colleoni”.
Sigillo di Zavarino Colleoni (1280) con scritta Colionum e scroti (© The Trustees of the British Museum ).
Bartolomeo cambiò molte casacche nella sua carriera, navigando fra mille intrighi e cambiando rotta a seconda dei venti politici: oscillò tra i Visconti e gli Sforza, per approdare infine al committente più prestigioso: Venezia. Che alla fine della sua carriera gli tributò l’onore di dedicargli una statua equestre: onore interessato, visto che fu lo stesso Bartolomeo a pretendere un monumento in cambio di 100mila zecchini d’oro che avrebbe lasciato in eredità alla Serenissima. La statua, alta 4 metri, fu realizzata in bronzo da Andrea del Verrocchio, ed è tuttora uno dei monumenti equestri più celebri al mondo. Bartolomeo aveva dato disposizioni che la statua fosse eretta in piazza San Marco: ma i veneziani, che non tolleravano questa smania di protagonismo (per di più da parte di un bergamasco), lo collocarono sì vicino a San Marco…. intesa come la Scuola Grande di San Marco, nella piazza dei Santi Giovanni e Paolo. Una beffa.
La statua equestre di Bartolomeo Colleoni a Venezia.
Il letterato Antonio Cornazzano, che dimorò presso la corte di Bartolomeo a Malpaga e ne scrisse la biografia in latino, lo chiama Bartholomeus Coleus cioè scroto. La stessa forma venne usata da Guglielmo Pagello nell’orazione funebre alla morte del condottiero. Lo stesso Bartolomeo si firmava “de Colionibus”.
Il condottiero era talmente orgoglioso del proprio cognome da farne un temuto grido di guerra: «Coglia, coglia!», cioè «Coglioni, coglioni!». Come dire: «Tiriamo fuori le palle!». L’espressione è diventata il nome di un progetto, Coglia, che si propone di valorizzare la figura di Bartolomeo.
Dame con grandi testicoli in mano (dipinti nella residenza di Colleoni a Brescia)
Quest’ultimo, in vita, continuò a rappresentare i testicoli nel suo stemma, composto (come scrisse in un atto pubblico) da «duos colionos albos in campo rubeo de supra et unum colionum rubeum in campo albo infra ipsum campum rubeum» («due coglioni bianchi su sfondo rosso, e un coglione rosso su sfondo bianco sotto») seguiti dal motto “Bisogna”.
Quello stemma fu riprodotto in tutti i suoi palazzi: il castello di Malpaga (frazione di Cavernago), il palazzo Colleoni alla Pace a Brescia e infine nella maestosa cappella funebre Colleoni a Bergamo. Al palazzo di Brescia alcuni dipinti raffigurano fanciulle con in mano enormi scroti, come potete vedere nelle foto qui a lato.
La trasformazione dei 3 scroti in cuori rovesciati nello stemma di Colleoni.
Dopo la scomparsa di Bartolomeo, la stirpe dei Coglioni non ebbe rappresentanti altrettanto celebri. E nei secoli successivi la censura pose fine a quel cognome licenzioso: «Nel periodo che segue al Concilio di Trento (1545-1563)» scrive Gianfranco Rocculi in un saggio sull’araldica, «i testicoli dello stemma furono convertiti in altrettanti cuori rovesciati: durante la Controriforma, infatti, non appariva decoroso mostrare quegli attributi “di potenza e virilità” che erano stati tanto in auge nel carnale e corrusco Medioevo». E Coglioni cedette il passo alla più neutrale forma Colleoni, che per diverso tempo fu – erroneamente – interpretata come “Co’ leoni”, anche perché i leoni furono effettivamente presenti nello stemma concesso a Bartolomeo dalla regina Giovanna II di Napoli. Probabilmente la forma Colleoni si diffuse dopo il 1600, dato che ancora nel 1596 è citato come Bartolomeo Coglione nel libro “Ritratti di cento capitani illustri con li loro fatti in guerra brevemente scritti intagliati da Aliprando Caprioli” .
Il gonfalone ufficiale di Cavernago: in basso a destra nello stemma si notano i 3 scroti.
Dopo che l’Italia settentrionale passò sotto il dominio austriaco a partire dal XVI secolo, i Colleoni si schierarono con gli Asburgo: essendo una delle 64 famiglie di conti, la famiglia aveva una sede ereditaria nell’Herrenhaus, la camera alta del Consiglio Imperiale austriaco. L’ultimo esponente di spicco della famiglia fu Guardino Colleoni (1843-1918) eletto due volte deputato e poi senatore a vita.
Oggi nel Bergamasco ci sono ancora 987 famiglie che portano il cognome Colleoni: in tutta Italia sono 1.380. Chissà se conoscono la vera origine del proprio appellativo. L’antico stemma testicolare è tuttora presente nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago, nel cui territorio sorgono due castelli di Bartolomeo, quello di Cavernago e quello di Malpaga.
Ed è tuttora in attività il “Luogo Pio della pietà – Istituto Bartolomeo Colleoni“, da lui fondato a Bergamo nel 1466 “per fornire doti alle fanciulle povere e legittime, al fine di facilitarne il collocamento in legittimo matrimonio”. Oggi l’ente – uno dei più antichi al mondo ancora in attività – mantiene il patrimonio artistico di Colleoni e aiuta le donne in difficoltà. Il suo logo ufficiale ha mantenuto i 3 scroti dell’antico stemma.
Il cancello della Cappella Colleoni a Bergamo: gli scroti sono lucidati dall’usura dei turisti che li toccano.
Nel frattempo si è diffusa una singolare tradizione a Bergamo: quella di toccare con le mani i testicoli raffigurati sullo stemma del cancello della Cappella Colleoni. Un gesto considerato porta fortuna, come lo è a Milano schiacciare con il tacco i testicoli del toro (simbolo di Torino) disegnato in un mosaico sul pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II. I testicoli sono simbolo di fecondità e in questo risiede il loro beneaugurante potere.
Questo articolo è stato ripreso da BergamoNews.
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Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che designano gli organi genitali sono un universo in buona parte inesplorato. Perché è così ampio e complesso da dare le vertigini. Lo dico con cognizione di causa, perché ho compilato il primo studio ragionato di queste espressioni in tutti i dialetti italiani. Ho trovato 565 termini, e il conteggio è parziale, dato che molti dialetti non hanno una grande documentazione sul Web.
In un precedente studio avevo scoperto che in italiano i sinonimi degli organi sessuali sono più di 1.300 (1.339). Questa ricerca sui dialetti spiega il perché: il nostro lessico osceno è tanto ricco perché è alimentato dai dialetti. Sono in tutto una trentina, senza contare le lingue non romanze come gli idiomi albanesi, germanici, greci, slavi, romanì. Dunque, la lunga storia di dominazioni straniere e feudi che hanno frammentato l’Italia ha fatto sì che il nostro patrimonio linguistico sia fra i più ricchi e vari d’Europa.
Copertina del giornale satirico livornese “Il Vernacoliere”.
E’ un viaggio difficile ma affascinante, perché i dialetti hanno una grande ricchezza espressiva. Basti ricordare i celebri sonetti che il poeta romanesco Gioachino Belli (1832) dedicò ai sinonimi dialettali del pene (“Er padre de li santi”) e della vulva (“La madre de le sante”). Come diceva Andrea Camilleri (lo ricordavo in questo articolo), il dialetto esprime l’essenza, la natura profonda delle cose, ed è linguaggio emotivo per eccellenza essendo per lo più orale e a diffusione familiare.
Basta scorrere, più sotto, la lista delle espressioni per il pene e la vulva. Da notare un fatto curioso: in diversi dialetti, i generi dei sessi sono invertiti. Ovvero, il sesso maschile è indicato con una parola di genere femminile (bighe, minchia, ciolla, pillona, mazza, marra, cella) e quello femminile da parole di genere maschile (cunnu, sticchiu, piccione, palummu, pilu). Non c’è una motivazione particolare dietro questo: si tratta di convenzioni arbitrarie (lo raccontavo in questo articolo), ma resta un fatto degno di nota.
Meme sul saluto friulano che significa “Come sta il pene?” (Average Furlan Guy).
E in questo mondo, in buona parte ancora inesplorato nella sua interezza, ci sono espressioni davvero straordinarie. In friulano, per dire “Come va?” “Abbastanza bene”, si usano queste espressioni: “Cemût le bighe?” “Cjalde ma flape”, ovvero, letteralmente: “Come sta l’uccello?” “Caldo ma moscio”. Eccezionale. Ha l’aria d’essere un modo di dire antico, ma non ho trovato una documentazione storica al riguardo.
In compenso, c’è questo ironico video-corso di friulano qui sotto, che spiega come pronunciare correttamente l’espressione (ma senza rivelarne il significato letterale):
Nella goliardica pagina Facebook di Average Furlan Guy, c’è una chat che mostra alcune risposte alternative alla domanda “Cemût le bighe?”. Eccole: “drete e mai strache” (dritte e mai stanche). Oppure “Iè dure vele flape ma iè plui dure vele dure e no savè dulà metile!” (E’ dura averlo floscio, ma è più dura averlo duro e non saper dove metterlo!”).
La focacceria “Bischero” a Ginevra.
Ho trovato in tutto 565 termini (ho conteggiato come uno tutte le varianti di uno stesso lemma). Quelli che si riferiscono alla vulva sono risultati più numerosi (304, 53,8%), rispetto a quelli per il pene (261, 46,2%). Un dato di segno opposto rispetto a quanto avevo riscontrato in italiano: nella nostra lingua prevalgono infatti i termini che si riferiscono alla sfera sessuale maschile (744 contro i 595 per la vulva). In ambo i casi, uno scenario che ritengo frutto del caso: la ricchezza semantica di una lingua dipende da fattori letterari, sociali, politici che variano nel tempo e nei luoghi.
In base a quanto ho riscontrato, i dialetti meridionali risultano più ricchi delle altre aree, soprattutto per il sesso femminile: il 43,5% dei lemmi proviene da dialetti del Sud, seguito da quelli settentrionali (36,1%). Ma questi risultati vanno presi con le pinze: la quantità di lemmi che ho esaminato, seppur ragguardevole, non è la totalità di quelli esistenti. Perché ho consultato solo i dizionari e le raccolte linguistiche presenti sul Web: per censire in modo completo tutti i termini dialettali osceni, avrei dovuto consultare anche i dizionari cartacei. Ma la ricerca sarebbe durata mesi se non anni.
Questo può spiegare perché il sardo risulta il dialetto con il maggior numero di lemmi: 96. Il dizionario sardo online (trovate le fonti in fondo all’articolo) è uno dei più completi, e in più il sardo è una lingua molto ricca perché presenta 5 varianti fondamentali (nuorese, gallurese, sassarese, logudorese, campidanese). Dopo il sardo segue il veneto (50 lemmi), il napoletano (48), l’emiliano-romagnolo (40), il calabrese (35), il piemontese e il pugliese (33).
Questi risultati (al netto dei limiti di cui parlo in uno dei riquadri finali) sono abbastanza sovrapponibili al numero di lemmi censiti nei principali dizionari dialettali: il sardo è il più ricco (120mila lemmi), seguito da napoletano (80mila), siciliano e piemontese (50mila), veneto e friulano (40mila), calabrese e milanese (30mila), bolognese e pugliese (20mila).
Ristorante “La gnocca” alle Canarie (Gran Canaria).
Nei termini dialettali che si riferiscono agli organi sessuali si vede un’interessante stratificazione linguistica: dal latino mentula derivano il siciliano minchia, il salentino menchia, il sardo minca; e dal latino cunnus derivano il pugliese cianno/ciunno, il lucano ciunn, il calabro e il siciliano cunnu. In diverse regioni l’antico termine latino “natura” designa il sesso femminile. Notevole il termine purchiacca (diffuso in Campania, Basilicata e Molise) che arriva direttamente dal greco: pyr (fuoco) + koliòs (fodero), fodero infuocato.
Dell’antico termine toscano “potta” (vulva), molto usato nella letteratura passata, è rimasta traccia solo nel bergamasco (pota).
Diversi i termini importati da lingue straniere: il piemontese baghëttë (pene) arriva dal francese baguette, il pugliese pica/pinga (pene) dallo spagnolo pinga (con lo stesso significato), il meridionale ciolla può derivare dallo spagnolo chulla (braciola, pene). E gli esempi potrebbero continuare.
L’area di diffusione di questi termini anatomici sessuali è rimasta per lo più limitata ai territori d’origine: difficile che un friulano conosca il significato di “ciolla” o che un sardo sappia cos’è la pipa in umbro. Tuttavia alcuni termini dialettali si sono diffusi in tutta Italia: per il pene, i toscani bischero e fava, i romaneschi ceppa e mazza, il siciliano minchia. Per la vulva, il veneto mona, l’emiliano patacca/patonza e gnocca, il toscano topa, il romanesco fregna e sorca, il napoletano fessa. Il motivo? Per lo più il cinema e la tv: diversi attori hanno reso popolari i termini dialettali (pensiamo a Tomas Milian e Carlo Verdone per il romanesco, solo per fare qualche nome). Senza dimenticare il celebre sketch di Roberto Benigni, che ha citato i nomi dialettali dei genitali quando fu ospite nel 1991 di Raffaella Carrà a “Fantastico”: un numero che è passato alla storia della tv.
In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.
Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.
Regione | Lemmi | |
Val d’Aosta | 2 | |
Piemonte | 11 | |
Liguria | 17 | |
Lombardia | 19 | |
Trentino Alto Adige | 2 | |
Veneto | 27 | |
Friuli Venezia Giulia | 4 | |
Emilia Romagna | 18 | Nord
100 |
Toscana | 10 | |
Umbria | 10 | |
Marche | 5 | |
Lazio | 9 | |
Abruzzo | 10 | |
Molise | 5 | Centro
49 |
Campania | 18 | |
Puglia | 7 | |
Basilicata | 1 | |
Calabria | 20 | |
Sicilia | 10 | |
Sardegna | 56 | Sud
112 |
Totale | 261 |
I lemmi che designano il pene, come del resto in italiano, attingono a metafore descrittive di vari tipi. Fra le più salienti, quelle di cibi (frutta e verdura: bananna, fava, tega, codeghin, pizza), di attrezzi o oggetti (arnes, cannello, manego, mazza, manubrio, pindolo, pipo, nerchia, manico, batocchie, sperru, attretzu, ferramenta), di animali (bissa, salmon, pesce, sardela, bissa, usel, canarin) e anche di persone (mastrantoni, frat’ma Giorg).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.
membrou [ dal latino membrum, organo, parte del corpo ]
subiet
picio [ da piccolo, bambino ]
baghëttë, bidulu (Vercelli), biga (Cesana), bilò (Alessandria), ciula, intré, penetré, pénis, puvrun, vèrzhä/vérzhë (Salbertrand)
belin/belan [ da “bello”, inteso come giocattolo]
anghilla, bananna, bega, canäio, cannello, cannetta, carottua, casso, cicciollo, ciolla, manego, manubrio, mostaciollo, pigneu, pinfao, pistolla
bìgol/bigul/bigolo [dal greco-latino bombyx ‘verme’ passando per il diminutivo *bombiculus ‘vermicello’ ‘piccolo verme ] usèl/osel
arnes, belen/belinon (Cremona), bigatt, bilì (Brescia), birlu, bissa, blin (Mantova), bora, ciula, liben, manübri, manach/manech, mestér (Bergamo), nèstula/nestila (Stazzona/Valtellina), picio, pirla [ ha lo stesso etimo di birillo], pistola
bigol
pindolo
tega indica il guscio o baccello di fagioli, piselli e fave oseo/oselo (uccello)
barbastreio [ pipistrello],batocio, bega/ begolina/ baolina, beline (Verona), bicio, bigolo, bissa/bisso [biscia], brocia, canarin, canna, cicio, cuco, coa/coda (Belluno), codeghin, manego, merlo, mugoloto, pampano/pimpanoto (Verona), pindol (Belluno), renga (Verona), salado, salmon, sardela, ton, versor
bighe/bigul
bimbin (Trieste), cicinut, penis, vet
üsél (uccello)
barandël (romagnolo), batöć (romagnolo), bĕscar (romagnolo), bligo, birèl/birello, bìgul, bilèn (Parma) / blèin (Reggio Emilia)/ blin (Mirandola)/bilìn (Modena), blig/blëg (romagnolo), càpar (romagnolo), caz, mãnfar (romagnolo), mĕmbar (romagnolo), óca; pisarél, pistulén [di bambino], sćifulöt (romangolo), ṣvarẓèl (romagnolo)
bischero [ legnetto affusolato per tirare le corde degli strumenti musicali o per tappare l’otre], fava
billo, cinci, creapopoli, dami, fava (Garfagnana), lilli/lillo, manfano, pirolo (Siena)
pipo [da pipa, cannello, oggetto affusolato; o da pipino, piccolo pene]
biscione, cazzo, cello, fava, mitulo, nerchia, picchio, pistello/pistolo, ucello
cazzu
pipin, pistulin, tanganello, uccellu
cazzo, ceppa [pezzo di legno cilindrico], mazza [grosso bastone]
cicio, manico, nerchia [bastone nodoso], pennarolo, pirolo, uscello
cazzu/cuazze, cella [da uccello]
battocchie, ciufello, ciula, mazz/mazze, nerchije, picc/picch/picco, sterdàzz, vàrr/varre
cazz
margiale, mazza, pica, pizza [ blocco di pasta da infilare nel forno ]
cazz
ass ‘e bastone/’e mazz, babbà, battaglio/vattaglio (Avellino), capitone, cicella, cìqquë, cumpàgne mije (“il mio amico”), mazzarello, fratiello, fravaglio, fravolo, ‘ngrì /’ngrillo, maccarone, mazza, pepe (Avellino), pesce, saciccio / sauciccio [ salsiccia]
ciola [deriva da ciull (bambino, fanciullo) o dallo spagnolo chulla, braciola (a indicare il pene)]
acid/acidduzz/ciddone (Foggia, Andria: derivati da aciddu, uccello), cicilla, ciucce, fratema (Salento), pica (Salento)/pinga (Trani e Foggia), pizza (Taranto), smargiale (Salento)
cazz/quazz
ciolla (Reggio Calabria e Ragusa), marra (zappa)
bacara, battagliùn, cioncia (Crotone); cagnu (Amantea)/cagnolu (Catanzaro); cazzu, frat’ma Giorg’ [“mio fratello Giorgio”], lerpa, mazza, menchia (Salento), micciu [asino/stoppino della candela], nervu, piciollu, pizza (Reggio Calabria); pilloscia, piscia/piasciareddra, sperru [coltellaccio], spoderu (Reggio Calabria: pesce), vronca
minchia/mincia (dalla radice del latino mingere, urinare; o da menta, per la somiglianza tra l’antera del fiore della menta con il glande) , ciolla/ciota
acidduzza/cidduzza [uccellino] bagara, cedda, ciaramedda/ciaramita, cicia, marruggio, piciolla, zonna (Modica)
catzu/gazzu, minca/mincia/mincra (Sassari)/mincra (Nuoro), pillolla/pillona/pilloni (Cagliari)
algumentu, arma , arreiga, arretranga, attretzu , baddonu , bicchiriola/ bicchirilloi, billella, bodale, bollulla , cedda , chicchia/ chicchiriola , cibudda, cozona , ddodda, dorriminzola, dòrrola, epperi, ferramenta, ghignu, grunilla, leonzedda, longu, maccacca , mastrantoni , mazzolu , minninna , mindrònguru , misèria/ miseresa, moricajola/muricajola/muricadorja, murena, niedda, paldal (Alghero), penderitzone/penducu/penduleu, picca/picchiriola, pilledda, piógliura, piola, pìscia/pisciadore/pissetta/piscitta/pissitta/pissittu , pitranca, pitza/pizona, pippia, piscitta, puzone/a, secacresche, sira/tzira/ tzirogna, tirile/zirile, trastu, trìsina, tuppajola, tùtturu/tuttureddu, vicu, zubbu
In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.
Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.
Regione | Lemmi | |
Val d’Aosta | 3 | |
Piemonte | 22 | |
Liguria | 5 | |
Lombardia | 12 | |
Trentino Alto Adige | 11 | |
Veneto | 23 | |
Friuli Venezia Giulia | 6 | |
Emilia Romagna | 22 | Nord 104 |
Toscana | 15 | |
Umbria | 10 | |
Marche | 11 | |
Lazio | 10 | |
Abruzzo | 13 | |
Molise | 7 | Centro
66 |
Campania | 30 | |
Basilicata | 11 | |
Puglia | 26 | |
Calabria | 15 | |
Sicilia | 12 | |
Sardegna | 40 | Sud
134 |
Totale | 304 |
La birra pugliese “Ciunna” (vulva).
I lemmi che designano la vulva utilizzano spesso metafore descrittive che alludono al pelo (barbisa, boschetto, pilu, vello), o alla cavità (buso, canestro, fessa, partù, spacchiu) o al fiore (petalussa). Altre metafore attingono a cibi (brogna, cozza, michetta, fidec, fritula, patata, piricoccu, carcioffola, castagna), oggetti (marmitta, chitara, mandola, campana, tabbacchera), animali (passera, fagiana, folpa, cicala, topa, piccione, paparedda, micia) e persone (bernarda, filepa, franzesca).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.
nateua/nateurra/nateuvva/naturë
borna [buco], tchergna [vedi ciorgna in PIemonte]
ciornia/ciorgna [origine incerta: da ciamporgna, zampogna o da “ciorgn”, sordo: la forma della vagina ricorda un orecchio che non ascolta]
baoumë (caverna, in senso spregiativo), bigioia, bignola, bornä, bregna/brigna (prugna), canà, chatbornhë (Savoulx), cŗo [buco], daŗbounhérë [cunicolo della talpa]), equis, fiaounë (Fenils), figuë (Ramats), fizolla, marmitta, natuřä (Salbertrand), neira, nonnë (Oulx), partû [buco], picioca, tampë, veŗgonhë (Amazas)
mussa/mossa [può derivare dal latino mus, topo (mouse, per il pelo), o da “muscolo” (cozza, per l’aspetto). Secondo alcuni deriva da mozzo (buco per la ruota) o da mussare, fare schiuma]
ghersa/goèrsa/guersa, michetta, petalussa, tacca, vagìnn-a
barbisa [da barba], brugna/brogna [prugna]
bartagna, bernarda,, crenna, fidec [fegato] (Bergamo), figa, fritula, fuinera, lurba, passera, pota [da “potta”, a sua volta dal francese “lippot”, labbro sporgente] (Bergamo e Brescia), sbarzifula, zinforgna (Sondrio)
barbigia (da barba)
bernarda, bortola, chitara, ciorciola, fritula [frittella], marugola, natura, sbanzega, scham, scheide
mona [da monna, madonna nel senso di donna, o dall’arabo maimun, scimmia, perché ricoperta di peli]
ànara, bagigia/basisa, bareta, bernarda, bigarela, boschetto, buso/busolina, canestro, cantina, cicciota, ciocca,coca, fagiana, farsora [padella per friggere], fiora, folpa [femmina del polipo], fritola [frittella], natura, pataracia, mandola, pegnata, pipa, pisota, pondra, sepa, sermollina, sissoea, sgnacchera, tenca, tringoeo, zergnapola [pipistrello]
mona, frice [dal latino fricare, sfregare]
farsora [padella], fritola, panole, parussule
patacca/patonza [nel senso di macchia], gnocca [per la somiglianza nell’aspetto]
bagaja, balusa,barnêrda, basagna, brugna, chitara, figa, filĕpa, franzĕsca, frĕgna, natura, obinna, parpaja, patafiocca, pavajòta , pisaia, prögna, sfessa, tegia, vaggiuola
topa [per la somiglianza con i peli pubici]
bricia, budello,campana, cicala, cilla (Siena), fi’a, lallera, micia, mimma, mozza, pacianca (Pisa), passera, pettera, sgnacchera
pipa [come femminile di pipo]
castagna, cicala, fica, fregna, passera, pisella, picchia, sorca, topa
fregna
castagna, cicciabaffa, ciuetta (Ascoli Piceno), cocchia, fessa, mozza, natura, passara/pasarina, pontecana, topa
fregna [dal latino fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre ‘rompere; o da fringilla, fringuella], sorca [da sorcio, topo]
bbuscia, cella, cicciabaffina, ciciotta, ciocia, ciomma, ciscia, sorega
fregna
boffa, ciuccia, ciuetta, ciufella, cocca, fregna, mozza (Teramo), patàne, picina/piciocche, tolfa, tope, vello
picchiacc (vedi pucchiacca)
cocchina (Isernia), curciu, fess, panocchie, patata, piccione
fessa [da fessura, spaccatura], purchiacca/pucchiacca [dalle parole greche pyr (fuoco) + koliòs (fodero) unite ad un suffisso degradativo -acca, da cui pyrcliacca -> purchiacca -> pucchiacca. Il termine significherebbe letteralmente “fodero infuocato”; oppure dal latino “pucchia”, fonte dove sorge acqua; o ancora, da un’erba spontanea, l’evera pucchiacchella (portulaca) che cresce poco alta sul terreno ricordando i peli pubici]
bbuatta [scatola di latta], braciola, caccavella [pentola], carcioffola, cardogna, cecca, cestunia [tartaruga], ciaccara, ciora/fiora, ciucia, ciòcca, cozzeca [cozza], mocle, nocca [fiocco], patana, pepaina, pertuso [buco], pescia, pesecchia, pettenessa, piciòcchëlë/pisciocca/pisciotta, pummaròla, sarcenella/sarchiella, scarola, sciùscia, sporta, sterea, tabbacchera
fissa, ciunnn [dal latino cunnus, cuneo, matrice]
ciola, natura, perdesca, piccione, pishcu/puscio, puliejo, purchiacca, sartacena, tabbacchera
piccione, palummu [per la somiglianza del monte di Venere con il petto del piccione]
caccone, chichì, cianno/ciunne/ciunna/cunnu, ciota, cozza, cuniglia, curcio/curciu (Salento), fregne, ndacca (Bari), nerciu, pattale, pelosa, pertuso, pescia, pinca/ pinga, ptek, picu (Salento), pisciacchio/pisciacco, pitacco, pittinale, ruccu, sciorgio/sorgie, spaccaccia, sticchi
pilu, ‘mboffa/’mmoffa
bovatta, ciota/ciotu (Cirò),cuniglia, cunnu, fissa, grubba, nicchio/nnicchiu, parpagnu, pennu, picionnu, pitaci, spacchiu, sticchiu
sticchiu/sticcio [dal latino osticulum, diminuitivo di ostium (porta): “piccola porta” o “piccola bocca”, oppure dal greco astegos, nudo; o da stìchos, riga; o ancora come derivato da fisticchiu, pistacchio, per la forma simile]
ciaccazza, ciciu, cucchia, cunnu, faddacca, nicchio, obarra, pacchio, paparedda, picicio, pilu, sarda
cunnu/ciunno, mussi/mutza
attettu, bette/bettu, boddo/ boddoddu/budhúdhu , broddo, bullulla, burba/bulva/burva/vurba/vurva/ulva/urba/urva, busuddu, còccoro , cuperre, festu, fica/figa, giosi, intragnu, leppereddu (leprotto), matzoneppa ,miseria, natura, niccu, nusca, pacciócciu , peddùnculu , pilarda/ pillittu/pilosu, pilicarju/ pulicarja, piricoccu , pisciaioru, piscittu, porposeo , proso/prosu, pudda, pùliga/ pulicarja ,santu, sessu/sestu, topi, tzunnu,ubra, ulla, udda, zimbranti
Ringrazio i numerosi amici “fiancheggiatori” che mi hanno aiutato a rintracciare/verificare diverse voci dialettali: Marco Basileo, Irene Bertozzi, Luca Brocca, Paolino Colzera, Serena Corvo, Valentina Coviello, Massimiliano Fedeli, Sergio Ferro, Michele Gagliardo, Roland Jentsch, Francesca Polazzo, Federico Tapparello, Giulia Villi
The post Da anghilla a zinforgna: i nomi del sesso nei dialetti first appeared on Parolacce.]]>Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.
A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi.
In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia “onesta, veritiera e corretta“. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.
Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.
Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.
In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“. Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».
Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossi sono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdi sono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre (con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose).
Campagna Netflix con cibi che evocano la vulva.
Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».
Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan “Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.
Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino. «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale».
Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.
Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano 15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:
termine | frequenza |
culo* | 6 |
darla | 5 |
palle | 3 |
patata/patatina | 3 |
fanculo* | 3 |
puttana | 2 |
farsi | 2 |
venire | 2 |
figata | 2 |
troia | 1 |
stronzetta | 1 |
pompa | 1 |
passera | 1 |
pacco | 1 |
cagare | 1 |
*Inclusi i gesti
Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.
La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
“Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale). E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile.
In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.
Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”. Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato.
Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione
«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.
Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.
Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla. Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale».
A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione».
Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:
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Ideatore dell’iniziativa, Dario Zaccariotto, uno dei soci di “StudioGiochi”, società veneziana specializzata da decenni nell’ideare rubriche di enigmistica e giochi da tavolo. Com’è nata l’idea? In inglese le “dirty crosswords” (parole crociate sporche) esistono da più di un decennio…«In realtà l’idea ci è venuta in modo autonomo, non avevamo modelli di riferimento», racconta Zaccariotto, che ha appena conquistato la medaglia d’oro a Master Mind alle Mind Sports Olympiad di Londra. «Volevamo proporre qualcosa di nuovo, così abbiamo creato questa raccolta che comprende l’uso di termini triviali. Gli appassionati di giochi hanno apprezzato: il volume, uscito nel 2023, è stato ristampato quest’anno».
Dario Zaccariotto
E’ stato difficile ideare giochi usando un lessico volgare? «Non particolarmente. Nelle parole crociate e giochi analoghi, le parolacce non hanno un trattamento diverso dalle altre parole. Basta partire da un gruppo scelto di espressioni scurrili (da “becco” a “vaffanculo”, fino a un massimo di 5 per cruciverba) , e poi si costruisce lo schema inserendo altre parole che leghino con esse. E’ stato più impegnativo ideare i rebus, perché diverse espressioni sono difficili da spezzare in immagini. Ad esempio, la parola “culo”: puoi mettere l’immagine di un cuculo, ma ti resta la sillaba “CU” che non è una parola di senso compiuto e nemmeno una sillaba finale. Difficoltà simili per la parola “cazzo”. Comunque siamo riusciti a inventarne diversi usando altri termini scurrili». Un esempio è lo vedete fra qualche riga più sotto.
Con quale criterio avete scelto le espressioni triviali da inserire? «Abbiamo puntato su quelle di uso comune, evitando però le più pesanti e becere. Il confine fra buon gusto e pessimo gusto è molto labile: abbiamo cercato di non trascendere. E finora nessuno si è scandalizzato».
Uno dei rebus sboccati: riuscite a risolverlo?
Ci sono giochi che vi ha divertito più di altri inventare? «Senz’altro i labirinti: collegando l’ingresso e l’uscita si generano disegni con battute o scene triviali, come anche nelle vignette a puntini da collegare fra loro. O anche il gioco “note famose”: abbiamo scelto alcune celebri canzoni con versi scurrili, da Francesco Guccini a Elio e le storie tese, chiedendo ai lettori di inserire la parola mancante in un verso».
Fra le trovate più divertenti, 14 definizioni da ricostruire, usando solo alcune lettere dell’espressione “Teste di minchia”. La prima? “vivono in Germania”. La soluzione è “tedeschi”, ma non c’è intento offensivo: in effetti usa 8 delle 14 lettere dell’espressione scurrile proposta.
Oppure: “Dividi la griglia in aree in modo che ogni area contenga tutte le lettere di “FIGONE”. O ancora: cambia una lettera alle parole elencate in modo da ottenerne altre di senso compiuto: MULO, RIGA….e così via.
Insomma, una pubblicazione divertente e ironica. Ma non è riduttivo il sottotitolo “Giochi per incazzati”? Le parolacce non si dicono solo nei momenti di rabbia: sarebbe stato più azzeccato dire “Giochi per goliardi”… «Sono assolutamente d’accordo. Se faremo un’altra edizione correggeremo il tiro», conclude Zaccariotto.
⇒ Gli album di parolacce da colorare
Il presidente Usa Joe Biden disegnato come Pinocchio da un gruppo di lavoratori autonomi che gli contesta varie promesse mancate.
“Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura retorica dell’antonomasia, che consiste nell’attribuire il nome di un personaggio famoso a una persona con caratteristiche simili. Sei un bugiardo? Ti paragono al mentitore per eccellenza, la sua personificazione: Pinocchio.
In italiano questi lemmi sono circa 2mila (da mongolfiera a daltonico, dal sandwich al bikini), e fra loro ho censito anche 63 termini offensivi, usati per la loro capacità di evocare caratteristiche negative.
Avevo già parlato in questo articolo di alcuni insulti dello stesso genere: quelli derivati da toponimi (nomi di luogo, regioni, città: beota, lesbica e così via) o da etnonimi (nomi di popolazioni: zingaro, vandalo, etc). Ora è il turno delle offese derivate da nomi di persone, sia realmente esistite oppure immaginarie. In ambo i casi il passaggio da nome proprio a nome comune comporta una perdita di specificità: un nome proprio si riferisce a un solo individuo, mentre un nome comune ne indica molti. Tant’è vero che spesso il nome proprio, una volta entrato nel vocabolario, perde l’iniziale maiuscola. Un altro aspetto interessante di questi termini, è che riferendosi a personaggi specifici, è più facile individuare l’epoca in cui questi insulti sono nati.
Alvaro Vitali nei panni di Pierino (1982)
Come funzionano i deonomastici? Si estrapolano alcune caratteristiche della persona (l’aspetto fisico, il comportamento, la mentalità) per indicare quanti possiedono queste medesime qualità. Si condensa l’identità di una persona in una sua caratteristica: l’avarizia per Arpagone, l’aggressività selvaggia per il cerbero.
Un passaggio, questo, che è comprensibile solo se si hanno le basi culturali per capire il riferimento: definire un avvocato “azzeccagarbugli” o un politico “gattopardo”, sono offese che arrivano a destinazione se si conoscono i romanzi di Alessandro Manzoni e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Ecco perché, in genere, questi insulti hanno una carica offensiva minore o ridotta rispetto a quelli derivati da altre metafore: in gran parte dei casi si tratta di spregiativi, più che di insulti a pieno titolo. A parità di significato, “maccabeo” è molto più debole di “coglione” quanto a carica insultante ed espressiva. Ma restano pur sempre offensivi: tanto che molti di loro (lanzichenecco, masaniello, torquemada, barabba, Giuda, megera, cassandra, cerbero, azzeccagarbugli, donchisciotte, Pierino, arpagone) sono stati oggetto di querela, e spesso hanno comportato una sentenza di condanna verso chi li ha pronunciati, come ha rilevato una ricerca dell’avvocato cassazionista Giuseppe D’Alessandro (che ha da poco pubblicato un agile dizionario degli insulti).
Ho raccolto gran parte di questi 63 termini nel libro “Dalie, dedali e damigiane, dal nome proprio al nome comune” di Enzo La Stella (Zanichelli); altri li ho ricavati dai libri di D’Alessandro. In questa raccolta mi sono limitato ai lemmi presenti nel dizionario (lo Zingarelli 2025).
La maggior parte dei personaggi (54%) sono stati scelti come metafore svilenti per il loro modo di comportarsi (violento, fastidioso, disonesto), seguito dagli insulti di classe (14%) , mentali (12,5%) fisici e sessuali (a pari merito con 9,5%). Dunque, è il comportamento, più che l’aspetto fisico o la posizione sociale a identificarci e qualificarci? L’ipotesi è suggestiva, ma per affermarla con certezza occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli delle altre lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese….) per vedere se anch’esse privilegiano questo aspetto nel coniare i termini deonomastici.
Tornando all’italiano, quali fra questi 63 appellativi deonomastici sono i più pesanti? A mio parere: giuda, teppista, arpia, caino, megera, pulcinella, lazzarone e messalina.
E voi li conoscete tutti? E sapete anche qual è la loro origine, ovvero quale personaggio (storico o immaginario) li ha ispirati?
Mettetevi alla prova: per sapere le risposte basta cliccare sulle strisce blu.
Il bacio di Giuda (Cimabue, XIII sec:)
Sono la categoria più numerosa, perché indicano aspetti molto diversi del carattere: dalla parsimonia all’aggressività, dalla maleducazione all’inganno: arpagone, attila, barabba, barbablù, cacasenno, cagliostro, caino, cassandra, cerbero, donchisciotte, fariseo, fregoli, furia, gattopardo, giacobino, giuda, gradasso, hooligan, lanzichenecco, manigoldo, maramaldo, masaniello, paolotto, pierino, pinocchio, pulcinella, qualunquista, squinzia, santippe, torquemada, teddy boy, teppista, vitellone
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Il fotoreporter Barillari si definisce paparazzo
Prendono di mira gli appartenenti a una classe sociale (spesso umile): azzeccagarbugli, cenerentola, fantozzi, gaglioffo, galoppino, lazzarone, paparazzo, stacanovista, travet
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Il Cottolengo a Torino
Sono offese sulle facoltà mentali considerate insufficienti, inadeguate, compromesse: bacucco, barbagianni, beghina, calandrino, cottolengo, maccabeo, mammalucco, manicheo
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Orco al Parco dei mostri a Bomarzo
Prendono di mira l’aspetto fisico e in particolare gli acciacchi (fisici, ma spesso anche psicologici) dell’età: arpia, baggina, befana, carampana, megera, orco
[ per approfondire, apri la finestra cliccando sulla striscia blu qui sotto ]
Film di Kubrick (1962)
Sono la categoria meno rappresentata: assatanato, lolita, maddalena, messalina, onanista, sardanapalo
[ per approfondire, apri la finestra cliccando sulla striscia blu qui sotto ]
Lesbica, mongolo, portoghese: quando un Paese diventa un insulto
Arturo Toscanini (Parma 1867-1957 New York)
E’ stato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, per la brillante intensità del suono e la perfezione dei dettagli. Ma Arturo Toscanini è passato alla storia anche per un altro motivo: ha strapazzato i suoi musicisti della NBC Symphony Orchestra di New York con sfuriate epiche, piene di insulti, bestemmie, offese pesantissime, urlate in un misto d’italiano e d’inglese: «Look at me, teste di cazzo!!!!».
Oggi un direttore del genere sarebbe licenziato all’istante. I suoi musicisti, invece, lo rispettavano e l’avrebbero seguito ovunque, e hanno proseguito un sodalizio di quasi 20 anni, dal 1937 al 1954. Per la sua epoca, era una rockstar. Ma – a differenza delle rockstar – Toscanini non era un narcisista e neppure un giocoso goliarda come Mozart (ne ho parlato qui) ma un timido burbero. E le sue parolacce non erano un atto di ribellione sociale anticonformista: erano invece un modo viscerale di inseguire la sua idea di perfezione musicale. Per lui la musica era sacra, e se i suoi orchestrali non la eseguivano correttamente lui lo viveva come una profanazione che lo mandava su tutte le furie, facendogli perdere ogni freno inibitorio.
In questo articolo racconto l’uomo Toscanini attraverso il suo turpiloquio. Merito di alcune eccezionali registrazioni d’epoca pubblicate su YouTube, che arrivano dagli studi della NBC: dagli altoparlanti ascolterete le sue urla, i suoi scatti d’ira scanditi dal rumore della bacchetta picchiata sul leggio, che sono impressionanti ancora oggi per la carica di rabbia che esprimono. Ma anche per la tangibile sofferenza d’un artista che cerca, con tutte le sue forze, di dare la miglior forma sonora alle musiche che sta dirigendo. Fra sudore, urla e imprecazioni.
David Sarnoff
A New York David Sarnoff, il potente capo della Rca (Radio Corporation of America), aveva messo insieme alla radio NBC un’orchestra apposta per lui, reclutando i migliori musicisti con contratti stellari. Eppure le sfuriate del maestro erano così frequenti che in radio avevano persino ideato un sistema di «bollettini meteorologici» in codice per tenere informati in tempo reale i dirigenti su quanto accadeva nello studio 8H durante le prove con l’Orchestra, racconta Piero Melograni nel libro “Toscanini. La vita, le passioni, la musica” (Mondadori).
Toscanini, insomma, aveva una personalità complessa, che val la pena ricordare per comprendere meglio le sue sfuriate.
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Su Youtube ho trovato 3 registrazioni eccezionali delle prove con la NBC Orchestra. Ne ho trascritto le parti salienti, che meritano d’essere ascoltate: danno i brividi per la carica emotiva che trasuda rabbia incontenibile e sofferenza viscerale. Si sentono le urla, i colpi della bacchetta inferti per rabbia sul leggio. Le sfuriate sono in un irresistibile misto italo/inglese: diversi insulti non erano comprensibili ai musicisti, ma il fatto che fosse infuriato arrivava di certo a destinazione.
Le sue parolacce esprimono l’indignazione, la rabbia e la sofferenza fisica di un artista che si arrabbia con chi non esegue correttamente le musiche: a un certo punto arriva a dire “Mi sento male, non mi sento bene per voi!”. E ancora: “Contrabbassi, sembrate dei carri!!”, “Avete le orecchie nei piedi”, “Siete sordi?”, “Non suonate, grattate”, “Vien voglia di dare dei calci in culo a tutti”. La sua frase più caustica, in realtà, non contiene parolacce ma è una critica che esprime la superiorità dell’Arte (con la “A” maiuscola) rispetto al denaro: “Vergogna! Qui non c’è spirito di corpo, qui non c’è altro che lo spirito di guadagnare un dollaro, ma non per l’arte!“. Una prospettiva che oggi sarebbe impensabile.
Numerose le imprecazioni, anche blasfeme: “Corpo d’un dio santissimo”, “Madonna santissima”. E anche gli insulti: “Teste di cazzo”; “Siete terribili”, “Testa d’asino”, “Rompicoglioni”, “Non siete musicisti”, “Siete dei dilettanti di cattiva lega”, “Somari”, “E’ una boiata”, “Orrore”, “Vergogna”, “Porcheria”.
Ecco le registrazioni originali.
Cantate!!! Porco di un… Per dio santo
Non capite un cavolo! Vergogna!
Ahi mi fate male, ahi ahi!
No!! Va’ adagio con la terzina…
Pezzi di somari che siete, per Dio!
Dio madonna santissima
No, nooo, noooo! Orrore, porcheria!
Anche il signor fagotto, tutti insieme, una boiata
Vergogna!!!
Oooooooooohhhh! Corte note, short note! su su! Sembran dei carri, Non sono mica strumenti… bruu bruu bruu … O Madonna santissima
Corpo di un dio! Contrabbassi! Come rompe i coglioni lei… You you you!!! You are always late, you have no ear, no eyes, nothing at all. [Voi, voi, voi! Siete sempre in ritardo, non avete orecchie, non avete occhi, non avete niente] Corpo d’un dio santissimo!
No! No! Testa d’asino! You’re not a musician. You have no ears and no eyes. [ Non siete musicisti. Non avete orecchie né occhi ]
Ma sempre, sempre indietro, contrabbassi, you’re always late [ siete sempre in ritardo ]. Corpo d’un dio santissimo!
But you are deaf? [ma siete sordi?] E’ una vergogna! Shame on you! What kind of ears you have? You have ears in your feet! [ Che razza di orecchie avete? Avete le orecchie nei piedi!]
Always after, always late [ sempre dopo, sempre in ritardo], oh per dio santo
You’re dead! [siete dei morti] E’ una vergogna, shame on you!
Vien voglia di dar dei calci nel culo a tutti, per Dio santo!
In italian opera you are terrible [ Nell’opera italiana siete terribili ]
I saw you, bow, always after, always late [ vi ho visto, archi, sempre dopo, sempre in ritardo], oh per dio santo ]
minuti 0-3 : E’ un orrore! You don’t play unisono [ non suonate all’unisono]
Avevo vergogna io per voi!
Contrabassi… You don’t play, non so, you scrape [ non suonate, grattate]!
Contrabbassi, violini, tutti! Un orrore! Un orrore!
Vergogna! Qui non c’è spirito di corpo, qui non c’è altro che lo spirito di guadagnare un dollaro, ma non per l’arte, non per l’arte, not at all!
No, no, no!
Siete dei dilettanti, non degli artisti, dilettanti di cattiva lega.
Corpo d’un Dio santissimo
Niente, questa cosa mi sembra una porcheria, ci vorrebbe essere intelligenti ….
minuto 4:10: Ecco, questa è l’orchestra… E’ una vergogna… Eh no Io ho vergogna, dopo anni che suonate insieme… Not one note [non una nota]
minuto 5:04: Sono inquieto, I dont’ feel well for you! I am sick [Non mi sento bene per causa vostra, sto male] Ho un principio di vergogna, io sento la vergogna
minuto 6:30 Poco ritardando, somari! Corpo d’un dio santissimo
Look at me [ guardatemi], teste di cazzo! Corpo d’un dio santissimo
Toscanini in una delle sue esecuzioni
Nel suo libro, Melograni indica tre ragioni per queste sfuriate memorabili. Primo, il suo carattere ruvido, ma anche molto timido. Secondo, le tensioni dovute al lungo rapporto con l’orchestra. Terzo (e secondo me prevalente): la ricerca di perfezione assoluta che lo induceva a sottoporre gli strumentisti a durissime fatiche.
Toscanini cercava di esprimere fedelmente i brani che dirigeva e lo faceva con una precisione impressionante: per fare un esempio, registrò la Nona Sinfonia di Beethoven nel 1938 e nel 1948, e fra le due esecuzioni la durata ha una differenza di un solo secondo! Aveva un metronomo nella testa.
Toscanini con l’orchestra della NBC
“Se l’esecuzione non era esatta come desiderava” racconta Melograni, “la bacchetta volava sopra la testa dei professori, le dita arruffavano i capelli in un gesto di disperazione e il volto scompariva nelle mani, in attesa di rimettersi dal proprio disappunto. Tutto era perduto, non riusciva a profferir parola. Poi riprendeva coraggio e ricominciava. Le cose andavano meglio. I suonatori lo seguivano. Alla fine, la musica fluiva via, e Toscanini, trasfigurato come al settimo cielo, dirigeva cantando e occasionalmente gridando avvertimenti ai vari strumentisti”. Alla fine gli orchestrali “si rendevano conto che, grazie a un direttore tanto esigente, riuscivano a dare il meglio di loro stessi e gliene erano grati […] Un’orchestra di solisti, come è ad esempio quella della BBC di Londra, difficilmente permetterebbe ad altri direttori di trattarla come la tratta Toscanini. Ma Toscanini è un maestro, ed essi lo sanno, e gli sono persino grati della tirannia”.
Ringrazio Vito Stabile, studioso esperto di musica classica e presidente dell’Associazione Ettore Bastianini, per la stimolante chiacchierata su Toscanini
Ho parlato di questa ricerca su Ameria Radio, durante il programma “Bastianini incontra”, con il direttore d’orchestra Giovanni Giammarino e Vito Stabile, il 12 ottobre. A questo link l’audio della puntata.
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Striscione offensivo dei tifosi del Pescara contro quelli dell’Ascoli
E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, rumeno), in inglese e nelle lingue dell’est, dal russo al cinese, oltre all’arabo e diverse altre.
In italiano gli insulti alla madre sono una quarantina ed esprimono una fantasia molto malevola. Perché sviliscono, con immagini ripugnanti o sessuali, la figura più sacra: la persona che ci ha trasmesso la vita. Un colpo dinanzi al quale nessuno può restare indifferente: come ha ricordato papa Francesco (paragonando il sentimento religioso con l’attaccamento alla madre), «Se il dottor Gasbarri, un grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. E’ normale». Come diceva il comico toscano Francesco Nuti «Te la mi’ mamma tu la lasci stare, va bene?».
Questo genere di insulti ha influenzato non soltanto i modi di dire, ma anche le culture: le battaglie rap consistono spesso nell’improvvisare rime offensive sulla madre di un’altra persona (“yo mama…“, “tua madre…“), in una sfida che rappresenta non solo un duello linguistico e simbolico, ma è anche un rito di affiliazione fra giovani, come racconterò più avanti. Pensate che in russo il gergo volgare si chiama proprio “Mat”, termine che deriva dalla stessa radice di “madre” (dall’espressione “yob tvoyu mat”, «fotti tua madre»).
Battaglia rap a suon di insulti alla madre: è uno show in Australia
Nella nostra lingua gli insulti alla madre sono più numerosi nei dialetti, per lo più del Sud: in italiano ci sono 5 espressioni, contro le 36 fra: napoletano (11), veneto e friulano (8), sardo (6), toscano (3), pugliese (3), siciliano e calabrese (2) e lombardo (1). Un’ulteriore prova che si tratta di offese molto antiche: infatti le dicevano anche Cicerone e Shakespeare. Degno di nota il fatto che prevalgono le espressioni di tipo incestuoso: rappresentano metà delle locuzioni censite.
Gli insulti alla madre sono uno dei 4 temi universali (cioè diffusi in ogni cultura) delle parolacce insieme agli insulti fisici, alle espressioni oscene e ai termini escrementizi. E sono offese del tutto particolari perché colpiscono una persona non direttamente, ma offendendone un’altra: una sorta di vendetta trasversale. Una strategia molto efficace, visto il rapporto così intimo e profondo con la figura materna. Insomma, la mamma è anche…. la madre degli insulti.
Come nasce questa usanza? E come si manifesta, in italiano e in altre lingue?
Locandina di Eleazaro Rossi, comico.
L’espressione “figlio di puttana”, con le sue diverse varianti, è presente in tutte le lingue: inglese (son of a bitch), francese (fils de pute, Ta mère la pute), tedesco (hurensohn), spagnolo (hijo de puta), portoghese (filho da puta), rumeno (Fiu de curvă) arabo (Ibin Sharmootah: la puttana di tua madre), russo (Сукин сын). In cinese si usa l’espressione 王八蛋(wáng bā dàn) che significa letteralmente “uovo di tartaruga”: dato che la tartaruga abbandona le uova dopo averle covate, l’espressione denota un figlio di madre ignota (mignotta per l’appunto: vedi sotto), nato da una relazione extraconiugale. Ma ci sono anche due altre spiegazioni: un tempo si pensava che le tartarughe concepissero solo con il pensiero, rendendo impossibile ricostruire la paternità della prole (dunque, in questo caso, “figlio di padre ignoto”). Oppure, secondo un’altra interpretazione ancora, all’origine dell’espressione c’è la somiglianza fra la testa della tartaruga che esce dal guscio e il glande che emerge dal prepuzio: l’espressione indica quindi una donna che ha perso la virtù.
In spagnolo esistono anche altri modi pittoreschi per dirlo: “anda la puta que te pari” (Torna dalla prostituta che ti ha partorito) e “tu puta madre en bicicleta”, ovvero “tua madre puttana in bicicletta”.
In Italiano è una delle espressioni considerate più offensive dopo le bestemmie (e a pari merito con “succhiacazzi”), secondo la mia ricerca sul volgarometro. Ed è l’offesa che raccoglie più denunce e processi, secondo uno studio.
Perché? Per motivi giuridici, sociali e psicologici.
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Questo genere di insulti sono un retaggio della cultura patriarcale? Secondo Francine Descarries, femminista e docente di sociologia all’Université du Québec à Montréal, la risposta è sì: «Le donne sono sempre state considerate proprietà degli uomini, siano esse figlie, mogli o madri. Attaccare la madre significa contaminare la proprietà dell’uomo. Quindi, quando insultiamo la madre di un uomo, attacchiamo i suoi beni, proprio come i suoi vestiti o la sua casa».
La testata di Zidane a Materazzi: l’artista algerino Adel Abdessemed ne ha fatto una statua.
In effetti, ricordate perché Zinedine Zidane diede una testata a Marco Materazzi, giocandosi così la finale dei Mondiali di calcio 2006? Perché Materazzi gli aveva detto: “Non voglio la tua maglia, preferisco quella puttana di tua sorella”.
L’ipotesi ha del vero: nessuno nega il peso del maschilismo nella nostra cultura. Tuttavia, in questo caso, c’è una ragione molto più immediata, come evidenzia la psicologia: la madre è l’affetto più profondo che abbiamo, la fonte delle nostre sicurezze, le nostre radici. Non solo gli uomini, ma anche le donne si sentirebbero offese se qualcuno denigrasse la loro madre. E, in ogni caso, insultare i familiari di qualcuno è, in generale, un’offesa pesante: tant’è vero che in napoletano si offende non solo la madre (“mamm’t”), ma anche la sorella (“soreta”), il padre (“patete”), o il fratello (“frateto”). Toccare i rapporti di sangue, quelli più stretti, fa sempre male. Del resto, non condividiamo con loro parte del nostro patrimonio genetico?
Gli insulti alla madre sono molto antichi: già Plutarco, nella “Biografia di Cicerone” ricorda la battuta di quest’ultimo a Metello Nepote che gli chiedeva “Chi è tuo padre?”. Cicerone gli rispose: “Nel tuo caso,” disse Cicerone, “tua madre ha reso la risposta a questa domanda piuttosto difficile.”
E nel “Timone d’Atene” William Shakespeare inserisce questo dialogo:
PITTORE – Sei un cane!
APEMANTO – Della mia stessa razza è tua madre: che altro potrebbe essere quella che ha fatto te, s’io sono un cane?
In questa categoria ho censito 11 espressioni:
“5 figli di cane”, film di gangster del 1969
figlio della colpa: figlio nato al di fuori del matrimonio, fra conviventi o adulteri
figlio della serva: persona considerata inferiore per nascita e trattata di conseguenza, anche in modo sgarbato e villano. Usato soprattutto in senso figurato per chi viene emarginato da un gruppo, o trattato con minor considerazione rispetto agli altri.
figlio di nessuno: trovatello, o figlio naturale. Era usato anche come insulto o con valore spregiativo. In senso figurato, anche bambino molto trascurato dai genitori.
figlio di puttana (dal latino puta, fanciulla) / di troia (femmina del maiale, sozza fisicamente e moralmente) / di zoccola (femmina del topo di fogna, notoriamente prolifica. Ma può derivare dal fatto che nel 1700 le prostitute dei quartieri spagnoli indossavano le stesse scarpe vistose, con alti zoccoli, delle nobildonne, che li usavano per non sporcare di fango le loro vesti) / di baldracca (da Baldacco, antico nome di Baghdad. Era anche il nome di un’osteria di Firenze frequentata dalle meretrici) / di mignotta (un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all’anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M.Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d’insulto) / di bagascia (dal francese bagasse, “serva” o “fanciulla”)
figlio d’un cane: l’espressione è equivalente a “figlio di puttana”, ma aggiunge una valenza spregiativa il riferimento all’animale (considerato inferiore all’uomo) considerato vile, crudele e comunque inferiore all’uomo. In inglese “son of a bitch” significa letteralmente “figlio di una cagna”: i cani sono disprezzati per il fatto di avere rapporti sessuali davanti a tutti e con partner diversi
In napoletano:
figlio’ e’ ntrocchia: figlio di puttana. La parola ntrocchia deriva dal latino “antorchia”, torcia: nell’antichità le prostitute giravano di notte in strada con una torcia accesa per attirare clienti. L’equivalente di “lucciola”, insomma. L’espressione può essere usata anche in senso ammirativo (vedi prossimo riquadro)
chella puttan ‘e mamm’t: quella puttana di tua madre
In veneto, friulano:
tu mare putana: tua madre puttana
tu mare grega: “grega” significa “greca”, donna straniera: spesso le prostitute dei bordelli erano di origine straniera, e in friulano “grego” designa anche una persona infida, doppia
In siciliano:
‘dra pulla i to matri: quella puttana di tua madre
figghiu d’arrusa / buttanazza: figlio di puttana
L’attore Samuel L. Jackson fa spesso il motherfucker, un tipo tosto.
L’espressione “figlio di puttana”, oltre a indicare i figli delle prostitute, designa anche una persona spregevole e priva di scrupoli che compie azioni disoneste: i figli delle prostitute, del resto, crescevano per strada, o senza un’educazione, e spesso vivevano di espedienti per riuscire a cavarsela.
Al punto che l’espressione “figlio di puttana” (e in napoletano “figl ‘e ndrocchia” e “figl ‘e bucchino”) può essere usata, in modo scherzoso, anche come complimento: indica chi riesce a cavarsela nelle situazioni difficili grazie a un’abilità spregiudicata. E questo vale anche per l’espressione spagnola “de puta madre”, di madre puttana, che però è usata come rafforzativo enfatico: equivale al nostro “della Madonna”, “cazzuto”, “molto figo”, “da paura”: come dire, figlio di una madre spregiudicata e tosta. Anche l’espressione inglese “motherfucker” (letteralmente: uno che si fotte la madre, ovvero “uno capace di fottere sua madre”) significa “persona meschina, spregevole o malvagia” o si può riferire a una situazione particolarmente difficile o frustrante. Ma può essere usato anche in senso positivo, come termine di ammirazione, come nell’espressione badass motherfucker (acronimo: BAMF), che significa ”persona tosta, impavida e sicura di sé”.
In spagnolo la “concha” è la conchiglia, ma qui significa vulva.
Gli insulti alla figura materna possono utilizzare una variante se possibile ancora più offensiva: quella che evoca la sessualità della madre. Giocano, cioè, sul tabù dell’incesto, il più forte e antico: evocando la sessualità della propria madre costringono il destinatario dell’insulto a un pensiero altamente sgradevole, ripugnante e imbarazzante. Un “incantesimo” verbale pesantissimo, innescato evocando i suoi genitali, gli atti sessuali o una vita sessuale dissoluta. Il sesso evoca sempre la nostra natura animalesca, dalla quale cerchiamo sempre di prendere le distanze: a maggior ragione nei rapporti affettivi che non hanno (e non devono avere) risvolti erotici.
Dunque, abbinare pensieri osceni alla figura materna è un’arma linguistica micidiale, ed è presente in molte lingue: oltre al già ricordato russo “Ёб твою мать” (“yob tvoyu mat”, scopa tua madre, all’origine del “mat”, il gergo volgare), c’è l’albanese “të qifsha nënën” (mi fotto tua madre) o “Mamaderr” (Tua mamma è una maiala) e l’arabo “Kos immak” (La figa di tua madre) e Nikomak (scopa tua madre). E anche il rumeno “Dute-n pizda matii“, torna nella figa di tua madre, e il cinese ha due espressioni per “scopa tua madre”: 屌你老母 (diu ni lao mu, cantonese) e 操你妈 (cao ni ma, mandarino). E il persiano: Kiram tu kose nanat, ovvero “il mio cazzo nella figa di tua madre”, Madar kooni “tua madre è lesbica”, Kos é nanat khaly khoob hast “La figa di tua madre è buona”, Sag nanato kard “Un cane ha scopato tua madre”, Pedarbozorget nanato kard “Tuo nonno ha scopato tua madre”, Nanat sag suk mizaneh “Tua madre fa pompini ai cani”, Molla nanato kard “Un mullah (teologo) ha scopato tua madre”, Madareto kardam “Mi sono scopato tua madre”, Kiram to koone nanat “il mio cazzo nel culo di tua madre”.
In francese c’è “nique ta mère” (scopa tua madre) e “Ta salope de mère” (quella maiala di tua madre), in spagnolo “(vete a) la concha de tu madre” (vai nella figa di tua madre), “Chinga tu madre” (“Scopa tua madre”), “Tu madre culo” (“Il culo di tua madre”). E in finlandese c’è l’espressione “Äitisi nai poroja” che significa “Tua madre scopa con una renna”: ogni cultura adatta gli insulti al proprio contesto.
E’ la categoria più numerosa, con 20 espressioni:
In veneto:
“A fess d mamt”, un brano disco degli Impazzination (2012).
quea stracciafiletti de to mare: quella strappa frenuli (del prepuzio) di tua madre
va in figa de to mare / va in mona: vai nella figa di tua madre, ovvero: torna da dove sei venuto. E’ usato anche in modo bonario, come sinonimo di “Ma và a quel paese”
quea sfondrada de to mare: quella sfondata di tua madre
chea rotinboca de to mare: quella rottinbocca di tua madre
va in cùeo da to mare: và nel culo a tua madre.
In mantovano:
cla vaca at ta fàt: quella vacca che ti ha fatto
In toscano:
la tu mamma maiala / la maiala di tu mà: tua madre maiala
In napoletano:
a fess d mam’t: la figa di tua madre (usato anche come esclamazione di disappunto, o per mandare qualcuno a quel paese)
bucchin e mamt: la bocchinara di tua madre
mocc a mamm’t / vafammocc a mamm’t: in bocca a tua madre / vai a farti fare un rapporto orale da tua madre
‘ncul a mamm’t: in culo a tua madre
figl’e bucchino (figlio di un rapporto orale): persona scaltra e senza scrupoli capace di cavarsela in ogni situazione
In pugliese:
La birra “De puta madre”, una Ipa tosta.
lu piccioni spunnatu di mammata: la figa sfondata di tua madre
a fissa i mammeta : la figa di tua madre
In calabrese:
Fiss’i mammata: la figa di tua madre
In culu a memmata e a tutta a razza da tua: In culo a tua madre e a tutta la tua famiglia
In sardo:
mi coddu cussa brutta bagass’e mamma: Mi fotto quella brutta puttana di tua madre
t’inci fazzu torrai in su cunnu: Ti faccio tornare nell’apparato riproduttivo di tua madre
su cunnu e mamma rua: La figa di tua madre
su cunnu chi ta cuddau a sorri tua baggassa impestara luride e’merda: La figa che ti ha partorito a te e a tua sorella impestata lurida di merda
su cunnu chi ti ndà cagau: La figa che ti ha cagato
sugunnemamarua bagassa, babbu ruu curruru e caghineri coddau in culu e in paneri de su figllu de su panettieri: La figa di tua mamma bagascia e tuo padre finocchio inculato dal figlio del panettiere
“Yo mama”, film del 2023 su un gruppo di mamme che si mettono a rappare.
Le offese alla madre non sono soltanto di tipo sessuale. Esistono anche insulti generici usati per ferire la persona infangando l’immagine della madre. Un atteggiamento piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza, con frasi del tipo “tua madre è brutta”, “tua madre è cicciona”. E questa abitudine sta anche alle origini del rap: la battaglia rap, in particolare, è un duello verbale in rima nei quali gli avversari si fronteggiano improvvisando insulti sempre più spinti sulla madre dell’avversario con la formula “Yo mama” (“your mama”, tua madre). Questa tradizione deriva dalle “dozzine”, duelli d’insulti di origine africana, ma diffusi anche in diverse altre culture. Ma le “dozzine” non sono soltanto un duello verbale nel quale i partecipanti devono mostrare la propria abilità linguistica cercando di sconfiggere l’avversario con insulti sempre più creativi e pesanti. Secondo gli antropologi Millicent R. Ayoub e Stephen A. Barnett, le dozzine erano anche un rituale per rafforzare i legami fra i coetanei. Una sorta di rito di affiliazione: partecipando, il giovane è disposto a lasciare che altri insultino sua madre senza ritorsioni, in cambio di una più stretta integrazione nel suo gruppo di amici. Solo un rapporto molto intimo fra i partecipanti rende possibile gli insulti reciproci alle madri senza passare alle mani. Secondo il sociologo Harry Lefever, questo gioco potrebbe essere anche uno strumento per preparare i giovani afroamericani ad affrontare gli abusi verbali senza arrabbiarsi. Una sorta di allenamento a sopportare le provocazioni: un possibile effetto secondario rispetto alla sfida di sfidarsi con offese che fanno girare la testa.
Di battaglie rap sulla madre abbiamo anche un celebre esempio italiano: il “Mortal kombat” tra Fabri Fibra e Kiffa nel 2001. Dopo una sequela di insulti di vario genere, Fibra (dal minuto 2:08) inizia a insultare Kiffa dicendo “Tua madre non avvisa / Quando si fa calare a gambe larghe sopra la torre di Pisa”, a cui Kiffa risponde con: “Invece tua madre è troppo brava / L’ho vista conficcarsi la Mole Antonelliana”, e così via in un crescendo sempre più osceno e crudo (siete avvisati):
Oltre che nel rap, gli insulti alla figura materna sono diffusi a ogni latitudine. In spagnolo ci sono espressioni fantasiose come “Tu madre tiene bigote” (Tua madre ha i baffi) , o “Me cago en la leche que mamaste” (cago nel latte che hai succhiato dal seno di tua madre). In giapponese c’è l’espressione Anata no okaasan wa kuso desu (Tua madre è un pezzo di merda). In persiano “Madar suchte“, Tua madre è bruciata all’inferno, e Nane khar “Tua madre è un’asina”.
Lo scrittore Lu Xun.
Gli insulti sulla madre sono molto diffusi anche in Cina. Già nel 1925 lo scrittore Lu Xun (1881-1936) osservava: «Chiunque abiti in Cina sente spesso dire “tāmāde” (他妈的 = tua madre) o altre espressioni abituali del genere. Credo che questa parolaccia si è diffusa in tutte le terre dove i cinesi hanno messo piede; la sua frequenza d’utilizzo non è inferiore al più cortese nǐ hǎo (ciao). Se, come alcuni sostengono, la peonia è il “fiore nazionale” della Cina, possiamo dire, allo stesso modo, che “tāmāde” ne è il “turpiloquio nazionale”».Secondo Xun, attaccare la madre era un modo per mettere in discussione non solo la reputazione, ma anche il prestigio sociale delle classi altolocate, che basavano il loro potere e prestigio sugli antenati: annientando questi ultimi, con espressioni come “discendente di madre schiava”(而母婢也), “sporco figlio dell’eunuco” (赘阉遗丑), scompare anche il prestigio dei presenti. «Se vuoi attaccare il vecchio sistema feudale, prendere di mira i lignaggi nobiliari è davvero una strategia intelligente. La prima persona ad aver inventato l’espressione “tāmāde” può essere considerata un genio, ma è un genio spregevole».
In italiano non ho trovato frasi fatte con espressioni denigratorie sulla madre. Ce ne sono 8, invece, in alcuni dialetti:
In napoletano:
Tua madre è così grassa: è uno degli insulti contro la madre
chella pereta / loffa ‘e mammeta: quella scorreggia di tua madre
chella zompapereta ‘e mammeta: quella salta scorregge di tua madre: appellativo rivolto alle donne popolane e volgari, o anche alle prostitute
chella latrina / cessa ‘e mammeta: quel cesso di tua madre
chella cessaiola / merdaiola ‘e mammeta : quella lava gabinetti di tua madre
In veneto:
to mare omo: tua madre è un uomo
Una particolare variante degli insulti materni riguarda evocare la morte della madre oppure insultare i suoi defunti, anche in questo caso nei dialetti:
In livornese:
budello cane di tu madre morta: budella da cane di tua madre morta
il budello de tu ma: le budella di tua madre
In pugliese:
l’ murt de mam’t: i morti di tua madre
E tu, conosci altri modi di dire con insulti alla madre? Scrivilo nei commenti e aggiornerò l’articolo.
Ringrazio Lina Zhou per la preziosa traduzione dell’articolo di Lu Xun.
Ho parlato di questa ricerca a Radio Deejay, ospite della trasmissione “Il terzo incomodo” condotta da Francesco Lancia e Chiara Galeazzi. Qui sotto l’audio dell’intervento: