barzellette | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 27 Oct 2023 21:15:59 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png barzellette | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Quali sono le parolacce più comiche? Facciamo un sondaggio! https://www.parolacce.org/2017/08/11/volgarita-ridicole/ https://www.parolacce.org/2017/08/11/volgarita-ridicole/#comments Fri, 11 Aug 2017 15:13:30 +0000 https://www.parolacce.org/?p=12676 Quali sono le parolacce che fanno più ridere? Mi è venuta questa curiosità leggendo un’originale ricerca scientifica appena pubblicata dall’Università di Warwick. Due ricercatori britannici hanno fatto un sondaggio chiedendo a centinaia di persone quali fossero le parole più ridicole… Continue Reading

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Scritta sul muro dissacrante: fa ridere per il contrasto fra la prima parte, romantica, e il finale sboccato (in homepage, foto Shutterstock)

Quali sono le parolacce che fanno più ridere? Mi è venuta questa curiosità leggendo un’originale ricerca scientifica appena pubblicata dall’Università di Warwick. Due ricercatori britannici hanno fatto un sondaggio chiedendo a centinaia di persone quali fossero le parole più ridicole della lingua inglese. E tra le 12 parole giudicate più divertenti in assoluto, metà erano parolacce.
Dunque, oltre a offendere, le parolacce fanno ridere? Certo: basta pensare ai tanti comici (Zalone, Verdone, Benigni, Guzzanti) o ai giornali e ai libri satirici che le usano nelle loro battute.
Ma le parole volgari sono comiche in sè, da sole, o lo diventano solo quando sono inserite in una storia divertente? In altri termini: le parolacce sono un ingrediente essenziale della comicità o solo un condimento speziato? E’ la storia che rende divertenti le parolacce, o le parolacce che rendono divertente una storia?

In questo post approfondiamo il legame (molto intimo!) fra turpiloquio e comicità. E scopriremo quali sono le volgarità più ridicole in italiano: in questa pagina trovate il  link al primo sondaggio (anonimo , breve e divertente) in cui potete votare la parolaccia più comica in italiano.
Appena raggiungeremo abbastanza risposte pubblicherò la classifica.

Alcune scoperte

Copertina di “Cuore”, settimanale satirico.

Nel frattempo, vediamo cosa ha scoperto la ricerca inglese, pubblicata sulla rivista “Behaviour research methods”. Gli autori, due psicologi (Tomas Engelthaler e Thomas T. Hills), volevano valutare il grado di comicità di 5mila (4.997) parole inglesi. La lista da cui partivano erano parole che, in ricerche passate, erano risultate emotivamente cariche (ovvero giudicate piacevoli/spiacevoli, forti/deboli, attive/passive).
Ogni parola, infatti, può avere una colorazione emotiva (la “connotazione”): per esempio, “deserto” evoca anche solitudine, isolamento, desolazione, aridità.
Le parolacce sono le parole più ricche di questi colori, essendo il linguaggio con cui esprimiamo le emozioni: come raccontavo
qui, le volgarità hanno una connotazione negativa, cattiva, brutta, spiacevole, forte, grande, pesante, attiva, rapida. Sono parole offensive.
Ma torniamo alla ricerca inglese. I due ricercatori hanno sottoposto via Internet questa lista a 821 persone fra i 18 e i 78 anni (età media 35), con una leggera prevalenza femminile (58%). Ognuno di loro doveva giudicare, in una scala da 1 a 5, quanto fossero comiche un gruppo di parole (200) estratte a caso dall’elenco.

La stragrande maggioranza delle parole (circa 4.500, il 90%) sono state giudicate poco comiche, ovvero con punteggi da 1 a 3). Dal restante 10% è emersa la lista delle 12 parole risultate più comiche (in ordine decrescente):

  • booty (bottino)
  • tit (tetta)
  • booby (tonto)

  • hooter (tromba nel senso di nasone)
  • nitwit (imbecille)
  • twit (citrullo)

  • waddle (andatura a papera)
  • tinkle (tintinnio)
  • bebop (stile jazz)
  • egghead (cervellone, lett. testa d’uovo)
  • ass (culo, testa di cazzo)
  • twerp (babbeo)

Quelle evidenziate in marrone sono parolacce: sono 6, la metà. Dunque, fra le parole più ridicole, una su due sono parolacce. Il risultato è notevole, visto che i ricercatori non stavano facendo un’indagine sulle volgarità.
Altro risultato interessante della ricerca, le differenze sessuali. Ovvero, le parole che gli uomini e le donne giudicano più divertenti. E’ emerso che gli uomini trovano ridicole diverse parole a sfondo erotico (come orgy, orgia, e bondage, schiavitù sessuale: ma nessuna delle due è una parolaccia), mentre le donne no, ma in compenso trovano ridicola un’altra parolaccia,  sod (stronzo).
Ci sono ovviamente anche differenze di gusto a seconda dell’età (cioè parole che divertono i giovani e non gli adulti, e viceversa), ma qui non ne parlo perché non c’erano parolacce.

Perché fanno ridere

Anche in questa scritta è comico il cambio di registro, da formale a volgare e dialettale.

Come spiegare la massiccia presenza di parolacce nella Top 12 delle parole più ridicole? I ricercatori (peccato!) non hanno formulato ipotesi al riguardo. Ma una loro osservazione è preziosa: il fattore che rende una parola più comica di un’altra, al di là dei gusti delle singole persone, è la sua rarità. Meno una parola è usata, più è probabile che faccia ridere.
E quali sono (almeno in teoria) le parole meno frequenti? Le parolacce, che per definizione sono “parole da non dire”.
Infatti, nonostante i tanti allarmi (“se ne dicono tante, troppe!”) restano comunque parole poco utilizzate, tant’è vero che rappresentano, come raccontavo
qui, solo lo 0,08% delle parole che pronunciamo.
Ma non è l’unico elemento che rende le parolacce potenzialmente comiche. Per capire meglio, dobbiamo ricordare q
uali sono i meccanismi che fanno scattare la comicità. Richard Wiseman, un altro ricercatore inglese, ha identificato 3 fattori che ci fanno ridere, nella più grande ricerca sul tema (40mila barzellette votate da oltre 2 milioni di persone), il LaughLab, laboratorio della risata). Una battuta ci fa ridere se:

  1. ci fa sentire superiori agli altri. Le battute sono un modo per compensare le nostre insicurezze, o solleticare il nostro narcisismo, facendoci sentire una spanna sopra gli altri. In questa categoria rientrano tutte le battute che prendono di mira gruppi di persone: carabinieri, meridionali, ebrei, bionde…. Esempio: Perché la carta igienica che usano i carabinieri è lunga il doppio? Perché sulla prima parte ci sono scritte le istruzioni!
  2. esprime contenuti vietati, tabù, spinosi: aggressività, razzismo, sesso, discriminazioni, morte… Sotto le sembianze di uno scherzo, le battute sono una valvola di sfogo per esprimere i nostri istinti, cosa di solito proibita dalle leggi o dal “politicamente corretto”. E’ un momento di trasgressione, di sincerità e di libertà. Esempio. A letto. Lui a lei: “Cara, sono stato il tuo primo uomo?”. “Certo, caro, ma perché me lo chiedete sempre tutti?”.
  3. ci sorprende: una battuta fa ridere perché ha un finale inaspettato, che va contro le nostre aspettative, anche grazie ai doppi sensi. Esempio: “Dottore, ho i denti gialli. Cosa posso mettere?”. “Una bella cravatta marrone”.

Locandina del “Vernacoliere”, settimanale satirico.

Se guardiamo bene, le parolacce hanno tutte e 3 queste caratteristiche.
Gli insulti, dai più bonari ai più feroci, sono giudizi con cui esprimiamo il nostro senso di superiorità, etichettando gli altri come anormali e inferiori (rincoglionito, terrone, stronzo…).
Tutte le parolacce sono vietate, perché sono per definizione parole tabù: non si possono dire a tutti e in ogni circostanza. Infatti, dire parolacce è un momento di sincerità, sfogo, trasgressione, come hanno accertato anche altre ricerche (che raccontavo qui).
Tutte le parolacce sorprendono, visto che sono un’eccezione e non la regola quando si parla. Soprattutto se vengono dette quando meno te l’aspetti: in un contesto formale, o all’interno di un discorso raffinato.

Dunque, le parolacce hanno tutti i numeri per essere comiche. Ma lo sono in quanto tali o solo quando sono usate in una storia ridicola? Sono vere entrambe le affermazioni: ci sono parolacce comiche in quanto tali, perché insolite, perché esprimono contenuti molto trasgressivi, o perché hanno un suono divertente. Ma potenzialmente tutte le parolacce possono diventare ridicole se inserite in un contesto divertente. In ogni caso, però, non sono essenziali alla comicità: un battuta piena di parolacce ma priva di gusto non fa ridere. E si può far ridere anche senza dire nemmeno una volgarità.

E in italiano quali sono le parolacce più ridicole? Lo scopriremo se anche tu partecipi a questo ⇒ sondaggio, il primo del genere in Italia: chi non lo fa è un babbione! Anche perché non vi capiterà più un altro sondaggio così trasgressivo e divertente! Fate girare la voce… 😉

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Etimologia del cazzo https://www.parolacce.org/2016/04/26/origine-parola-cazzo/ https://www.parolacce.org/2016/04/26/origine-parola-cazzo/#comments Tue, 26 Apr 2016 15:03:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9925   E’ la parolaccia che diciamo più spesso. Ha così tanti significati, derivati e varianti, che può esprimere qualsiasi cosa: non solo il sesso ma anche il nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato),… Continue Reading

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pene

Pene volante in un manoscritto del 1340 il “Decretum Gratiani”, testo di diritto canonico commentato da Bartolomeo da Brescia

E’ la parolaccia che diciamo più spesso. Ha così tanti significati, derivati e varianti, che può esprimere qualsiasi cosa: non solo il sesso ma anche il nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Ed è anche un rafforzativo privo di significato, ma efficace per esprimere la propria rabbia e indignazione: “Che cazzo vuoi?”.
Ecco perché uno dei narratori più importanti del Novecento, Italo Calvino, aveva elogiato la sua “espressività impareggiabile“, che fa impallidire i suoi sinonimi nelle altre lingue europee: tanto che arrivò a suggerire di “farne un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra”.
(NB: Se volete approfondire tutti i modi di dire… del cazzo, trovate un approfondimento in quest’altro articolo).
Eppure, nonostante tutta questa popolarità la parola “cazzo” è un mistero, almeno per quanto riguarda la sua etimologia: da dove arriva? Schiere di linguisti hanno lanciato ipotesi più o meno plausibili: il problema è che, essendo stato per secoli un termine colloquiale e tabù, le sue tracce nella letteratura scritta sono molto scarse. In questo post cercherò di fare un po’ di chiarezza.

Bible_Museum_-_Bordellzeichen

“Qui abita la felicità”: iscrizione scaramantica in un panificio di Pompei.

Parto da una fonte autorevole: il Deli (Dizionario etimologico della lingua italiana) della Zanichelli, curato da Manlio e Michele Cortelazzo (e la rima è in tema). Il dizionario considera “più persuasiva” l’ipotesi del linguista triestino Franco Crevatin, secondo il quale la parola deriva da “oco“, maschio dell’oca, con l’aggiunta del suffisso -azzo. Insomma, deriva da ocazzo, con caduta della “o” iniziale: l’ipotesi è confermata dal fatto che, in alcuni dialetti, oco e oca significano “membro virile”. Un’ipotesi plausibile, non solo per la forma lessicale ma anche per il contenuto: come raccontavo  in questo post, infatti, molte metafore paragonano gli organi sessuali ad animali (uccello, sorca…).
Ma l’ipotesi non regge, osserva il linguista Ottavio Lurati: questo uso, infatti, appare in Lombardia diverso tempo dopo le prime citazioni letterarie  del termine cazzo, attestate per lo più in Italia centrale.

Qual è, allora, il documento in cui appare per la prima volta il termine “cazzo”? E’ un sonetto comico scritto da Rustico Filippi (1235-1295), poeta realista fiorentino.  Ecco il brano, dedicato probabilmente a Fastello dei Tosinghi, podestà guelfo di San Gimignano nel 1259:
Fastel, messer fastidio de le cazza,
dibassa [denigra] i ghebellini a dismisura,
e tutto il giorno arringa in su la piazza
e dice ch’e’ gli tiene ’n aventura [li giudica in pericolo].
Dunque, Fastello è chiamato “fastidio de le cazza”: ovvero, fastidio del cazzo. Oggi diremmo: rompicazzo. Da notare che qui “cazza” è al plurale: come molte parole latine neutre, che al plurale terminavano in -a. Dunque, la parola cazzo era usata a Firenze già nel Medioevo, nel 1200. Ma con quale significato? Per il linguista Angelico Prati  deriva dal tardo latino “cattia” (tazza) nel significato di mestola. Dunque, l’assonanza fra la parola cazzo e cazzeruolacasseruola, cazzuola deriva dalla loro comune parentela etimologica come attrezzi da cucina .

Albero dei peni nel "Roman de la rose", manoscritto francese del 1300.

Albero dei peni nel “Roman de la rose”, manoscritto francese (1300).

Ma questa interpretazione ha un problema, nota il linguista Antonio Lupis: e cioè che cattia e cazza significano tazza, contenitore, e non “manico“, come sarebbe logico supporre per evocare la forma fallica: tanto che nel sonetto di Filippi cazza è in realtà un sinonimo di scodelle, contenitori, “scatole”. Quindi, a rigore, “fastidio de le cazza” è un sinonimo di “rompicoglioni“.
In più, aggiunge Lupis, il femminile cazza è presente solo in un altro documento, il “Pataffio”, un componimento anonimo del 1521: “pur di cazza [mestola]  ‘l catino [vaso] imbratterò / ed il battaglio per lo corpo diemmi”. Ma, osserva Lupis, è una forma del 1521 “e occorrono forme antiche per giustificare l’equazione cazza=cazzo”.

In realtà, aggiunge Lupis, esistono molte più prove dell’uso del termine cazzo al maschile come “membro virile”:
1) in un documento del 1266 trovato ad Arco (Trento) in cui il termine è usato come soprannome;
2) in un documento fiorentino del 1295 che parla di “Neri caççuto” (cazzuto);
3) in un testo di Meo dei Tolomei del 1310: “tu porti ‘l gonfalon degli sciaurati/ figliuol di quella c’ha il cul sì rodente / che tuti i cazzi del mondo ha stancati“;
4) in un testo del 1360 di Dolcibene de’ Tori, buffone fiorentino: “I’ ho il cazzo mio, ch’è tanto vano, / che dorme in su’ coglioni e non si desta, / ed è cinqu’anni o più che non fu sano“;
5) nel glossario latino-eugubino della metà del 1300: “mentula, id est lo caçço“: documento notevole, perché equipara caçço (cazzo) a mentula, termine latino da cui deriva il termine minchia.

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Zucchina fallica trafigge un fico(a): decorazione a Villa Farnesina (Raffaello e Giovanni da Udine, 1516).

Dunque, conclude Lupis, il termine cazzo non deriva da cazza (= mestolo) perché cazzo è un termine originale dell’area umbro-toscana fin dal 1300. Da dove arriva, allora? Dal verbo captiare, cacciare, nel senso di “infilare, mettere dentro con forza”: cazzo, quindi, è “la cosa che si infila, si mette dentro“. Tanto che anche il verbo marinaresco cazzare (= tirare a sè una fune) ne condivide l’etimo, come anche la parola cazzotto, pugno forte, “cacciare via con forza”.
Stanno davvero così le cose? In mancanza di nuovi documenti, finora mi pare l’ipotesi più convincente.
In ogni caso, già dal 1400 il termine cazzo era diventato di uso comune: tanto che Leonardo da Vinci lo usò in una raccolta di facezie (oggi diremmo barzellette). In una racconta di un tale, Tommaso, che, arrivato a Modena, dovette pagare cinque soldi di gabella alle porte della città. Egli iniziò a protestare, e quando gli fu chiesta la ragione rispose: “O non mi debbo io maravigliare con ciò sia che tutto un omo paghi altro che cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare dieci ducati d’ oro, e qui metto el cazzo, e coglioni, e tutto il resto per sì piccol dazio? Dio salvi e mantenga tal città e chi la governa!”.
Oppure Nicolò Machiavelli, che in una lettera del 1514 a Francesco Vettori scrisse “Qui non ci sono femmine; che casa di cazzo è questa?”.
Per arrivare al massimo esponente della poesia licenziosa, Pietro Aretino, che nei “Sonetti lussuriosi” (1526) declamava:
Fottiamci, anima mia, fottiamci presto
perché tutti per fotter nati siamo;
e se tu il cazzo adori, io la potta amo,
e saria il mondo un cazzo senza questo”.

I sinonimi di “cazzo” nelle diverse lingue europee (https://ukdataexplorer.com/european-translator/).

Insomma, al di là delle sue oscure origini, già 500 anni fa l’uso della parola era assimilabile a quello di oggi. E proprio in quegli stessi anni emerse anche un uso “personificato” del termine: nel 1525, infatti, l’intellettuale umanista Antonio Vignali scrisse un’opera satirica, “La cazzaria“, nel quale i politici senesi del tempo erano rappresentati da “cazzoni, cazzi, culi e potte”. Un racconto grottesco, che si conclude con una fallocrazia “temperata” dalla rappresentatività delle altre tre fazioni (Cazzi, Potte, Culi) con l’esclusione dei testicoli: plebe manovrabile dalla demagogia e incline all’anarchia…
Quattro secoli dopo, Alberto Moravia usò un’idea simile in “Io e lui“, un romanzo nel quale il protagonista dialoga col proprio sesso. A riprova che non c’è nulla di più moderno dell’antico. O che il potere immaginifico del sesso non tramonta mai.

 

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