Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Thu, 02 Jan 2025 09:50:11 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Parolacce: la “Top ten” dell’anno 2024 https://www.parolacce.org/2025/01/01/parolacce-top-ten-del-2024/ https://www.parolacce.org/2025/01/01/parolacce-top-ten-del-2024/#respond Wed, 01 Jan 2025 10:17:32 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21303 Quali sono state le parolacce più notevoli del 2024, in Italia e nel mondo? Anche quest’anno ho preparato la classifica dei 10 insulti più emblematici dell’anno appena concluso. Un periodo segnato, oltre che da forti contrapposizioni politiche e guerre (due… Continue Reading

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Quali sono state le parolacce più notevoli del 2024, in Italia e nel mondo? Anche quest’anno ho preparato la classifica dei 10 insulti più emblematici dell’anno appena concluso. Un periodo segnato, oltre che da forti contrapposizioni politiche e guerre (due ambiti nei quali il turpiloquio impera), anche da episodi clamorosi, come la parolaccia papale, entrata di dirittonella “Top Ten”. La premier Giorgia Meloni, prima donna a diventare presidente del Consiglio, entra in classifica con due episodi: un esordio col botto, anche se non è la prima volta che accade a un premier. Era già avvenuto con Silvio Berlusconi, presente in 3 Top Ten degli anni passati (i link sono alla fine dell’articolo), e anche con Enrico Letta. Senza contare Vittorio Sgarbi e Morgan, ormai degli habituè in questa classifica.
Ma dal mio punto di vista in questo 2024 c’è stata una questione ancora più emblematica: la crociata contro le parolacce in Formula 1 (e anche nel basket NBA). Per la prima volta, infatti, inserisco nella Top Ten qualcuno che non ha detto volgarità, ma ha tentato – in modo insensato – di eliminarle

 La classifica 2024

1) FORMULA 1

Mohammed Ben Sulayem (presidente della Fia): tolleranza zero contro le parolacce.

20 settembre 2024

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IL FATTO

 Il presidente della Federazione Internazionale Automobilismo (Fia), l’ex pilota di rally emiratino Mohammed Ben Sulayem, a settembre aveva rilasciato un’intervista ad “Autosport” lanciando la lotta contro il turpiloquio dei piloti. «Dobbiamo differenziare il nostro sport dalla musica rap. Noi non siamo rapper, eppure quante volte al minuto i piloti dicono parolacce? Noi non siamo così, è una cosa che fanno i rapper, non noi. Bisogna pensare che ci sono anche dei bambini che guardano le gare. Immaginate di essere seduti con i vostri figli a guardare la gara e che qualcuno dica tutto questo turpiloquio. Cosa direbbero i vostri figli o nipoti? Che cosa gli stiamo insegnando sul nostro sport?». Affermazioni del tutto condivisibili, in linea di principio. Anche se il paragone con il rap non è stato felice: anzi, per  Lewis Hamilton, pilota di colore, era una forma surrettizia di razzismo. «Non mi piace come si è espresso. Dice che i rapper sono volgari, e la maggior parte di loro sono neri. Se poi aggiunge ‘Noi non siamo come loro’, diventano parole sbagliate».

Max Verstappen (Oracle Red Bull Racing)

Ma Sulayem ha tirato dritto. E quando, giorni dopo, a Max Verstappen è sfuggita una parolaccia, lo ha subito punito. Durante una conferenza stampa, il campione del mondo in carica si era lasciato andare a uno sfogo contro la sua Red Bull, meno veloce in Azerbaigian rispetto a quella del compagno di squadra: «Non lo so perché, impostazioni diverse. Appena ho iniziato le qualifiche sapevo che la macchina era fottuta (fucked)». Verstappen è stato redarguito dalla Fia e condannato ai “lavori socialmente utili”, come prevede il regolamento (un pomeriggio  passato da Verstappen insieme ai giovani studenti del politecnico di Kigali, in Ruanda).
Il pilota – un campione che a soli 27 anni ha raggiunto primati storici – nella conferenza stampa successiva, per protesta, ha risposto a monosillabi alle domande dei giornalisti. Una forma di protesta, come dire “Non si può dire niente”. In un’intervista si era sfogato dicendo: “Quando non puoi più essere te stesso e quando devi affrontare tutte queste cose stupide, vien voglia di mollare tutto”.

Ma il presidente della Fia ha tirato dritto. E ha proseguito nella “tolleranza zero” contro il turpiloquio. Un mese dopo, durante le interviste del dopo gara in Messico, a Charles Leclerc ne è scappata un’altra: “Ho avuto un sovrasterzo prima da un lato e poi dall’alto e quando ho ripreso il controllo ho pensato: cazzo (fuck)… e poi per fortuna…”. Si è subito scusato, ma gli è stata comminata una multa di 5mila euro. A quel punto l’associazione dei piloti (Grand Prix Drivers Association ) ha scritto un comunicato senza precedenti: “Per quanto riguarda le parolacce, c’è differenza tra quelle usate intenzionalmente per insultare qualcuno e quelle casuali, come quando si descrive il maltempo o una situazione di guida. Per questo esortiamo il Presidente della Fia a misurare il suo tono quando si riferisce ai nostri piloti. Sono adulti e non hanno certo bisogno di consigli su questioni banali, come indossare gioielli o delle mutande”.

Una lezione di vita e di linguistica. Già, perché in ambo i casi le espressioni usate dai piloti erano espressioni enfatiche: erano un modo colorito di rafforzare un concetto, uno sfogo emotivo. Senz’altro scurrili, ma non insultavano nessuno. Erano uno stile comunicativo, proprio come i gioielli o le mutande lo sono per l’aspetto. Obiezione ineccepibile.

Ma c’è un’obiezione di fondo ancor più importante che andrebbe fatta al presidente Sulayem, il quale vuole estendere la censura linguistica anche alle comunicazioni via radio fra i piloti e il loro team durante le gare. Come può pretendere di tappare la bocca a piloti che rischiano la vita correndo a più di 300 km orari? Senza contare le pressioni mediatiche (le gare sono in mondovisione) e quelle economiche (per gestire una scuderia occorrono 90 milioni di euro, senza contare gli interessi degli sponsor). 

Per molto meno, quando noi siamo in automobile, nel traffico, se qualcuno ci taglia la strada imprechiamo senza limiti. Perché anche in questo caso, nel nostro piccolo, viaggiare in auto mette in gioco la sopravvivenza e il denaro (se si rompe l’auto). Lo aveva evidenziato anche una ricerca che avevo raccontato qui.

Dunque, è una crociata insensata quella di impedire ai piloti di sfogarsi. Del resto, come avevo scritto in un altro articolo, molti modi di dire evidenziano che chi fa un lavoro duro impreca più degli altri (bestemmiare come un camallo/facchino/marinaio). Se la Formula 1 vuole essere meno “diseducativa”, l’unico intervento efficace è non trasmettere in tv le comunicazioni fra piloti e team durante le gare.

2) PAPALE PAPALE

Papa Francesco: «C’è già abbastanza frociaggine nei seminari».

Roma, 20 maggio 2024

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IL FATTO

A Roma c’è l’assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana. Un incontro a porte chiuse fra il papa e 270 vescovi italiani. Uno dei temi in discussione è la presenza dei gay nella Chiesa, e nei seminari in particolare. Per chiarire il suo pensiero, il papa ha detto: “C’è già abbastanza frociaggine nei seminari”. L’espressione ha sollevato qualche mormorio fra i presenti: dopo qualche giorno è finita su Dagospia e poi su tutti i giornali. E ha fatto il giro del mondo.

Un’affermazione forte, in tempi di “politicamente corretto” e lotta all’omofobia. Il Papa l’ha usata solo perché l’incontro era a porte chiuse, fra i vertici della Chiesa: non l’avrebbe mai usata in pubblico. A pochi mesi dalla sua elezione aveva anzi affermato: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?».

Il gay pride ha cavalcato l’espressione usata dal papa

Dunque, quell’espressione doveva rimanere fra i partecipanti all’assemblea. Si può supporre che il papa abbia scelto quell’espressione per far arrivare il messaggio a destinazione (“basta seminaristi gay”, o almeno: “basta gay che sbandierano in modo teatrale il proprio orientamento sessuale e non seguono la castità”), senza tanti giri di parole, evocando un’immagine concreta e diretta. Un termine usato, presumibilmente, in modo pittoresco e bonario, ma pur sempre uno spregiativo volgare e di origine omofoba. Che esprime una presa di distanza, se non un dileggio, verso gli omosessuali. Ma va precisato che il papa è di madrelingua spagnola, e pertanto è comprensibile che non padroneggi le connotazioni e le origini delle parole italiane.

Risultato? Un’uscita infelice, in un momento storico infiammato dalle discussioni sugli orientamenti sessuali e sulla presenza di omosessuali fra i sacerdoti. E infatti, assediato dalle polemiche (la notizia ha fatto il giro del mondo), alla fine Bergoglio ha dovuto correggere il tiro: la Sala stampa vaticana ha precisato che il Papa «non ha mai inteso offendere o esprimersi in termini omofobi, e rivolge le sue scuse a coloro che si sono sentiti offesi per l’uso di un termine, riferito da altri». Dunque, nessun intento omofobo. E, anzi, Francesco precisa di non conoscere con precisione l’uso e l’origine di quel termine sottolineando di averlo ascoltato da altre persone. E aggiungendo che «nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti».

Ma con questo scivolone il papa ha perso autorevolezza, come capita a chiunque dica parolacce in pubblico (come racconto qui):  e probabilmente era proprio questo l’obiettivo dei vescovi che hanno spifferato l’episodio ai giornalisti. Peraltro, a giugno il papa è tornato a utilizzare quel termine, ha riferito AdnKronos, durante un incontro con i parroci di mezza età,  dicendo che un giovane omosessuale “non è prudente che entri in seminario”, perché rischia di cadere nell’esercizio del proprio ministero.

Non è l’unico episodio linguistico controverso, come raccontavo in questo articolo:  Il linguaggio colloquiale, con cui il papa cerca di arrivare a tutti, presenta questi inconvenienti. Peraltro Francesco non è il primo pontefice a usare un linguaggio scurrile: il suo predecessore Benedetto XIV ne diceva di più pesanti come raccontavo qui.

3) DISSING A TUTTI

Fedez: “Ogni cazzo della mia vita diventa un caso di Stato

E non mi stupirebbe se un giorno vedessi Myrta Merlino

Fare un servizio sul mio cazzo depilato (…)

Priorità di ‘sto paese: farsi i cazzi di Fedez”

“Real talk”, 3 dicembre 2024

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IL FATTO

Il 2024 è stato l’anno dei veleni per Fedez. Uscito dal matrimonio con Chiara Ferragni e dal pandoro-gate, il rapper ha tenuto banco sulle cronache per il duello a colpi di dissing (canzoni piene di insulti: da disrespecting, mancare di rispetto) con il rapper Tony Effe e con la giornalista televisiva Myrta Merlino.

I dissapori con Tony Effe sono iniziati a maggio, quando Tony durante un’intervista a Radio 105 aveva detto che Fedez gli aveva proposto di collaborare a una nuova canzone e lui aveva rifiutato. Fedez aveva replicato che era stata una proposta informale e che Tony aveva ingigantito l’episodio. Che però non si è chiuso lì: a settembre Fedez ha pubblicato “Di Caprio”: il titolo deriva dal fatto che Tony Effe in un’occasione si era paragonato a Leonardo DiCaprio anche per la scelta di partner sotto i 30 anni d’età. La canzone è una critica graffiante al collega:

La mia pupa dice: “Grossi rapper, cazzi micro”

Se divento scarso, puoi dire che ti somiglio

Se vuoi fare il cane, assicurati di esser Silvio

Nel giro di pochi giorni Tony Effe ha reagito pubblicato un brano in risposta: 64 barre di verità

Devi stare attento a quello che dici (Sosa)

Go, go, la Chiara dice che mi adora (Go, go) [ riferimento alla Ferragni? mesi prima si vociferava che i due si stessero frequentando, dopo che lei si era separata da Fedez] 

 Ti comporti da troia (Seh), seh

La tua bevanda sa di piscio (Go, go) [ la bevanda creata da Fedez, Boem]

 Fai beneficenza, ma rimani un viscido, seh

Il botta e risposta non si è fermato qui. Tempo dopo, Fedez ha pubblicato una nuova canzone “L’infanzia difficile di un benestante”. Un nuovo, pesante attacco a Tony:

Scrivevi a mia moglie mentre mi abbracciavi

Quelli come te io li chiamo infami

Scrivi di merda ma bei pettorali

Prendi la lama con scritto “A morte gli infami”

Sorridi e fai harakiri

Sei finto fuori e marcio dentro

Come i tuoi denti in ceramica

Sei un ragazzino insicuro

Red Bull ti ha messo le ali

Fedez ti ha messo una Boem su per il culo

Tony Effe non è stato l’unico bersaglio delle rime di Fedez. A dicembre ha pubblicato un nuovo singolo, “Real talk”, nel quale attacca il mondo dell’informazione e in particolare la giornalista Myrta Merlino, che gli aveva dedicato alcuni servizi durante la trasmissione “Pomeriggio 5” (Canale 5): 

 Più ci rifletto e penso che forse è tutto sbagliato

Ogni cazzo della mia vita diventa un caso di Stato

E non mi stupirebbe se un giorno vedessi Myrta Merlino

Fare un servizio sul mio cazzo depilato (…)

Priorità di ‘sto paese: farsi i cazzi di Fedez

Magistrato antimafia che mi ha fatto dossieraggio

Arrestatemi per spaccio, vuoi una dose di coraggio?

Non me ne frega un cazzo, lo so che ho un caratteraccio

Fai cagare a rappare, compra una bella recensione

Hanno messo a libro paga un magazine di settore

Io ho ascoltato una canzone scritta dal suo fondatore

Fai cagare come rapper e come intervistatore

Dikele, va bene, mi vorresti boicottare? [ Antonio Dikele Distefano, direttore di Esse magazine ]

Ti rubo le ginocchiere, tu smetti di lavorare

Intendevo che fai i bocchini e non critica musicale

Lì in mezzo siete cretini e le devo pure spiegare

Alcune staffilate, invece, sono dedicate alla ex moglie Chiara Ferragni:

Chi perde un marito trova un tesoro, amore fa rima con patrimonio [ la Ferragni è fidanzata con il ricco imprenditore Giovanni Tronchetti Provera, vertice della Pirelli ]

Insomma, un anno di veleni per tutti. Singolare che Fedez non sia stato querelato da nessuno dei suoi bersagli.

4) BELVA TIMOROSA

 Teo Mammucari: «Vaffanculo va… no no no, vaffanculo».

“Belve” (Rai2), 10 dicembre 2024

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IL FATTO

Il conduttore televisivo Teo Mammucari aveva chiesto alla giornalista Francesca Fagnani di partecipare a “Belve”, su Rai2: un talk show nel quale gli ospiti vengono messi sulla graticola con domande scomode. Ma Mammucari, pur dicendo di conoscere il programma, a un certo punto ha abbandonato lo studio terminando il suo intervento con una parolaccia.

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Al minuto 15 Teo Mammucari inizia a irritarsi perché la conduttrice Francesca Fagnani gli dà del “lei” mentre in privato gli dà del “tu”. La Fagnani gli legge un giudizio di Giancarlo Dotto, che aveva detto di lui “E’ una carogna vera come tutti gli ex animatori disprezza coloro che deve animare”. Ecco come è proseguito (e degenerato) il dialogo:

M: Ragazzi io me ne vado. Pensavo che quello che mi avevi detto in camerino fai tutta la carina…. Non stai facendo parlare di me

F: Non puoi pretendere i complimenti, è un programma così. In programma do del lei. SE non hai visto il programma non so perché mi hai chiesto di venire

M: Così è troppo…Non sono a mio agio ora. Se questo è il programma può piacermi e può non piacermi

F: Se uno che gioca ad attaccare tutti poi non sostiene un’intervista

M: Manda questo, ma è scorretto. Questa non è un’intervista, è un attacco.

F: L’ha presa male, ci sta. A me fa piacere se resta

M: e’ il programma, in bocca al lupo. Il pubblico al buio. Posso a decidere se mi trovo a mio agio?

F: Mi fa piacere se resti, se vuoi andare vai.

M: Sei bravissima, intelligente, però le cose registrate così… Mi sento dispiaciuto per come mi hai trattato.

F: Non ce l’hai fatta, ci sta, succede

M: Non ce l’hai fatta tu. io sono la stessa persona qui dentro e fuori… Ragazzi scusatemi (ed esce dallo studio)

La Fagnani, rimasta sola sul palco commenta al pubblico: “ragazzi è la prima volta”… Da dietro le quinte si sente Mammucari che risponde: “e anche l’ultima! vaffanculo va… no no no, vaffanculo”.

Il colpo di scena è diventato virale sui social e sui giornali. Mammucari non ne è uscito bene. Massimo Gramellini gli ha dedicato un articolo della rubrica “Il caffè” sul Corriere della Sera: «E’ un’istantanea del male del secolo: l’adultescenza, ovvero l’adolescenza infinita di tanti cosiddetti adulti. Teo Mammucari, diventato famoso come conduttore di un programma non esattamente per mammolette (tendeva agguati telefonici agli sconosciuti), chiede di partecipare a Belve, e appena arrivano le domande pepate smette di giocare e se ne va… come se uno studente si offendesse perché il professore con cui aveva cantato “Azzurro” in gita scolastica, rientrato a scuola si permette di interrogarlo senza sconti».

In un’intervista successiva, il conduttore dice di essersi sentito fragile e di essere andato in panico:  “Nella mia testa pensavo di farmi due risate…  Ma il pubblico muto mi ha fatto andare in crisi, Se mi togli il pubblico io mi sento finito” E mi rende insicuro avere a che fare con donne forti”. E sul “vaffa” finale: “L’ho detto mentre entravo in camerino, una persona che era con me, mio fratello, mi ha rassicurato dicendo che non era successo nulla di grave e io ho esclamato “ma vaffanculo!”. La versione di Mammucari non ha convinto. Alla fine ha dichiarato che, dopo questo episodio, vuole prendersi una pausa dalla tv e dal teatro.

5) LO SBROCCO

Vittorio Sgarbi: «La smetta di rompermi i coglioni lei non sa un cazzo, ed è un totale ignorante! Non voglio parlare con lei! Mi sta sul cazzo ha una faccia di merda. Se lei muore in un incidente stradale son contento. Mi fa schifo».

“Report” (Rai3), 29 gennaio 2024

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IL FATTO

“Report”, il programma condotto da Sigfrido Ranucci su Rai3, stava indagando su un quadro di Rutilio Manetti “La cattura di San Pietro”, scomparso nel 2013 dal Castello di Buriasco, in Piemonte. Sgarbi possiede un’opera simile, e sostiene di averla trovata  all’interno di una villa del Viterbese, acquistata da lui qualche anno fa.Non sono Diabolik, ho solo avuto culo a trovarla in quella villa“.

Sgarbi è anche sotto inchiesta della Procura di Imperia per un quadro di Valentin De Boulogne fermato alla dogana di Montecarlo: il critico d’arte è accusato di esserne il vero proprietario, cosa che lui nega. Quando il giornalista di Report Manuel Bonaccorsi gli ha chiesto un commento su quest’ultima vicenda, Sgarbi ha sbroccato: 

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La smetta di rompermi i coglioni lei non sa un cazzo, ed è un totale ignorante! Non voglio parlare con lei! Mi sta sul cazzo ha una faccia di merda”. “Se lei muore in un incidente stradale son contento. Mi auguro che lei abbia un incidente e si schianti, perchè mi fa schifo”.

“Ma no, dai, professore, per favore, noi andiamo a 40 all’ora”, dice il giornalista, facendo gli scongiuri.

“Andate a 30, andate affanculo. Non rompa il cazzo a me, faccia di merda, si tolga dai coglioni! Spero lo mandiate in onda… Tiro anche fuori l’uccello così lo mandate in onda (si alza dalla sedia e fa il gesto di abbassare la cerniera dei pantaloni).

“Toglietevi dai coglioni Vada fuori dalle palle, lei e vada a cagare lei e Ranucci (Sigfrido Ranucci, il conduttore) e Report che mi fa cagare— E’ una trasmissione che quando la vedo mi vede il vomito. Con quella faccia di montanaro di quello lì. Mi fate schifo, non sapete un cazzo, siete ignoranti come delle capre”.

La scenata di Sgarbi ha fatto clamore sui giornali. Sui social Sgarbi è stato bersagliato dalle critiche: è pur sempre un sottosegretario alla Cultura. E la settimana successiva alla messa in onda ha perso il posto di presidente della Fondazione Canova. Il sindaco di Possagno, Valerio Favero,ha detto che la decisione era stata maturata prima dell’inchiesta ma ha aggiunto che “senza dubbio quanto visto in tv è tutt’altro che edificante”.

6) POLITICA SPAZZATURA

Tony Hinchcliffe: «C’è un’isola di spazzatura…. Penso che si chiami Porto Rico»

28 ottobre 2024, New York

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IL FATTO

Le ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono state contrassegnate da insulti e veleni nello scontro fra Kamala Harris, Joe Biden e Donald Trump. Durante una convention elettorale al Madison Square Garden di New York, si è esibito sul palco un comico, Tony Hinchcliffe. Che si è lanciato in affermazioni di sapore razzista:  “Sono tempi assolutamente folli… Non so se lo sapete ma c’è un’isola galleggiante di spazzatura in mezzo all’oceano in questo momento… Penso che si chiami Porto Rico… ok, va bene”. Non contento, ha aggiunto una battuta sui latino-americani che “amano fare bambini, lo fanno. Non c’è modo di tirarli fuori. Non lo fanno, vengono dentro, proprio come fanno con il nostro Paese”.

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Porto Rico è un territorio statunitense nei Caraibi. Gli abitanti dell’isola non possono votare alle presidenziali, ma 6 milioni di loro – emigrati negli Usa – sì. La battuta del comico ha fatto il giro del mondo e sollevato vivaci proteste dai portoricani. L’arcivescovo di San Juan, Porto Rico, chiede a Donald Trump di ripudiare i commenti volgari del comico Tony Hinchcliffe: “Mi piace una bella battuta, tuttavia l’umorismo ha i suoi limiti. Non dovrebbe insultare o denigrare la dignità e la sacralità delle persone. Le osservazioni di Hinchcliffe non provocano solo risate sinistre, ma anche odio. Questo genere di osservazioni non ha posto in una società fondata su ‘libertà e giustizia per tutti”.

La Harris ha subito condannato la battuta del comico, ma anche lo staff di Trump ha preso le distanze, dicendo che “non riflette le sue opinioni”. Ma anche alcuni esponenti del partito repubblicano hanno condannato apertamente il comico. La deputata Maria Elvira Salazar si è detta “disgustata” dal “commento razzista” e ha ricordato che “Porto Rico ha inviato oltre 48.000 soldati in Vietnam. Questo coraggio merita rispetto.  Impara!”. Discorso analogo da parte del senatore repubblicano Rick Scott ha dichiarato: “La battuta non fa ridere per due motivi. Non è divertente e non è vera. I portoricani sono persone straordinarie e americani straordinari”.  Il comico Hinchcliffe ha scritto sui social che i suoi critici “non hanno senso dell’umorismo”. 

Ma il presidente uscente Joe Biden, reagendo alla battuta del comico, ha fatto un autogol. Durante un evento elettorale. «Lasciate che vi dica una cosa. I portoricani che conosco sono brave persone. L’unica spazzatura che vedo galleggiare là fuori sono i suoi sostenitori, la sua demonizzazione degli ispanici è senza scrupoli e antiamericana». Una battuta non molto diversa da quelle che fece Silvio Berlusconi quando definì “coglioni” gli elettori del centro-sinistra. Poco dopo, Trump si è presentato a un comizio in Wisconsin vestito da spazzino a bordo di un camion per rifiuti con il suo nome a caratteri cubitali e il motto “Make America great again!”. Peraltro, il mese prima, lo stesso Trump aveva definito “spazzatura assoluta” i membri dell’entourage di Kamala Harris.

7) MULTA RECORD

Anthony Edwards: «Merda, non faccio gli straordinari, fanculo!».  Multa di 100mila dollari

27 dicembre 2024

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IL FATTO

Anthony Edwards, 23 anni, detto “ant” (formica) è un giocatore di basket dei Minnesota Timberwolves. Gioca nella National Basketball Association (NBA) oltre che nella nazionale olimpica.
Il 27 dicembre, dopo una partita contro gli Houston Rockets, era stato intervistato dalle tv a bordo campo. Aveva realizzato il punto vincente durante il suono della sirena di fine tempo (buzzer-beater), impresa che gli ha permesso di far vincere la propria squadra di un punto fuori casa (113 a 112).
Il giocatore, con ancora l’adrenalina in corpo, stava raccontando le fasi concitate della vittoria in diretta televisiva: “Tutto quello che sapevo era che la giocata era per Ju (Julius Randle, compagno di squadra) di andare a 14… Una volta che l’ha presa, merda, chi altro? Devo andare a prenderla. Merda… Merda, ci sto andando per la vittoria. Come ha detto Gilbert Arenas, non faccio gli straordinari, quindi fanculo!” [ “All I knew was, the play was for Ju to go 14… Once he picked it up, shit, who else? I gotta go get it. Shit… Shit, I’m going for the win. Like Gilbert Arenas said, I don’t do overtime, so fuck it!”]. Qui il video dell’intervista, da 0:26.

Pochi giorni dopo, la NBA gli ha comminato una multa di 100mila dollari. E’ una delle sanzioni più elevate per linguaggio scurrile: il record, a quanto mi risulta, va alla multa di 120mila dollari comminata proprio quest’anno a un tennista statunitense, Francis Tafoe, per aver ripetutamente imprecato contro un arbitro di sedia agli Shanghai Masters. E questo può essere comprensibile, trattandosi di insulti contro un arbitro. Ma il caso di Edwards è diverso: ha usato un linguaggio colorito ma non ha insultato nessuno (vedi il caso Verstappen). La NBA ha voluto infliggergli una punizione esemplare, dato che, come ricorda il provvedimento, Edwards non è nuovo al linguaggio pepato: era stato multato di 75.000 dollari meno di una settimana prima “per aver criticato pubblicamente l’arbitraggio e aver utilizzato un linguaggio inappropriato e blasfemo” dopo la sconfitta casalinga dei Timberwolves per 113-103 contro i Golden State Warriors. E a novembre era stato multato di 35.000 dollari per aver fatto un gesto osceno verso gli spalti mentre era in campo durante una vittoria contro i Kings a Sacramento. A conti fatti, quindi, solo quest’anno Edwards paga 210mila dollari per parolacce: una cifra senza precedenti.

8) PRESENTAZIONI

Giorgia Meloni: «La stronza della Meloni»

Caivano, 28 maggio 2024

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IL FATTO

L’episodio può essere compreso solo con una premessa. Il 16 febbraio, Vincenzo De Luca, governatore della Campania, aveva organizzato a Roma una manifestazione di protesta con 550 sindaci che protestavano contro l’autonomia differenziata e per chiedere lo sblocco dei Fondi di Sviluppo e Coesione. Il commento della premier Meloni fu lapidario:  «Se si lavorasse invece di fare le manifestazioni si potrebbe ottenere qualche risultato in più».

Così, De Luca, mentre si trovava in un corridoio di Montecitorio, parlando con altre persone, era stato ripreso di nascosto da una telecamera di La7. Il video, poi pubblicato, lo mostrava mentre diceva: «Ma è tollerabile questo atteggiamento così? Centinaia di sindaci che stanno qua, che non hanno i soldi per l’ordinaria amministrazione… “Lavora”… Lavora tu, stronza!».

Il video , registrato e mandato in onda all’insaputa di De Luca, fece furore sui social, oscurando l’attenzione sulla manifestazione di protesta. 

Così, alla prima occasione pubblica in cui De Luca avrebbe incontrato la premier (l’inaugurazione di un centro sportivo a Caivano) quest’ultima ha fatto la contromossa. Presentandosi a De Luca, nell’atto di stringergli la mano gli ha detto: “Presidente De Luca… La stronza della Meloni… Come sta?”. De Luca, preso in contropiede, ha risposto: “Benvenuta. Bene di salute”. Il video è stato rilanciato sul sito di Atreju e ha fatto furore sul Web. Il giorno dopo De Luca ha commentato l’episodio con una battuta: «la Meloni ci ha tenuto a comunicare la sua nuova e vera identità. Noi non possiamo che concordare».

L’opinione pubblica si è divisa: alcuni hanno plaudito alla sua reazione, altri come lo scrittore Christian Raimo l’hanno contestata definendola “passivo-aggressiva”, peraltro contro un giudizio espresso in privato e pubblicato all’insaputa di De Luca. Per un episodio simile, la Corte di Cassazione, nel 2006, aveva stabilito che «la critica politica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria». La pronuncia si riferiva al giornalista Pietro Ricca che aveva dato del «buffone» a Silvio Berlusconi. Dunque, più in alto è il destinatario, più quest’ultimo deve mettere in conto (e tollerare) gli insulti.  E, aggiungo, più in alto è una persona, meno dovrebbe usareil linguaggio basso, che dà il cattivo esempio e fa perdere autorevolezza. 

9) GERGO

Giorgia Meloni: «L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi»

5 ottobre 2024

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IL FATTO

Le schermate della chat di Giorgia Meloni pubblicate sui giornali

E’ autunno e il Parlamento – riunito in seduta comune – deve votare i giudici della Corte Costituzionale. Nelle chat di Lega e Forza Italia appare un messaggio: Attenzione, martedì 8 ottobre, ore 12,30, indispensabile la presenza di tutti al voto per la Corte Costituzionale. Eventuali missioni vanno rimandate o annullate”. Era un pressante invito per partecipare alla votazione e far passare i candidati della maggioranza. Dopo pochi minuti, il messaggio è stato pubblicato sul Web e sui giornali. E la premier si è risentita, scrivendo (sempre in chat) questo commento: «Io alla fine mollerò per questo. Perché fare sta vita per far eleggere sta gente anche no. E L’infamia di pochi mi costringe a non avere rapporti con i gruppi (parlamentari, ndr). Molto sconfortante davvero»

Pochi minuti dopo il ministro della Difesa Guido Crosetto prosegue sullo stesso tono. “Beh, però penso che lavorandoci un po’ gli o l’infame si trova”. 

Perché queste frasi sono nella Top Ten? Non tanto perché la premier abbia insultato colleghi di partito. Lo sfogo è comprensibile, trattandosi di chat private che sono state rese pubbliche. Ma sono in classifica per la scelta del termine: “infame” è uno spregiativo che usano i malavitosi per denigrare chi fa la spia alla Polizia. Può un presidente del Consiglio usare lo stesso gergo dei criminali, paragonando (indirettamente) i giornalisti a “sbirri”?
Come ha detto in un’intervista a “
Famiglia Cristiana” il linguista Michele Cortelazzo «Stupisce il trasferimento al campo politico della parola “infame”, usata nel significato in cui l’adopera la malavita per accusare di tradimento chi collabora con lo Stato: dovrebbe essere una parola che un politico considera tabù, perché ha dei riscontri storici recenti che restano nella memoria e rimandano ad ambienti – le mafie, le brigate rosse -, che in un Paese democratico dovrebbero suscitare ripulsa unanime. Dovrebbe essere uno di quei termini che chi rappresenta le istituzioni, al governo o all’opposizione che sia, tiene chiuso in bocca, perché riferito a settori che sono il rovescio delle istituzioni, della legalità e dello Stato. Non è tanto questione di polemica dura, al limite dell’ingiuria, che nel discorso politico c’è sempre stata e forse è ineliminabile, ma del contesto di riferimento, incompatibile con il ruolo, perché porta nel terreno dei nemici dello Stato». Concordo al 100% con questa analisi. In un certo senso, questo episodio fa il paio con la “frociaggine” di papa Francesco per la scarsa consapevolezza nell’uso del lessico. Con la differenza che Bergoglio è più scusabile in quanto di madrelingua argentina.

10) GAFFE

Francesca Luce Cardinale: «Affanculo, scusate, ho sbagliato riga». 

“Pillole di Poesia” (RaiNews) 12 marzo 2024

Angelo Sotgiu (Ricchi e poveri): “Aprite il microfono, teste di cazzo!”

Rai1, 31 dicembre 2024

[ per approfondire, apri la finestra cliccando sulla striscia blu qui sotto ]

IL FATTO

Su Rainews c’è una rubrica quotidiana chiamata “Pillole di poesia”. Un’attrice, Luce Cardinale (nipote della celebre Claudia) legge versi legati all’attualità. In una delle puntata recitava “La strada non presa”, una poesia di Robert Frost.

Due strade divergevano in un bosco d’autunno

e dispiaciuto di non poterle percorrere entrambe,

fissandone una, più lontano che potevo….

«Affanculo! Scusate… perché? Ho saltato una riga, così…»

Guarda il video

Clicca per vedere il video

La ripresa si interrompe e va in onda la sigla. Probabilmente il video è stato rifatto, ma l’emittente ha mandato in onda per sbaglio quello con l’incidente di lettura. Che è diventato virale sui social. Che poesia. Il presidente della Fnsi (il sindacato dei giornalisti) Vittorio Di Trapani, giornalista di Rainews: “Chi pagherà per danni di reputazione così gravi?”.


La figuraccia fa il paio con quella avvenuta pochi secondi prima della mezzanotte in diretta su Rai1 a “L’anno che verrà”, durante lo show di Capodanno. Proprio mentre iniziava il conto alla rovescia si è sentito Angelo Sotgiu, voce dei Ricchi e poveri, che urlava (rivolto ai tecnici di regia): “Aprite il microfono, teste di cazzo! Ho il microfono chiuso, teste di cazzo!”. Si è sentito tutto in diretta, tanto che poi il conduttore Marco Liorni si è scusato con i telespettatori: “Sembra sia scappata qualche parola sconveniente e volevo scusarmi col pubblico, con chi l’ha sentita e si è sentito disturbato da questa espressione, sicuramente sconveniente”. Il video è visibile qui.

Se volete leggere le classifiche degli ultimi 16 anni, potete cliccare sui link qui di seguito: 2023, 2022, 2021, 2020, 2019,  2018, 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010,  2009 e 2008.

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La gloriosa storia dei nobili Coglioni https://www.parolacce.org/2024/12/02/origine-cognome-colleoni/ https://www.parolacce.org/2024/12/02/origine-cognome-colleoni/#respond Mon, 02 Dec 2024 10:13:56 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21174 I suoi esponenti hanno scritto pagine importanti nella storia d’Italia, dal Medioevo fino al secolo scorso. Sono stati notai, condottieri, benefattori e politici di primo piano. Nonostante un cognome a dir poco ingombrante: Coglioni, poi ingentilito, col passare dei secoli,… Continue Reading

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Il volto di Bartolomeo Colleoni nella statua equestre di Venezia.

I suoi esponenti hanno scritto pagine importanti nella storia d’Italia, dal Medioevo fino al secolo scorso. Sono stati notai, condottieri, benefattori e politici di primo piano. Nonostante un cognome a dir poco ingombrante: Coglioni, poi ingentilito, col passare dei secoli, in Colleoni. Ma gli antichi membri di questa stirpe nobile di Bergamo erano invece molto orgogliosi di questo appellativo così diretto, tanto da averlo inserito nel proprio stemma ufficiale: uno scudo con 3 paia di testicoli. Che sono finiti, tali e quali, nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago (Bg) e sul logo di una delle più antiche fondazioni benefiche, il Luogo Pio della Pietà Istituto Bartolomeo Colleoni di Bergamo. E quegli attributi virili sono oggetto di un rituale scaramantico in uso fra i visitatori di Bergamo: toccare i testicoli dello stemma inciso sulla cancellata della Cappella Colleoni di Bergamo è considerato un porta fortuna.

In questo post racconto la storia eccezionale – per non dire unica – di questa famiglia, che ha fra i propri esponenti il celebre condottiero Bartolomeo Colleoni (circa 1395-1475), ritratto in una famosa statua equestre realizzata a Venezia da Andrea Verrocchio.

Il capostipite: Ghisalberto “il Collione”

Stemma dei Coglioni con gigli 3 (famiglia d’Angiò) e 3 scroti

La famiglia Coglioni, d’origine longobarda, era una stirpe nobile di guelfi, in buoni rapporti con la Chiesa di Bergamo. Il suo primo rappresentante fu Ghisalberto Attonis (figlio di Attone) vissuto nel XII secolo: fu console della città di Bergamo nel 1117, e morì nel 1160.
Ghisalberto era detto “Collione”, dal latino “coleus”, scroto. Il passaggio è: coleus → coleonis (genitivo) → coleone → colione.
Non sappiamo perché si guadagnò quel soprannome: ma, con ogni probabilità, l’epiteto non aveva un senso insultante.
Secondo il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Gradit) la prima attestazione di “coglione” nel significato di “stupido” risale infatti al 1526, in Pietro Aretino (“La cortigiana”): «Io sono in opinione che questo per essere coglione in cremesi, scempio di riccio sopra riccio e goffo di ventiquattro carati diventi il più favorito di questa Corte». All’epoca di Ghisalberto, invece, “collione” designava solo lo scroto. La parola, però, era usata già dagli antichi Romani come metafora per indicare coraggio: “Magnum coleum habet”, ovvero “Ha grandi testicoli.” Anche oggi per indicare una persona in gamba diciamo che “ha le palle”. L’equivalente di “cazzuto”, insomma.

Libro biografico di Pietro Spino (1569): il cognome di Bartolomeo è ancora Coglione.

«Anch’io mi sono fatto questa idea» commenta lo storico medievale Gabriele Medolago, autore di diversi saggi sui Colleoni. «Ghisalberto fu console del Comune di Bergamo: non doveva essere stupido. Era un imprenditore abile, molto intraprendente. Da quanto si evince dalla documentazione dell’epoca, era uno che sapeva il fatto suo».
Dunque, “collione” indicava una persona virile. Forse anche dal punto di vista generativo: Ghisalberto ebbe infatti 5 figli, ma nel Medioevo era piuttosto frequente. E’ da escludere, invece, l’ipotesi che Ghisalberto soffrisse di poliorchidismo, una malattia che consiste nel nascere con più di 2 testicoli: non vi è alcuna prova documentale che lo attesti.

Bartolomeo nel libro di Aliprando Caprioli “Ritratti di Cento Capitani Illustri” (Roma, 1596; © The Trustees of the British Museum)

Il soprannome “Coglione” diventò poi ereditario, cioè fu trasmesso ai suoi discendenti, perché a quell’epoca era iniziato il processo di cristallizzazione dei cognomi. Questi ultimi diventarono un elemento ufficiale dell’identità a partire dal Concilio di Trento (1563), che stabilì l’obbligo di scrivere nomi e cognomi sui registri di battesimo, la prima forma di anagrafe.
Diventando un cognome, l’appellativo di famiglia fu declinato al plurale Colleoni perché indicava una stirpe (de Collionibus) , così come il soprannome “rosso” (di capelli) ha dato origine al cognome Rossi.
Ma, in assenza di anagrafe e carte d’identità, il cognome fu scritto nei modi più diversi: Coglione/Coglioni, Culione, Colonibus, Colonius, Coijoni, De Coglionis, de Coleono, Collionum, Collionis/Collioni, Colleoni.

Lo stemma con i testicoli

Stemma di Colleoni col triplice scroto nel Palazzo della Provincia di Cremona.

Verso la fine del XIII secolo, il cognome Coglioni fu illustrato, com’era tradizione per i nobili, da uno stemma. Il casato fu rappresentato con uno stemma parlante: ovvero con figure che richiamavano direttamente il cognome. Ad esempio, la famiglia Della Torre aveva una torre al centro del proprio stemma. E quale immagine poteva scegliere la famiglia Coglioni se non… uno scroto?

«La famiglia Colleoni ebbe, nel corso della storia, centinaia di diversi stemmi, che si sono avvicendati nel corso delle generazioni, inserendo nuovi elementi a seconda dei matrimoni con altri casati o a ricordo di imprese o per esibire nuove cariche» spiega Medolago. «Lo stemma con lo scroto è uno dei più antichi in assoluto nella storia d’Italia: il primo risale alla fine del XIII secolo o all’inizio del seguente. Poi nel corso del tempo, gli scroti si sono moltiplicati, arrivando a 2 o 3 o più: non sembra esserci un particolare significato simbolico, la figura è usata come mero elemento ornamentale per non lasciare spazi vuoti. E’ il fenomeno della “moltiplicazione araldica”».

L’ingresso della fondazione benefica Logo Pio della Pietà Colleoni: si nota lo stemma con i testicoli.

Nella sua forma matura, lo stemma dei Coglioni presentava un aspetto “troncato” (cioè diviso da una linea orizzontale): rosso con due scroti bianchi in alto, bianco con uno scroto rosso in basso. Il rosso simboleggia audacia, valore, fortezza, nobiltà ma anche spargimento di sangue in battaglia o nel martirio. Mentre l’argento, rappresentato dal colore bianco, è simbolo di innocenza, purezza e castità: un significato che stride con la presenza dei testicoli, ma solo agli occhi di un moderno. L’uomo del Medioevo era abituato a leggere e interpretare i simboli e non si scandalizzava per l’uso iconico di elementi sessuali. «L’ostentazione dei testicoli nello stemma è un’ulteriore riprova che venissero esibiti con orgoglio, a rappresentare una stirpe “con gli attributi”» osserva Medolago.

Le modifiche più rilevanti allo stemma avvennero nel XV secolo per merito delle imprese di Bartolomeo Colleoni (di cui parlo sotto): l’aggiunta di due teste di leone con le fauci spalancate e unite da una banda diagonale concesso dalla regina Giovanna II di Napoli; l’inserimento del capo d’Angiò (gigli d’oro in campo azzurro), concesso da Renato d’Angiò; e le bande azzurro e oro e i gigli di Borgogna, concesse da Carlo il Temerario di Borgogna.

Il grido di battaglia: coglia!

Uno dei pochi ritratti contemporanei di Bartolomeo Colleoni

Fu proprio con Bartolomeo (1395-1475) che l’appellativo Coglioni raggiunse grande fama in Italia e in Europa. Egli era un soldato di ventura (oggi diremmo un mercenario), ed era una forza della natura: scappò a nuoto da una nave di pirati che l’avevano catturato; riuscì a evadere dai Forni (prigioni) di Monza dove l’aveva fatto rinchiudere Filippo Maria Visconti. E fu il primo a usare in modo significativo le armi da fuoco in battaglia contro i nemici: prima di lui, si usavano solo per abbattere le mura nemiche.

Tutti i potenti dell’epoca lo volevano dalla propria parte, o quantomeno non volevano averlo come nemico, per la fama d’astuzia e di ferocia che precedeva “il bergamasco”: «Asciutto in volto, con gli occhi chiari, fissi e penetranti, forti il naso e le narici, grande, vigorosa e imperiosa la bocca, sporgente il labbro inferiore, in atteggiamento di prepotenza soldatescaebbe l’avidità delle ricchezze, e uno sfrenato desiderio di gloria e di grandezza» scrive Bortolo Belotti in “La vita di Bartolomeo Colleoni”.

Sigillo di Zavarino Colleoni (1280) con scritta Colionum e scroti (© The Trustees of the British Museum ).

Bartolomeo cambiò molte casacche nella sua carriera, navigando fra mille intrighi e cambiando rotta a seconda dei venti politici: oscillò tra i Visconti e gli Sforza, per approdare infine al committente più prestigioso: Venezia. Che alla fine della sua carriera gli tributò l’onore di dedicargli una statua equestre: onore interessato, visto che fu lo stesso Bartolomeo a pretendere un monumento in cambio di 100mila zecchini d’oro che avrebbe lasciato in eredità alla Serenissima. La statua, alta 4 metri, fu realizzata in bronzo da Andrea del Verrocchio, ed è tuttora uno dei monumenti equestri più celebri al mondo. Bartolomeo aveva dato disposizioni che la statua fosse eretta in piazza San Marco: ma i veneziani, che non tolleravano questa smania di protagonismo (per di più da parte di un bergamasco), lo collocarono sì vicino a San Marco…. intesa come la Scuola Grande di San Marco, nella piazza dei Santi Giovanni e Paolo. Una beffa.

La statua equestre di Bartolomeo Colleoni a Venezia.

Il letterato Antonio Cornazzano, che dimorò presso la corte di Bartolomeo a Malpaga e ne scrisse la biografia in latino, lo chiama Bartholomeus Coleus cioè scroto. La stessa forma venne usata da Guglielmo Pagello nell’orazione funebre alla morte del condottiero. Lo stesso Bartolomeo si firmava “de Colionibus”.

Il condottiero era talmente orgoglioso del proprio cognome da farne un temuto grido di guerra«Coglia, coglia!», cioè «Coglioni, coglioni!». Come dire: «Tiriamo fuori le palle!». L’espressione è diventata il nome di un progetto, Coglia, che si propone di  valorizzare la figura di Bartolomeo.

Dame con grandi testicoli in mano (dipinti nella residenza di Colleoni a Brescia)

Quest’ultimo, in vita, continuò a rappresentare i testicoli nel suo stemma, composto (come scrisse in un atto pubblico) da «duos colionos albos in campo rubeo de supra et unum colionum rubeum in campo albo infra ipsum campum rubeum» («due coglioni bianchi su sfondo rosso, e un coglione rosso su sfondo bianco sotto») seguiti dal motto “Bisogna”.
Quello stemma fu riprodotto in tutti i suoi palazzi: il castello di Malpaga (frazione di Cavernago), il palazzo Colleoni alla Pace a Brescia e infine nella maestosa cappella funebre Colleoni a Bergamo. Al palazzo di Brescia alcuni dipinti raffigurano fanciulle con in mano enormi scroti, come potete vedere nelle foto qui a lato.

Dallo scroto ai leoni

La trasformazione dei 3 scroti in cuori rovesciati nello stemma di Colleoni.

Dopo la scomparsa di Bartolomeo, la stirpe dei Coglioni non ebbe rappresentanti altrettanto celebri. E nei secoli successivi la censura pose fine a quel cognome licenzioso: «Nel periodo che segue al Concilio di Trento (1545-1563)» scrive Gianfranco Rocculi in un saggio sull’araldica, «i testicoli dello stemma furono convertiti in altrettanti cuori rovesciati: durante la Controriforma, infatti, non appariva decoroso mostrare quegli attributi “di potenza e virilità” che erano stati tanto in auge nel carnale e corrusco Medioevo». E Coglioni cedette il passo alla più neutrale forma Colleoni, che per diverso tempo fu – erroneamente – interpretata come “Co’ leoni”, anche perché i leoni furono effettivamente presenti nello stemma concesso a Bartolomeo dalla regina Giovanna II di Napoli. Probabilmente la forma Colleoni si diffuse dopo il 1600, dato che ancora nel 1596 è citato come Bartolomeo Coglione nel libro “Ritratti di cento capitani illustri con li loro fatti in guerra brevemente scritti intagliati da Aliprando Caprioli” .

Il gonfalone ufficiale di Cavernago: in basso a destra nello stemma si notano i 3 scroti.

Dopo che l’Italia settentrionale passò sotto il dominio austriaco a partire dal XVI secolo, i Colleoni si schierarono con gli Asburgo: essendo una delle 64 famiglie di conti, la famiglia aveva una sede ereditaria nell’Herrenhaus, la camera alta del Consiglio Imperiale austriaco. L’ultimo esponente di spicco della famiglia fu Guardino Colleoni (1843-1918) eletto due volte deputato e poi senatore a vita.

Oggi nel Bergamasco ci sono ancora 987 famiglie che portano il cognome Colleoni: in tutta Italia sono 1.380. Chissà se conoscono la vera origine del proprio appellativo. L’antico stemma testicolare è tuttora presente nel gonfalone ufficiale del Comune di Cavernago, nel cui territorio sorgono due castelli di Bartolomeo, quello di Cavernago e quello di Malpaga.

Ed è tuttora in attività il “Luogo Pio della pietà – Istituto Bartolomeo Colleoni“, da lui fondato a Bergamo nel 1466  “per fornire doti alle fanciulle povere e legittime, al fine di facilitarne il collocamento in legittimo matrimonio”. Oggi l’ente – uno dei più antichi al mondo ancora in attività – mantiene il patrimonio artistico di Colleoni e aiuta le donne in difficoltà. Il suo logo ufficiale ha mantenuto i 3 scroti dell’antico stemma.

Il cancello della Cappella Colleoni a Bergamo: gli scroti sono lucidati dall’usura dei turisti che li toccano.

Nel frattempo si è diffusa una singolare tradizione a Bergamo: quella di toccare con le mani i testicoli raffigurati sullo stemma del cancello della Cappella Colleoni. Un gesto considerato porta fortuna, come lo è a Milano schiacciare con il tacco i testicoli del toro (simbolo di Torino) disegnato in un mosaico sul pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II. I testicoli sono simbolo di fecondità e in questo risiede il loro beneaugurante potere.

Questo articolo è stato ripreso da BergamoNews.

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Da anghilla a zinforgna: i nomi del sesso nei dialetti https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/ https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/#comments Mon, 11 Nov 2024 09:15:15 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21039 Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che… Continue Reading

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Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque, politicante che promette più “pilu” (vulva) per tutti.

Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che designano gli organi genitali sono un universo in buona parte inesplorato. Perché è così ampio e complesso da dare le vertigini. Lo dico  con cognizione di causa, perché ho compilato il primo studio ragionato di queste espressioni in tutti i dialetti italiani. Ho trovato 565 termini, e il conteggio è parziale, dato che molti dialetti non hanno una grande documentazione sul Web.

In un precedente studio avevo scoperto che in italiano i sinonimi degli organi sessuali sono più di 1.300 (1.339). Questa ricerca sui dialetti spiega il perché: il nostro lessico osceno è tanto ricco perché è alimentato dai dialetti. Sono in tutto una trentina, senza contare le lingue non romanze come gli idiomi albanesi, germanici, greci, slavi, romanì. Dunque, la lunga storia di dominazioni straniere e feudi che hanno frammentato l’Italia ha fatto sì che il nostro patrimonio linguistico sia fra i più ricchi e vari d’Europa.

Questo studio, come tutte le primizie, nasce pieno di imperfezioni e lacune perché le informazioni sui dialetti sono disomogenee e frammentarie: chiedo ai lettori di segnalare nei commenti le voci mancanti o inesatte (grazie!).

Un linguaggio emotivo (anche nei saluti)

Copertina del giornale satirico livornese “Il Vernacoliere”.

E’ un viaggio difficile ma affascinante, perché i dialetti hanno una grande ricchezza espressiva. Basti ricordare i celebri sonetti che il poeta romanesco Gioachino Belli (1832) dedicò ai sinonimi dialettali del pene (“Er padre de li santi”) e della vulva (“La madre de le sante”). Come diceva Andrea Camilleri (lo ricordavo in questo articolo), il dialetto esprime l’essenza, la natura profonda delle cose, ed è linguaggio emotivo per eccellenza essendo per lo più orale e a diffusione familiare.
Basta scorrere, più sotto, la lista delle espressioni per il pene e la vulva. Da notare un fatto curioso: in diversi dialetti, i generi dei sessi sono invertiti. Ovvero, il sesso maschile è indicato con una parola di genere femminile (bighe, minchia, ciolla, pillona, mazza, marra, cella) e quello femminile da parole di genere maschile (cunnu, sticchiu, piccione, palummu, pilu). Non c’è una motivazione particolare dietro questo: si tratta di convenzioni arbitrarie (lo raccontavo in questo articolo), ma resta un fatto degno di nota.

Meme sul saluto friulano che significa “Come sta il pene?” (Average Furlan Guy).

E in questo mondo, in buona parte ancora inesplorato nella sua interezza, ci sono espressioni davvero straordinarie. In friulano, per dire “Come va?” “Abbastanza bene”, si usano queste espressioni: “Cemût le bighe?” “Cjalde ma flape”, ovvero, letteralmente: “Come sta l’uccello?” “Caldo ma moscio”. Eccezionale. Ha l’aria d’essere un modo di dire antico, ma non ho trovato una documentazione storica al riguardo.
In compenso, c’è questo ironico video-corso di friulano qui sotto, che spiega come pronunciare correttamente l’espressione (ma senza rivelarne il significato letterale):

Nella goliardica pagina Facebook di Average Furlan Guy, c’è una chat che mostra alcune risposte alternative alla domanda “Cemût le bighe?”. Eccole: “drete e mai strache” (dritte e mai stanche). Oppure “Iè dure vele flape ma iè plui dure vele dure e no savè dulà metile!” (E’ dura averlo floscio, ma è più dura averlo duro e non saper dove metterlo!”).

DIALETTI, LINGUE E SISTEMI

I più ricchi: sardo, veneto e napoletano

La focacceria “Bischero” a Ginevra.

Ho trovato in tutto 565 termini (ho conteggiato come uno tutte le varianti di uno stesso lemma). Quelli che si riferiscono alla vulva sono risultati più numerosi (304, 53,8%), rispetto a quelli per il pene (261, 46,2%). Un dato di segno opposto rispetto a quanto avevo riscontrato in italiano: nella nostra lingua prevalgono infatti i termini che si riferiscono alla sfera sessuale maschile (744 contro i 595 per la vulva). In ambo i casi, uno scenario che ritengo frutto del caso: la ricchezza semantica di una lingua dipende da fattori letterari, sociali, politici che variano nel tempo e nei luoghi.
In base a quanto ho riscontrato, i dialetti meridionali risultano più ricchi delle altre aree, soprattutto per il sesso femminile: il 43,5% dei lemmi proviene da dialetti del Sud, seguito da quelli settentrionali (36,1%). Ma questi risultati vanno presi con le pinze: la quantità di lemmi che ho esaminato, seppur ragguardevole, non è la totalità di quelli esistenti. Perché ho consultato solo i dizionari e le raccolte linguistiche presenti sul Web: per censire in modo completo tutti i termini dialettali osceni, avrei dovuto consultare anche i dizionari cartacei. Ma la ricerca sarebbe durata mesi se non anni.

Questo può spiegare perché il sardo risulta il dialetto con il maggior numero di lemmi: 96. Il dizionario sardo online (trovate le fonti in fondo all’articolo) è uno dei più completi, e in più il sardo è una lingua molto ricca perché presenta 5 varianti fondamentali (nuorese, gallurese, sassarese, logudorese, campidanese). Dopo il sardo segue il veneto (50 lemmi), il napoletano (48), l’emiliano-romagnolo (40), il calabrese (35), il piemontese e il pugliese (33).

Questi risultati (al netto dei limiti di cui parlo in uno dei riquadri finali) sono abbastanza sovrapponibili  al numero di lemmi censiti nei principali dizionari dialettali: il sardo è il più ricco (120mila lemmi), seguito da napoletano (80mila), siciliano e piemontese (50mila),  veneto e friulano (40mila), calabrese e milanese (30mila), bolognese e pugliese (20mila).

Le radici: latino, ma anche greco e spagnolo

Ristorante “La gnocca” alle Canarie (Gran Canaria).

Nei termini dialettali che si riferiscono agli organi sessuali si vede un’interessante stratificazione linguistica: dal latino mentula derivano il siciliano minchia, il salentino menchia, il sardo minca; e dal latino cunnus derivano il pugliese cianno/ciunno, il lucano ciunn, il calabro e il siciliano cunnu. In diverse regioni l’antico termine latino “natura” designa il sesso femminile. Notevole il termine purchiacca (diffuso in Campania, Basilicata e Molise) che arriva direttamente dal greco: pyr (fuoco) + koliòs (fodero), fodero infuocato.

Dell’antico termine toscano “potta” (vulva), molto usato nella letteratura passata, è rimasta traccia solo nel bergamasco (pota).

Diversi i termini importati da lingue straniere: il piemontese baghëttë (pene) arriva dal francese baguette, il pugliese pica/pinga (pene) dallo spagnolo pinga (con lo stesso significato), il meridionale ciolla può derivare dallo spagnolo chulla (braciola, pene). E gli esempi potrebbero continuare.
L’area di diffusione di questi termini anatomici sessuali è rimasta per lo più limitata ai territori d’origine: difficile che un friulano conosca il significato di “ciolla” o che un sardo sappia cos’è la pipa in umbro. Tuttavia alcuni termini dialettali si sono diffusi in tutta Italia: per il pene, i toscani bischero e fava, i romaneschi ceppa e mazza, il siciliano minchia. Per la vulva, il veneto mona, l’emiliano patacca/patonza e gnocca, il toscano topa, il romanesco fregna e sorca, il napoletano fessa. Il motivo? Per lo più il cinema e la tv: diversi attori hanno reso popolari i termini dialettali (pensiamo a Tomas Milian e Carlo Verdone per il romanesco, solo per fare qualche nome). Senza dimenticare il celebre sketch di Roberto Benigni, che ha citato i nomi dialettali dei genitali quando fu ospite nel 1991 di Raffaella Carrà a “Fantastico”: un numero che è passato alla storia della tv.

I nomi del pene…

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 2
Piemonte 11
Liguria 17
Lombardia 19
Trentino Alto Adige 2
Veneto 27
Friuli Venezia Giulia 4
Emilia Romagna 18 Nord

100

Toscana 10
Umbria 10
Marche 5
Lazio 9
Abruzzo 10
Molise 5 Centro

49

Campania 18
Puglia 7
Basilicata 1
Calabria 20
Sicilia 10
Sardegna 56 Sud

112

Totale 261

La birra siciliana “Minchia”.

I lemmi che designano il pene, come del resto in italiano, attingono a metafore descrittive di vari tipi. Fra le più salienti, quelle di cibi (frutta e verdura: bananna, fava, tega, codeghin, pizza), di attrezzi o oggetti (arnes, cannello, manego, mazza, manubrio, pindolo, pipo, nerchia, manico, batocchie, sperru, attretzu, ferramenta), di animali (bissa, salmon, pesce, sardela, bissa, usel, canarin) e anche di persone (mastrantoni, frat’ma Giorg).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

membrou [ dal latino membrum, organo, parte del corpo ] 

subiet

PIEMONTE

picio [ da piccolo, bambino ]

baghëttë, bidulu (Vercelli), biga (Cesana), bilò (Alessandria), ciula, intré, penetré, pénis, puvrun, vèrzhä/vérzhë (Salbertrand)

LIGURIA

 belin/belan [ da “bello”, inteso come giocattolo]

anghilla, bananna, bega, canäio, cannello, cannetta, carottua, casso, cicciollo, ciolla, manego, manubrio, mostaciollo, pigneu, pinfao,  pistolla

LOMBARDIA

bìgol/bigul/bigolo [dal greco-latino bombyx ‘verme’ passando per il diminutivo *bombiculus ‘vermicello’ ‘piccolo verme ] usèl/osel

arnes, belen/belinon (Cremona),  bigatt, bilì (Brescia), birlu, bissa, blin (Mantova), bora, ciula, liben, manübri, manach/manech, mestér (Bergamo), nèstula/nestila (Stazzona/Valtellina), picio, pirla [ ha lo stesso etimo di birillo], pistola  

TRENTINO ALTO ADIGE

bigol

pindolo

VENETO

tega indica il guscio o baccello di fagioli, piselli e fave oseo/oselo (uccello)

barbastreio [ pipistrello],batocio, bega/ begolina/ baolina, beline (Verona), bicio, bigolo, bissa/bisso [biscia], brocia, canarin, canna, cicio, cuco, coa/coda (Belluno), codeghin, manego, merlo, mugoloto, pampano/pimpanoto (Verona), pindol (Belluno), renga (Verona), salado, salmon, sardela, ton, versor

FRIULI VENEZIA GIULIA

bighe/bigul

bimbin (Trieste), cicinut, penis, vet

EMILIA ROMAGNA

üsél (uccello)

barandël (romagnolo), batöć (romagnolo), bĕscar (romagnolo), bligo, birèl/birello, bìgul, bilèn (Parma) / blèin (Reggio Emilia)/ blin (Mirandola)/bilìn (Modena), blig/blëg (romagnolo), càpar (romagnolo), caz, mãnfar (romagnolo), mĕmbar (romagnolo), óca; pisarél, pistulén [di  bambino],  sćifulöt (romangolo), ṣvarẓèl (romagnolo)

TOSCANA

bischero [ legnetto affusolato per tirare le corde degli strumenti musicali o per tappare l’otre], fava

billo, cinci, creapopoli, dami, fava (Garfagnana), lilli/lillo, manfano, pirolo (Siena)

UMBRIA

pipo [da pipa, cannello, oggetto affusolato; o da pipino, piccolo pene]

biscione, cazzo, cello, fava, mitulo, nerchia, picchio, pistello/pistolo, ucello

MARCHE

cazzu

pipin, pistulin, tanganello, uccellu

LAZIO

cazzo, ceppa [pezzo di legno cilindrico], mazza [grosso bastone]

cicio, manico, nerchia [bastone nodoso], pennarolo, pirolo, uscello 

ABRUZZO

 cazzu/cuazze, cella [da uccello]

battocchie, ciufello, ciula, mazz/mazze, nerchije, picc/picch/picco, sterdàzz, vàrr/varre

MOLISE

cazz

margiale, mazza, pica, pizza [ blocco di pasta da infilare nel forno ]

CAMPANIA

cazz

ass ‘e bastone/’e mazz, babbà, battaglio/vattaglio (Avellino), capitone, cicella, cìqquë, cumpàgne mije (“il mio amico”), mazzarello, fratiello, fravaglio, fravolo, ‘ngrì /’ngrillo, maccarone, mazza, pepe (Avellino), pesce, saciccio / sauciccio [ salsiccia]

PUGLIA

ciola [deriva da ciull (bambino, fanciullo) o dallo spagnolo chulla, braciola (a indicare il pene)]

acid/acidduzz/ciddone (Foggia, Andria: derivati da aciddu, uccello),  cicilla, ciucce, fratema (Salento), pica (Salento)/pinga (Trani e Foggia), pizza (Taranto), smargiale (Salento)

BASILICATA

cazz/quazz

CALABRIA

ciolla (Reggio Calabria e Ragusa), marra (zappa)

bacara, battagliùn, cioncia (Crotone); cagnu (Amantea)/cagnolu (Catanzaro); cazzu, frat’ma Giorg’ [“mio fratello Giorgio”], lerpa, mazza, menchia (Salento), micciu [asino/stoppino della candela], nervu, piciollu, pizza (Reggio Calabria); pilloscia, piscia/piasciareddra, sperru [coltellaccio], spoderu (Reggio Calabria: pesce), vronca

SICILIA

minchia/mincia (dalla radice del latino mingere, urinare; o da menta, per la somiglianza tra l’antera del fiore della menta con il glande) , ciolla/ciota

acidduzza/cidduzza [uccellino] bagara, cedda,  ciaramedda/ciaramita, cicia, marruggio, piciolla, zonna (Modica)

SARDEGNA

catzu/gazzu, minca/mincia/mincra (Sassari)/mincra (Nuoro),  pillolla/pillona/pilloni (Cagliari)

algumentu, arma , arreiga, arretranga, attretzu , baddonu , bicchiriola/ bicchirilloi, billella, bodale, bollulla , cedda , chicchia/ chicchiriola , cibudda, cozona , ddodda, dorriminzola, dòrrola, epperi, ferramenta, ghignu, grunilla, leonzedda, longu, maccacca , mastrantoni , mazzolu , minninna , mindrònguru , misèria/ miseresa, moricajola/muricajola/muricadorja, murena, niedda, paldal (Alghero), penderitzone/penducu/penduleu, picca/picchiriola, pilledda, piógliura, piola, pìscia/pisciadore/pissetta/piscitta/pissitta/pissittu , pitranca,  pitza/pizona, pippia, piscitta, puzone/a, secacresche, sira/tzira/ tzirogna, tirile/zirile, trastu, trìsina, tuppajola, tùtturu/tuttureddu, vicu, zubbu

…E i nomi della vulva

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 3
Piemonte 22
Liguria 5
Lombardia 12
Trentino Alto Adige 11
Veneto 23
Friuli Venezia Giulia 6
Emilia Romagna 22 Nord 104
Toscana 15
Umbria 10
Marche 11
Lazio 10
Abruzzo 13
Molise 7 Centro

66

Campania 30
Basilicata 11
Puglia 26
Calabria 15
Sicilia 12
Sardegna 40 Sud

134

Totale 304

La birra pugliese “Ciunna” (vulva).

I lemmi che designano la vulva utilizzano spesso metafore descrittive che alludono al pelo (barbisa, boschetto, pilu, vello), o alla cavità (buso, canestro, fessa, partù, spacchiu) o al fiore (petalussa). Altre metafore attingono a cibi (brogna, cozza, michetta, fidec, fritula, patata, piricoccu, carcioffola, castagna), oggetti (marmitta, chitara, mandola, campana, tabbacchera), animali (passera, fagiana, folpa, cicala, topa, piccione, paparedda, micia) e persone (bernarda, filepa, franzesca).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

 nateua/nateurra/nateuvva/naturë

borna [buco], tchergna [vedi ciorgna in PIemonte]

PIEMONTE

ciornia/ciorgna [origine incerta: da ciamporgna, zampogna o da “ciorgn”, sordo: la forma della vagina ricorda un orecchio che non ascolta]

baoumë (caverna, in senso spregiativo), bigioia, bignola, bornä, bregna/brigna (prugna), canà, chatbornhë (Savoulx), cŗo [buco], daŗbounhérë [cunicolo della talpa]), equis, fiaounë (Fenils), figuë (Ramats), fizolla, marmitta, natuřä (Salbertrand), neira, nonnë (Oulx), partû [buco], picioca, tampë, veŗgonhë (Amazas)

LIGURIA

mussa/mossa [può derivare dal latino mus, topo (mouse, per il pelo), o da “muscolo” (cozza, per l’aspetto). Secondo alcuni deriva da mozzo (buco per la ruota) o da mussare, fare schiuma]

 ghersa/goèrsa/guersa, michetta, petalussa, tacca, vagìnn-a

LOMBARDIA

barbisa [da barba], brugna/brogna [prugna]

bartagna, bernarda,, crenna, fidec [fegato] (Bergamo), figa, fritula, fuinera, lurba, passera, pota  [da “potta”, a sua volta dal francese “lippot”, labbro sporgente] (Bergamo e Brescia), sbarzifula, zinforgna (Sondrio)

TRENTINO ALTO ADIGE

barbigia (da barba)

bernarda, bortola, chitara, ciorciola, fritula [frittella], marugola, natura, sbanzega, scham, scheide

VENETO

mona [da monna, madonna nel senso di donna, o dall’arabo maimun, scimmia, perché ricoperta di peli]

ànara, bagigia/basisa, bareta, bernarda, bigarela, boschetto, buso/busolina, canestro, cantina, cicciota, ciocca,coca,  fagiana, farsora [padella per friggere], fiora, folpa [femmina del polipo], fritola [frittella], natura, pataracia, mandola, pegnata, pipa, pisota, pondra, sepa, sermollina, sissoea, sgnacchera, tenca, tringoeo, zergnapola [pipistrello]

FRIULI VENEZIA GIULIA

mona, frice [dal latino fricare, sfregare]

farsora [padella], fritola, panole, parussule

EMILIA ROMAGNA

patacca/patonza [nel senso di macchia], gnocca [per la somiglianza nell’aspetto]

bagaja, balusa,barnêrda, basagna, brugna, chitara, figa, filĕpa, franzĕsca, frĕgna, natura, obinna, parpaja, patafiocca, pavajòta , pisaia,  prögna, sfessa, tegia, vaggiuola

TOSCANA

 topa [per la somiglianza con i peli pubici]

bricia, budello,campana, cicala, cilla (Siena), fi’a, lallera, micia, mimma, mozza, pacianca (Pisa), passera, pettera, sgnacchera

UMBRIA

pipa [come femminile di pipo]

castagna, cicala, fica, fregna, passera, pisella, picchia, sorca, topa 

MARCHE

fregna

 castagna, cicciabaffa, ciuetta (Ascoli Piceno), cocchia, fessa, mozza, natura, passara/pasarina, pontecana, topa

LAZIO

fregna [dal latino  fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre ‘rompere; o da fringilla, fringuella], sorca [da sorcio, topo]

 bbuscia, cella, cicciabaffina, ciciotta, ciocia, ciomma, ciscia, sorega

ABRUZZO

fregna

boffa, ciuccia, ciuetta, ciufella, cocca,  fregna, mozza (Teramo), patàne, picina/piciocche, tolfa, tope, vello

MOLISE

picchiacc (vedi pucchiacca)

cocchina (Isernia), curciu, fess, panocchie, patata, piccione

CAMPANIA


fessa [da fessura, spaccatura], purchiacca/pucchiacca [dalle parole greche pyr (fuoco) + koliòs (fodero) unite ad un suffisso degradativo -acca, da cui pyrcliacca -> purchiacca -> pucchiacca. Il termine significherebbe letteralmente “fodero infuocato”; oppure dal latino “pucchia”, fonte dove sorge acqua; o ancora, da un’erba spontanea, l’evera pucchiacchella (portulaca) che cresce poco alta sul terreno ricordando i peli pubici]

bbuatta [scatola di latta], braciola, caccavella [pentola], carcioffola, cardogna, cecca, cestunia [tartaruga], ciaccara, ciora/fiora, ciucia, ciòcca, cozzeca [cozza],  mocle, nocca [fiocco], patana, pepaina, pertuso [buco], pescia, pesecchia, pettenessa, piciòcchëlë/pisciocca/pisciotta, pummaròla, sarcenella/sarchiella, scarola, sciùscia, sporta, sterea, tabbacchera

BASILICATA

fissa, ciunnn [dal latino cunnus, cuneo, matrice]

ciola, natura, perdesca, piccione, pishcu/puscio, puliejo, purchiacca, sartacena, tabbacchera

PUGLIA

piccione, palummu [per la somiglianza del monte di Venere con il petto del piccione]

caccone, chichì, cianno/ciunne/ciunna/cunnu, ciota, cozza, cuniglia, curcio/curciu (Salento), fregne,  ndacca (Bari), nerciu,  pattale, pelosa, pertuso, pescia, pinca/ pinga, ptek, picu (Salento), pisciacchio/pisciacco, pitacco, pittinale, ruccu, sciorgio/sorgie, spaccaccia, sticchi

CALABRIA

pilu, ‘mboffa/’mmoffa

bovatta, ciota/ciotu (Cirò),cuniglia, cunnu, fissa, grubba, nicchio/nnicchiu, parpagnu, pennu, picionnu, pitaci, spacchiu, sticchiu

SICILIA

sticchiu/sticcio [dal latino osticulum, diminuitivo di ostium (porta):  “piccola porta” o “piccola bocca”, oppure dal greco astegos, nudo; o da stìchos, riga; o ancora come derivato da fisticchiu, pistacchio, per la forma simile]

ciaccazza, ciciu, cucchia, cunnu, faddacca, nicchio, obarra, pacchio, paparedda, picicio, pilu, sarda

SARDEGNA

cunnu/ciunno, mussi/mutza

attettu, bette/bettu, boddo/ boddoddu/budhúdhu , broddo, bullulla, burba/bulva/burva/vurba/vurva/ulva/urba/urva, busuddu, còccoro , cuperre, festu, fica/figa, giosi, intragnu, leppereddu (leprotto), matzoneppa ,miseria,  natura, niccu, nusca, pacciócciu , peddùnculu , pilarda/ pillittu/pilosu, pilicarju/ pulicarja,  piricoccu , pisciaioru, piscittu, porposeo , proso/prosu, pudda, pùliga/ pulicarja ,santu, sessu/sestu,  topi, tzunnu,ubra, ulla, udda, zimbranti

I LIMITI DELLO STUDIO

Ringrazio i numerosi amici “fiancheggiatori” che mi hanno aiutato a rintracciare/verificare diverse voci dialettali: Marco Basileo, Irene Bertozzi, Luca Brocca,  Paolino Colzera, Serena Corvo, Valentina Coviello,  Massimiliano Fedeli, Sergio Ferro, Michele Gagliardo, Roland Jentsch, Francesca Polazzo, Federico Tapparello, Giulia Villi

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Le pubblicità più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/#respond Wed, 02 Oct 2024 10:13:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20858 A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso… Continue Reading

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Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.

A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi

In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia onesta, veritiera e corretta. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.

Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.

IMMAGINI E ALLUSIONI

Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.

In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“.  Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».

Le 33 pubblicità più volgari

Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossi sono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdi sono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre
(con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose). 

2021-oggi

2011-2020

2001-2010

1991-2000

1971-1980
 

Il metodo e i risultati

Campagna Netflix con cibi che evocano la vulva.

Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «
Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega  il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».

Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.

SEMPRE PIU' USATE
 

Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino.  «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale».
Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.

I contenuti: la fantasia scarseggia

Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano
15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:

termine frequenza
culo* 6
darla 5
palle 3
patata/patatina 3
fanculo*   3
puttana 2
farsi 2
venire 2
figata 2
troia 1
stronzetta 1
pompa 1
passera 1
pacco 1
cagare 1

*Inclusi i gesti

Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.

La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale).  E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile. 

In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.

Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”.  Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato. 

Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione

«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.

FUOCHI DI PAGLIA
Ma, in generale, funzionano le pubblicità scurrili? «Ho sentito dire spesso dagli esperti di marketing che non si costruisce così il rapporto di fedeltà fra un cliente e una marca» commenta Guggino. «Usando questo approccio hai un momento di gloria all’inizio, ma esaurito il clamore, censurata la campagna, il prodotto ritorna nel buio».

Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.

Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla
Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale». 
A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione». 

Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:

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Arriva l’enigmistica senza censure https://www.parolacce.org/2024/09/03/giochi-enigmistici-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/09/03/giochi-enigmistici-parolacce/#respond Tue, 03 Sep 2024 10:07:24 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20753 Il 19 verticale: grandissima… sciocchezza. Ha 7 lettere: sarà mica “CAZZATA”? Ebbene sì. Arriva anche in Italia l’enigmistica senza censure: la casa editrice Demetra ha pubblicato il primo “Cruciparolacce”, una raccolta di giochi scurrili “solo per adulti”: non solo cruciverba,… Continue Reading

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Il 19 verticale: grandissima… sciocchezza. Ha 7 lettere: sarà mica “CAZZATA”? Ebbene sì. Arriva anche in Italia l’enigmistica senza censure: la casa editrice Demetra ha pubblicato il primo “Cruciparolacce”, una raccolta di giochi scurrili “solo per adulti”: non solo cruciverba, ma anche rebus, sudoku letterali, labirinti, spiderweb, crucipuzzle, disegni da colorare… Cento pagine fitte di giochi, con relative soluzioni, all’insegna del linguaggio sboccato

Ideatore dell’iniziativa, Dario Zaccariotto, uno dei soci di “StudioGiochi”, società veneziana specializzata da decenni nell’ideare rubriche di enigmistica e giochi da tavolo. Com’è nata l’idea? In inglese le “dirty crosswords” (parole crociate sporche) esistono da più di un decennio…«In realtà l’idea ci è venuta in modo autonomo, non avevamo modelli di riferimento», racconta Zaccariotto, che ha appena conquistato la medaglia d’oro a Master Mind alle Mind Sports Olympiad di Londra. «Volevamo proporre qualcosa di nuovo, così abbiamo creato questa raccolta che comprende l’uso di termini triviali. Gli appassionati di giochi hanno apprezzato: il volume, uscito nel 2023, è stato ristampato quest’anno».

Dario Zaccariotto

E’ stato difficile ideare giochi usando un lessico volgare? «Non particolarmente. Nelle parole crociate e giochi analoghi, le parolacce non hanno un trattamento diverso dalle altre parole. Basta partire da un gruppo scelto di espressioni scurrili (da “becco” a “vaffanculo”, fino a un massimo di 5 per cruciverba) , e poi si costruisce lo schema inserendo altre parole che leghino con esse.  E’ stato più impegnativo ideare i rebus, perché diverse espressioni sono difficili da spezzare in immagini. Ad esempio, la parola “culo”: puoi mettere l’immagine di un cuculo, ma ti resta la sillaba “CU” che non è una parola di senso compiuto e nemmeno una sillaba finale. Difficoltà simili per la parola “cazzo”. Comunque siamo riusciti a inventarne diversi usando altri termini scurrili». Un esempio è lo vedete fra qualche riga più sotto.

Con quale criterio avete scelto le espressioni triviali da inserire? «Abbiamo puntato su quelle di uso comune, evitando però le più pesanti e becere. Il confine fra buon gusto e pessimo gusto è molto labile: abbiamo cercato di non trascendere. E finora nessuno si è scandalizzato». 

Uno dei rebus sboccati: riuscite a risolverlo?

Ci sono giochi che vi ha divertito più di altri inventare? «Senz’altro i labirinti: collegando l’ingresso e l’uscita si generano disegni con battute o scene triviali, come anche nelle vignette a puntini da collegare fra loro. O anche il gioco “note famose”: abbiamo scelto alcune celebri canzoni con versi scurrili, da Francesco Guccini a Elio e le storie tese, chiedendo ai lettori di inserire la parola mancante in un verso».

Unendo i puntini cosa verrà fuori?

Fra le trovate più divertenti, 14 definizioni da ricostruire, usando solo alcune lettere dell’espressione “Teste di minchia”. La prima? “vivono in Germania”. La soluzione è “tedeschi”, ma non c’è intento offensivo: in effetti usa 8 delle 14 lettere dell’espressione scurrile proposta.
Oppure: “Dividi la griglia in aree in modo che ogni area contenga tutte le lettere di “FIGONE”. O ancora: cambia una lettera alle parole elencate in modo da ottenerne altre di senso compiuto: MULO, RIGA….e così via. 

Insomma, una pubblicazione divertente e ironica. Ma non è riduttivo il sottotitolo “Giochi per incazzati”? Le parolacce non si dicono solo nei momenti di rabbia: sarebbe stato più azzeccato dire “Giochi per goliardi”… «Sono assolutamente d’accordo. Se faremo un’altra edizione correggeremo il tiro», conclude Zaccariotto.

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⇒ 7 giochi da tavolo scurrili

⇒ Gli album di parolacce da colorare

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Giuda, Pinocchio e arpia: quando le persone diventano insulti https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/ https://www.parolacce.org/2024/08/01/insulti-deonomastici/#comments Thu, 01 Aug 2024 08:59:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20694 “Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura… Continue Reading

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Il presidente Usa Joe Biden disegnato come Pinocchio da un gruppo di lavoratori autonomi che gli contesta varie promesse mancate.

“Giuda”, “Megera”, “Teppista”, “Paparazzo”… Alcune offese presenti nel nostro vocabolario hanno un’origine particolare: derivano da nomi di persona, un personaggio storico o inventato (mitologico o letterario). In linguistica si chiamano “deonomastici”: nomi comuni derivati da nomi propri. E’ la figura retorica dell’antonomasia, che consiste nell’attribuire il nome di un personaggio famoso a una persona con caratteristiche simili. Sei un bugiardo? Ti paragono al mentitore per eccellenza, la sua personificazione: Pinocchio.
In italiano questi lemmi sono circa 2mila (da mongolfiera a daltonico, dal sandwich al bikini), e fra loro ho censito anche 63 termini offensivi, usati per la loro capacità di evocare caratteristiche negative.  

Avevo già parlato in questo articolo di alcuni insulti dello stesso genere: quelli derivati da toponimi (nomi di luogo, regioni, città: beota, lesbica e così via) o da etnonimi (nomi di popolazioni: zingaro, vandalo, etc). Ora è il turno delle offese derivate da nomi di persone, sia realmente esistite oppure immaginarie. In ambo i casi il passaggio da nome proprio a nome comune comporta una perdita di specificità: un nome proprio si riferisce a un solo individuo, mentre un nome comune ne indica molti. Tant’è vero che spesso il nome proprio, una volta entrato nel vocabolario, perde l’iniziale maiuscola.  Un altro aspetto interessante di questi termini, è che riferendosi a personaggi specifici, è più facile individuare l’epoca in cui questi insulti sono nati.

Una caratteristica su tutte

Alvaro Vitali nei panni di Pierino (1982)

Come funzionano i deonomastici? Si estrapolano alcune caratteristiche della persona (l’aspetto fisico, il comportamento, la mentalità) per indicare quanti possiedono queste medesime qualità. Si condensa l’identità di una persona in una sua caratteristica: l’avarizia per Arpagone, l’aggressività selvaggia per il cerbero.

Un passaggio, questo, che è comprensibile solo se si hanno le basi culturali per capire il riferimento: definire un avvocato “azzeccagarbugli” o un politico “gattopardo”, sono offese che arrivano a destinazione se si conoscono i romanzi di Alessandro Manzoni e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Ecco perché, in genere, questi insulti hanno una carica offensiva minore o ridotta rispetto a quelli derivati da altre metafore: in gran parte dei casi si tratta di spregiativi, più che di insulti a pieno titolo. A parità di significato, “maccabeo” è molto più debole di “coglione” quanto a carica insultante ed espressiva. Ma restano pur sempre offensivi: tanto che molti di loro (lanzichenecco, masaniello, torquemada, barabba, Giuda, megera, cassandra, cerbero, azzeccagarbugli, donchisciotte, Pierino, arpagone) sono stati oggetto di querela, e spesso hanno comportato una sentenza di condanna verso chi li ha pronunciati, come ha rilevato una ricerca dell’avvocato cassazionista Giuseppe D’Alessandro (che ha da poco pubblicato un agile dizionario degli insulti).

Ho raccolto gran parte di questi 63 termini nel libro “Dalie, dedali e damigiane, dal nome proprio al nome comune” di Enzo La Stella (Zanichelli); altri li ho ricavati dai libri di D’Alessandro. In questa raccolta mi sono limitato ai lemmi presenti nel dizionario (lo Zingarelli 2025). 

La maggior parte dei personaggi (54%) sono stati scelti come metafore svilenti per il loro modo di comportarsi (violento, fastidioso, disonesto), seguito dagli insulti di classe (14%) , mentali (12,5%) fisici e sessuali (a pari merito con 9,5%). Dunque, è il comportamento, più che l’aspetto fisico o la posizione sociale a identificarci e qualificarci?  L’ipotesi è suggestiva, ma per affermarla con certezza occorrerebbe confrontare questi risultati con quelli delle altre lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese….) per vedere se anch’esse privilegiano questo aspetto nel coniare i termini deonomastici.

Tornando all’italiano, quali fra questi 63 appellativi deonomastici sono i più pesanti? A mio parere: giuda, teppista, arpia, caino, megera, pulcinella, lazzarone e messalina.

E voi li conoscete tutti? E sapete anche qual è la loro origine, ovvero quale personaggio (storico o immaginario) li ha ispirati?
Mettetevi alla prova
: per sapere le risposte basta cliccare sulle strisce blu.

Insulti comportamentali (34)

Il bacio di Giuda (Cimabue, XIII sec:)

Sono la categoria più numerosa, perché indicano aspetti molto diversi del carattere: dalla parsimonia all’aggressività, dalla maleducazione all’inganno: arpagone, attila, barabba, barbablù, cacasenno, cagliostro, caino, cassandra, cerbero, donchisciotte, fariseo, fregoli, furia, gattopardo, giacobino, giuda, gradasso, hooligan, lanzichenecco, manigoldo, maramaldo, masaniello, paolotto, pierino, pinocchio, pulcinella, qualunquista, squinzia, santippe, torquemada, teddy boy, teppista, vitellone

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INSULTI COMPORTAMENTALI
 

insulto significato origine
arpagone avaro, tirchio da Arpagone, protagonista dell’”Avaro” di Moliere (1668): è un vecchio vedovo avaro. Il nome è ispirato al latino harpagare, rubacchiare (l’arpagone era un uncino usato dai Romani per arpionare navi nemiche)
Attila uomo feroce, devastatore, distruttore spietato da Attila, re degli Unni (395-453)
barabba malvivente, delinquente da Barabba, il malfattore liberato al posto di Cristo (circa 40 d.C.)
barbablù marito violento e brutalmente geloso dal nome del protagonista di una fiaba di Charles Perrault  (1875): era un uomo molto ricco che aveva fatto sparire 6 mogli
cacasenno saputello, sputa sentenze da Cacasenno, figlio di Bertoldino e nipote di Bertoldo, stupido comprimario dell’omnima novella di Adriano Banchieri, (1670)
cagliostro imbroglione, avventuriero, ciarlatano da Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro (1743-1795) che riuscì a truffare mezza Europa con le sue finte scienze occulte
caino fratricida, traditore dall’omonimo personaggio biblico che uccise il fratello Abele
cassandra menagramo, catastrofista da Cassandra figlia di Priamo (re di Troia), che si era negata ad Apollo e fu punita col dono della profezia unito alla maledizione di non essere mai creduta
cerbero custode, guardiano arcigno

persona intrattabile e sgarbata

mostruoso cane a tre teste posto a vigilare all’ingresso dell’Ade
donchisciotte chi si erge a difensore di principi e ideali generosi e nobili ma superati o comunque irraggiungibili dal nome di Don Chisciotte, il fantasioso e ingenuamente spavaldo protagonista del romanzo ‘Il fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia’ di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) 
fariseo ipocrita dal nome di una antica setta giudaica (i perushim) molto attaccati alla legge e severi custodi della tradizione 
fregoli chi cambia spesso atteggiamento od opinione, in modo opportunistico dal trasformista Leopoldo Fregoli (1867-1936)
furia donna iraconda e aggressiva dalle Furie, personificazioni della vendetta femminile nella mitologia romana (corrispondono alle Erinni greche)
gattopardo chi in apparenza appoggia le innovazioni ma in realtà non vuole cambiare nulla  e mira solo a conservare i propri privilegi dal protagonista dell’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (1958), il principe di Salina (tutto deve cambiare perché nulla cambi)
giacobino rivoluzionario, chi sostiene idee radicali, intransigenti dal “Club des Jacobins”’ (1793), frequentato da rivoluzionari, chiamato così perché fondato nel Convento dei domenicani di S. Giacomo (Jacob)
giuda traditore dall’apostolo che tradì Gesù in cambio di 30 denari
gradasso bullo,  fanfarone, millantatore, spaccone Gradasso, rinomato guerriero saraceno nei poemi cavallereschi
hooligan  tifoso estremista e violento da Patrick Hooligan, buttafuori e ladro irlandese vissuto a Londra alla fine del 1800
lanzichenecco scagnozzo, sgherro soldato mercenario tedesco del periodo rinascimentale. Dal tedesco Landsknecht ‘servo (Knecht) del paese (Land)’
manigoldo boia, carnefice

furfante, briccone

dal nome tedesco Managold, un carnefice (XIV secolo)
maramaldo persona vile e malvagia che infierisce sui vinti e gli inermi da Fabrizio Maramaldo, che nel 1530 uccise a Gavinana Francesco  Ferrucci, ferito e impossibilitato a difendersi 
masaniello agitatore, capopopolo da Tommaso Aniello soprannominato Masaniello (1620-1647), protagonista della vasta rivolta che vide nel 1647, la popolazione napoletana insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo spagnolo 
paolotto bigotto conformista soprannome dei membri della società di San Vincenzo de’ Paoli, fondata nel XIX sec. da Federico Ozanam
pierino ragazzo molto vivace e impertinente da Pierino, protagonista di molte barzellette italiane ispirato al fumetto Pierino di Antonio Rubino che fu pubblicato sul Corriere dei Piccoli negli anni dieci del XX secolo.
pinocchio bugiardo da Pinocchio, burattino protagonista dell’omonimo romanzo di Carlo Collodi (1881): quando diceva bugie, gli si allungava il naso
pulcinella buffone, persona poco seria dal nome dell’omonima maschera napoletana della commedia dell’arte
qualunquista chi  critica in modo generico e semplicistico o indifferente la politica e i problemi sociali dal Fronte dell’uomo qualunque, movimento politico fondato nel 1944 dal giornalista Guglielmo Giannini 
squinzia ragazza smorfiosa e civettuola da Donna Quinzia, personaggio di “i consigli di Meneghino”, una commedia di Carlo Maria Maggi (1630-1691) 
santippe moglie bisbetica e brontolona da Santippe, moglie petulante di Socrate
torquemada chi usa metodi di repressione crudeli e spietati e degni di un inquisitore da Tomás de Torquemada (1420 – 1498) religioso spagnolo, primo grande inquisitore dell’Inquisizione spagnola
teddy boy giovane teppista ragazzo (boy) vestito alla moda del regno negli anni ‘50: portavano lunghe giacche col collo di velluto nello stile di Edoardo VII, (Edward, vezzeggiativo Teddy)
teppista chi commette atti vandalici, mascalzone violento dalla Compagnia della Teppa di Milano, che nel 1816 raccoglieva giovani gaudenti e rissosi (la teppa è il muschio di cui erano ricchi i fossati del Castello Sforzesco)
vitellone giovane che trascorre il tempo oziando o in modo vacuo e frivolo  dal titolo del film di Federico Fellini I vitelloni, (1953)

Il fotoreporter Barillari si definisce paparazzo

Insulti di classe (9)

Prendono di mira gli appartenenti a una classe sociale (spesso umile): azzeccagarbugli, cenerentola, fantozzi, gaglioffo, galoppino, lazzarone, paparazzo, stacanovista, travet

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INSULTI DI CLASSE
 

insulto significato origine
azzeccagarbugli avvocato  da strapazzo  dal soprannome di un avvocato di Lecco nei “Promessi sposi”; era così chiamato per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone disoneste e potenti.
cenerentola umile serva

persona a torto trascurata,

dalla protagonista dell’omonima fiaba popolare resa celebre da Gianbattista Basile (1635)
fantozzi impiegato di basso rango

persona maldestra e sfortunata

dal personaggio di Ugo Fantozzi creato da Paolo Villaggio (1971): era il cognome di un collega di Villaggio in un’azienda in cui l’attore aveva lavorato come impiegato, la Italimpianti
gaglioffo pezzente, mendicante

cialtrone, buono a nulla

manigoldo, furfante

da Galli offa, boccone del Francese: quello mendicato dai pellegrini al Santuario di Santiago de Compostela
galoppino chi corre dappertutto per sbrigare commissioni o faccende altrui da Galopìn, messaggero nelle Chansons de gestes francesi (XI secolo)
lazzarone straccione

mascalzone, canaglia

fannullone, scansafatiche

da Lazzaro, nome del mendicante coperto di piaghe che appare nella parabola del ricco epulone (Vangelo di Luca). Nome spregiativo dato ai popolani di Napoli che si erano rivoltati guidati da Masaniello
paparazzo fotoreporter d’assalto dal nome di un fotografo nel film “La dolce vita” (1960) di Federico Fellini. Il cognome era appartenuto a un oste calabrese nel romanzo. Il nome pare derivi dal personaggio di un libro di George Gissing che Fellini stava leggendo all’epoca: Coriolano Paparazzo era il nome del proprietario d’albergo che ospitò lo scrittore inglese a Catanzaro durante il viaggio in Italia del 1897 descritto in “Sulla riva dello Jonio”
stacanovista lavoratore troppo zelante dal minatore russo Alexei. Stachanov (1906-1977) che nel 1935 segnò un primato nella quantità di carbone estratto individualmente. Lo stacanovismo movimento sorto nell’Unione Sovietica dopo il 1935 per incrementare la produttività mediante l’emulazione fra lavoratori
travet  impiegato di rango modesto e mal retribuito  dal nome del protagonista della commedia di Vittorio Bersezio (1828-1900) Le miserie d’ Monsù Travet (dal piemontese travet ‘travicello’): era uno scrivano povero, soggetto alle soverchierie del capoufficio, di cui era vittima rassegnata

Il Cottolengo a Torino

Insulti mentali (8)


Sono offese sulle facoltà mentali considerate insufficienti, inadeguate, compromesse: bacucco, barbagianni, beghina, calandrino, cottolengo, maccabeo, mammalucco, manicheo

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INSULTI MENTALI
 

insulto significato origine
bacucco persona vecchia e rimbecillita da Abacuc, profeta ebraico (V secolo a.C.)
barbagianni uomo sciocco e incolto da barba Gianni “zio Giovanni”: il nome Giovanni era spesso usato con intenti spregiativi
beghina bigotta, bacchettona da Lamberto di Liegi, detto “Le begue” (balbuziente) fondatore dell’organizzazione religiosa laica delle beghine
calandrino persona sciocca e credulona dal nome di un personaggio credulone nel Decameron del Boccaccio (sec. XIII): dal pittore fiorentino Nozzo di Pierino, chiamato calandrino perché semplice come una calandra (uccelletto simile all’allodola)
cottolengo stupido, rimbambito da don Giuseppe Bernardo Cottolengo, che fondò a Torino un ospizio per malati incurabili (1832)
maccabeo stupido, sciocco dal soprannome (“martellatori”) del movimento ebraico di ribellione contro il seleucide Antioco IV Epìfane nel II secolo a.C. La desinenza in -eo è considerata ridicola
mammalucco persona sciocca, goffa dai Mamelucchi, milizia scelta composta da schiavi bianchi (turchi, slavi e greci) impiegati dai sultani come guardie del corpo
manicheo persona dogmatica, intollerante, che suddivide il mondo in buoni/cattivi senza sfumature da Mani, filosofo persiano (III secolo) secondo cui il mondo è retto dai princìpi del Bene e del Male, in perenne contrasto fra loro 

Insulti fisici (6)

Orco al Parco dei mostri a Bomarzo

Prendono di mira l’aspetto fisico e in particolare gli acciacchi (fisici, ma spesso anche psicologici) dell’età: arpia, baggina, befana, carampana,  megera, orco

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INSULTI FISICI
 

insulto significato origine
arpia donna di aspetto sgradevole e carattere malevolo, avaro le harpyai, rapaci, erano mostri dell’antica Grecia rappresentati con volto di donna, corpo di vari animali e ali di uccello
baggina persona vecchia e rimbambita soprannome del Pio Albergo Trivulzio di Milano: una storica residenza per anziani (1766) che prende il nome da Baggio, quartiere di Milano
befana donna vecchia e brutta da epiphania, festa che celebra la rivelazione attraverso il Dio incarnato; svolgendosi d’inverno, si è innestata in antiche tradizioni contadine romane che celebravano la morte della natura (una vecchia) in attesa della rinascita primaverile
carampana donna brutta, vecchia, trasandata e volgare da Ca’ Rampani, palazzo di Venezia (della famiglia Rampani) che fu adibito a ricovero per ex prostitute
megera donna molto brutta, spec. vecchia, di carattere astioso e collerico da Megera, una delle tre Erinni (v. anche furia)
orco mostro malvagio

pedofilo

da Orcus, dio latino della morte e dell’oltretomba

Film di Kubrick (1962)

Insulti sessuali (6)


Sono la categoria meno rappresentata: assatanato,  lolita, maddalena, messalina, onanista, sardanapalo

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INSULTI SESSUALI
 

insulto significato origine
assatanato in preda a fortissima passione: libidine o collera   da Satana (l’avversario), nella tradizione ebraica il capo dei diavoli
lolita ragazza provocante, disinibita e attraente dal nome della protagonista dell’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (1899-1977). Il suo personaggio, però, non è una ragazzina perversa, è una povera bambina che viene corrotta 
maddalena peccatrice pentita dal nome della prostituta che si pente e asciuga coi suoi capelli i piedi di Gesù
messalina donna depravata e immorale dal nome. di Valeria Messalina (25-48), imperatrice romana famosa per le sue dissolutezze 
onanista masturbatore, segaiolo dal personaggio biblico Onan di Cananea, a cui fu imposto di sposare la vedova del fratello; ma piuttosto che generare un figlio che per la legge non sarebbe stato suo, preferì disperdere il seme (coitus interruptus, quindi: non masturbazione)
sardanapalo persona dedita al lusso e ai piaceri dal nome con cui i Greci chiamarono Assurbanipal (VII secolo a.C.) celebre per la sua dissolutezza

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Le formidabili sfuriate di Toscanini https://www.parolacce.org/2024/06/13/parolacce-di-toscanini/ https://www.parolacce.org/2024/06/13/parolacce-di-toscanini/#respond Thu, 13 Jun 2024 10:51:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20580 E’ stato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, per la brillante intensità del suono e la perfezione dei dettagli. Ma Arturo Toscanini è passato alla storia anche per un altro motivo: ha strapazzato i suoi musicisti… Continue Reading

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Arturo Toscanini (Parma 1867-1957 New York)

E’ stato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, per la brillante intensità del suono e la perfezione dei dettagli. Ma Arturo Toscanini è passato alla storia anche per un altro motivo: ha strapazzato i suoi musicisti della NBC Symphony Orchestra di New York con sfuriate epiche, piene di insulti, bestemmie, offese pesantissime, urlate in un misto d’italiano e d’inglese: «Look at me, teste di cazzo!!!!».

Oggi un direttore del genere sarebbe licenziato all’istante. I suoi musicisti, invece, lo rispettavano e l’avrebbero seguito ovunque, e hanno proseguito un sodalizio di quasi 20 anni, dal 1937 al 1954. Per la sua epoca, era una rockstar. Ma – a differenza delle rockstar – Toscanini non era un narcisista e neppure un giocoso goliarda come Mozart (ne ho parlato qui) ma un timido burbero. E le sue parolacce non erano un atto di ribellione sociale anticonformista: erano invece un modo viscerale di inseguire la sua idea di perfezione musicale. Per lui la musica era sacra, e se i suoi orchestrali non la eseguivano correttamente lui lo viveva come una profanazione che lo mandava su tutte le furie, facendogli perdere ogni freno inibitorio.

In questo articolo racconto l’uomo Toscanini attraverso il suo turpiloquio. Merito di alcune eccezionali registrazioni d’epoca pubblicate su YouTube, che arrivano dagli studi della NBC:  dagli altoparlanti ascolterete le sue urla, i suoi scatti d’ira scanditi dal rumore della bacchetta picchiata sul leggio, che sono impressionanti ancora oggi per la carica di rabbia che esprimono. Ma anche per la tangibile sofferenza d’un artista che cerca, con tutte le sue forze, di dare la miglior forma sonora alle musiche che sta dirigendo. Fra sudore, urla e imprecazioni.

Il “bollettino meteo” delle sfuriate: brezza, tornado, Sos!

David Sarnoff

A New York David Sarnoff, il potente capo della Rca (Radio Corporation of America), aveva messo insieme alla radio NBC un’orchestra apposta per lui, reclutando i migliori musicisti con contratti stellari. Eppure le sfuriate del maestro erano così frequenti che in radio avevano persino ideato un sistema di «bollettini meteorologici» in codice per tenere informati in tempo reale i dirigenti su quanto accadeva nello studio 8H durante le prove con l’Orchestra, racconta Piero Melograni nel libro “Toscanini. La vita, le passioni, la musica” (Mondadori).  

Si cominciava con «Tempo sereno, calma», e poi era tutto un crescendo con «Brezza in arrivo», «Vento impetuoso», «Tempesta», «Tornado» e infine «Sos», per annunciare che il maestro aveva sospeso la prova barricandosi in camerino. La soprano Emma Eames scrisse che Toscanini fuori teatro era la cortesia fatta persona, ma che non appena alzava la bacchetta si trasformava nell’esatto contrario.

Toscanini, insomma, aveva una personalità complessa, che val la pena ricordare per comprendere meglio le sue sfuriate.

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UN UOMO TIMIDO ED ECCITABILE
 

Toscanini a 31 anni

Nato a Parma il 25 marzo del 1867, in una famiglia povera (il padre era un sarto), Toscanini vinse una borsa di studio che gli permise di studiare alla Regia Scuola di Musica. Furono anni duri per il giovane Arturo: la domenica i suoi genitori non lo andavano a trovare, e Toscanini colmò questo vuoto affettivo – soprattutto nei confronti della madre, dalla quale si lamenterà di non aver “mai ricevuto tenerezze” – con la musica.  Si racconta che quando restava solo alla domenica alla Scuola, barattava i pasti con gli spartiti di Wagner. Ecco perché quando non riusciva a eseguire un brano come desiderava, gli scattava un senso di tradimento, di profanazione.

Toscanini si diplomò in violoncello ma presto iniziò la sua carriera di direttore d’orchestra grazie alla sua profonda conoscenza della musica e a una memoria fotografica: dirigeva qualunque brano senza partiture. Nel 1939, non tollerando il clima opprimente del fascismo, emigrò negli Usa, dove le sue esibizioni riscossero un successo straordinario.

“Noi americani, che pure abbiamo molti direttori d’orchestra d’origine tedesca, non sapevamo che dentro Beethoven e Brahms ci fosse quella musica se non dopo aver sentito Toscanini”, scrissero i critici che lo acclamarono in un successo senza precedenti.

Toscanini aveva un carattere instabile: «La mia natura eccitabilissima che mi spinge agli eccessi è la causa delle mie sofferenze – delle mie gelosie – Dal Paradiso scendo direttamente all’inferno senza fermate intermedie – e del pari faccio la strada inversa». Ed era infelice: «Sono un vero infelice – Da mia madre ho ereditato l’infelicità che ha oppresso tutta la sua vita».  

“Odiava il frac e non gli piaceva esibirsi” scrive Melograni. “Non concedeva interviste. Era lieto di celarsi alla vista del pubblico seppellendosi nella fossa orchestrale. A Bayreuth la signora Winifred Wagner dovette prendere il maestro sottobraccio e condurlo nel ridotto perché il pubblico potesse finalmente scorgere il suo volto. Durante gli intervalli dei concerti, per non perdere la concentrazione, rifiutava perfino gli inviti nei palchi dei sovrani”. 

Era, insomma, timido e scontroso. Il 1° settembre 1933, mentre si apprestava a dirigere concerti a Stoccolma, scriveva: «Il pensiero di affrontare un’orchestra nuova mi paralizza. … Alla mia età [66 anni] e dopo tanti anni di carriera essere ancora schiavo di una timidezza così esagerata è incredibile! Beati gli sfacciati!».

E, soprattutto, era un insaziabile perfezionista. E un interprete rigoroso dei capolavori della musica classica: “Il mio segreto è semplicissimo: consiste nel far eseguire la musica, nota per nota, quale fu scritta dall’autore”, diceva. Ma non era quasi mai soddisfatto: un giorno afferrò il bastoncino con il quale dirigeva le orchestre ed esclamò: «Questo porco! Non lo posso ridurre a esprimere ciò che io sento nel mio intimo».

Le registrazioni: rabbia, sudore e urla

Su Youtube ho trovato 3 registrazioni eccezionali delle prove con la NBC Orchestra. Ne ho trascritto le parti salienti, che meritano d’essere ascoltate: danno i brividi per la carica emotiva che trasuda rabbia incontenibile e sofferenza viscerale. Si sentono le urla, i colpi della bacchetta inferti per rabbia sul leggio. Le sfuriate sono in un irresistibile misto italo/inglese: diversi insulti non erano comprensibili ai musicisti, ma il fatto che fosse infuriato arrivava di certo a destinazione.

Le sue parolacce esprimono l’indignazione, la rabbia e la sofferenza fisica di un artista che si arrabbia con chi non esegue correttamente le musiche: a un certo punto arriva a dire “Mi sento male, non mi sento bene per voi!”. E ancora: “Contrabbassi, sembrate dei carri!!”, “Avete le orecchie nei piedi”, “Siete sordi?”, “Non suonate, grattate”, “Vien voglia di dare dei calci in culo a tutti”. La sua frase più caustica, in realtà, non contiene parolacce ma è una critica che esprime la superiorità dell’Arte (con la “A” maiuscola) rispetto al denaro: “Vergogna! Qui non c’è spirito di corpo, qui non c’è altro che lo spirito di guadagnare un dollaro, ma non per l’arte!“. Una prospettiva che oggi sarebbe impensabile.

Numerose le imprecazioni, anche blasfeme: “Corpo d’un dio santissimo”, “Madonna santissima”. E anche gli insulti: “Teste di cazzo”; “Siete terribili”, “Testa d’asino”, “Rompicoglioni”, “Non siete musicisti”, “Siete dei dilettanti di cattiva lega”, “Somari”, “E’ una boiata”, “Orrore”, “Vergogna”, “Porcheria”.

 Ecco le registrazioni originali.  

PROVE DELLA SINFONIA 2 DI BRAHMS, 1943

Cantate!!! Porco di un… Per dio santo

Non capite un cavolo! Vergogna!

Ahi mi fate male, ahi ahi!

No!! Va’ adagio con la terzina…

Pezzi di somari che siete, per Dio!

Dio madonna santissima

No, nooo, noooo! Orrore, porcheria!

Anche il signor fagotto, tutti insieme, una boiata

Vergogna!!!

PROVE DELLA TRAVIATA (G. VERDI), 1946

Oooooooooohhhh! Corte note, short note! su su! Sembran dei carri, Non sono mica strumenti… bruu bruu bruu … O Madonna santissima

Corpo di un dio! Contrabbassi! Come rompe i coglioni lei… You you you!!! You are always late, you have no ear, no eyes, nothing at all. [Voi, voi, voi! Siete sempre in ritardo, non avete orecchie, non avete occhi, non avete niente] Corpo d’un dio santissimo!

No! No! Testa d’asino! You’re not a musician. You have no ears and no eyes. [ Non siete musicisti. Non avete orecchie né occhi ]

Ma sempre, sempre indietro, contrabbassi, you’re always late [ siete sempre in ritardo ]. Corpo d’un dio santissimo!

But you are deaf? [ma siete sordi?] E’ una vergogna! Shame on you! What kind of ears you have? You have ears in your feet! [ Che razza di orecchie avete? Avete le orecchie nei piedi!]

Always after, always late [ sempre dopo, sempre in ritardo], oh per dio santo

You’re dead! [siete dei morti] E’ una vergogna, shame on you!

Vien voglia di dar dei calci nel culo a tutti, per Dio santo!

In italian opera you are terrible [ Nell’opera italiana siete terribili ]

I saw you, bow, always after, always late [ vi ho visto, archi, sempre dopo, sempre in ritardo], oh per dio santo ]

PROVE DI MORTE E TRASFIGURAZIONE (R. STRAUSS) 1952

minuti 0-3 : E’ un orrore! You don’t play unisono [ non suonate all’unisono]

Avevo vergogna io per voi!

Contrabassi… You don’t play, non so, you scrape [ non suonate, grattate]!

Contrabbassi, violini, tutti! Un orrore! Un orrore!

Vergogna! Qui non c’è spirito di corpo, qui non c’è altro che lo spirito di guadagnare un dollaro, ma non per l’arte, non per l’arte, not at all!

No, no, no!

Siete dei dilettanti, non degli artisti, dilettanti di cattiva lega.

Corpo d’un Dio santissimo

Niente, questa cosa mi sembra una porcheria, ci vorrebbe essere intelligenti ….

minuto 4:10: Ecco, questa è l’orchestra… E’ una vergogna… Eh no Io ho vergogna, dopo anni che suonate insieme… Not one note [non una nota]

minuto 5:04: Sono inquieto, I dont’ feel well for you! I am sick [Non mi sento bene per causa vostra, sto male] Ho un principio di vergogna, io sento la vergogna

minuto 6:30 Poco ritardando, somari! Corpo d’un dio santissimo

Look at me [ guardatemi], teste di cazzo! Corpo d’un dio santissimo

La dura ricerca della perfezione

Toscanini in una delle sue esecuzioni

Nel suo libro, Melograni indica tre ragioni per queste sfuriate memorabili. Primo, il suo carattere ruvido, ma anche molto timido. Secondo, le tensioni dovute al lungo rapporto con l’orchestra. Terzo (e secondo me prevalente): la ricerca di perfezione assoluta che lo induceva a sottoporre gli strumentisti a durissime fatiche.  

Toscanini cercava di esprimere fedelmente i brani che dirigeva e lo faceva con una precisione impressionante: per fare un esempio, registrò la Nona Sinfonia di Beethoven nel 1938 e nel 1948, e fra le due esecuzioni la durata ha una differenza di un solo secondo! Aveva un metronomo nella testa.

Toscanini con l’orchestra della NBC

“Se l’esecuzione non era esatta come desiderava” racconta Melograni, “la bacchetta volava sopra la testa dei professori, le dita arruffavano i capelli in un gesto di disperazione e il volto scompariva nelle mani, in attesa di rimettersi dal proprio disappunto. Tutto era perduto, non riusciva a profferir parola. Poi riprendeva coraggio e ricominciava. Le cose andavano meglio. I suonatori lo seguivano. Alla fine, la musica fluiva via, e Toscanini, trasfigurato come al settimo cielo, dirigeva cantando e occasionalmente gridando avvertimenti ai vari strumentisti”. Alla fine gli orchestrali “si rendevano conto che, grazie a un direttore tanto esigente, riuscivano a dare il meglio di loro stessi e gliene erano grati […] Un’orchestra di solisti, come è ad esempio quella della BBC di Londra, difficilmente permetterebbe ad altri direttori di trattarla come la tratta Toscanini. Ma Toscanini è un maestro, ed essi lo sanno, e gli sono persino grati della tirannia”. 

 

Ringrazio Vito Stabile, studioso esperto di musica classica e presidente dell’Associazione Ettore Bastianini, per la stimolante chiacchierata su Toscanini

 

Ho parlato di questa ricerca su Ameria Radio, durante il programma “Bastianini incontra”, con il direttore d’orchestra Giovanni Giammarino e Vito Stabile, il 12 ottobre. A questo link l’audio della puntata.

 

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Striscione offensivo dei tifosi del Pescara contro quelli dell’Ascoli

E’ una delle offese più potenti che esistano. Perché colpisce la persona più importante del nostro mondo affettivo: la mamma. E non solo in Italia, nota per essere una cultura di mammoni: questo genere d’offesa è diffusa nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, rumeno), in inglese e nelle lingue dell’est, dal russo al cinese, oltre all’arabo e diverse altre.
In italiano gli insulti alla madre sono una quarantina ed esprimono una fantasia molto malevola. Perché sviliscono, con immagini ripugnanti o sessuali, la figura più sacra: la persona che ci ha trasmesso la vita. Un colpo dinanzi al quale nessuno può restare indifferente: come ha ricordato papa Francesco (paragonando il sentimento religioso con l’attaccamento alla madre), «Se il dottor Gasbarri, un grande amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno. E’ normale». Come diceva il comico toscano Francesco Nuti «Te la mi’ mamma tu la lasci stare, va bene?».

Questo genere di insulti ha influenzato non soltanto i modi di dire, ma anche le culture: le battaglie rap consistono spesso nell’improvvisare rime offensive sulla madre di un’altra persona (“yo mama…“, “tua madre…“), in una sfida che rappresenta non solo un duello linguistico e simbolico, ma è anche un rito di affiliazione fra giovani, come racconterò più avanti. Pensate che in russo il gergo volgare si chiama proprio “Mat”, termine che deriva dalla stessa radice di “madre” (dall’espressione “yob tvoyu mat”, «fotti tua madre»).

Battaglia rap a suon di insulti alla madre: è uno show in Australia

Nella nostra lingua gli insulti alla madre sono più numerosi nei dialetti, per lo più del Sud: in italiano ci sono 5 espressioni, contro le 36 fra: napoletano (11), veneto e friulano (8), sardo (6), toscano (3),  pugliese (3),  siciliano e calabrese (2) e lombardo (1). Un’ulteriore prova che si tratta di offese molto antiche: infatti le dicevano anche Cicerone e Shakespeare. Degno di nota il fatto che prevalgono le espressioni di tipo incestuoso: rappresentano metà delle locuzioni censite.

Gli insulti alla madre sono uno dei 4 temi universali (cioè diffusi in ogni cultura) delle parolacce insieme agli insulti fisici, alle espressioni oscene e ai termini escrementizi. E sono offese del tutto particolari perché colpiscono una persona non direttamente, ma offendendone un’altra: una sorta di vendetta trasversale. Una strategia molto efficace, visto il rapporto così intimo e profondo con la figura materna. Insomma, la mamma è anche…. la madre degli insulti.
Come nasce questa usanza? E come si manifesta, in italiano e in altre lingue?

Figlio di… 

Locandina di Eleazaro Rossi, comico.

L’espressione “figlio di puttana”, con le sue diverse varianti, è presente in tutte le lingue: inglese (son of a bitch), francese (fils de pute, Ta mère la pute), tedesco (hurensohn), spagnolo (hijo de puta), portoghese (filho da puta), rumeno (Fiu de curvă) arabo (Ibin Sharmootah: la puttana di tua madre), russo (Сукин сын). In cinese si usa l’espressione 王八蛋wáng bā dàn) che significa letteralmente “uovo di tartaruga”: dato che la tartaruga abbandona le uova dopo averle covate, l’espressione denota un figlio di madre ignota (mignotta per l’appunto: vedi sotto), nato da una relazione extraconiugale. Ma ci sono anche due altre spiegazioni: un tempo si pensava che le tartarughe concepissero solo con il pensiero, rendendo impossibile ricostruire la paternità della prole (dunque, in questo caso, “figlio di padre ignoto”). Oppure, secondo un’altra interpretazione ancora, all’origine dell’espressione c’è la somiglianza fra la testa della tartaruga che esce dal guscio e il glande  che emerge dal prepuzio: l’espressione indica quindi una donna che ha perso la virtù.

In spagnolo esistono anche altri modi pittoreschi per dirlo: “anda la puta que te pari” (Torna dalla prostituta che ti ha partorito) e “tu puta madre en bicicleta”, ovvero “tua madre puttana in bicicletta”.

In Italiano è una delle espressioni considerate più offensive dopo le bestemmie (e a pari merito con “succhiacazzi”), secondo la mia ricerca sul volgarometro. Ed è l’offesa che raccoglie più denunce e processi, secondo uno studio.

Perché? Per motivi giuridici, sociali e psicologici.

[ per approfondire, apri la finestra cliccando sulla striscia blu qui sotto ] 

BASTARDI E ILLEGITTIMI
 

Film del 2003. L’espressione significa “avere una natura cattiva”

In passato, i figli delle prostitute (e in generale quelli nati fuori dal matrimonio) erano disprezzati: la struttura sociale si basava sulle coppie matrimoniali ufficiali, nelle quali – fino all’avvento dei test genetici – era più immediato stabilire l’appartenenza sociale e i diritti ereditari, dato che “Mater semper certa est, pater numquam” (“L'[identità della] madre è sempre certa”, quella del padre no). E proprio dall’impossibilità di accertare in modo oggettivo la paternità è nata l’ossessione per il controllo sul sesso femminile: la moralità della donna era l’unica condizione per assicurare stabilità sociale e ordine. I figli nati fuori dal matrimonio erano visti come una minaccia a questo ordine, poiché potevano complicare le questioni di eredità e le alleanze familiari.

Nel mondo antico erano considerati “bastardi” (altro termine offensivo legato alle figure genitoriali) i figli di coppie conviventi, quelli nati da una prostituta o frutto di una relazione adulterina o incestuosa. Questi figli, denominati “illegittimi”, erano penalizzati nell’ambito del diritto successorio (non potevano ereditare il patrimonio dei genitori), erano esclusi dalle cariche pubbliche, non potevano svolgere alcune professionisposare persone appartenenti ai cosiddetti mestieri onorabili. In più, per la religione, il sesso al di fuori del matrimonio era considerato immorale, e di conseguenza, i figli nati da queste unioni erano  stigmatizzati come prova visibile di un comportamento peccaminoso.

E questa prospettiva è arrivata fino ai tempi moderni: in Italia solo dal 1975 con la riforma del diritto di famiglia i figli nati fuori dal matrimonio acquisirono gli stessi diritti dei figli “ufficiali”. E solo dal 2012 è sparita, con la riforma della filiazione, la legge 219, la distinzione fra “figli legittimi” e “figli naturali”.

Questo genere di insulti sono un retaggio della cultura patriarcale? Secondo Francine Descarries, femminista e docente di sociologia all’Université du Québec à Montréal, la risposta è sì: «Le donne sono sempre state considerate proprietà degli uomini, siano esse figlie, mogli o madri. Attaccare la madre significa contaminare la proprietà dell’uomo. Quindi, quando insultiamo la madre di un uomo, attacchiamo i suoi beni, proprio come i suoi vestiti o la sua casa».

La testata di Zidane a Materazzi: l’artista algerino Adel Abdessemed ne ha fatto una statua.

In effetti, ricordate perché Zinedine Zidane diede una testata a Marco Materazzi, giocandosi così la finale dei Mondiali di calcio 2006? Perché Materazzi gli aveva detto: “Non voglio la tua maglia, preferisco quella puttana di tua sorella.
L’ipotesi ha del vero: nessuno nega il peso del maschilismo nella nostra cultura. Tuttavia, in questo caso, c’è una ragione molto più immediata, come evidenzia la psicologia: la madre è l’affetto più profondo che abbiamo, la fonte delle nostre sicurezze, le nostre radici. Non solo gli uomini, ma anche le donne si sentirebbero offese se qualcuno denigrasse la loro madre. E, in ogni caso,
insultare i familiari di qualcuno è, in generale, un’offesa pesante: tant’è vero che in napoletano si offende non solo la madre (“mamm’t”), ma anche la sorella (“soreta”), il padre (“patete”), o il fratello (“frateto”).  Toccare i rapporti di sangue, quelli più stretti, fa sempre male. Del resto, non condividiamo con loro parte del nostro patrimonio genetico?

Gli insulti alla madre sono molto antichi: già Plutarco, nella “Biografia di Cicerone” ricorda la battuta di quest’ultimo a Metello Nepote che gli chiedeva “Chi è tuo padre?”. Cicerone gli rispose: “Nel tuo caso,” disse Cicerone, “tua madre ha reso la risposta a questa domanda piuttosto difficile.”

E nel “Timone d’Atene” William Shakespeare inserisce questo dialogo:

PITTORE – Sei un cane!

APEMANTO – Della mia stessa razza è tua madre: che altro potrebbe essere quella che ha fatto te, s’io sono un cane?

 

MODI DI DIRE

In questa categoria ho censito 11 espressioni:

“5 figli di cane”, film di gangster del 1969

♦ figlio della colpa: figlio nato al di fuori del matrimonio, fra conviventi o adulteri 

♦ figlio della serva: persona considerata inferiore per nascita e trattata di conseguenza, anche in modo sgarbato e villano. Usato soprattutto in senso figurato per chi viene emarginato da un gruppo, o trattato con minor considerazione rispetto agli altri.

♦ figlio di nessuno: trovatello, o figlio naturale. Era usato anche come insulto o con valore spregiativo. In senso figurato, anche bambino molto trascurato dai genitori.

♦ figlio di puttana (dal latino puta, fanciulla) / di troia (femmina del maiale, sozza fisicamente e moralmente) / di zoccola (femmina del topo di fogna, notoriamente prolifica. Ma può derivare dal fatto che nel 1700 le prostitute dei quartieri spagnoli indossavano le stesse scarpe vistose, con alti zoccoli, delle nobildonne, che li usavano per non sporcare di fango le loro vesti) / di baldracca (da Baldacco, antico nome di Baghdad. Era anche il nome di un’osteria di Firenze frequentata dalle meretrici) / di mignotta (un tempo molte madri naturali non intendevano riconoscere legalmente i propri figli, e non davano il loro nome all’anagrafe; questi bambini erano pertanto registrati come “figli di madre ignota”, che abbreviato in “M.Ignota” ha dato luogo al termine “mignotta” con valore d’insulto) / di bagascia (dal francese bagasse,  “serva” o “fanciulla”) 

♦ figlio d’un cane: l’espressione è equivalente a “figlio di puttana”, ma aggiunge una valenza spregiativa il riferimento all’animale (considerato inferiore all’uomo) considerato vile, crudele e comunque inferiore all’uomo. In inglese “son of a bitch” significa letteralmente “figlio di una cagna”: i cani sono disprezzati per il fatto di avere rapporti sessuali davanti a tutti e con partner diversi

In napoletano:

♦ figlio’ e’ ntrocchia: figlio di puttana. La parola ntrocchia deriva dal latino “antorchia”, torcia: nell’antichità le prostitute giravano di notte in strada con una torcia accesa per attirare clienti. L’equivalente di “lucciola”, insomma. L’espressione può essere usata anche in senso ammirativo (vedi prossimo riquadro)

♦ chella puttan ‘e mamm’t: quella puttana di tua madre

In veneto, friulano:

♦ tu mare putana: tua madre puttana

♦ tu mare grega: “grega” significa “greca”, donna straniera: spesso le prostitute dei bordelli erano di origine straniera, e in friulano “grego” designa anche una persona infida, doppia 

In siciliano:

♦ ‘dra pulla i to matri: quella puttana di tua madre

♦ figghiu d’arrusa / buttanazza: figlio di puttana

DA INSULTI A COMPLIMENTI

L’attore Samuel L. Jackson fa spesso il motherfucker, un tipo tosto.

L’espressione “figlio di puttana”, oltre a indicare i figli delle prostitute, designa anche una persona spregevole e priva di scrupoli che compie azioni disoneste: i figli delle prostitute, del resto, crescevano per strada, o senza un’educazione, e spesso vivevano di espedienti per riuscire a cavarsela.
Al punto che l’espressione “figlio di puttana” (e in napoletano “figl ‘e ndrocchia” e “figl ‘e bucchino”) può essere usata, in modo scherzoso, anche come complimento: indica chi riesce a cavarsela nelle situazioni difficili grazie a un’abilità spregiudicata. E questo vale anche per l’espressione spagnola de puta madre”, di madre puttana, che però è usata come rafforzativo enfatico: equivale al nostro “della Madonna”, “cazzuto”, “molto figo”, “da paura”: come dire, figlio di una madre spregiudicata e tosta. Anche l’espressione inglese “motherfucker” (letteralmente: uno che si fotte la madre, ovvero “uno capace di fottere sua madre”) significa
“persona meschina, spregevole o malvagia” o si può riferire a una situazione particolarmente difficile o frustrante. Ma può essere usato anche in senso positivo, come termine di ammirazione, come nell’espressione badass motherfucker (acronimo: BAMF), che significa ”persona tosta, impavida e sicura di sé”.

Arma letale: le espressioni incestuose

In spagnolo la “concha” è la conchiglia, ma qui significa vulva.

Gli insulti alla figura materna possono utilizzare una variante se possibile ancora più offensiva: quella che evoca la sessualità della madre. Giocano, cioè, sul tabù dell’incesto, il più forte e antico: evocando la sessualità della propria madre costringono il destinatario dell’insulto a un pensiero altamente sgradevole, ripugnante e imbarazzante. Un “incantesimo” verbale pesantissimo, innescato evocando i suoi genitali, gli atti sessuali o una vita sessuale dissoluta. Il sesso evoca sempre la nostra natura animalesca, dalla quale cerchiamo sempre di prendere le distanze: a maggior ragione nei rapporti affettivi che non hanno (e non devono avere) risvolti erotici.
Dunque, abbinare pensieri osceni alla figura materna è un’arma linguistica micidiale, ed è presente in molte lingue:
oltre al già ricordato russo  “Ёб твою мать” (“yob tvoyu mat”, scopa tua madre, all’origine del “mat”, il gergo volgare), c’è l’albaneseqifsha nënën” (mi fotto tua madre) o “Mamaderr” (Tua mamma è una maiala) e l’araboKos immak” (La figa di tua madre) e Nikomak (scopa tua madre). E anche il rumenoDute-n pizda matii“, torna nella figa di tua madre, e il cinese ha due espressioni per “scopa tua madre”屌你老母 (diu ni lao mu, cantonese) e  操你妈 (cao ni ma, mandarino). E il persiano: Kiram tu kose nanat, ovvero “il mio cazzo nella figa di tua madre”, Madar kooni “tua madre è lesbica”, Kos é nanat khaly khoob hast “La figa di tua madre è buona”, Sag nanato kard “Un cane ha scopato tua madre”, Pedarbozorget nanato kard “Tuo nonno ha scopato tua madre”, Nanat sag suk mizaneh “Tua madre fa pompini ai cani”, Molla nanato kard “Un mullah (teologo) ha scopato tua madre”, Madareto kardam “Mi sono scopato tua madre”, Kiram to koone nanat “il mio cazzo nel culo di tua madre”.

In francese c’è “nique ta mère” (scopa tua madre) e “Ta salope de mère” (quella maiala di tua madre), in spagnolo(vete a) la concha de tu madre” (vai nella figa di tua madre), “Chinga tu madre” (“Scopa tua madre”), “Tu madre culo” (“Il culo di tua madre”). E in finlandese c’è l’espressione  “Äitisi nai poroja” che significa “Tua madre scopa con una renna”: ogni cultura adatta gli insulti al proprio contesto.

 

MODI DI DIRE

E’ la categoria più numerosa, con 20 espressioni:

In veneto:

“A fess d mamt”, un brano disco degli Impazzination (2012).

♦ quea stracciafiletti de to mare: quella strappa frenuli (del prepuzio) di tua madre

♦ va in figa de to mare / va in mona: vai nella figa di tua madre, ovvero: torna da dove sei venuto. E’ usato anche in modo bonario, come sinonimo di “Ma và a quel paese”

♦ quea sfondrada de to mare: quella sfondata di tua madre

♦ chea rotinboca de to mare: quella rottinbocca di tua madre 

♦ va in cùeo da to mare: và nel culo a tua madre.

In mantovano:

♦ cla vaca at ta fàt: quella vacca che ti ha fatto

In toscano:

♦ la tu mamma maiala / la maiala di tu mà: tua madre maiala

In napoletano:

♦ a fess d mam’t: la figa di tua madre (usato anche come esclamazione di disappunto, o per mandare qualcuno a quel paese)

♦ bucchin e mamt: la bocchinara di tua madre

♦ mocc a mamm’t / vafammocc a mamm’t: in bocca a tua madre / vai a farti fare un rapporto orale da tua madre

♦ ‘ncul a mamm’t: in culo a tua madre

♦ figl’e bucchino (figlio di un rapporto orale): persona scaltra e senza scrupoli capace di cavarsela in ogni situazione

In pugliese:

La birra “De puta madre”, una Ipa tosta.

♦ lu piccioni spunnatu di mammata: la figa sfondata di tua madre

♦ a fissa i mammeta : la figa di tua madre

In calabrese:

♦ Fiss’i mammata: la figa di tua madre

♦ In culu a memmata e a tutta a razza da tua: In culo a tua madre e a tutta la tua famiglia

In sardo:

♦ mi coddu cussa brutta bagass’e mamma: Mi fotto quella brutta puttana di tua madre

♦ t’inci fazzu torrai in su cunnu: Ti faccio tornare nell’apparato riproduttivo di tua madre

♦ su cunnu e mamma rua: La figa di tua madre

♦ su cunnu chi ta cuddau a sorri tua baggassa impestara luride e’merda: La figa che ti ha partorito a te e a tua sorella impestata lurida di merda 

♦ su cunnu chi ti ndà cagau: La figa che ti ha cagato

♦ sugunnemamarua bagassa, babbu ruu curruru e caghineri coddau in culu e in paneri de su figllu de su panettieri: La figa di tua mamma bagascia e tuo padre finocchio inculato dal figlio del panettiere

 Offese generiche (e da rapper)

“Yo mama”, film del 2023 su un gruppo di mamme che si mettono a rappare.

Le offese alla madre non sono soltanto di tipo sessuale. Esistono anche insulti generici usati per ferire la persona infangando l’immagine della madre. Un atteggiamento piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza, con frasi del tipo “tua madre è brutta”, “tua madre è cicciona”. E questa abitudine sta anche alle origini del rap: la battaglia rap, in particolare, è un duello verbale in rima nei quali gli avversari si fronteggiano improvvisando insulti sempre più spinti sulla madre dell’avversario con la formula “Yo mama” (“your mama”, tua madre). Questa tradizione deriva dalle “dozzine”, duelli d’insulti di origine africana, ma diffusi anche in diverse altre culture. Ma le “dozzine” non sono soltanto un duello verbale nel quale i partecipanti devono mostrare la propria abilità linguistica cercando di sconfiggere l’avversario con insulti sempre più creativi e pesanti. Secondo gli antropologi Millicent R. Ayoub e Stephen A. Barnett, le dozzine erano anche un rituale per rafforzare i legami fra i coetanei. Una sorta di rito di affiliazione: partecipando, il giovane è disposto a lasciare che altri insultino sua madre senza ritorsioni, in cambio di una più stretta integrazione nel suo gruppo di amici. Solo un rapporto molto intimo fra i partecipanti rende possibile gli insulti reciproci alle madri senza passare alle mani. Secondo il sociologo Harry Lefever, questo gioco potrebbe essere anche uno strumento per preparare i giovani afroamericani ad affrontare gli abusi verbali senza arrabbiarsi. Una sorta di allenamento a sopportare le provocazioni: un possibile effetto secondario rispetto alla sfida di sfidarsi con offese che fanno girare la testa.


Di battaglie rap sulla madre abbiamo anche un celebre esempio italiano: il “Mortal kombat” tra Fabri Fibra e Kiffa nel 2001. Dopo una sequela di insulti di vario genere, Fibra (dal minuto 2:08) inizia a insultare Kiffa dicendo “Tua madre non avvisa / Quando si fa calare a gambe larghe sopra la torre di Pisa”, a cui Kiffa risponde con: “Invece tua madre è troppo brava / L’ho vista conficcarsi la Mole Antonelliana”, e così via in un crescendo sempre più osceno e crudo (siete avvisati):

Oltre che nel rap, gli insulti alla figura materna sono diffusi a ogni latitudine. In spagnolo ci sono espressioni fantasiose come Tu madre tiene  bigote” (Tua madre ha i baffi) , o “Me cago en la leche que mamaste” (cago nel latte che hai succhiato dal seno di tua madre). In giapponese c’è l’espressione Anata no okaasan wa kuso desu (Tua madre è un pezzo di merda). In persianoMadar suchte“, Tua madre è bruciata all’inferno, e Nane khar “Tua madre è un’asina”.

Lo scrittore Lu Xun.

Gli insulti sulla madre sono molto diffusi anche in Cina. Già nel 1925 lo scrittore Lu Xun (1881-1936) osservava: «Chiunque abiti in Cina sente spesso dire “tāmāde” (他妈的 = tua madre) o altre espressioni abituali del genere. Credo che questa parolaccia si è diffusa in tutte le terre dove i cinesi hanno messo piede; la sua frequenza d’utilizzo non è inferiore al più cortese nǐ hǎo (ciao). Se, come alcuni sostengono, la peonia è il “fiore nazionale” della Cina, possiamo dire, allo stesso modo, che “tāmāde” ne è il “turpiloquio nazionale”».Secondo Xun, attaccare la madre era un modo per mettere in discussione non solo la reputazione, ma anche il prestigio sociale delle classi altolocate, che basavano il loro potere e prestigio sugli antenati: annientando questi ultimi, con espressioni come “discendente di madre schiava”(而母婢也), “sporco figlio dell’eunuco” (赘阉遗丑), scompare anche il prestigio dei presenti. «Se vuoi attaccare il vecchio sistema feudale, prendere di mira i lignaggi nobiliari è davvero una strategia intelligente. La prima persona ad aver inventato l’espressione “tāmāde” può essere considerata un genio, ma è un genio spregevole».

 

MODI DI DIRE

In italiano non ho trovato frasi fatte con espressioni denigratorie sulla madre. Ce ne sono 8, invece, in alcuni dialetti:

In napoletano:

Tua madre è così grassa: è uno degli insulti contro la madre

♦ chella pereta / loffa ‘e mammeta: quella scorreggia di tua madre

♦ chella zompapereta ‘e mammeta: quella salta scorregge di tua madre: appellativo rivolto alle donne popolane e volgari, o anche alle prostitute

♦ chella latrina / cessa ‘e mammeta: quel cesso di tua madre

♦ chella cessaiola / merdaiola ‘e mammeta : quella lava gabinetti di tua madre 

In veneto:

♦ to mare omo: tua madre è un uomo

Una particolare variante degli insulti materni riguarda evocare la morte della madre oppure insultare i suoi defunti, anche in questo caso nei dialetti:

In livornese:

♦  budello cane di tu madre morta: budella da cane di tua madre morta

♦ il budello de tu ma: le budella di tua madre

In pugliese:

♦ l’ murt de mam’t: i morti di tua madre

E tu, conosci altri modi di dire con insulti alla madre? Scrivilo nei commenti e aggiornerò l’articolo.

Ringrazio Lina Zhou per la preziosa traduzione dell’articolo di Lu Xun.


Ho parlato di questa ricerca a Radio Deejay, ospite della trasmissione “Il terzo incomodo” condotta da Francesco Lancia e Chiara Galeazzi. Qui sotto l’audio dell’intervento:

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Se l’insegnante dice parolacce a lezione https://www.parolacce.org/2024/04/10/parolacce-a-scuola/ https://www.parolacce.org/2024/04/10/parolacce-a-scuola/#respond Wed, 10 Apr 2024 10:00:19 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20406 Funzionano le parolacce a scuola? Nei mesi scorsi, mentre tenevo il workshop “Parolacce e comunicazione” all’università Iulm di Milano, alcuni lettori di questo blog (insegnanti compresi) mi hanno rivolto questa domanda. Avevo già affrontato l’argomento in un articolo di qualche… Continue Reading

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Insegnante dice parolacce a lezione (Dall-E)

Funzionano le parolacce a scuola? Nei mesi scorsi, mentre tenevo il workshop “Parolacce e comunicazione” all’università Iulm di Milano, alcuni lettori di questo blog (insegnanti compresi) mi hanno rivolto questa domanda. Avevo già affrontato l’argomento in un articolo di qualche anno fa. Ne parlo di nuovo oggi, alla luce delle ricerche uscite nel frattempo. 

Parto da una considerazione di fondo: non c’è, e non può esserci, una risposta univoca alla domanda se sia efficace usare il turpiloquio a lezione, perché è troppo generica. Le “parolacce”, infatti, includono un ventaglio di espressioni che vanno dagli insulti alle espressioni colloquiali, dalle oscenità alle imprecazioni: in questa categoria, insomma, rientrano espressioni bonarie e spiritose ma anche offese molto pesanti. Come dico sempre, le parolacce sono come coltelli: si possono usare per ferire ma anche per sbucciare una mela.

Ed è troppo vago anche il pubblico dei destinatari: gli studenti possono andare dai 6 ai 24 anni d’età, dalla prima elementare all’università: persone con sensibilità e maturità emotiva molto diverse fra loro. Sarebbe inaccettabile usare espressioni oscene con bambini di prima elementare, così come sarebbe fuori luogo utilizzare l’umorismo infantile “da gabinetto” con un pubblico di 20enni. 

Resta il fatto che il turpiloquio è  un linguaggio molto potente, e sarebbe troppo sbrigativo limitarsi a censurarlo in un’epoca come la nostra, in cui le parolacce sono onnipresenti e destano meno scandalo d’un tempo. A maggior ragione se ci si rivolge a un pubblico di adolescenti, che sono – da sempre – i più scurrili: il linguaggio sboccato potrebbe essere una via diretta per entrare in confidenza con loro.  

Una scelta a due facce

In generale, secondo le ricerche, usare un linguaggio volgare è una scelta a due facce: non è mai completamente vantaggiosa, ma neppure totalmente svantaggiosa. A seconda di come viene attuata, infatti, può avere effetti positivi o negativi. Ecco quali:

effetti positivi effetti negativi
il turpiloquio è un linguaggio sincero, diretto e spontaneo (se usato abitualmente e non come atteggiamento costruito “a tavolino” per strizzare l’occhio al pubblico) fa perdere autorevolezza
accorcia le distanze, creando un clima confidenziale e informale fa apparire meno competenti / professionali
attira l’attenzione fa apparire incapaci di controllarsi

Gli insegnanti, ma anche i comunicatori, i formatori, chi tiene una conferenza, dovrebbero sempre tener presente questa tabella quando valutano se usare o meno il linguaggio scurrile. Ci sono “pro e contro” in ogni caso: la differenza la fa il “perché” e il “come” sono usate. Ovvero, gli scopi comunicativi. Come ricorda Emily Mullins della Wichita State University «le parolacce non sono in sè un problema: tutto dipende dall’intenzione con cui sono utilizzate». O, come diceva Italo Calvino, le parolacce possono dare un particolare effetto musicale nella “partitura” del discorso: quindi, sono efficaci se al servizio di una narrazione, di un preciso scopo comunicativo.
Ma oltre all’efficacia, c’è anche un altro aspetto di cui tenere conto quando si parla di parolacce a scuola: l’opportunità. L’insegnante è un educatore, e come tale deve dare il buon esempio: dire parolacce rischia di minare gli intenti educativi e la propria autorevolezza. Dunque deve essere un’eccezione e non la regola: una scelta che va commisurata all’età e alla maturità degli studenti, per non rischiare sgradevoli equivoci o che degeneri il clima in classe. Possiamo affermare, in termini generali, che la scelta di dire parolacce a scuola sia diseducativa in modo inversamente proporzionale all’età degli studenti: ovvero, è tanto più diseducativa quanto più è giovane l’età degli studenti. 

Cosa dicono le ricerche

Parolacce in una conferenza (Dall-E)

Che cosa hanno scoperto gli studi sull’uso delle volgarità a lezione? Gli insulti («asino») e le maledizioni («vaffa») hanno effetti negativi perché sono aggressivi e umiliano il destinatario, abbassandone l’autostima. Dirli in modo bonariamente ironico ne attenuerebbe l’offensività, ma sono sempre un azzardo da evitare.
Le imprecazioni (“porca vacca”), rivolte a se stessi o agli strumenti di lavoro, danno un’immagine di aggressività e di “incontinenza emotiva” e sono percepite in modo negativo se sono reiterate. Un conto è imprecare perché un libro voluminoso ti cade sul piede, un altro è imprecare come un marinaio ogni volta che la lavagna luminosa non funziona.
«Gli insegnanti non dovrebbero imprecare davanti gli studenti per mostrare la loro frustrazione, poiché questo comportamento può essere visto come aggressivo. E l’aggressività degli insegnanti è negativamente associata all’apprendimento e alla soddisfazione degli studenti», sottolinea Mark Generous, docente di comunicazione alla California State Polytechnic University.

Il discorso cambia se lo scopo delle parolacce è quello di fare una battuta umoristica, enfatizzare un concetto, o attirare l’attenzione: in questo caso, le volgarità possono essere percepite in modo positivo. «Le parolacce inserite nel contenuto del corso, per enfatizzare, attirare l’attenzione o rendere più chiaro un concetto sono percepite come più appropriate rispetto ad altre categorie», sottolinea ancora Generous. Con una precisazione importante: le battute di spirito “salaci” rischiano di far sembrare il docente «uno che si atteggia, che vuole cercare di fare il simpatico usando il linguaggio dei giovani»: dunque, meglio non avventurarsi su questo terreno se non si ha un senso dell’umorismo collaudato.

Escludendo insulti e maledizioni, insomma, gli studenti, in genere, «hanno sentito gli insegnanti più vicini dopo che hanno detto una parolaccia. Si sono sentiti più a loro agio nel parlare con l’insegnante sia dentro che fuori la classe», dice Mullins. Le parolacce, come abbiamo detto sopra, se usate con intelligenza accorciano le distanze e creano un clima più informale e spontaneo.

Le conclusioni

Ci sono parolacce e parolacce. Ma conta di più lo scopo per cui si dicono (Dall-E)

In sintesi, conclude Generous, «mentre l’uso del linguaggio volgare da parte degli insegnanti non è intrinsecamente negativo, la sua percezione da parte degli studenti e l’impatto sul loro apprendimento e benessere emotivo dipendono fortemente dal contesto, dalla funzione e dall’obiettivo delle volgarità. Gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli delle possibili implicazioni del loro linguaggio e cercare di mantenere un ambiente di apprendimento rispettoso e incoraggiante». 

«Gli insegnanti che scelgono di usare parolacce» aggiunge «dovrebbero farlo con giudizio e con uno scopo chiaro, collegandole al contenuto del corso per enfatizzare, chiarire concetti o attirare l’attenzione».

Non si potrebbe dirlo meglio: non esistono formule preconfezionate, parolacce consentite o proibite in quanto tali (escluse ovviamente quelle più offensive). Esistono invece scopi comunicativi e contesti (le personalità e le età degli studenti) che vanno valutati di volta in volta.

I contesti, come sempre, fanno la differenza. Come gestire il turpiloquio in una scuola che sorge in un quartiere disagiato? Provate a immaginare una classe come quella del film “Io speriamo che me la cavo” (1992). Un’opera di fantasia, per quanto ispirata da alcuni temi raccolti dal maestro Marcello D’Orta fra gli alunni delle elementari di Arzano (Napoli), con un linguaggio insolitamente scurrile. Come comportarsi con una classe del genere? Scandalizzarsi sarebbe ridicolo, ma usare il turpiloquio significherebbe dare un pessimo esempio. E ancor più difficile se ci si trova a insegnare in un carcere minorile

In tutti questi casi, il turpiloquio è legato a un lessico povero e limitato: la vera sfida, in questo caso, più che strizzare l’occhio alle volgarità, è allargare la prospettiva dei ragazzi, insegnando parole e pensieri alternativi.

GLI STUDI CONSULTATI

Non è semplice studiare il turpiloquio. Le simulazioni (una lezione in cui un finto professore dice parolacce) non sono uno specchio fedele delle vere lezioni in aula, nelle quali l’interazione, il rapporto si costruisce giorno dopo giorno.  Le ricerche che hanno trovato i risultati più interessanti sono stati dei “focus group” in cui le persone ricordavano episodi in cui un loro insegnante aveva detto espressioni scurrili. In ogni caso, è bene ricordarlo, i risultati degli studi offrono un quadro parziale su un tema così ampio e complesso.Inoltre, ogni cultura e ogni epoca possono avere sensibilità molto diverse sul turpiloquio. Quello che è inaccettabile per uno statunitense, potrebbe essere accettabile per un italiano e viceversa; ciò che era tabù ieri potrebbe non esserlo più oggi.
Fatte queste distinzioni, ecco i principali studi che ho consultato per scrivere questo post:

♦ Karyn Stapleton “Swearing and perceptions of the speaker: A discursive approach”, Journal of Pragmatics 170 (2020) 381e395

♦ Mark A. Generous, Seth S. Frei, & Marian L. Houser “When an Instructor Swears in Class: Functions and Targets of Instructor Swearing from College Students’ Retrospective Accounts”, Communication Reports Vol. 28, No. 2, July–December 2015, pp. 128–140

♦  Mark A. Generous & Marian L. Houser “Oh, S**t! Did I just swear in class?”: Using emotional response theory to understand the role of instructor swearing in the college classroom”, Communication Quarterly, 67(2), 178–198, 2019

♦  Emily Mullins, “Watch your mouth: swearing and credibility in the classroom”, Bachelor of Arts, Wichita State University, 2020

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Italo Calvino ( 1923-1985).

Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha dedicato loro un’acuta analisi che è attuale ancora oggi, anche se sono passati più di 40 anni. Forse può sorprendere che un autore così raffinato si sia dedicato al turpiloquio, ma in realtà è in ottima compagnia, come ho avuto modo di raccontare a proposito di Umberto Eco e molti altri che trovate nel mio libro. Perché le parolacce, come diceva Calvino, possono servire a dare un “effetto speciale” nella partitura del discorso.

Le 117 volgarità ne “Il sentiero dei nidi di ragno”

Per entrare nel mondo di Calvino, parto con l’analisi del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”: pur essendo stato pubblicato nel 1947, epoca di censure e perbenismo, presenta numerosi termini volgari o offensivi. Non è un caso: la storia, infatti, è ambientata in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana sotto dominio nazifascista. In guerra è più rude anche il linguaggio, e un romanzo realista ne deve tener conto.
Calvino utilizza in tutto 31 espressioni triviali per un totale di 117 volte, includendo anche termini forti come puttana, fottuto, bastardo, cornuto e terrone: mica male! E lo fa inglobando anche alcune espressioni colloquiali e dialettali, tranne il celebre “belin”: scelta insolita per un romanzo ambientato in Liguria. 

La scelta stilistica di Calvino è ancor più interessante perché il protagonista del libro è un ragazzo ribelle di 10 anni, Pin, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre. Privo di punti di riferimento, il bambino vive con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, una prostituta che s’intrattiene con i militari tedeschi. Dietro lo sguardo spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, da giovane, aveva lasciato gli studi universitari ed era entrato nella Resistenza, in clandestinità, a contatto con persone di umili origini.

Il romanzo conduce il lettore fin dalle prime righe nei vicoli di un paese ligure, proprio grazie alla spontaneità delle parolacce:

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. – Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella! 

 Già nell’incipit troviamo 3 insulti (muso di macaco, rubagalline, materasso, inteso come “grassona”) e una maledizione (ti si seccasse la voce in gola). Ma è Pin l’autore dell’espressione più pesante del romanzo, una sequenza di insulti che avrebbe voluto urlare in faccia ad alcuni clienti dell’osteria a cui stava nascondendo di avere in tasca una pistola: Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!

Una sequenza di alto impatto, costruita con una escalation di insulti in decasillabi quasi perfetti.

Nel ventaglio di espressioni scelte da Calvino per questo romanzo, prevalgono i termini colloquiali e gli insulti: Calvino si tiene alla larga dal lessico osceno, nonostante la sorella di Pin faccia la prostituta. Da segnalare l’assenza di espressioni molto diffuse come “cazzo”, “stronzo”, “coglioni” e “vaffanculo”. Ecco la lista completa delle parolacce presenti nel romanzo:

 [ per approfondire, apri la finestra cliccando sul + qui sotto ] 

TUTTE LE PAROLACCE
 

Imprecazioni (3)

  frequenza brano
mondoboia 25 Mondoboia, proprio come pensavo io.
mondo cane 2 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane,
merda! 1 – Merda! – gli fa Zena e gli volta le spalle.

Maledizioni (2)

Ti venisse un cancro 2 Ti venisse un cancro all’anima
Ti si seccasse la voce in gola 1  

Insulti (20)

scemo 9  mio marito è un po’ scemo ma è il miglior marito del mondo
bastardo 8 tutti questi bastardi fascisti che mi hanno fatto del male la pagano uno per uno.
carogna 8 mi dicevo: dove sarà andato a sbattere quella vecchia carogna,
cagna 6 Il capitano di sua sorella cagna e spia.
ruffiano 4 Il ruffiano lo andate a fare voi se ne avete voglia
cornuto 4 il tuo distaccamento… il distaccamento dei cornuti!
vacca 4 Quella vacca della tua bisnonna
porco 4 Egoista porco!
macacco / muso di macacco 3 Questa poi me la paghi, muso di macacco
puttana 3 Domando io se è il modo di mandare a puttane il mulo
scimmia 3 mia sorella, quella scimmia,
stupido 2  però il piantone è uno stupido e gli dà ai nervi
brutto muso 2 Brutto muso, – gli fa Giraffa, amichevole.
terrone 2 quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», poveri emigrati, guardati come estranei.
fottuto 1 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane, – fa Pin, – però sei anche un fottuto a lasciarmi lì mentre m’avevi dato la parola d’onore.
rubagalline 1 tu e quel rubagalline del tuo padrone!
materasso 1 Tu e quel materasso di tua sorella!
mangiasapone 1 Garibaldi ci ha portato il sapone e i tuoi paesani se lo son mangiato. Mangiasapone
cretino 1 E le toccai il nasino – e lei disse brutto cretino
sbirro 1 quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. 

Termini escrementizi (2)

piscia/pisciare 9 Nelle vene non mi scorre più del sangue, ma del piscio giallo
cacca/cacare 4 sporco sulle spalle di cacca di falchetto,

Termini colloquiali (4)

bordello 1 senti gli sputafuoco che bordello?
balle 2 le cose sono sicure o sono «balle», non ci sono zone ambigue ed oscure per loro
culo 1 Io vi spacchi i corni, io vi sfondi i culi…

 

strafottere 1 Me ne strafotto di tutte le vostre armi!

 

Le parolacce come musica

Avendo utilizzato a piene mani il turpiloquio nella sua prima opera, Calvino non ha mai avuto un atteggiamento snob o moralista verso le parolacce. Anzi, ne ha fatto oggetto anche di una riflessione molto acuta in un articolo del 1978 (uscito in origine sul “Corriere della sera”, poi raccolto nel saggio “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”). Nonostante siano passati 46 anni, è un’analisi ancora attuale. Calvino afferma che le espressioni triviali hanno un “insostituibile valore” per tre motivi.

Primo: hanno una forza espressiva ineguagliabile, dovuta alle loro connotazioni negative. Le parolacce sono «una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso, parlato o scritto», e la loro espressività è data proprio dal fatto che sono «regressive, fallocentriche o misogine». Inutile tentare di addolcirle, come ricordo spesso: le parolacce nascono come colpi sotto la cintura ed è ingenuo pensare di attenuarle.
Il disprezzo per il sesso che molte espressioni sottendono «ha un senso marcatamente conservatore d’affermazione di superiorità su un mondo inferiore. Prova ne è che il turpiloquio non ha mai liberato nessuno. Direi che, spesso, è vero il contrario».

Ma, per avere questi effetti espressivi, le parole oscene «vanno usate al momento giusto» perché «sono esposte più delle altre a un’usura espressiva e semantica, e in questo senso credo ci si debba preoccupare di difenderle: difenderle dall’uso pigro, svogliato, indifferente. Naturalmente, senza tenerle sotto una campana di vetro, o in un “Parco Nazionale”, come preziosi stambecchi verbali: bisogna che vivano e circolino in un “habitat” congeniale. La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti. Anche nelle altre lingue europee mi pare che le voci equivalenti siano tutte più pallide. Va dunque rispettata, facendone un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra».

Insomma, il turpiloquio è un ventaglio di espressioni a cui dobbiamo ricorrere in quanto «riserva di creatività, non in quanto repertorio di voci infiacchite. La grande civiltà dell’ingiuria, dell’aggressione verbale oggi si è ridotta a ripetizione di stereotipi mediocri. Giustamente ha osservato un linguista che dire “inintelligente” è molto più offensivo che dire “stronzo”». L’osservazione vale a maggior ragione oggi, epoca di grande inflazione delle parolacce in diversi contesti: non solo cinema, radio, giornali e tv, ma anche (e soprattutto) Internet. Anche quando si vuole attaccare una persona o un’idea, si utilizzano le solite espressioni logore, senza fantasia.

Secondo: i termini osceni sono le migliori espressioni se si vuole avere un effetto “denotativo diretto”. Per designare quell’organo o quell’atto meglio usare la parola più semplice, quando si intende parlare davvero di quell’organo o di quell’atto. Le parolacce, insomma, servono a chiamare le cose con il loro nome, sono il linguaggio più diretto. Ma con un’avvertenza, purtroppo non approfondita da Calvino: «la trasparenza semantica di una parola è inversamente proporzionale alla sua connotazione espressiva». Tradotto, significa: se una parola è molto ricca di sfumature emotive di significato, diventa una parola oscura. Un esempio? La parola “cazzo” che, quando non designa l’organo sessuale maschile è usata come sinonimo di nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Finisce così per significare tutto e il contrario di tutto.

Terzo valore delle parolacce: sono una forma di posizionamento sociale. «L’uso di parole oscene in un discorso pubblico (per esempio politico) sta a indicare che non si accetta una divisione di linguaggio privato e linguaggio pubblico. Per quanto comprenda e anche condivida queste intenzioni, mi sembra che il risultato di solito sia un adeguamento allo sbracamento generale, e non un approfondimento e uno svelamento di verità. Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio».

Il che è ancor più valido nella nostra epoca in cui i politici di ogni schieramento, da Bossi in poi, hanno fatto del turpiloquio uno degli aspetti costanti della comunicazione: tutti fanno a gara per apparire informali nel linguaggio e nell’abbigliamento, mentre i contenuti politici passano in ombra.

Le guerre e i traduttori di insulti

Calvino torna sulle parolacce anche in una sua opera matura, uno dei suoi capolavori: “Il cavaliere inesistente” (1959). Il romanzo è ambientato all’epoca di Carlo Magno, immaginato a scontrarsi con i Mori, ossia gli islamici. Nel primo scontro fra i due eserciti, Calvino scrive che, nelle prime fasi, quando i nemici entrano in contatto fra loro per la prima volta, vi sia un’armata di interpreti che traducono gli insulti pronunciati in arabo, spagnolo e francese.

Cominciavano i duelli, ma già il suolo essendo ingombro di carcasse e cadaveri, ci si muoveva a fatica, e dove non potevano arrivarsi, si sfogavano a insulti. Lì era decisivo il grado e l’intensità dell’insulto, perché a seconda se era offesa mortale, sanguinosa, insostenibile, media o leggera, si esigevano diverse riparazioni o anche odî implacabili che venivano tramandati ai discendenti. Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario. 

– Khar as-Sus! – Escremento di verme! 

– Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! Zabalkan! Merde! 

Questi interpreti, da una parte e dall’altra s’era tacitamente convenuto che non bisognava ammazzarli. Del resto filavano via veloci e in quella confusione se non era facile ammazzare un pesante guerriero montato su di un grosso cavallo che a mala pena poteva spostar le zampe tanto le aveva imbracate di corazze, figuriamoci questi saltapicchi. Ma si sa: la guerra è guerra, e ogni tanto qualcuno ci restava. E loro del resto, con la scusa che sapevano dire «figlio di puttana» in un paio di lingue, il loro tornaconto a rischiare ce lo dovevano avere. 

Una gustosa trovata narrativa, che ci ricorda un aspetto a cui di solito non pensiamo: gli insulti hanno effetto solo nella misura in cui c’è qualcuno che li riceve, li comprende e dà loro un peso. Altrimenti, sono solo fiato sprecato.

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