cancro | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Sun, 05 Apr 2020 09:35:14 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png cancro | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 “Che ti venga il coronavirus!”: quando l’offesa è una malattia https://www.parolacce.org/2020/04/02/maledizioni-patologie/ https://www.parolacce.org/2020/04/02/maledizioni-patologie/#respond Thu, 02 Apr 2020 18:06:18 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17001 “Ti deve venire il coronavirus!”: il primo a ricevere la nuova offesa è stato, a marzo, Juan Jesus, calciatore brasiliano della Roma. Segno dei tempi: la frase gli è arrivata su Instagram da un ragazzino di 15 anni. E mostra… Continue Reading

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Che ti venga il coronavirus! La maledizione dei nostri tempi.

“Ti deve venire il coronavirus!”: il primo a ricevere la nuova offesa è stato, a marzo, Juan Jesus, calciatore brasiliano della Roma. Segno dei tempi: la frase gli è arrivata su Instagram da un ragazzino di 15 anni. E mostra che la pandemia è entrata non solo nelle nostre vite quotidiane, ma anche nei modi di dire, dando origine a una nuova espressione offensiva.
Entrerà nei vocabolari? Presto per dirlo, come spiegherò più sotto. In ogni caso, non sarebbe l’unica offesa a sfondo patologico. Le offese, infatti, si possono esprimere non solo usando termini legati ai tabù del sesso, degli escrementi o della religione, ma anche evocando le malattie. Perché hanno una grande forza immaginifica: ci fanno immedesimare in una situazione dolorosa.
Quali sono le espressioni che fanno leva sulla paura delle malattie? Sono molte e hanno una lunga storia: risalgono a un’epoca molto antica, quando si credeva nell’efficacia della magia e dei malefici. Queste offese, infatti, si chiamano “maledizioni” e sono molto usate nei nostri dialetti e  in alcune lingue straniere come il polacco, lo yiddish (giudeo-tedesco) e soprattutto l’olandese, parlato nei Paesi Bassi e in Belgio. Qui l’espressione “corona” (usato come esclamazione o malaugurio) è già abbastanza popolare.

PAROLACCE OLANDESI, DAL CANCRO AL VAIOLO

Meme olandese: anche tu puoi beccarti il cancro

In olandese c’è un ricco catalogo di espressioni volgari, che sembrano uscite da un trattato di medicina. E l’intensità, l’offensività degli insulti è proporzionale alla gravità della patologia evocata. Ecco l’elenco dei principali modi di dire:

♦ CANCRO (KANKER): è usato come esclamazione di rabbia o sorpresa, (tipo “cazzo!”), ma è usato anche come cattivo augurio (“Krjg de kanker”, prendi il cancro). L’espressione “kankeren” significa “lamentarsi troppo”. “Kankerlijer”, malato di cancro, è un insulto pesante, tipo “figlio di puttana”.
A volte è usato come rafforzativo in senso positivo (“kankerlekker” equivale a “cazzutamente delizioso”)

♦ COLERA (KLERE/KOLERE): ha un uso simile a kanker. Anche in questo caso, klerelijer (malato di colera) è un’offesa pesante.

♦ ICTUS (TAKKE): usato come aggettivo squalificante. “Krijg de takke” (beccati un ictus) è un’offesa

♦ LEBBRA (LAZZARO): è usato come termine gergale per “ubriacarsi di brutto”.

♦ PESTE (PESTE): usato come rafforzativo. “Pesten”o “pestkop” (testa di peste) significa “bullo, prepotente”; “de pest in hebben” (avere la peste in) significa essere incazzati.

♦ PLEURITE (PLEURIS): è un equivalente di tubercolosi. Si usa nell’espressione “krjg de pleuris” (beccati la tubercolosi) e “alles ging naar de pleuris” (è andato tutto a puttane). “Pleurislijer” (malato di tubercolosi) è un insulto equivalente a stronzo.

♦ POLIOMIELITE (POLIO): è usato nell’espressione “heb je soms polio?” (hai la polio?) per insultare una persone eccessivamente pigra.

♦ TIFO (TYFUS): usato come esclamazione o come offesa (“tyfuslijer”, malato di tifo). Ma anche come malaugurio: krijg de tyfus (beccati il tifo) e persino “optiefen” (vai via col tifo, ovvero vaffanculo).

♦ TUBERCOLOSI (TERING): è usato come imprecazione o come aggettivo insultante ( “teringlijer”, malato di tubercolosi). “Krijg de tering” (beccati la tubercolosi) è un’offesa comune.

♦ VAIOLO (POKKEN): usato come rafforzativo. “Pokkenlijer” (malato di vaiolo) è un insulto tipo “figlio di puttana”.

Un meme olandese: cosa penso (sensazioni confuse) e cosa dico (cancro!)

Negli ultimi tempi, a questo elenco si è aggiunto (era inevitabile) anche il coronavirus (corona), usato nello stesso modo di cancro, colera, tubercolosi e tifo, cioè come insulto, esclamazione o malaugurio.

Da dove salta fuori questa ossessione degli olandesi per le malattie? E’ il ricordo di passate epidemie che hanno funestato i fiamminghi? No: è una sensibilità culturale di tipo religioso. Una ricerca di Tom Ruette, lessicologo dell’università di Lovanio (Belgio)  ricollega questo uso al calvinismo: secondo questa fede (il ceppo puritano del protestantesimo, diffuso nei Paesi Bassi dal 16° secolo), la malattia è considerata un segno di dannazione divina,una punizione da parte di Dio per una condotta immorale o antireligiosa. Così come la virtù viene ripagata su questa Terra con prosperità e salute. Dunque, una visione profondamente religiosa, che interpreta gli eventi negativi come voluti da Dio per dare un’avvertenza o un castigo a chi si comporta male. Anche gli ebrei dell’Antico Testamento la pensavano così: la malattia era vista come una punizione divina. Una posizione che mette la religione in un vicolo cieco, perché fa apparire Dio come un essere vendicativo e meschino: tant’è vero che per giustificare l’esistenza delle malattie si è dovuto o incolpare il diavolo o descriverle come occasione per redimere la propria anima attraverso la sofferenza del corpo.

Gli insulti patologici in italiano

Striscione da stadio rivolto ai tifosi del Napoli.

Nella nostra lingua, a differenza dell’olandese, restano poche tracce di insulti a sfondo sanitario. Ne ho trovati solo 5, a cui ne ho aggiunto uno in siciliano:

♦ TIFOSO: questo aggettivo designa gli appassionati di uno sport o di una squadra. Ma in origine si riferiva ai malati di tifo, che hanno la coscienza offuscata a causa della febbre alta

♦ ROGNOSO: l’aggettivo indica una persona ingrata, difficile, fastidiosa, pedante. Ma deriva da “rogna”, termine popolare per la scabbia, una malattia della pelle che causa prurito e infiammazione

♦ MICROBO: il termine indica una persona meschina, abietta o insignificante (anche se non tutti i microbi sono patogeni). Peraltro, la pandemia ci ha dimostrato l’opposto: un microbo può mettere in ginocchio intere nazioni. 

♦ COLEROSO: di per sè indica un malato di colera. Ma si è trasformato in un insulto (soprattutto negli stadi) da quando un focolaio di questa malattia si è presentato in Campania, Puglia  e Sardegna nel 1973. I tifosi delle squadre settentrionali usano questo appellativo per denigrare i tifosi del sud, imputando loro (a torto) scarsa igiene e civiltà.

Birra prodotta in Sicilia: “camurria”.

♦ PESTE/PESTIFERO: il termine è usato (per lo più in modo scherzoso, come iperbole) per indicare un bambino capriccioso, con un carattere difficile da gestire)

♦ CAMURRIA/CAMURRIUSU: sono termini siciliani, resi celebri dai romanzi di Andrea Camilleri. Camurria deriva da gonorrea, e significa “pesante seccatura, fastidio”; il termine è usato nelle imprecazioni (che camurrìa!). “Camurriusu” è una persona o una situazione seccante e fastidiosa.

Le maledizioni: un incantesimo negativo

Quando la scienza ha fatto crollare la fede nella magia, le maledizioni sono un modo immaginifico di sfogare la propria rabbia verso qualcuno, augurandogli ogni male. E in qualche modo hanno mantenuto il loro potere “magico”: perché riescono a trasmettere l’odio di chi le pronuncia, e a far provare un dispiacere a chi le riceve. Non è gradevole, infatti, immaginare di soffrire: che, da un certo punto di vista, è peggio rispetto a morire, dato che la morte libera dalle sofferenze. Ecco perché le maledizioni stimolano la fantasia nei modi più concreti e crudeli, come vedremo.
Va ricordato, però, che queste espressioni hanno effetto nella misura in cui chi le riceve dà loro peso. Se i placebo sono sostanze inerti che hanno efficacia terapeutica se chi le assume crede nel loro potere, le maledizioni sfruttano l’effetto-nocebo: la credenza che qualcosa (una frase negativa) abbia davvero effetto.

[ per approfondire, apri la finestra cliccando sulla striscia blu qui sotto ] 

LE ORIGINI: FORMULE MAGICHE E INCANTESIMI
 

In realtà, augurare le malattie non è un’esclusiva olandese. E neppure un atto religioso. Anzi, ha un’origine ben più antica, ed è radicata nella mentalità magica, secondo cui immaginare una situazione (in questo caso, una sventura che si abbatte su una persona) significa evocarla, farla avverare concretamente grazie al potere magico della parola. La maledizione, insomma, era un incantesimo: seguiva un preciso rituale che comprendeva gesti e formule magiche.
Come racconto nel mio libro, già gli antichi Greci (e gli Ebrei) usavano formule di maledizione: prendevano un’unghia o un capello del nemico, pronunciavano su di esso una formula di maledizione e poi lo bruciavano o lo gettavano in un pozzo o in un fiume, con una tavoletta su cui era incisa la maledizione. Nella formula erano citati, con un crescendo meticoloso, tutti gli organi del nemico fino alla sua anima.
L’esempio massimo, la “madre di tutte le maledizioni” è l’anatema, una formula inventata dal vescovo inglese di Rochester, Ernulhpus (1040-1124) contro gli eretici e i peccatori che venivano scomunicati: contro di loro, inventò una maledizione che non risparmiava alcuna parte del corpo, ciglia comprese: «Per l’autorità di Dio Onnipotente (…) sia egli maledetto nel mangiare e nel bere, nella fame e nella sete, nel digiuno, nel sonno, nella veglia, camminando, stando, sedendo, giacendo, lavorando, riposando, mingendo, cacando. Sia egli maledetto in tutte le facoltà del suo corpo. (…) Sia maledetto nei capelli della testa. Sia maledetto nel cervello, nel cocuzzolo, nella tempia, nella fronte, nelle orecchie, nelle ciglia, nelle guance, nelle mascelle, nelle narici, nei denti incisivi e molari, nelle labbra, nella gola, nelle spalle, nei polsi, nelle braccia, nelle mani, nelle dita. Sia maledetto nella bocca, nel petto, nel cuore e nei visceri e più giù sino allo stomaco. Sia maledetto nelle reni e nell’inguine, nelle cosce, nelle ginocchia, nelle gambe, nei piedi e nelle unghie dei piedi. Sia maledetto in tutte le giunture e articolazioni delle sue membra, dalla cima della testa alla pianta dei piedi; non vi sia salute in alcuna sua parte». 

IN ITALIANO

Film di Mario Mattoli del 1951.

La nostra lingua non è molto ricca di maledizioni a sfondo sanitario. Ecco quelle che ho rintracciato:

♦ ACCIDENTI: il termine designa un evento fortuito imprevisto. Ma questa espressione è la contrazione di “che ti venga un accidente” ovvero una malattia grave e improvvisa.  

♦ MANNAGGIA: mal n’aggia, che tu abbia male. E’ un malaugurio generico, che può riguardare malattie ma anche altri generi di eventi.

♦ CHE TI VENGA UN CANCRO: è una delle espressioni che nel volgarometro, un sondaggio fra i navigatori di questo blog, è risultata fra le più offensive in italiano. Fra le varianti: che ti venga un colpo/un infarto. Su questa espressione si è pronunciata la Cassazione nel 2008, con una sentenza di assoluzione che trovo esemplare per la sua lucidità:  «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale». Questa considerazione, ovviamente, vale per tutte le espressioni che cito in questo articolo.
Il discorso però cambia se la malattia che si desidera è legata a un’azione dell’imputato (“Ti faccio venire un infarto”): in tal caso si è in presenza del reato di minaccia, ha stabilito un’altra sentenza della Cassazione.

♦ CHE TI VENGA LO SCOLO: espressione in disuso. Lo scolo è un termine popolare per indicare la gonorrea, una malattia sessuale.

Schermata di Instagram di Juan Jesus: l’offesa è evidenziata con un cerchio, con la risposta del calciatore.

♦ CHE TI VENGA/BECCATI IL CORONAVIRUS: Cosa vuol dire esattamente questa espressione? In questo momento storico, il Covid-19 è ancora un nemico oscuro: non sappiamo bene come si diffonde, quanto tempo resti attivo al di fuori da un organismo, se una volta contagiati e guariti si resti immuni per sempre…. E soprattutto non abbiamo ancora strumenti efficaci per diagnosticarlo in modo rapido ed economico, né un vaccino o farmaci antivirali per curarci. Non sapendo quanti siano davvero i contagiati, non abbiamo certezze neppure sul suo reale tasso di mortalità. E’ comunque ben al di sotto dei valori di altri agenti infettivi tipo Ebola: di fatto, risulta rischioso, soprattutto per gli anziani, per i maschi e per chi è immunodepresso o soffre di altre patologie. E il suo impatto mortale è acuito dal fatto che i servizi di rianimazione sono troppo congestionati per garantire a tutti le cure necessarie.
Dunque, augurare a qualcuno il coronavirus non equivale direttamente a prospettargli la morte. Ma innesca una situazione ancora peggiore: l’angoscia verso un pericolo indeterminato e sfuggente. Non sapere a quale destino si andrà incontro. Ecco perché Juan Jesus si è offeso per la frase, dicendo che chi l’ha scritta aveva “mezzo cervello”.

NEI DIALETTI

I dialetti hanno radici più antiche rispetto all’italiano. E così sono molto più ricchi di fantasiose e crudeli maledizioni. E in questo campo, il primato va al sardo e al napoletano: probabilmente in Sardegna e in Campania è ancora diffusa una mentalità magica e superstiziosa

Bolognese

♦ CAT VEGNA UN CANCHER: che ti venga un cancro. Oltre a essere un malaugurio, questa espressione è usata anche come imprecazione, per sfogo contro una situazione sgradita.  

Milanese 

♦ VA A ONGES:  vai a ungerti. Si basa sull’antica credenza che si potesse contrarre la peste a causa di unguenti malefici che i malvagi spargevano sulle porte, sui muri, sulle cose.

Sardo

In sardo, maledire si dice “frastimare”. E le maledizioni sono davvero abbondanti:
♦ IS MANUS CANCARADAS/CANCARAU SIADA: che ti si blocchino le mani (per una paresi).
♦ ANCU TI SI BENGADA SU BREMINI: che ti vengano i vermi.
♦ ANCU TI CALIDI GUTTA: che ti venga la gotta.
♦ TINDI DEPPINT’ARRUI IS’OGUS IN SU COMURU: che ti cadano gli occhi nel cesso. Malattia impossibile, ma la prospettiva fa impressione.

Napoletano

Chi vuole il male di questa casa deve morire prima di entrare.

Come il sardo, è un dialetto ricco di immagini macabre, che si spingono non solo ad augurare malattie gravi e pesanti sofferenze: arrivano anche a proiettarsi fino al post-mortem, in una sorta di vilipendio di cadavere.
♦ PUOZZ’ CACÀ SANG: che tu possa cagare sangue (per un tumore intestinale o emorroidi)
♦ PUOZZ’ CICÀ: che tu possa perdere la vista
♦ PUOZZ’ STRUPPIÀ: che tu possa diventare storpio
♦ PUOZZ’ NZURDISC: che tu possa diventare sordo
♦ PUOZZ JETTÀ O’ SANG: che tu possa buttare il sangue, ovvero subìre una pesante emorragia
♦ TE POZZA VENÌ ‘NU TOCCOche ti venga un colpo apoplettico
♦ PUOZZE SCULÀ: che tu possa perdere i fluidi corporei (procedimento usato prima di inumare i cadaveri).
♦ PUOZZE SCHIATTÀ: che tu possa scoppiare, cioè (sempre da cadavere) gonfiarti fino a esplodere

Ringrazio Michelangelo Panico per le segnalazioni delle maledizioni in napoletano

A questo post ha dedicato un servizio l’emittente locale “Il 13” (TriVeneto) nell’edizione serale del Tg del 4 aprile. Potete vederlo cliccando sul player qui sotto:

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Lotta ai tumori: è arrivato il “vaffa day” https://www.parolacce.org/2016/01/21/vaffa-cancro/ https://www.parolacce.org/2016/01/21/vaffa-cancro/#respond Thu, 21 Jan 2016 22:17:55 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9065 C’è una nuova arma contro i tumori: le parolacce. Per anni la parola “cancro” faceva così paura da essere impronunciabile: lo si chiamava, con un eufemismo, “brutto male”, “male incurabile”, “grave malattia”. Insomma, era quasi una parolaccia. Da qualche tempo, invece,… Continue Reading

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FuckCancer

Il sito della Fondazione “Fuck cancer”: fotti il cancro.

C’è una nuova arma contro i tumori: le parolacce. Per anni la parola “cancro” faceva così paura da essere impronunciabile: lo si chiamava, con un eufemismo, “brutto male”, “male incurabile”, “grave malattia”. Insomma, era quasi una parolaccia. Da qualche tempo, invece, si è inaugurata una strategia opposta: parlarne apertamente. E ora in America sono arrivati al terzo passo, osare l’inosabile: mandare il tumore affanculo. Il fenomeno non si può liquidare come una semplice goliardata: perché è un grido di battaglia che mobilita oltre 500mila persone, celebri attori come Stephen Amell e un merchandising che ha fruttato oltre 2,2 milioni di dollari in raccolta di fondi...
E allora bisogna esaminare il fenomeno seriamente: come nasce? E’ una via efficace, quella che propone? Arriverà anche in Italia?

In parte, diciamolo, è una scelta di marketing: scegliere un nome scioccante è un modo efficace per emergere fra le numerose associazioni di volontariato che competono in cerca di fondi. Un pragmatismo all’americana, fatto di vendita online di gadget ed eventi. Ma il fenomeno è interessante per un altro motivo: testimonia un cambio epocale nel rapporto fra malato e malattia.
Oggi , infatti, il tumore non è sempre sinonimo di condanna a morte. Perciò affrontarlo a viso aperto può aiutare i pazienti a superare le ansie e affrontare le terapie, spesso molto impegnative. E’ anche per questo motivo che molti personaggi pubblici (da Emma Bonino a Oliver Sacks, da Kylie Minogue a Nancy Brilli), quando scoprono di avere la malattia escono allo scoperto. Fanno “coming out“: ne parlano nelle interviste, per attivare la solidarietà degli altri, e soprattutto per darsi forza, guardare la realtà in faccia, chiamare le cose col loro nome. Tanto che oggi il rapporto dei malati col tumore non è più passivo: si parla, anzi, di “lotta al tumore“, spesso qualificato come un “nemico” da affrontare con coraggio.
E allora diventa logico fare il passo successivo: se il cancro è un nemico, perché non insultarlo apertamente? In Canada e negli Stati Uniti, infatti, stanno fiorendo diverse associazioni di volontariato che hanno scelto di chiamarsi “Fuck cancer“, ovvero “Fanculo il cancro” (ma anche il diabete, l’Alzheimer…). E hanno avuto un enorme successo in termini di iscritti e di fondi raccolti.

La nuova tendenza è decisamente insolita. Pochi giorni fa raccontavo in un post le 13 campagne sociali più volgari: a volte, una parolaccia può aiutare a scuotere l’opinione pubblica. Ma un conto è una campagna pubblicitaria, che ha un inizio e una fine, e un conto è scegliere di stare sempre sotto i riflettori chiamandosi con un nome volgare: donereste il 5 x 1000 a un’associazione che si chiama “Fanculo il cancro”?  Chiamereste il suo centralino per chiedere aiuto o consigli? Vi assocereste? La scelta è decisamente insolita, perché impegno sociale e parolacce, almeno sulla carta, non vanno d’accordo: chi dice parolacce, dicono le ricerche, risulta più schietto e simpatico ma perde autorevolezza. E questo non aiuta chi fa dell’impegno sociale la propria bandiera. Eppure, con la giusta dose di ironia e idealismo, un nome pesante può far decollare un’associazione invece di zavorrarla. Già lo psicoanalista ungherese Sàndor Ferenczi, aveva contestato l’invito di Freud a usare, con i pazienti, solo i termini medici per parlare di sesso. «In diversi casi, con questo procedimento non si ottiene niente: il paziente resta inibito e aumentano le sue resistenze», diceva Ferenczi. Meglio usare le parolacce, insomma. E uno psicoanalista contemporaneo, l’argentino Ariel Arango, si è spinto oltre: «Nessuna terapia psicanalitica può avere successo se il paziente non permette a se stesso di usare le parole oscene. Un paziente che parla della propria vita usando termini scientifici non rivela nulla della propria storia personale, ma si limita a fare un riassunto freddo e impersonale come un libro di medicina». Dunque, le parolacce – parole emotive immediate e schiette – possono essere non solo liberatorie ma anche terapeutiche. Del resto, una ricerca ha dimostrato che dire parolacce aiuta a sopportare il dolore.

IL SURFISTA
BRANDON-MCGUINNESS-FUCK-CANCER

Brandon McGuinness, fondatore di FuckCancer.org

La prima associazione ad adottare questa nuova filosofia è nata negli Stati Uniti, a Huntington Beach nel 2005. E’ la Fondazione “FuckCancer” (sfancula il cancro, fotti il cancro), fondata da Brandon McGuinness, un surfista californiano affetto da linfoma di Hodgkin: voleva aiutare altri malati di tumore ad affrontare la lotta contro questa durissima malattia con uno slogan diretto. «Le cose accadono per un motivo, e la mia ragione è stata di dare aiuto agli altri malati di cancro, e prendermi il tempo di capire perché sono qui su questa terra. Così cerco di fare del mio meglio per vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Devo tenermi in movimento».
McGuinness morì 2 anni dopo, a soli 26 anni d’età, ma l’associazione continua ad esistere tuttora e ha mantenuto il nome originale, che campeggia sulle T-shirt (ma anche borse, cappelli, occhiali) vendute per sostenere la Fondazione. Fra le sue diverse attività promuove la diagnosi precoce dei tumori e supporta i malati e le loro famiglie ad affrontare la malattia attraverso la gioia, la speranza, l’ispirazione e il coraggio (organizzando manifestazioni e spettacoli negli ospedali). La fondazione ha oltre 284mila “like” su Facebook. Non sappiamo, però, perché Brandon abbia scelto un nome così forte per la sua Fondazione: forse in un impeto di rabbia, di ribellione, o di ironia. Di certo l’ha aiutato la giovane età: da sempre le parolacce sono il linguaggio della ribellione giovanile.  

braccialet

Susan Fiedler e i braccialetti con lo slogan “Fuck cancer”.

LA DISEGNATRICE DI GIOIELLI

Una risposta più rivelatrice arriva dalla fondatrice di un’altra associazione benefica simile: Susan Fiedler, una designer di gioielli canadese di Vancouver. Nel 2008, quando ha scoperto di avere un tumore (un linfoma anche nel suo caso) ha creato una linea di braccialetti d’argento con inciso lo slogan “Fuck cancer, embrace life“, ovvero “Fotti il cancro, abbraccia la vita”.
In breve tempo i braccialetti sono diventati una linea di gioielli con marchio registrato, che servono a finanziare un’associazione impegnata nella lotta ai tumori: negli ultimi 7 anni è riuscita in questo modo a raccogliere 200mila dollari (i braccialetti d’argento ne costano 50, ma ci sono anche anelli e braccialetti d’oro: da 900 a 2.500 $). Corrispondono a 4mila braccialetti venduti: i fondi hanno finanziato 3 centri che forniscono cure mediche, Inspire Health. E l’associazione ha oltre 21mila “like” su Facebook.
Perché “fotti il cancro”? La scelta è sorprendente perché è stata fatta da una donna: di solito, il mondo femminile è più restio alle volgarità. «Le grandi battaglie hanno bisogno di grandi parole» scrive la Fiedler sul sito dell’associazione. «Vivere con un cancro richiede coraggio, consapevolezza di sè e quella fonte segreta di potere che si chiama senso dell’umorismo. Vogliamo condividere una visione della vita che consiste nel guardare in faccia la paura e trasformare una diagnosi di cancro in un abbraccio ispirato alla vita, raccontando le cose per quello che sono». Coraggio, humor, sincerità: le parolacce, in effetti possono aiutare a esprimere questi sentimenti.

L’idea del braccialetto, racconta Fiedler, le è venuta guardando il bracciale che un amico aveva comprato in una moschea indiana. Aveva inciso un verso del Corano per proteggere chi lo indossa. Così a Susan è venuta in mente l’idea di creare un braccialetto: «Dopo tutto, io sono un designer di gioielli; quale modo migliore per esprimere quello che avevo passato? Che ci crediate o no,”‘Fanculo il cancro” è stata la prima frase protettiva che mi è venuta in mente. Non perché sia scioccante o oscena, ma perché era onesta, impertinente – e divertente! “Fanculo il cancro” rivelava che il cancro non aveva ucciso la mia anima ribelle e audace… Le persone che avevano vissuto con il cancro hanno capito al volo il messaggio: era quello che tutti provavamo ma nessuno aveva il coraggio di dire. E mi piaceva l’idea di condividere questi sentimenti con altri che sceglievano di indossare il bracciale. Ho capito che quell’oggetto sarebbe stato un formidabile volano per raccogliere fondi e aprire un dialogo. Qualcosa di forte e bello».
Dunque, se le parolacce sono le parole delle emozioni, ma anche della sincerità e dell’aggressività, possono funzionare anche nell’affrontare un tumore, un “nemico” da combattere. Non solo. La parolaccia può avere anche un effetto magico: “Fanculo il cancro” è più di uno slogan, è una maledizione basata sulla fede nel potere delle parole. Ci si fa forza augurando il male al cancro, credendo che questa frase avrà effetto sulla realtà. Un cambio radicale di prospettiva, comunque: da malati-vittime a malati-protagonisti. O esibizionisti?  Si passa dalla totale impotenza a un senso di onnipotenza: ugualmente sbagliato, ma forse può attivare una reazione attiva che può portare a un’accettazione più equilibrata della malattia.

MARCHI CONTESI E TESTIMONIAL
Amell

Stephen Amell testimonial di Letsfcancer.

L’iniziativa ha funzionato, tanto che in Canada sono nate altre associazioni esplicite, come Letsfcancer (fottiamo il cancro, al plurale) con annessa vendita di T-shirt a 25 $ l’una. La charity è nata dalla fusione (nel 2015) di due enti: Fuck cancer, fondato nel 2009 da Yael Cohen Braun dopo che a sua madre era stato diagnosticato un tumore al seno; e F*ck Cancer, fondato da Julie Greenbaum nel 2010 dopo che sua madre era morta per un tumore alle ovaie. Le associazioni si occupano di prevenzione, diagnosi precoce e supporto psicologico ai malati.
A quanto pare, almeno in America, la volgarità solidale paga, anche economicamente: oggi Letsfcancer ha oltre 262mila “like” su Facebook. E in questi anni ha raccolto in tutto oltre 2 milioni di dollari vendendo T-shirt. Merito anche del supporto offerto da un celebre attore canadese che ha fatto loro da testimonial, Stephen Amell, attore della serie tv “Arrow”.
Il fenomeno ha persino scatenato dispute legali, racconta la linguista americana Nancy Friedman: quando i fondatori di Letsfcancer (di Montreal) hanno cercato di registrare il marchio, la Fiedler gli ha fatto causa (ancora aperta).
La via era tracciata, e l’esempio ha contagiato anche altre associazioni americane che si occupano di malattie degenerative o croniche, come il diabete (“fuck diabetes“, una comunità su Facebook) e l’Alzheimer (“fuck alzheimers“).  

lilt2Di recente, tra l’altro, in occasione dei recenti lutti nel mondo dello spettacolo (David Bowie, Lemmy KilmisterAlan Rickman, tutti morti per tumore) il sito musicale GigWise ha twittato una foto delle 3 star col dito medio alzato e la dedica: “Caro cancro…”
Prenderà piede anche in Italia questo nuovo approccio alle malattie? Qualche segnale c’è: lo scorso autunno, come racconto qui, la Lilt (Lega italiana per lotta contro i tumori) ha posto il fiocco rosa – simbolo internazionale della lotta contro il tumore al seno – sul L.O.V.E., la celebre scultura del “dito medio” di Cattelan davanti alla sede della Borsa di Milano.
E di certo il nostro Paese è all’avanguardia in un altro campo: l‘impegno ecologico a colpi di parolacce. Nel prossimo post, infatti, racconto un’altra storia straordinaria: quella dell’associazione ecologista “Basta merda in mare“. Per quanto possa sembrare strano, anche grazie a questo nome dirompente è riuscita a vincere la battaglia contro l’inquinamento nell’Adriatico.

Questo post è stato ripreso da AdnKronos, Corriere della seraPanorama, il Tempo, Sassari Notizie, Arezzo Web, Catania OggiAffari Italiani, ilMeteo.it e Focus.it.

LE REAZIONI: POTENZA, IMPOTENZA O ONNIPOTENZA?

SoleScopro – in ritardo – che nell’inserto “Domenica” del “Sole 24 ore” un attento lettore, lo stimato collega Armando Massarenti, ha dedicato un interessante e critico commento a questo post nella rubrica “Il graffio” del 31 gennaio. Lo ringrazio perché mi dà l’occasione per approfondire meglio un argomento ricco di sfumature e delicatissimo.
Scrive Massarenti: “Dire che mandare a quel paese il cancro possa avere un effetto contro la malattia denuncia solo la nostra impotenza e la nostra necessità di sperare e di illuderci quando ci troviamo di fronte all’imponderabile. Che poi forse è, più in piccolo, ma con prospettive meno tragiche , la stessa impotenza di quando, nella vita di ogni giorno, imprechiamo o diciamo parolacce”.
Sono d’accordo: le parolacce sono spesso l’espressione della nostra impotenza. Quando ci schiacciamo il dito con un martello, l’imprecazione che ci esce dalla bocca è un urlo di impotenza. Ma ci aiuta ad esprimere un dolore che altrimenti sarebbe inesprimibile. E questo ci fa sentire meglio: ci fa sentire meno impotenti.
La parolaccia è senz’altro un’illusione, ma un’illusione efficace. E’ come l’effetto placebo. E, come il placebo, funziona: come hanno accertato alcune ricerche, imprecare aiuta a sopportare meglio il dolore. E questa non è impotenza: è un potere.
Per quanto riguarda i tumori, però, non ho affermato che il “vaffa” “possa avere effetto contro una malattia” così tragica. Ho raccontato, invece, l’effetto che ha sulla psiche dei malati: la parolaccia può aiutarli a uscire da un senso di totale impotenza. Così, almeno, raccontano i pazienti (e i loro familiari) che hanno fondato queste associazioni, incontrando un notevole seguito in America. Anche questo non mi pare poco.
Come tutte le illusioni, certamente, anche la parolaccia va maneggiata con cautela: bisogna ricordarsi come stanno le cose, e che una malattia non la si può sconfiggere con un’imprecazione (altrimenti si passerebbe dal senso di impotenza a quello di onnipotenza, altrettanto pericoloso). Ma mi pare comunque notevole che un “vaffa” aiuti tante persone a sentirsi meglio.
Fosse anche solo un modo per portare un senso di vitalità dove c’era solo un senso di morte.
Fosse anche solo un modo per sdrammatizzare il presente.
Fosse anche solo una stampella che aiuta a fare il primo passo verso un’accettazione più equilibrata e realista della malattia: in ogni caso, mi sembrano prove di potenza – e non solo di impotenza – della parolaccia.
Che poi si possa arrivare agli stessi risultati anche per altre vie: vero anche questo. La parolaccia può essere un placebo, ma di certo non è una panacea.

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