Bachtin | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 07 Feb 2023 11:14:31 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Bachtin | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Quando gli insulti esprimono affetto https://www.parolacce.org/2023/02/05/insulti-affettuosi/ https://www.parolacce.org/2023/02/05/insulti-affettuosi/#respond Sun, 05 Feb 2023 11:07:46 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19689 Luca, Carlo e Giorgio sono amici. Eppure, quando s’incontrano, si chiamano affettuosamente “ciccione”, “testa di cazzo” e “buffone”. Le parolacce, infatti, non servono solo a offendere. Possono persino esprimere l’opposto d’un insulto: vicinanza, intimità, affetto. Non è solo una stravaganza:… Continue Reading

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L’insegna di una storica trattoria di Milano.

Luca, Carlo e Giorgio sono amici. Eppure, quando s’incontrano, si chiamano affettuosamente “ciccione”, “testa di cazzo” e “buffone”. Le parolacce, infatti, non servono solo a offendere. Possono persino esprimere l’opposto d’un insulto: vicinanza, intimità, affetto. Non è solo una stravaganza: è un fenomeno linguistico sfuggente e molto più profondo di quanto sembri a prima vista. Infatti espressioni simili sono utilizzate non solo fra amici, ma anche fra amanti e nei gruppi sociali di emarginati. Ed è, in realtà, un genere di espressioni molto antico, che risale già al tempo dei Romani. E’, come vedremo, un linguaggio tipico delle feste di piazza (soprattutto il Carnevale), che riesce a cogliere il nostro mondo interiore nel suo divenire e nella sua complessità anche contraddittoria. Ma come funzionano? Cosa vogliono dire?

Relax, libertà e sincerità fra chi si ama

Un meme de “Il terrone fuori sede” che rivendica con ironia l’identità meridionale.

Vediamo un po’ più da vicino queste espressioni. In casi come questi, gli insulti non sono usati in senso letterale: anzi, in realtà il loro contenuto non conta. Conta, invece, il fatto che siano usate parole di un registro linguistico colloquiale: segnalano il passaggio a un tipo informale e più rilassato di comunicazione.
«La locuzione oscena» scriveva Italo Calvino «serve come una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso parlato o scritto.Questa strategia linguistica non può preoccuparsi del fatto che la parola usata sia regressiva, fallocentrica o misogina o altro; anzi, la sua espressività è data spesso dalle sue connotazioni più negative».
Già, ma cosa esprimono esattamente queste espressioni? Avviene uno strano corto circuito, ascoltandole: sono ingiurie affettuose. Il senso affettivo è dato solo dall’intenzione del parlante (espressi dallo sguardo e dal tono di voce), che annulla il contenuto offensivo degli insulti. Un’ulteriore prova che è l’intenzione a fare l’insulto, e non viceversa: posso offendere senza usare nemmeno una parolaccia («Quanto sei intelligente», se detto con intento sarcastico, è un’offesa). E vale anche il contrario: senza l’intenzione aggressiva, l’offesa perde la sua carica esplosiva. Gli insulti affettuosi sono come pistole a salve, ma non del tutto: rimane qualcosa del loro graffiante contenuto originario, il loro colore emotivo. Infatti fanno ridere, e la risata segnala sempre una sorpresa di fronte a una contraddizione, in questo caso un’opposizione fra forze contrarie, come un piatto agrodolce. Le parole squalificanti sono usate infatti per esprimere affetto, cioè il sentimento opposto al disprezzo. Una modalità, questa, che ricorda la figura retorica dell’ossimoro, l’unione di due concetti opposti e inconciliabili: come “ghiaccio bollente”, “fallimento di successo”.

Un libro che esalta il “dirty talk” fra amanti.

Ma queste espressioni non si limitano ai rapporti fra amici. Possono manifestarsi anche quando due amanti, a letto, utilizzano fra loro termini espliciti e offensivi («scopami», «troia») anche se hanno un rapporto d’amore. L’uso del turpiloquio (il “dirty talk“, parlare sporco) serve in questo caso a esprimere l’aspetto animalesco del sesso, che di solito tendiamo invece a censurare, mascherare o a negare.
«Nella corrispondenza intima si incontrano a volte dei termini volgari e ingiuriosi usati in senso affettuoso» osserva Michail Bachtin, critico letterario russo. «Quando si superano certi limiti nei rapporti fra le persone e questi rapporti diventano più intimi e schietti, ecco che ha luogo un cambiamento nell’uso ordinario delle parole, una distruzione della gerarchia verbale; il linguaggio si ristruttura su un tono nuovo e schiettamente familiare; le parole affettuose comuni sembrano convenzionali e false, banali, unilaterali e soprattutto incomplete; hanno una sfumatura gerarchica che le rende inappropriate alla libera familiarità che si è instaurata; ed è per questo che tutte le parole banali sono bandite e sostituite o da parole ingiuriose o da parole create sul loro tipo e modello». Dunque, le parolacce portano una ventata di sincerità oltre che di libertà e informalità.

L’insulto come bandiera

Gay pride a Milano:  lo spregiativo “froci” è esibito con orgoglio.

A volte l’unione paradossale fra buoni sentimenti e volgarità avviene in un campo minato: gli insulti stereotipici, quelli diretti a un intero gruppo sociale. Così capita di vedere omosessuali che si autodefiniscono orgogliosamente “froci” durante le sfilate del gay pride; gli immigrati meridionali che aprono ristoranti come “La taverna dei terroni”, o siti Internet come “Il terrone fuori sede”, realizzato da meridionali che fanno della propria identità una bandiera autoironica.

L’ex presidente Obama chiamato “nigga” (negro) con orgoglio.

O, ancora, o gli afroamericani che si proclamano orgogliosamente “nigga”, cioè nigger, negri. La linguista francese Dominique Lagorgette dell’Università della Savoia a Chambéry chiama queste espressioni “insulti di solidarietà”: sono usati in senso parodico, fanno il verso ai razzisti per rimarcare invece un forte senso di appartenenza. Quando le persone di colore si chiamano fra loro, affettuosamente «negro», si riappropriano della loro identità irridendo i tentativi esterni di emarginazione. Se ne fregano del disprezzo contenuto nell’insulto e lo usano verso se stessi per riaffermare la propria identità a dispetto dell’esclusione sociale.

Gli imperatori romani fra trionfi e sfottò

Il trionfo di Tiberio (8 a.C.) su un vaso d’argento.

Nella Roma antica, durante la cerimonia del trionfo (riservata ai condottieri che avevano conseguito un’importante vittoria), il generale o l’imperatore erano celebrati e al tempo stesso derisi, e lo stesso accadeva durante i funerali: si rimpiangeva e si prendeva in giro il defunto.
Durante i trionfi, in particolare, un corteo formato dalle massime autorità romane, dal generale vittorioso e dai suoi soldati sfilava dalla Porta Triumphalis al Campidoglio. Uno schiavo teneva alzata sulla testa del condottiero una corona d’alloro sussurrandogli: «Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo».

La processione trionfale sull’Arco di Tito (70 d.C.).

Nel frattempo, i legionari intonavano i “Carmina triumphalia”, versi decisamente irridenti: per esempio, dato che Giulio Cesare era un donnaiolo senza capelli, i legionari cantavano «Cittadini, state attenti alle mogli: vi portiamo l’amatore calvo. L’oro in Gallia te lo sei fottuto in donne, qui (a Roma) l’hai preso in prestito». E i soldati andavano giù pesanti: dato che – com’era d’uso fra i Romani (ne ho parlato in questo articolo) –  da ragazzo Cesare si concesse al re Nicomede IV di Bitinia, i legionari cantavano: «Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, mentre non trionfa Nicomede, che pur sottomise Cesare». Per gli antichi Romani, la passività sessuale era un’onta.
Com’è intuibile, questi insulti erano rivolti come ammonimento al trionfatore perché non s’insuperbisse della vittoria. Erano anche formule “apotropaiche”, scongiuri, atti a distogliere dal vincitore, al culmine del suo successo, l’invidia degli uomini e anche degli dèi.
«La lode e l’ingiuria di piazza sono due facce della stessa medaglia» spiega ancora il critico Bachtin. «Le lodi sono ironiche e ambivalenti. Sono al limite dell’ingiuria: le lodi sono gravide di ingiurie e non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra di esse, così come non è possibile dire dove comincino le une e finiscano le altre. La stessa cosa avviene anche con le ingiurie». Nelle lodi, infatti, la nostra ambivalenza affettiva può inserire anche una sfumatura d’odio, di invidia.

Il salto della catena all’università di Padova (museo Gaudeamus).

Una traccia di questo genere di antichi riti sopravvive ancora oggi nelle tradizioni goliardiche dell’Università di Padova. Fino a pochi anni fa l’ingresso al Cortil Nuovo dell’Università era delimitato da una grossa catena, che per antica tradizione studentesca rappresentava simbolicamente il confine del sacro tempio della cultura. Nessuno studente di Padova osava quindi saltare la catena prima di aver completato il proprio ciclo di studi. Solo il giorno della laurea l’universitario poteva togliersi, senza più alcun timore, la soddisfazione di fare il gran salto, tra i canti irriverenti e le pedate degli amici sul fondoschiena, passando così ritualmente a una nuova condizione: quella di “laureato”. Accompagnato dal ritornello: «Dottore, dottore, dottore del buso del cul va fa ’n cul, va fa ’n cul». Un monito per ricordargli che, anche da “dottore”, rimaneva una persona qualunque, esposta alle miserie della vita.

La lingua di piazza e il mondo in divenire

Pieter Bruegel “Lotta fra carnevale e la quaresima” (1559).

Ma il critico russo Bachtin, nel libro “L’opera di Rabelais e la cultura popolare”, ha ricostruito le origini di queste espressioni, chiamate “lodi ingiuriose”. Il capolavoro di Rabelais, “Gargantua e Pantagruele”, ne è pieno, come questo passo: “E Gargantua piangeva come una vacca, ma, di colpo, quando gli veniva in mente Pantagruele: «Oh, figliolino mio, – diceva, – coglioncino mio, petuzzo d’oro, come sei carino!».  Il figlio di Gargantua è chiamato contemporaneamente con diminutivi (“figliolino”, “carino”) e insulti ammorbiditi dai vezzeggiativi (“coglioncino”, “petuzzo”).
L’uso di queste formule, ricorda Bacthin, è figlio del linguaggio di piazza, quello usato durante le feste popolari, innanzitutto a Carnevale. Nella cultura ufficiale le lodi e le ingiurie sono separate, perché riflettono una gerarchia sociale immutabile «dove il superiore e l’inferiore non si mescolavano mai» osserva Bachtin. «Quanto più il linguaggio è familiare e meno ufficiale, tanto più frequentemente e sostanzialmente questi toni si fondono e tanto più debole diventa la barriera fra lode e ingiuria; esse cominciano a mescolarsi in una sola persona e in una sola cosa, le espressioni che racchiudono in sé l’auspicio di vita e di morte, di semina della terra e di rinascita».
Le feste di piazza, infatti, celebrano i momenti cruciali della natura: soprattutto la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, in un mondo in continua trasformazione: «Il linguaggio grottesco di piazza (soprattutto nel suo filone più antico) era orientato verso il mondo e verso ogni fenomeno del mondo in stato di metamorfosi continua, in stato di passaggio dalla notte al giorno, dall’inverno alla primavera, dal vecchio al nuovo, dalla morte alla nascita. E’ un fenomeno di eccezionale importanza per comprendere le grandi tappe dello sviluppo del pensiero umano del passato. Alla base di tale fenomeno si trova l’idea di un mondo in stato di eterna incompiutezza, che muore e nasce nello stesso tempo, L’immagine bitonale che riunisce le lodi e le ingiurie, cerca di cogliere l’istante stesso dell’alternanza, il passaggio dal vecchio al nuovo, dalla morte alla vita».

Un sentimento del genere, di unione degli opposti, è espresso in questo video comico che Maccio Capatonda ha pubblicato in occasione della festa di San Valentino: ritrae due innamorati che palesemente non si sopportano. Pronunciano frasi romantiche («Sei un’adorabile creatura», «Sei un uomo meraviglioso») ma con un tono aggressivo, irritato e squalificante, in un cortocircuito molto divertente.

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Perché “clown” è un insulto? https://www.parolacce.org/2013/03/07/perche-clown-e-un-insulto/ https://www.parolacce.org/2013/03/07/perche-clown-e-un-insulto/#comments Thu, 07 Mar 2013 11:28:27 +0000 https://www.parolacce.org/?p=1133 C’è un fatto che mi ha colpito alle ultime elezioni. L’aspirante premier della Germania, il socialdemocratico Peer Steinbrück (sarà lo sfidante di Angela Merkel) ha dichiarato alla “Bild” – il quotidiano popolare più venduto – di essere «inorridito dal fatto… Continue Reading

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Un clown di strada (foto Shutterstock).

C’è un fatto che mi ha colpito alle ultime elezioni. L’aspirante premier della Germania, il socialdemocratico Peer Steinbrück (sarà lo sfidante di Angela Merkel) ha dichiarato alla “Bild” – il quotidiano popolare più venduto – di essere «inorridito dal fatto che in Italia abbiano vinto due clown», ovvero Silvio Berlusconi e Beppe GrilloIl termine clown è impreciso in ambo i casi: Berlusconi è stato un intrattenitore (e ha mantenuto il senso del palcoscenico, il piglio da imbonitore-barzellettiere e il gusto della battuta), e Grillo è un comico di professione.
Ma non è questo il punto. Il fatto che mi ha colpito è un altro: perché “clown” è un insulto?
Indubbiamente, ci sono grandi differenze tra comico, intrattenitore, buffone, umorista, satirista, barzellettiere, istrione, saltimbanco, pagliaccio (buffone travestito con una veste simile a un sacco di paglia), clown (termine scandinavo che significa “buffo, rozzo, goffo)”…. Ma sono tutti accomunati da un effetto: fanno ridere. E far ridere è una delle arti più difficili e preziose. Proprio grazie a quest’arte, solo per citare due esempi contemporanei, l’Italia ha conquistato un Nobel (proprio con un giullare: Dario Fo) e un Oscar (con Roberto Benigni). E da 40 anni in alcuni ospedali i clown sono diventati un’integrazione alle cure: la clownterapia, fondata dal medico statunitense Hunter “patch” Adams. Ma allora perché chi possiede questo talento è oltraggiato, tanto da essere considerato “persona poco seria, che si comporta in modo ridicolo o sulla quale non si può fare affidamento“?

Un giullare medievale.

La risposta va cercata nella Storia. Ed è una risposta sorprendente. Innanzitutto perché i comici sono nati come figure sacre nell’antica Grecia. Durante i culti di Dioniso, feste contadine che celebravano la rinascita primaverile, c’erano demoni ballerini, i fliaci, che sfilavano con ventre e sedere imbottiti, indossando un fallo artificiale. Il riso serviva a scacciare gli influssi nefasti e ad alimentare la forza rigeneratrice della natura, in cui aveva un ruolo centrale il sesso: e infatti questi primi comici furono trasgressivi, nelle movenze e nel linguaggio. La commedia è nata qui, e poi si è trasferita a teatro, prendendo di mira i potenti, i costumi e la cultura del tempo.

Nel Medioevo, il comico si è diviso in due figure opposte: da un lato il buffone di corte, organico al Potere, che lavorava stabilmente per far divertire il Signore di turno. Spesso era nano o deforme, matto o demente: una valvola di sfogo per i potenti. Dall’altro lato, il giullare (termine che deriva dalla parola “gioco”): un artista di strada, capace di divertire con battutacce. Era una persona ai margini della società perché non apparteneva a nessuna delle classi del tempo (sacerdoti, guerrieri, contadini). E proprio per questo era libero di vestirsi e di dire ciò che voleva, attirando però le ire dei teologi: perché parlava di sesso senza tabù e perché il riso allontanava gli animi dalla ricerca di Dio. Ricordate “Il nome della rosa” di Umberto Eco? La storia ruota proprio intorno a un monaco benedettino che voleva nascondere un manoscritto, il libro della “Poetica” di Aristotele dedicato alla commedia. Un manoscritto pericoloso, perché avrebbe legittimato il riso.

L'articolo (con fotomontaggi) uscito sulla "Bild".

L’articolo (con fotomontaggi) uscito sulla “Bild”.

Eppure, già a quell’epoca c’era stato un religioso che era andato decisamente controcorrente: San Francesco d’Assisi, che si definì “giullare di Dio” proprio per rimarcare la sua follia, la sua volontà di rinunciare ai valori mondani per godere di una piena letizia.
Lo spirito dei giullari è sopravvissuto nel Carnevale, un momento liberatorio in cui cadono i divieti ma anche le barriere gerarchiche che separano le persone. Un risultato ottenuto grazie alle parolacce: un linguaggio libero, diretto e giocoso, che permette di cogliere le cose per quello che sono. Secondo il critico letterario russo Michail Bacthin, con le parolacce «Ogni cosa prende accenti diversi, familiari e liberi dalla paura. È la liberazione dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti.» Anzi: «Il riso è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità sul mondo, sulla storia, sull’uomo: è un punto di vista particolare e universale. Solo al riso è permesso di accedere a degli aspetti estremamente importanti della realtà».
Ma tutto questo è finito nel 1600, con la nascita delle monarchie assolute che hanno arginato lo spirito del Carnevale: perché il Potere per mantenersi ha bisogno dell’autoritarismo, dell’ufficialità, dei divieti. Il potere è serio: e, avverte Bachtin, c’è sempre, in questa serietà, un elemento di paura e di intimidazione. Il riso, invece, presuppone il superamento della paura, non impone divieti né restrizioni. Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso. Inoltre, il potere è statico, si basa sul principio della gerarchia immutabile ed eterna, dove il superiore e l’inferiore non si mescolano mai. Perciò nella cultura ufficiale le lodi e le ingiurie non si possono mai mescolare».
Ecco perché la politica ha tanto paura dei comici e vuole svilirli! Perché rischiano di sgretolare il Potere dalle fondamenta. Ma non è l’unico motivo.

La figura del comico è, secondo Carl Gustav Jung, un “archetipo”, ovvero una figura ricorrente e universale, presente nell’inconscio collettivo. E’ il folle, lo scemo del villaggio, il jolly, il trickster: un abile imbroglione, amorale, al di fuori delle regole, capace di salvarsi dalle situazioni più ingarbugliate grazie al suo misto di ingenuità e astuzia, di creatività e incoscienza. E’ un comico furbo, triviale, che con le sue trovate creative riesce a mettere in contatto l’umano col divino, rovesciando l’ordine costituito e creando un mondo differente. Come l’eroe della mitologia greca Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi e lo portò agli uomini. E questo aspetto fa ancora più paura al Potere…
Come saranno allora i nostri politici vecchi e nuovi? Buffoni o trickster? Jolly o malefici Joker, come l’avversario di Batman? Staremo a vedere. Nel frattempo fa riflettere un altro insospettabile estimatore dei clown: Joseph Ratiznger. Nel suo libro “Introduzione al cristianesimo” Ratzinger paragona il teologo di oggi al clown di un circo che si incendia, e viene mandato a chiamare aiuto in un villaggio vicino. La gente, dinanzi alle sue grida, ride fino alle lacrime pensando a un numero comico. Finché le fiamme arrivano al villaggio… Checché ne dica Steinbrück (e quelli come lui) il clown è una figura molto seria.

Non a caso, del resto, i più celebri clown tedeschi hanno contestato duramente Steinbrück per l’uso spregiativo del termine “pagliaccio”. Bernhard Paul, direttore del circo Roncalli di Colonia e pagliaccio per ben 36 anni, ha dichiarato all’agenzia DPA: «Un pagliaccio del circo non è uno stupido. È una professione onorevole, difficile, che richiede sensibilità e talento artistico». Paul ha duramente contestato l’utilizzo della professione del pagliaccio per «insultare i politici di dubbia credibilità» e ha annunciato una lettera indirizzata al leader tedesco per invitarlo ad avere più rispetto per chi cerca con intelligenza e onestà di strappare un sorriso alla gente. Anche Oleg Popov, famosissimo clown russo, in un’intervista rilasciata al quotidiano Tz di Monaco, ha affermato: «Un pagliaccio può essere chiamato tale soltanto quando può recitare in un teatro o in un circo e riesce a dare allegria alla gente. Se non lo fa, io piuttosto lo chiamerei cialtrone».

Ho parlato di questo post su Radio Monte Carlo nel programma “Teo in tempo reale” con Teo Teocoli, Monica Sala e Max Venegoni il 12 marzo. Per ascoltare il podcast cliccate qui.

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Politici, non rubateci le parolacce! https://www.parolacce.org/2008/03/13/politici-non-rubateci-le-parolacce/ https://www.parolacce.org/2008/03/13/politici-non-rubateci-le-parolacce/#respond Thu, 13 Mar 2008 14:43:00 +0000 http://www.parolacce.org/?p=43 «Sono vecchio, ma non rincoglionito». Silvio Berlusconi, 2 marzo 2008 «Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”». Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008 «Siamo incazzati». Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto) In effetti, sono… Continue Reading

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original«Sono vecchio, ma non rincoglionito».
Silvio Berlusconi, 2 marzo 2008

«Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”».
Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008

«Siamo incazzati».
Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto)

In effetti, sono incazzato anch’io. Non per i toni volgari di questa campagna elettorale: quando scrivevo “Parolacce”  ne ho lette a migliaia, di tutte le epoche e in tutte le lingue. Ci ho fatto l’abitudine… E che la politica scateni violente passioni è un fatto naturale, come ho già scritto in questo stesso blog.
Altrettanto assodato (lo hanno dimostrato molti studi scientifici) che, quando un leader usa il turpiloquio, accorcia le distanze con il suo uditorio ma al tempo stesso perde carisma, credibilità e autorevolezza: se i nostri politici vogliono correre questi rischi, fatti loro. Diciamo che ognuno ha il proprio “stile”…

 

Campagna antidroga di Forza Nuova (2008).

Campagna antidroga di Forza Nuova (2008).

Il problema è un altro: quando ascolto un candidato che dice volgarità, mi sento defraudato. E c’è un motivo oggettivo: le parolacce sono, da sempre, il linguaggio del popolo (non a caso, “volgare” significa “popolare”). E un linguaggio anarchico, senza padroni, intrinsecamente contro il potere costituito.
L’ha scoperto, il secolo scorso, un grande critico letterario russo, Michail Bachtin studiando la comicità nelle opere dello scrittore rinascimentale François Rabelais.
Le parolacce, diceva Bachtin, sono il linguaggio della piazza: fa cadere le barriere di potere e di classe, liberandoci “dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti”. Le parolacce, se usate per ridere, ci aiutano a superare la paura di vivere, non impongono divieti o restrizioni, corrodono i soprusi e la sopraffazione del potere. Non a caso, diceva Bachtin, “il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso”.

Manifesto della Lega padana (anno 2004)

Manifesto della Lega padana (anno 2004)

Ma allora perché i politici di oggi lo usano? Per biechi motivi di marketing elettorale: i politici, usando le parolacce, ci strizzano l’occhio, per farci credere che sono vicini a noi, che parlano come noi, che sono come noi… Ma non è vero: loro, a differenza di noi, hanno grandi poteri, ampi privilegi e gravose responsabilità. Compresi gli esponenti dei partiti che si definiscono “popolari” come la Lega Nord, forse il primo partito ad aver sdoganato le parolacce nei comizi e non solo.
Un conto è un politico che insulta l’avversario (uso legittimo, col beneplacito della Cassazione); tutt’altro conto è un politico che dica volgarità ai suoi elettori per conquistarli: è un mistificatore!

Quindi, i politici (nessuno escluso: siano di destra, di sinistra o di centro) facciano il sacrosanto piacere di non rubarci anche le parolacce, dopo averci sottratto la stabilità, l’avvenire e in diversi casi anche i soldi… Che lascino le parolacce al popolo e ai comici! Il che è anche un avvertimento a Beppe Grillo: se, un domani, decidesse di avventurarsi in politica, non sarebbe più legittimato a fare “Vaffa-day”… Quantomeno, dovrebbe chiamarli in un altro modo.

Beppe Grillo in azione.

Beppe Grillo in azione.

P.S.: A proposito di politica, se volete ripensarla in modo serio, interessante e divertente, non perdete il prossimo numero di Focus Extra, in edicola dal 5 aprile: scoprirete quanto può essere appassionante e utile la “vera” politica. Cazzarola.

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