Cassazione | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Mon, 15 Apr 2024 12:45:55 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Cassazione | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Parolacce: la “Top ten” dell’anno 2023 https://www.parolacce.org/2024/01/02/parolacce-anno-2023/ https://www.parolacce.org/2024/01/02/parolacce-anno-2023/#respond Tue, 02 Jan 2024 11:22:53 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20176 Quali sono state le parolacce più notevoli del 2023, in Italia e nel mondo? Anche quest’anno ho preparato la classifica dei 10 insulti più emblematici dell’anno appena concluso. Un anno segnato, ancora una volta, da un’inflazione delle parolacce: si usano… Continue Reading

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Quali sono state le parolacce più notevoli del 2023, in Italia e nel mondo? Anche quest’anno ho preparato la classifica dei 10 insulti più emblematici dell’anno appena concluso. Un anno segnato, ancora una volta, da un’inflazione delle parolacce: si usano sempre più spesso, erodendo il loro potere espressivo. 

In Veneto, un bar a Castello di Godego, nel Trevigiano, ha cercato di frenare questa inflazione comminando multe (da 1 a 5 euro) per i clienti che bestemmiano: lo facevano già gli inglesi in età vittoriana, e i risultati si sono visti. Un provvedimento inutile, soprattutto per le imprecazioni che spesso sono una sorta di riflesso neurologico incontrollabile

Ecco perché, in questo scenario, risultano più apprezzabili quanti allargano lo sguardo, utilizzando espressioni meno inflazionate. Un esempio? Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, fra i personaggi pubblici, è fra i pochi che si preoccupano di perseguire una certa originalità e ironia quando devono criticare qualcuno. Ecco, ad esempio, quanto aveva affermato a proposito dell’ultimo festival di Sanremo: «Un festival di infelici, con gli sfessati, gli sciamannati, gli sfrantumati. Pensano di essere moderni. No, questi sono imbecilli. Un Festival di cafoni e volgari». Oppure il suo commento sarcastico su Mauro Corona, migrato dalla Rai a Rete4: «Spiace non poter più vedere quel Neanderthal, quel troglodita vestito come un capraio afgano, un cammelliere yemenita, sto male a immaginare che non avremo più quell’immagine di raffinatezza».  A riprova del fatto che la cultura (De  Luca è professore di storia e filosofia) è l’unico rimedio efficace contro gli insulti beceri e inflazionati. 

 Ecco dunque la mia “Top ten” con i 10 episodi volgari più emblematici e divertenti riportati dalle cronache nazionali e internazionali. Per sorridere e per riflettere. E’ la 16esima edizione: come in passato, ho selezionato gli episodi con 3 criteri: il loro valore simbolico, le loro conseguenze e la loro originalità. Buona lettura. E buon anno! 

La classifica 2023

1) CANTANTI

Gino Paoli: “lo spettacolo è una merda, emergono le cantanti che mostrano il culo”. 

Elodie: “Ci sono artisti che hanno scritto capolavori, ma nella vita sono delle merde”.

15 dicembre 2023

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IL FATTO
 

In occasione dell’uscita del suo libro autobiografico “Cosa farò da grande”, il Corriere della Sera intervista Gino Paoli, 89 anni. L’autore de “Il cielo in una stanza” “Sapore di sale” e “La gatta”, ripercorre diversi retroscena della sua lunga carriera. Il giornalista, Aldo Cazzullo, gli chiede perché, nel libro, scrive che “Lo spettacolo è un mondo di merda?”. Risposta. «è tutto apparenza. Oggi peggio di ieri. Ieri avevamo Mina e la Vanoni. Oggi emergono le cantanti che mostrano il culo».

Nient’altro. Nessun riferimento concreto a una cantante in particolare. Ma nel giro di poche ore  la cantante Elodie Di Patrizi, 33 anni, scrive su Twitter: «Ci sono artisti che hanno scritto capolavori, ma nella vita di tutti i giorni sono delle Merde, è così. Io preferisco essere una bella persona». 

Insomma una reazione spropositata che ha trasformato il pensiero generico di Paoli in un pesante attacco personale. Un caso clamoroso di “coda di paglia”: se Elodie non avesse reagito, nessuno avrebbe collegato a lei la frase di Paoli, che sarebbe passata inosservata come critica generica. Invece, con il suo tweet, ha acceso i riflettori su se stessa, facendo un clamoroso autogol con una reazione sproporzionata e un pesante attacco personale. E i suoi fan hanno ricordato che anche Ornella Vanoni (a suo tempo legata a Paoli) si esibiva in abiti provocanti.

Interpellato per una controreplica, Paoli ha precisato meglio il suo pensiero: «Oggi l’apparenza è più importante della sostanza. Non è importante quanto tu sia brava a cantare, ma che tu sia gradevole. Siamo nell’epoca dell’apparenza, l’importante è impressionare. Con questa mentalità Lucio Dalla non sarebbe mai diventato Dalla».

Giorni dopo, Striscia la notizia ha mandato sotto casa di Elodie un finto Gino Paoli (Ballandini) che le ha dedicato la canzone “Parigi con le gambe aperte” : “Pensiamo invece a lei, Io metterei il suo culo tra i trofei, Un culo bianco e tondo che non finiva mai, Meglio dei paradisi di Versailles.”

2) PAPALE PAPALE

Javier Milei: Bergoglioimbecille”, “comunistaepresenza maligna”

Papa Francesco: “attenti ai clown messianici”

Argentina, autunno 2023

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IL FATTO
 

La campagna elettorale per le ultime presidenziali in Argentina ha registrato un fatto clamoroso: il candidato ultraliberista Javier Milei  ha più volte attaccato duramente il suo connazionale papa Francesco. In diverse occasioni lo ha definito  “imbecille”; “Un gesuita con affinità con i comunisti assassini”, “un rappresentante del Male nella Casa di Dio”, uno che “porta avanti politiche ecclesiali di merda”. 

Mai un capo di Stato aveva attaccato così un leader religioso. Unica eccezione: l’ex presidente delle Filippine, Felipe Duterte, come raccontavo qui

Gli attacchi di Milei non sono passate inosservate: un documento congiunto firmato dal vescovo ausiliare e vicario generale di Buenos Aires, Gustavo Carrara, e da 71 sacerdoti del movimento dei “curas villeros” ha respinto le offese nei confronti di Bergoglio, ribadendo la necessità “di una politica a favore del bene comune, con la persona umana al centro”. Per i “curas villeros”, che si rifanno alla dottrina sociale della Chiesa, un candidato che afferma che “la giustizia sociale è un’aberrazione” rappresenta “un attacco diretto alla radice della fede“.

Papa Francesco si è ben guardato dal replicare. Anche se in un’intervista  all’agenzia di stampa nazionale argentina Telam ha criticato  i “pagliacci del messianismo” e i “pifferai magici”, respingendo  l’accusa di essere comunista. Quando vuole, il papa sa essere tagliente, come raccontavo qui.

Alla fine il 19 novembre Milei ha vinto le elezioni diventando presidente con il 55,69% dei voti. Forse, spenti i riflettori della campagna elettorale, i rapporti con il papa potranno proseguire su binari più rispettosi.

3) CINEMA

Barbie: “Lei sa fare di tutto. Lui sa solo come scopare”.

Francia, 16 giugno 2023

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IL FATTO
 

E’ uno dei film più visti del 2023: “Barbie”, di Greta Gerwig, ha portato sul grande schermo la celebre bambola bionda della Mattel. Ed è stato un successo al botteghino: è stato il secondo film più visto in Italia, ed è stato il 14° film più visto nella storia del cinema. Il film ha avuto un’intensa campagna promozionale, basata su trailer e poster. In quest’ultimo, lo slogan era (in italiano): “Lei può essere tutto ciò che vuole. Lui è solo Ken”.

La frase è stata tradotta in varie lingue. In francese è stata resa così: “Elle peut tout faire. Lui, c’est juste Ken”. Peccato che in francese “ken” è una parola gergale volgare che significa “scopare”. Lo scivolone è diventato virale sul Web. Alcuni hanno pensato a una svista, ma dato che il termine è così ampiamente conosciuto ai francofoni, è probabile si sia trattato di un doppio senso voluto, per attirare l’attenzione sul film. Un marketing malizioso.

4) ARTE

 Il dito medio fa il giro del mondo

Al Weiwei, 7 aprile 2023

 

 

 

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IL FATTO
 

Dal 1995, l’artista e attivista cinese Al Weiwei ha raccolto in Study of Perspective varie foto in cui mostra il dito medio ai luoghi  del potere, simboli di censura, coercizione, oppressione: da piazza Tiananmen alla Trump Tower di New York, fino al Reichstag di Berlino. 

Quest’anno Al Weiwei ha trasformato il progetto in un’opera collettiva grazie all’intelligenza artificiale: “Middle finger”. Si tratta di una piattaforma web nella quale i navigatori possono selezionare un luogo qualsiasi del mondo su Google Maps, posizionare la foto del dito medio dell’artista davanti all’obiettivo prescelto e scattare virtualmente una foto, per poi salvarla o condividerla sui social network utilizzando l’hashtag #studyofperspective. Le foto sono salvate (in forma anonima) e visionabili sulla piattaforma Middle Finger. Insomma, un vaffa su scala planetaria. «Spesso ci dimentichiamo di avere un dito medio. Penso sia giusto ricordare che questa parte del corpo può essere indirizzata contro qualcosa – un’istituzione o chi detiene un potere – per fargli sapere, e prendere coscienza noi stessi, che esistiamo», spiega Weiwei.

5) LA SENTENZA

P.Q.M. cazzo

Corte di Cassazione, Roma, 13 gennaio 2023

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IL FATTO
 

La sentenza è la n. 35183 del 2022 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione, seconda sezione penale. La Corte respinge il ricorso di un imputato per truffa ai danni dello Stato per  la confisca di un’automobile (un’Opel Astra). Dopo aver elencato le considerazioni giuridiche del caso, i giudici hanno introdotto la decisione finale con la formula “P.Q.M.”, ovvero “per questi motivi”. A cui si è aggiunto “cazzo”: com’è possibile?

 AdnKronos, che ha dato per prima la notizia, ipotizza che possa essere stata colpa di un programma di dettatura vocale. Nel frattempo, l’errore è stato corretto nell’archivio della Suprema Corte. Ma da quel momento l’organo giudiziario  ha guadagnato il soprannome ironico “Corte di Cazzazione”.

6) LA PROVOCAZIONE

Vi do un miliardo di dollari se cambiate nome in “Cazzopedia”

Elon Musk, Twitter, 22 ottobre 2023

 

 

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IL FATTO
 

La proposta è arrivata su Twitter/X lo scorso autunno: il sanguigno imprenditore Elon Musk ha offerto 1 miliardo di dollari (circa 946 milioni di euro) a Wikipedia “se cambieranno il loro nome in Dickipedia”, cioè Cazzopedia. Nel post, oltre al proprio messaggio, Musk ha inserito anche una schermata della home page di Wikipedia, sulla quale è possibile vedere il messaggio di richiesta di donazioni del fondatore dell’enciclopedia online, Jimmy Wales.

“Vi siete mai chiesti perché la Wikimedia Foundation vuole così tanti soldi? Certamente non sono necessari per far funzionare Wikipedia – ha poi aggiunto Elon Musk – Potete letteralmente inserire una copia dell’intero testo sul vostro telefono! Quindi, a cosa servono i soldi? Le menti curiose vogliono sapere…”.

La provocazione di Musk è uscita dopo una serie di attacchi da parte di Wales, che contestava la gestione di Twitter/X: “Musk ha rimosso tutte le funzionalità principali che rendevano possibile distinguere i giornalisti veri da quelli falsi”, nel conflitto fra Israele e Palestina. Insomma, l’attacco svilente di Musk aveva tutta l’aria di voler distrarre il pubblico da una questione per lui imbarazzante: l’attendibilità delle informazioni su Twitter.

Nella sua risposta provocatoria, Musk ha anche aggiunto che la sua offerta sarebbe stata valida se Wikipedia avesse mantenuto il nuovo nome anche solo per un anno.
Wikipedia ha replicato che la sola versione inglese occupa 51 gigabytes di spazio, ma aggiungendo tutti i media e le lingue supportate si arriva a 428 Terabytes. “Non siamo finanziati dalla pubblicità, non addebitiamo costi di abbonamento e non vendiamo i tuoi dati.”, a differenza di X/Twitter, hanno risposto piccati.

 

7) INSULTI IN CONCERTO

Brian Molko: “Giorgia Meloni è pezzo di m*, fascista, razzista….vaffanculo!”. Denunciato

 

 

 

Nichelino, 11 luglio 2023

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IL FATTO
 

Nichelino. Allo Stupinigi Sonic Park (Torino), davanti ai cinquemila spettatori Brian Molko, il cantante e chitarrista dei Placebo, gruppo britannico di rock alternativo, ha insultato la premier Giorgia Meloni, parlando in italiano al microfono. Il pubblico ha applaudito. Perché il musicista l’abbia fatto rimane senza risposta.

A fine concerto la band è intervenuta anche a favore dell’accoglienza e della difesa dei figli delle coppie omosessuali. Il video del concerto è diventato virale. Al punto che la  Procura di Torino ha aperto un fascicolo di indagine per vilipendio delle istituzioni. Dopo qualche giorno è circolata la notizia che la premier stessa ha denunciato Molko per diffamazione.

8) STUPIDITA' ARTIFICIALE

Finocchiona? Un insulto. E Facebook censura

2 febbraio 2023

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IL FATTO
 

Il messaggio di censura di Facebook sulla finocchiona.

La finocchiona è un salume tipico della Toscana che si distingue per il suo sapore intenso e aromatico. Questa specialità viene preparata con carne di maiale macinata finemente, insaporita con sale, pepe nero e semi di finocchio selvatico, che le conferiscono il suo caratteristico gusto anice e leggermente dolce. Dopo la macinatura, la carne viene insaccata in budelli naturali e lasciata stagionare per diverse settimane o addirittura mesi.  

Pane e finocchiona è uno dei piatti creati da Interiora Design, il marchio dell’oste toscano Massimo Lanini, che ha deciso di portare a Bari vari panini a base di carne o insaccati. La sua campagna pubblicitaria era stata affidata all’agenzia barese LaboratorioCom, che aveva postato su Facebook una pagina per promuovere il panino alla finocchiona. Quasi subito la campagna è stata bloccata da Meta con un messaggio: “L’annuncio sembra insultare o prendere di mira categorie protette”.

Inutili le proteste: l’algoritmo non ha fatto distinzione fra il salume e l’omofobia, Alla fine Interiora Design ha scritto: “Caro Facebook, vorremo dirti che finocchiona”non è un insulto ma un insaccato tipico toscano! L’offesa sta nel non conoscere questa prelibatezza!”. Nel frattempo la vicenda è finita su tutti i giornali. Ed è stata ricordata in tv da Luciana Littizzetto durante una puntata di “Che tempo che fa”: “E meno male che non era una pubblicità di finocchiona e culatello, gli è andata bene!”

9) NOTE STONATE

Morgan: “Avete rotto il cazzo, coglioni! Frocio di merda!”

Selinunte, 27 agosto 2023

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IL FATTO
 

Selinunte. Morgan esegue concerto-lezione “Segnali di vita e di arte” dedicato a Franco Battiato, con cui aveva avuto un legame d’amicizia. A un certo punto, però, l’artista si allontana dalla scaletta e improvvisa un lungo brano al pianoforte, ispirato dalla suggestione del parco archeologico, mescolando Ravel e Luigi Tenco. Ma parte del pubblico non apprezza e gli chiede di eseguire invece brani di Battiato come da programma.

«Avete avuto abbastanza voi adesso – ha detto rivolgendosi al pubblico – Avete avuto troppo, perle ai porci si chiama questo, se non se ne vanno quei dementi io non canto». E rivolgendosi a chi lo aveva invitato a suonare, ha replicato: «Vai a casa tua, non te lo meriti lo spettacolo, sei molesto, sei venuto a rompere i coglioni». Aggiungendo: «Siete stupidi, la società è una merda», mentre dal pubblico si sono levate voci che lo invitavano a cantare. «Io sono un personaggio, andate a vedere Marracash, Fedez… frocio di merda, coglione!», ha continuato tra i “buu” che gli arrivavano dal pubblico.

Il giorno dopo, quando il caso è stato rilanciato dai giornali, Morgan ha detto: «Chiamatemi maleducato ma non sono omofobo. La mia reazione di ieri sera è stata ingiustificabile, una pessima caduta di cui mi scuso sinceramente», ha aggiunto l’artista. Che spiega la sua reazione: «E’ stata provocata dall’essermi sentito ferito nell’anima perché avevo appena dato tutto me stesso in una canzone improvvisata in quel luogo meraviglioso e commovente. L’avermi chiesto una cover di Battiato come fossi un jukebox, dopo una delle più ispirate performance della mia vita, mi ha letteralmente ucciso».

 E’ stato infatti l’epiteto “frocio” quello che ha fatto più scalpore. Morgan, dal canale di Red Ronnie, ha spiegato in un lungo video di aver usato quell’insulto perché è stato il primo che gli è venuto in mente, senza intenzioni omofobe. L’insulto comunque gli è costato caro: a settembre ha annunciato di aver devoluto metà del suo cachet di X Factor (100-150 mila euro) a favore di Casa Arcobaleno, un’associazione che si occupa di accoglienza nei confronti di giovani che, a causa del loro orientamento sessuale, sono stati allontanati e rifiutati dalle proprie famiglie. Insomma, Morgan è un artista di talento, soprattutto nel farsi male da solo.

10) AL MUSEO COME ALL'OSTERIA

Sgarbi: “storie di figa”, “conosciamo un solo organo, il cazzo”. 

Museo Maxxi Roma, 21 giugno 2023

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IL FATTO
 

La serata doveva essere un faccia a faccia tra Morgan e Sgarbi sui rispettivi gusti e passioni, un confronto aperto tra parole e note suonate al pianoforte. Ma poi, stuzzicato dalle domande di Morgan, Sgarbi ha cominciato a parlare della sua vita sessuale, con stime numeriche sul numero di donne avute. E da quel momento in poi la situazione è degenerata: «Lo scrittore Houellebecq dice che c’è un momento della vita in cui noi conosciamo un solo organo: il cazzo», ha detto tra l’altro Sgarbi. «Il cazzo è un organo di conoscenza, cioè di penetrazione, serve a capire».  Ma poi «arrivi a 60 anni devi fare i conti con questa troia, puttana di merda, la prostata». Poi, ricordando Berlusconi, ha parlato del suo amico Apicella «condannato per questioni di figa. Non si capisce poi perché, uno che suona viene condannato, non si capisce perché. Ma i magistrati vanno così: Apicella suona, suonava, è stato condannato perché l’ha pagato. Cazzo, sarò pagato non perché sto con la figa». 

I video dell’intervento sono diventati virali. Inizialmente Sgarbi si è difeso dicendo che «Scandalizzarsi delle provocazioni significa rinnegare l’arte contemporanea». Ma è davvero arduo definire “arte” le sue battute.

Infatti il caso non si è affatto chiuso Giorni dopo l’incontro, Repubblica ha pubblicato una lettera indirizzata al direttore del Maxxi Alessandro Giuli e firmata da 43 dipendenti sui 49 totali del museo, in gran parte donne. Nella lettera si chiedeva di tutelare la dignità del museo e venivano criticati gli interventi di Sgarbi e Morgan, con la spiegazione che «in nessun modo collimano con i valori che da sempre hanno contraddistinto il nostro lavoro all’interno di questa istituzione». 

Sulla vicenda è intervenuto anche il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che in una lettera aperta a Giuli ha preso le distanze dalle «manifestazioni sessiste e dal turpiloquio» dell’incontro con Sgarbi, definendo quanto accaduto «inaccettabile: quella non è cultura». Alla fine lo stesso Giuli si è scusato: «Mi sento di sottoscrivere completamente e convintamente le osservazioni del ministro Sangiuliano, e cioè che il turpiloquio e il sessismo non possono avere diritto di cittadinanza nel discorso pubblico e in particolare nei luoghi della cultura. Non ho alcuna difficoltà a dirmi rammaricato e a chiedere scusa anche alle dipendenti e ai dipendenti del Maxxi con le quali fin dall’inizio ho condiviso questo disagio […] e a tutte le persone che si sono legittimamente sentite offese da una serata che sui presupposti doveva andare su un altro binario», ha aggiunto Giuli.
L’episodio dimostra che le parolacce non possono essere pronunciate in qualunque contesto: chi trasgredisce questa regola non fa una semplice trasgressione, ma va a infrangere gli assi portanti del rispetto e della convivenza civile.

La mia “Top ten” è stata rilanciata da AdnKronos , La Gazzetta del Mezzogiorno, Libero, La svolta, La ragione, Sicilia reportCorriere della Sardegna, Quotidiano di Bari, Affari italianiMagazine ItaliaOggi Treviso, Informazione.it, Centro studi americaniCrema oggi, Sanremo news, Sbircia la notizia, Vetrina tv, Occhioche.it, L’identità, ViverePesaro, Trash italianoBasilicata veraVivere Senigallia, Vivi centro, Cronache di Milano , La città di Roma, Tf news, Olbia notizie, OglioPo news, Italy24 press spanish , Il dubbio , identità.it, I like Puglia , Giornale dell’Umbria, il Millimetro , Tvsette , Radio Colonna

Se volete leggere le classifiche degli ultimi 15 anni, potete cliccare sui link qui di seguito: 2022, 2021, 2020, 2019,  2018, 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010,  2009 e 2008.

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Che ti venga il coronavirus! La maledizione dei nostri tempi.

“Ti deve venire il coronavirus!”: il primo a ricevere la nuova offesa è stato, a marzo, Juan Jesus, calciatore brasiliano della Roma. Segno dei tempi: la frase gli è arrivata su Instagram da un ragazzino di 15 anni. E mostra che la pandemia è entrata non solo nelle nostre vite quotidiane, ma anche nei modi di dire, dando origine a una nuova espressione offensiva.
Entrerà nei vocabolari? Presto per dirlo, come spiegherò più sotto. In ogni caso, non sarebbe l’unica offesa a sfondo patologico. Le offese, infatti, si possono esprimere non solo usando termini legati ai tabù del sesso, degli escrementi o della religione, ma anche evocando le malattie. Perché hanno una grande forza immaginifica: ci fanno immedesimare in una situazione dolorosa.
Quali sono le espressioni che fanno leva sulla paura delle malattie? Sono molte e hanno una lunga storia: risalgono a un’epoca molto antica, quando si credeva nell’efficacia della magia e dei malefici. Queste offese, infatti, si chiamano “maledizioni” e sono molto usate nei nostri dialetti e  in alcune lingue straniere come il polacco, lo yiddish (giudeo-tedesco) e soprattutto l’olandese, parlato nei Paesi Bassi e in Belgio. Qui l’espressione “corona” (usato come esclamazione o malaugurio) è già abbastanza popolare.

PAROLACCE OLANDESI, DAL CANCRO AL VAIOLO

Meme olandese: anche tu puoi beccarti il cancro

In olandese c’è un ricco catalogo di espressioni volgari, che sembrano uscite da un trattato di medicina. E l’intensità, l’offensività degli insulti è proporzionale alla gravità della patologia evocata. Ecco l’elenco dei principali modi di dire:

♦ CANCRO (KANKER): è usato come esclamazione di rabbia o sorpresa, (tipo “cazzo!”), ma è usato anche come cattivo augurio (“Krjg de kanker”, prendi il cancro). L’espressione “kankeren” significa “lamentarsi troppo”. “Kankerlijer”, malato di cancro, è un insulto pesante, tipo “figlio di puttana”.
A volte è usato come rafforzativo in senso positivo (“kankerlekker” equivale a “cazzutamente delizioso”)

♦ COLERA (KLERE/KOLERE): ha un uso simile a kanker. Anche in questo caso, klerelijer (malato di colera) è un’offesa pesante.

♦ ICTUS (TAKKE): usato come aggettivo squalificante. “Krijg de takke” (beccati un ictus) è un’offesa

♦ LEBBRA (LAZZARO): è usato come termine gergale per “ubriacarsi di brutto”.

♦ PESTE (PESTE): usato come rafforzativo. “Pesten”o “pestkop” (testa di peste) significa “bullo, prepotente”; “de pest in hebben” (avere la peste in) significa essere incazzati.

♦ PLEURITE (PLEURIS): è un equivalente di tubercolosi. Si usa nell’espressione “krjg de pleuris” (beccati la tubercolosi) e “alles ging naar de pleuris” (è andato tutto a puttane). “Pleurislijer” (malato di tubercolosi) è un insulto equivalente a stronzo.

♦ POLIOMIELITE (POLIO): è usato nell’espressione “heb je soms polio?” (hai la polio?) per insultare una persone eccessivamente pigra.

♦ TIFO (TYFUS): usato come esclamazione o come offesa (“tyfuslijer”, malato di tifo). Ma anche come malaugurio: krijg de tyfus (beccati il tifo) e persino “optiefen” (vai via col tifo, ovvero vaffanculo).

♦ TUBERCOLOSI (TERING): è usato come imprecazione o come aggettivo insultante ( “teringlijer”, malato di tubercolosi). “Krijg de tering” (beccati la tubercolosi) è un’offesa comune.

♦ VAIOLO (POKKEN): usato come rafforzativo. “Pokkenlijer” (malato di vaiolo) è un insulto tipo “figlio di puttana”.

Un meme olandese: cosa penso (sensazioni confuse) e cosa dico (cancro!)

Negli ultimi tempi, a questo elenco si è aggiunto (era inevitabile) anche il coronavirus (corona), usato nello stesso modo di cancro, colera, tubercolosi e tifo, cioè come insulto, esclamazione o malaugurio.

Da dove salta fuori questa ossessione degli olandesi per le malattie? E’ il ricordo di passate epidemie che hanno funestato i fiamminghi? No: è una sensibilità culturale di tipo religioso. Una ricerca di Tom Ruette, lessicologo dell’università di Lovanio (Belgio)  ricollega questo uso al calvinismo: secondo questa fede (il ceppo puritano del protestantesimo, diffuso nei Paesi Bassi dal 16° secolo), la malattia è considerata un segno di dannazione divina,una punizione da parte di Dio per una condotta immorale o antireligiosa. Così come la virtù viene ripagata su questa Terra con prosperità e salute. Dunque, una visione profondamente religiosa, che interpreta gli eventi negativi come voluti da Dio per dare un’avvertenza o un castigo a chi si comporta male. Anche gli ebrei dell’Antico Testamento la pensavano così: la malattia era vista come una punizione divina. Una posizione che mette la religione in un vicolo cieco, perché fa apparire Dio come un essere vendicativo e meschino: tant’è vero che per giustificare l’esistenza delle malattie si è dovuto o incolpare il diavolo o descriverle come occasione per redimere la propria anima attraverso la sofferenza del corpo.

Gli insulti patologici in italiano

Striscione da stadio rivolto ai tifosi del Napoli.

Nella nostra lingua, a differenza dell’olandese, restano poche tracce di insulti a sfondo sanitario. Ne ho trovati solo 5, a cui ne ho aggiunto uno in siciliano:

♦ TIFOSO: questo aggettivo designa gli appassionati di uno sport o di una squadra. Ma in origine si riferiva ai malati di tifo, che hanno la coscienza offuscata a causa della febbre alta

♦ ROGNOSO: l’aggettivo indica una persona ingrata, difficile, fastidiosa, pedante. Ma deriva da “rogna”, termine popolare per la scabbia, una malattia della pelle che causa prurito e infiammazione

♦ MICROBO: il termine indica una persona meschina, abietta o insignificante (anche se non tutti i microbi sono patogeni). Peraltro, la pandemia ci ha dimostrato l’opposto: un microbo può mettere in ginocchio intere nazioni. 

♦ COLEROSO: di per sè indica un malato di colera. Ma si è trasformato in un insulto (soprattutto negli stadi) da quando un focolaio di questa malattia si è presentato in Campania, Puglia  e Sardegna nel 1973. I tifosi delle squadre settentrionali usano questo appellativo per denigrare i tifosi del sud, imputando loro (a torto) scarsa igiene e civiltà.

Birra prodotta in Sicilia: “camurria”.

♦ PESTE/PESTIFERO: il termine è usato (per lo più in modo scherzoso, come iperbole) per indicare un bambino capriccioso, con un carattere difficile da gestire)

♦ CAMURRIA/CAMURRIUSU: sono termini siciliani, resi celebri dai romanzi di Andrea Camilleri. Camurria deriva da gonorrea, e significa “pesante seccatura, fastidio”; il termine è usato nelle imprecazioni (che camurrìa!). “Camurriusu” è una persona o una situazione seccante e fastidiosa.

Le maledizioni: un incantesimo negativo

Quando la scienza ha fatto crollare la fede nella magia, le maledizioni sono un modo immaginifico di sfogare la propria rabbia verso qualcuno, augurandogli ogni male. E in qualche modo hanno mantenuto il loro potere “magico”: perché riescono a trasmettere l’odio di chi le pronuncia, e a far provare un dispiacere a chi le riceve. Non è gradevole, infatti, immaginare di soffrire: che, da un certo punto di vista, è peggio rispetto a morire, dato che la morte libera dalle sofferenze. Ecco perché le maledizioni stimolano la fantasia nei modi più concreti e crudeli, come vedremo.
Va ricordato, però, che queste espressioni hanno effetto nella misura in cui chi le riceve dà loro peso. Se i placebo sono sostanze inerti che hanno efficacia terapeutica se chi le assume crede nel loro potere, le maledizioni sfruttano l’effetto-nocebo: la credenza che qualcosa (una frase negativa) abbia davvero effetto.

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LE ORIGINI: FORMULE MAGICHE E INCANTESIMI
 

In realtà, augurare le malattie non è un’esclusiva olandese. E neppure un atto religioso. Anzi, ha un’origine ben più antica, ed è radicata nella mentalità magica, secondo cui immaginare una situazione (in questo caso, una sventura che si abbatte su una persona) significa evocarla, farla avverare concretamente grazie al potere magico della parola. La maledizione, insomma, era un incantesimo: seguiva un preciso rituale che comprendeva gesti e formule magiche.
Come racconto nel mio libro, già gli antichi Greci (e gli Ebrei) usavano formule di maledizione: prendevano un’unghia o un capello del nemico, pronunciavano su di esso una formula di maledizione e poi lo bruciavano o lo gettavano in un pozzo o in un fiume, con una tavoletta su cui era incisa la maledizione. Nella formula erano citati, con un crescendo meticoloso, tutti gli organi del nemico fino alla sua anima.
L’esempio massimo, la “madre di tutte le maledizioni” è l’anatema, una formula inventata dal vescovo inglese di Rochester, Ernulhpus (1040-1124) contro gli eretici e i peccatori che venivano scomunicati: contro di loro, inventò una maledizione che non risparmiava alcuna parte del corpo, ciglia comprese: «Per l’autorità di Dio Onnipotente (…) sia egli maledetto nel mangiare e nel bere, nella fame e nella sete, nel digiuno, nel sonno, nella veglia, camminando, stando, sedendo, giacendo, lavorando, riposando, mingendo, cacando. Sia egli maledetto in tutte le facoltà del suo corpo. (…) Sia maledetto nei capelli della testa. Sia maledetto nel cervello, nel cocuzzolo, nella tempia, nella fronte, nelle orecchie, nelle ciglia, nelle guance, nelle mascelle, nelle narici, nei denti incisivi e molari, nelle labbra, nella gola, nelle spalle, nei polsi, nelle braccia, nelle mani, nelle dita. Sia maledetto nella bocca, nel petto, nel cuore e nei visceri e più giù sino allo stomaco. Sia maledetto nelle reni e nell’inguine, nelle cosce, nelle ginocchia, nelle gambe, nei piedi e nelle unghie dei piedi. Sia maledetto in tutte le giunture e articolazioni delle sue membra, dalla cima della testa alla pianta dei piedi; non vi sia salute in alcuna sua parte». 

IN ITALIANO

Film di Mario Mattoli del 1951.

La nostra lingua non è molto ricca di maledizioni a sfondo sanitario. Ecco quelle che ho rintracciato:

♦ ACCIDENTI: il termine designa un evento fortuito imprevisto. Ma questa espressione è la contrazione di “che ti venga un accidente” ovvero una malattia grave e improvvisa.  

♦ MANNAGGIA: mal n’aggia, che tu abbia male. E’ un malaugurio generico, che può riguardare malattie ma anche altri generi di eventi.

♦ CHE TI VENGA UN CANCRO: è una delle espressioni che nel volgarometro, un sondaggio fra i navigatori di questo blog, è risultata fra le più offensive in italiano. Fra le varianti: che ti venga un colpo/un infarto. Su questa espressione si è pronunciata la Cassazione nel 2008, con una sentenza di assoluzione che trovo esemplare per la sua lucidità:  «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale». Questa considerazione, ovviamente, vale per tutte le espressioni che cito in questo articolo.
Il discorso però cambia se la malattia che si desidera è legata a un’azione dell’imputato (“Ti faccio venire un infarto”): in tal caso si è in presenza del reato di minaccia, ha stabilito un’altra sentenza della Cassazione.

♦ CHE TI VENGA LO SCOLO: espressione in disuso. Lo scolo è un termine popolare per indicare la gonorrea, una malattia sessuale.

Schermata di Instagram di Juan Jesus: l’offesa è evidenziata con un cerchio, con la risposta del calciatore.

♦ CHE TI VENGA/BECCATI IL CORONAVIRUS: Cosa vuol dire esattamente questa espressione? In questo momento storico, il Covid-19 è ancora un nemico oscuro: non sappiamo bene come si diffonde, quanto tempo resti attivo al di fuori da un organismo, se una volta contagiati e guariti si resti immuni per sempre…. E soprattutto non abbiamo ancora strumenti efficaci per diagnosticarlo in modo rapido ed economico, né un vaccino o farmaci antivirali per curarci. Non sapendo quanti siano davvero i contagiati, non abbiamo certezze neppure sul suo reale tasso di mortalità. E’ comunque ben al di sotto dei valori di altri agenti infettivi tipo Ebola: di fatto, risulta rischioso, soprattutto per gli anziani, per i maschi e per chi è immunodepresso o soffre di altre patologie. E il suo impatto mortale è acuito dal fatto che i servizi di rianimazione sono troppo congestionati per garantire a tutti le cure necessarie.
Dunque, augurare a qualcuno il coronavirus non equivale direttamente a prospettargli la morte. Ma innesca una situazione ancora peggiore: l’angoscia verso un pericolo indeterminato e sfuggente. Non sapere a quale destino si andrà incontro. Ecco perché Juan Jesus si è offeso per la frase, dicendo che chi l’ha scritta aveva “mezzo cervello”.

NEI DIALETTI

I dialetti hanno radici più antiche rispetto all’italiano. E così sono molto più ricchi di fantasiose e crudeli maledizioni. E in questo campo, il primato va al sardo e al napoletano: probabilmente in Sardegna e in Campania è ancora diffusa una mentalità magica e superstiziosa

Bolognese

♦ CAT VEGNA UN CANCHER: che ti venga un cancro. Oltre a essere un malaugurio, questa espressione è usata anche come imprecazione, per sfogo contro una situazione sgradita.  

Milanese 

♦ VA A ONGES:  vai a ungerti. Si basa sull’antica credenza che si potesse contrarre la peste a causa di unguenti malefici che i malvagi spargevano sulle porte, sui muri, sulle cose.

Sardo

In sardo, maledire si dice “frastimare”. E le maledizioni sono davvero abbondanti:
♦ IS MANUS CANCARADAS/CANCARAU SIADA: che ti si blocchino le mani (per una paresi).
♦ ANCU TI SI BENGADA SU BREMINI: che ti vengano i vermi.
♦ ANCU TI CALIDI GUTTA: che ti venga la gotta.
♦ TINDI DEPPINT’ARRUI IS’OGUS IN SU COMURU: che ti cadano gli occhi nel cesso. Malattia impossibile, ma la prospettiva fa impressione.

Napoletano

Chi vuole il male di questa casa deve morire prima di entrare.

Come il sardo, è un dialetto ricco di immagini macabre, che si spingono non solo ad augurare malattie gravi e pesanti sofferenze: arrivano anche a proiettarsi fino al post-mortem, in una sorta di vilipendio di cadavere.
♦ PUOZZ’ CACÀ SANG: che tu possa cagare sangue (per un tumore intestinale o emorroidi)
♦ PUOZZ’ CICÀ: che tu possa perdere la vista
♦ PUOZZ’ STRUPPIÀ: che tu possa diventare storpio
♦ PUOZZ’ NZURDISC: che tu possa diventare sordo
♦ PUOZZ JETTÀ O’ SANG: che tu possa buttare il sangue, ovvero subìre una pesante emorragia
♦ TE POZZA VENÌ ‘NU TOCCOche ti venga un colpo apoplettico
♦ PUOZZE SCULÀ: che tu possa perdere i fluidi corporei (procedimento usato prima di inumare i cadaveri).
♦ PUOZZE SCHIATTÀ: che tu possa scoppiare, cioè (sempre da cadavere) gonfiarti fino a esplodere

Ringrazio Michelangelo Panico per le segnalazioni delle maledizioni in napoletano

A questo post ha dedicato un servizio l’emittente locale “Il 13” (TriVeneto) nell’edizione serale del Tg del 4 aprile. Potete vederlo cliccando sul player qui sotto:

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Si possono dire parolacce al lavoro? https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/ https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/#respond Sun, 02 Feb 2020 20:12:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=16745 C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina… Continue Reading

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Le volgarità possono costare il posto, ma non tutte (montaggio foto Shutterstock).

C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina viziata”: lei l’ha portato in tribunale chiedendogli un risarcimento di 12 milioni di dollari. Come andrà a finire?
Difficile dirlo. Le sentenze sulle offese pronunciate negli ambienti di lavoro sono molto diverse fra loro. Chi finisce sotto processo può aspettarsi di tutto: di essere multato, licenziato o dichiarato innocente
In Italia è rimasto scottato Gian Luca Rana, il figlio del re dei tortellini. E, negli Stati Uniti, il fondatore di Apple Steve Jobs e il padre del sistema operativo Linux, Linus Torvalds: qui sotto vi racconterò le loro storie.

Quando vengono insultati, i capi licenziano: ma spesso è un provvedimento eccessivo (Shutterstock)

Ma allora come dobbiamo regolarci? Si possono usare o no le parolacce sul lavoro?  La risposta è maledettamente complessa: “dipende”. Dipende da chi le dice, da come le dice, da chi le subisce e in quale ambiente. Infatti, se ci fate caso, il quesito è generico: chiedere cosa si rischia dicendo parolacce sul lavoro è come domandare se lo sport è pericoloso. L’alpinismo lo è senz’altro, ma le bocce molto meno, anche se entrambi sono “sport”. Infatti anche le parolacce, come lo sport, sono una grande famiglia che comprende espressioni molto diverse fra loro: insulti, termini enfatici, imprecazioni, oscenità… Ciascuna ha una carica offensiva diversa, e può essere usata in modi e in ambienti differenti. 

Come giudicano i giudici

Dunque, per valutare quanto è rischioso l’uso di un’espressione scurrile, bisogna entrare nel merito ed esaminare la situazione in ogni dettaglio. In questo articolo racconterò i principali orientamenti della giurisprudenza sul lavoro, dividendoli a seconda del tipo di scurrilità e di situazione. Perché i magistrati, quando si pronunciano su questi casi, soppesano non solo la carica offensiva di un insulto (c’è un ottimo libro che racconta come sono stati giudicati oltre 1.200 termini), ma devono considerare anche altri elementi: l’intenzione del parlante, i suoi modi, il contesto in cui parla e chi lo ascolta. Sono fattori importanti, che possono appesantire o annullare la carica offensiva di una parola.

Negozio imbrattato con scritte insultanti a Fermo.

Prima di passare in rassegna i principali casi, un’avvertenza importante: ricordo che sono un giornalista e linguista, non un giurista. Quindi, la mia rassegna è una sintesi giornalistica, non una rassegna giurisprudenziale completa. Se cercate un parere giuridico qualificato su un caso specifico, dovete rivolgervi a un avvocato.
Per praticità, ho suddiviso i casi nelle due grandi famiglie di parolacce:

 1) imprecazioni, modi di dire e oscenità, ovvero le volgarità usate per “colorire” il discorso ma senza ledere l’onorabilità di una persona (“Che rottura di coglioni!”, o “Porca puttana!”, o “Questo cazzo di computer”);

2) insulti (“Sei uno stronzo”) e maledizioni (“Vaffanculo”), cioè le espressioni che danno un giudizio negativo o augurano il male a un’altra persona. 

Nel nostro Codice, infatti, gli insulti sono sempre puniti (tranne particolari eccezioni), mentre per le maledizioni non c’è un orientamento univoco: a volte sono assolte come “mere espressioni di fastidio”, a volte sono condannate. Dipende da come vengono dette (con aggressività, esasperazione, astio…) e a chi: quelle rivolte a un’autorità o a un pubblico ufficiale (poliziotto, insegnante, carabiniere, giudice, controllore…) di solito sono punite.

1) IMPRECAZIONI, MODI DI DIRE, OSCENITA’

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FRA COLLEGHI
 

Al lavoro, siamo liberi di sfogarci o di colorare il discorso? Possiamo dire “Che giornata di merda oggi!”? Dipende dal tipo di lavoro.

Se è un lavoro a contatto con il pubblico, questo tipo di linguaggio è condannato perché è considerato inopportuno e inaccettabile: rischia di ferire la sensibilità dei clienti, e di ledere l’immagine dell’azienda.
In generale, osserva Yehuda Baruch, docente di management alla Southampton Business School, “le società, per allinearsi alle aspettative dei clienti, evitano di esprimersi in un linguaggio volgare perché questo contrasta con le norme sociali. Perciò proibiscono l’uso del linguaggio forte al personale che ha contatto col pubblico”. Chi svolge professioni come il medico, l’infermiere, l’impiegato delle Poste, il portiere d’albergo, il cameriere, il cassiere è tenuto a usare un vocabolario pulito con i clienti/pazienti. Perché chi usa un linguaggio a tinte forti dà l’impressione di essere irrispettoso, incapace di controllarsi, scomposto. In una parola, maleducato: i clienti/pazienti si sentirebbero a disagio, e l’azienda perderebbe prestigio

Fra colleghi spesso si usano parole forti (Shutterstock).

Ma spesso, dietro questa facciata “per bene”, il dietro le quinte è ben diverso. Le aziende, insomma, hanno una doppia morale: se da un lato vietano ai dipendenti di essere volgari davanti ai clienti, dall’altro permettono, o tollerano, o si disinteressano del fatto che dicano parolacce fra loro. Anche perché questa abitudine svolge funzioni importanti: cementa la confidenza fra colleghi, rende più fluide le interazioni e aiuta a sfogare gli stress.
L’ha accertato uno studio fatto in Nuova Zelanda dalla Victoria University di Wellington  e pubblicato sul “Journal of pragmatics” nel 2004. I ricercatori hanno studiato le interazioni fra gli operai di una fabbrica di sapone. Scoprendo  che i lavoratori imprecavano per lo più all’interno del proprio gruppo, usando invece un linguaggio pulito con gli altri. L’espressione “fuck” (fanculo, cazzo) era  utilizzata per “legare i membri del team, allentare le tensioni ed equilibrare i rapporti fra colleghi con diversi livelli di potere e responsabilità“.

Usare un linguaggio sboccato insomma è una manifestazione di parità e confidenza: è come dire “Ti conosco così bene che posso essere così scortese con te”. Senza contare che riducendo le barriere della formalità, un linguaggio più “terra terra” permette rapporti più sciolti e confidenziali.

Anzi: fra colleghi, le regole si ribaltano: chi parla un linguaggio “educato” rischia di essere emarginato, invece di essere apprezzato. Lo ha vissuto sulla propria pelle un collega del professor Baruch, Stuart Jenkins, che aveva lavorato come magazziniere in un magazzino di vendita per corrispondenza nel Regno Unito: al’inizio era stato escluso dal gruppo, ma le cose sono cambiate dopo un confronto rude contro un altro dipendente, che l’aveva accusato di lavorare molto meno di lui. Jenkins gli ha risposto: “Ma vaffanculo, tu sei uno stronzo pigro”.
Il diverbio è finito lì. Ma da quel momento, Jenkins è stato invitato a partecipare alle pause caffé da cui finora era stato escluso. Il ricercatore ha raccontato l’esperienza sul “Leadership organization development Journal”, concludendo che le parolacce sono “un rito di iniziazione che cementa i legami col resto del gruppo”. Insomma, fra colleghi l’inciviltà diventa accettabile, e il comportamento antisociale (spesso veicolato dalle parolacce) diventa socievole. A patto che questo avvenga fra pari grado: lo si può fare con i propri superiori solo se lo consentono o lo favoriscono.

Ben diverso, invece, l’uso delle oscenità, ovvero dei termini sessualmente espliciti. Il confine fra una battuta spiritosa piccante e la molestia, infatti, è molto labile. Chi la fa, deve essere certo che la battuta sia solo e soltanto scherzosa, e che chi la ascolta (se è una persona di sesso opposto) gradisca questo genere di ironia.

Una recente sentenza della Cassazione (1999/2020), infatti, ha ribadito che rivolgere alle colleghe, con insistenza, battute a sfondo sessuale o domande sulle loro abitudini sessuali (anche senza usare termini volgari) ricade nel reato di molestie sessuali, che prevede l’arresto fino a 6 mesi e un’ammenda fino a 516 euro.
 

IMPRECARE AL CAPO
 

Ma nei rapporti con i superiori le cose si complicano. Un autista di autobus che lavorava per una società di Velletri, ad esempio, aveva imprecato (non sappiamo cos’abbia detto, probabilmente qualcosa tipo “E che cazzo!”) quando il suo capo gli aveva chiesto di fare gli straordinari. E il capo l’aveva licenziato. Dopo 2 gradi di giudizio, la Cassazione (sentenza 19460/2018) ha annullato il licenziamento, considerandolo un provvedimento spropositato, a maggior ragione per il fatto che l’autista non aveva insultato il suo superiore ma si era solo sfogato, seppure usando termini forti.

Scelta simile anche per un medico napoletano che in un momento di rabbia aveva detto al direttore dell’ospedale, davanti a impiegati e utenti, “ma tu non hai un cazzo da fare… cresci una buona volta!”, sbattendo la porta. Era stato licenziato, ma la Cassazione (sentenza 12102/2018) lo ha fatto riassumere perché ha considerato il provvedimento “sproporzionato”.

Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro, infatti, non è il rispetto della forma (che ha pure un peso), quanto il rispetto di orari, mansioni, prestazioni. Se un dipendente insulta il proprio capo, per rimettere i rapporti sui giusti binari è sufficiente una lettera di richiamo o al limite una sospensione dal lavoro per qualche giorno. Il licenziamento è una misura eccessiva: offendere un capo non è un delitto di “lesa maestà”. Vista l’asimmetria dei rapporti (il capo ha potere, il dipendente molto meno) un insulto detto in un momento di stress si può anche tollerare, se rimane un caso isolato.

QUANDO IL CAPO IMPRECA AI SOTTOPOSTI
 

E cosa succede a ruoli invertiti? Ovvero quando un capo usa un linguaggio triviale coi sottoposti? Prendiamo ad esempio Steve Jobs: il fondatore della Apple era noto infatti per non avere peli sulla lingua. Con chiunque: fossero estranei, manager di altre società, giornalisti o anche i propri sottoposti.  All’amministratore delegato della Nike, Mike Parker, ha detto in faccia: “Produci alcuni dei migliori prodotti al mondo, ma fai anche un sacco di merda. Sbarazzati delle cose di merda”. Ma il discorso diventa delicato quando queste critiche sprezzanti sono rivolte ai propri sottoposti. Anche se il giudizio pesante è rivolto a una prestazione, è molto probabile che si senta colpito anche l’autore della prestazione: la nostra autostima si basa anche sulla stima altrui, soprattutto se è quella del capo.

Steve Jobs: non le mandava a dire a nessuno, sia in azienda che fuori.

A Ken Kocienda, l’ingegnere che aveva realizzato la prima versione del software di iPhone, Steve Jobs disse che il suo lavoro era “Merda di cane”.
Che fare? Dargli ragione sarebbe stata una pessima idea: “avrei dovuto spiegare perché gli davo un prodotto fatto male”, ha raccontato in un articolo sul Wall Street Journal. Ma contestare il giudizio sarebbe stato peggio: pensi di saperne più di Steve Jobs in campo informatico? Quella frase, per fortuna, non era l’inizio di un lungo cazziatone, ma è rimasta isolata. “Mi alzai e la ascoltai senza commentare”, dice Kocienda. Nonostante questo episodio, Kocienda ha lavorato in Apple per 16 anni: “Da quell’esperienza ho capito due cose. La prima è che il prototipo nuovo di zecca di un prodotto spesso non va bene. Risultati eccellenti arrivano solo alla fine di una lunga catena di sforzi. E quando è necessaria una revisione, di solito è meglio dirlo chiaramente, senza girarci intorno. La seconda cosa che ho capito è che una critica può essere efficace anche se non è costruttiva. Steve non ha mai avuto problemi a rifiutare qualcosa senza dare spiegazioni. Se non gli piaceva qualcosa, lo diceva e basta. Le critiche dirette, anche brutali, possono aiutare a migliorare un progetto se c’è un ambiente di fiducia in cui tutti sanno che i commenti riguardano il lavoro che hai fatto e non te come persona”.

L’ultima precisazione è determinante: una critica anche aspra da un capo si può tollerare se – e solo se – avviene in un ambiente che dia valore ai contributi di tutti e abbia un obiettivo condiviso da tutti. Solo in questo contesto di stima e alleanza reciproca ci si può permettere di dire la verità, di chiamare le cose con il loro nome, anche se è un nome scomodo.
Anche se, in questa vicenda, hanno giocato anche altri fattori: la stima verso Jobs, la consapevolezza di lavorare per uno dei guru dell’informatica e di contribuire a rivoluzionare il settore. E per uno stipendio presumo corposo. Non è così comune lavorare in contesti come questo. E, personalmente, a un genio sgarbato ne preferisco uno un po’ meno genio ma gentile.

2) INSULTI

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ALL'AZIENDA
 

Il caso che sto per raccontare è finito nell’ultima “Top ten”, la classifica delle 10 parolacce più emblematiche del 2019. E’ una pronuncia controcorrente della Cassazione (sentenza 12786/2019): l’anno scorso aveva respinto il licenziamento di una guardia giurata che, lamentandosi con la centralinista per alcuni disservizi, si era sfogato dicendo “che azienda di merda”.

La Cassazione l’ha difeso affermando che un dipendente non ha “alcun dovere di stima nei confronti della propria azienda”. Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro consiste nel fatto che il lavoratore osservi i doveri di diligenza e fedeltà. E tanto basta. Ma attenzione: i giudici hanno dato ragione alla guardia giurata solo perché il suo volgare giudizio è rimasto all’interno dell’azienda. Se avesse detto la stessa frase su Facebook o in un bar, la guardia avrebbe commesso il reato di diffamazione e il suo licenziamento sarebbe rimasto probabilmente definitivo. Perché in quel caso l’insulto avrebbe leso all’esterno l’immagine, l’onorabilità dell’azienda: e questo rischia di danneggiarla, ovvero di farle perdere credibilità e clienti.

FRA COLLEGHI

Se un lavoratore insulta un collega, non ci sono alternative: sarà condannato. La legge, infatti punisce l’ingiuria (le offese dette in presenza dell’interessato) e la diffamazione (offese dette davanti ad altri, in carne e ossa o sui social network).
Proprio per quest’ultimo reato è stato condannato (Cassazione, sentenza 50831/2016) un docente di Napoli che aveva affisso sulla bacheca della scuola un foglio in cui definiva “ignorante” una collega a proposito delle norme antifumo. 

INSULTARE IL CAPO
 

Il rapporto fra capo e sottoposti è asimmetrico: il capo ha il potere di decidere l’organizzazione del lavoro (orari, mansioni), oltre che la carriera e lo stipendio del dipendente. E c’è un’asimmetria anche nel campo della comunicazione: il capo può redarguire i suoi collaboratori, ma non è ammesso l’inversoEcco perché in alcuni casi la magistratura ha riequilibrato questo rapporto difendendo i lavoratori che avevano “osato” criticare aspramente i loro responsabili.

Per esempio, la Cassazione (Sentenza 17672/2010) ha assolto un avvocato che, parlando del proprio responsabile (in sua assenza) aveva detto “è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo”. Per i giudici, quelle espressioni non erano gratuitamente offensive, ma erano un modo “sintetico ed efficace di rappresentare la conduzione scorretta dell’ufficio, che rischia di portarlo alla rovina”. Insomma, a volte una doccia fredda può servire a rimettere capo e colleghi sulla retta via.
E cosa succede se si dice in faccia “ignorante” al proprio capo? L’impiegato di una ditta di Potenza era stato licenziato per questo, ma la Cassazione (sentenza 14177/2014) l’ha fatto riassumere, considerando sproporzionato il provvedimento: un’offesa, per quanto irritante, non è così grave da impedire di proseguire un rapporto di lavoro.

Il licenziamento, infatti, è ammissibile solo quando nega gravemente gli elementi essenziali del rapporto di lavoro, e in particolare la fiducia. Se un dipendente non si presenta puntuale in ufficio, se lavora male, se ruba i soldi, allora in questo caso è licenziabile perché procura un grave danno morale o materiale all’azienda.

QUANDO IL CAPO INSULTA I SOTTOPOSTI

Ma quando accade il contrario, ovvero, quando è il datore di lavoro a offendere un proprio dipendente, il discorso cambia: i giudici puniscono i capi che dalla loro posizione di potere mancano di rispetto ai sottoposti (che di solito non reagiscono, temendo di perdere il lavoro).
E’ il caso di un uomo di Avezzano, che aveva strigliato una propria dipendente dicendole “Sei una stronza se te la prendi”. La Cassazione (Sentenza 35099/2010) l’ha condannato a pagarle 800 euro di risarcimento ribadendo che quando un datore di lavoro fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non può prescindere dai “normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica”.

Lo stesso principio è stato ribadito anche in caso di prese in giro insultanti. La Cassazione (ordinanza 4815/2019) ha ribadito infatti che Gian Luca Rana, amministratore delegato e figlio del fondatore del celebre pastificio Rana, dovrà risarcire un ex manager: in pubblico lo chiamava “finocchio”. Il manager non gradiva l’appellativo, ma taceva “perché era in una condizione di inferiorità gerarchica”, e temeva conseguenze per la propria carriera e per il suo stesso posto di lavoro. Così ha fatto causa all’azienda solo dopo essersi dimesso, lamentando uno “stato d’ansia e di stress e danni alla vita di relazione, alla dignità e professionalità”. Rana si è difeso dicendo che era un appellativo scherzoso: può darsi, ma scherzare davanti ad altri sull’orientamento sessuale di un’altra persona non è una scelta rispettosa. Tant’è che la Corte ha deciso che l’ex manager aveva diritto a un risarcimento per la lesione di “diritti inviolabili della persona”.  

Linus Torvalds fa il dito medio contro Nvidia, produttore di chip da lui contestato.

Ne sa qualcosa anche Linus Torvalds, l’informatico finlandese che ha sviluppato Linux, il celebre software “open source”. Torvalds è stato molto contestato perché nelle chat con gli sviluppatori del programma (gratuito) chiamava alcuni di loro “fucking idiots” (idioti del cazzo). Di fronte all’ondata di indignazione internazionale per questo comportamento, nel 2018 Torvalds ha riconosciuto che “il suo comportamento non andava bene”, dicendosi molto dispiaciuto. Tanto che si è preso una pausa per “farsi aiutare a comportarsi in modo diverso”. E ora il progetto Linux si è dato un codice di condotta che stabilisce di usare un comportamento professionale e gentile. 

Per approfondire

Se siete interessati al tema “leggi e parolacce” su questo sito trovate molti altri articoli sull’argomento (cliccare per andare al link):

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https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/feed/ 0
Perché, al volante, insultiamo come trogloditi https://www.parolacce.org/2018/10/02/offese-insulti-automobile-incivilta/ https://www.parolacce.org/2018/10/02/offese-insulti-automobile-incivilta/#respond Tue, 02 Oct 2018 07:49:32 +0000 https://www.parolacce.org/?p=14625 Perché al volante, anche le anime candide diventano volgari come scaricatori di porto? Che cosa scatta nella nostra testa quando siamo nel traffico, portandoci a insultare, imprecare e fare gestacci peggio degli ultras allo stadio? In questo articolo risponderò a queste… Continue Reading

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Un gestaccio in auto: stando chiusi nell’abitacolo, è il modo più efficace di insultare (foto Hayk_Shalunts/Shutterstock)

Perché al volante, anche le anime candide diventano volgari come scaricatori di porto? Che cosa scatta nella nostra testa quando siamo nel traffico, portandoci a insultare, imprecare e fare gestacci peggio degli ultras allo stadio? In questo articolo risponderò a queste domande con l’aiuto di uno studio pubblicato dall’università di Valencia. La ricerca ha vinto l’IgNobel, il premio ironico assegnato ogni anno negli Usa alle ricerche strane, divertenti o assurde, che “prima fanno ridere e poi fanno riflettere”.
Lo studio, infatti, ha il merito di accendere i riflettori su un problema diffuso: l’aggressività sulle strade. Un problema che riguarda anche l’Italia: secondo una recente ricerca europea, non siamo i più volgari del Vecchio continente (il primato spetterebbe alla Grecia), ma siamo comunque al 3° posto per inciviltà verbale al volante. Perché accade questo? E si può fare qualcosa per portare più civiltà sulle strade?
Prima di raccontare la ricerca spagnola, val la pena partire proprio dai numeri: quanto sono frequenti le ingiurie nel traffico?

Gli automobilisti più volgari in Europa

I risultati del sondaggio Ipsos sugli insulti (clic per ingrandire).

Quest’anno, la fondazione francese “Vinci autoroutes” (la società che gestisce le autostrade francesi) ha pubblicato un report, intitolato “Gli europei e la condotta responsabile”. Con un sondaggio svolto da Ipsos, la fondazione ha intervistato 11.038 persone (dai 15 anni in su) di 11 Paesi europei: Francia, Germania, Belgio, Spagna, Regno Unito, Italia, Svezia, Grecia, Polonia, Paesi Bassi, Slovacchia.
Fra gli aspetti affrontati, c’era l’inciviltà al volante: comportamenti come “clacsonare contro altri automobilisti che ti innervosiscono”, “temere il comportamento aggressivo da parte di un altro conducente”, “urtare deliberatamente il veicolo di chi vi innervosisce”, “sorpassare a destra”, “scendere dal veicolo per discutere con altri conducenti”… E – ciò che interessa a noi – “offendere un altro guidatore”.
Nelle risposte è emerso che lo scenario più diffuso (nell’81% dei casi) è la paura del comportamento aggressivo da parte di altri guidatori, soprattutto in Francia, Spagna e Grecia. Il secondo comportamento più frequente (55%) sono proprio gli insulti. Un campo nel quale, a dispetto delle nostre aspettative, non siamo in cima alla classifica: primeggia la Grecia (71%), seguita a pari merito da Francia e Germania (69%). L’Italia (65%) è al terzo posto. L’unica isola di civiltà risulta la Svezia, dove afferma di insultare solo un guidatore su 4 (28%).

Una ricerca premiata

Al volante, anche le donne offendono (foto Demkat/Shutterstock)

Al di là dei numeri, comunque, perché le offese diventano frequenti “on the road”? A questa domanda ha voluto rispondere la ricerca di Francisco Alonso dell’Istituto di sicurezza stradale dell’Università di Valencia. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Journal of sociology and anthropology”, si intitola “Shouting and Cursing while Driving: Frequency, Reasons, Perceived Risk and Punishment” (Grida e imprecazioni mentre si guida: frequenza, motivi, rischio percepito e punizione). E, come dicevo, ha vinto l’IgNobel per la pace assegnato dalla rivista scientifico-umoristica statunitense “Annals of Improbable Research”: questa rivista, tra l’altro, aveva a suo tempo segnalato il mio scoop sul professor Stronzo Bestiale.
Ma torniamo alla ricerca spagnola, premiata “per la pace” perché si proponeva di ridurre l’aggressività sulle strade. I ricercatori hanno fatto un sondaggio su 1.100 persone, per approfondire la frequenza, e le motivazioni, delle offese al volante. Il risultato è diverso da quello del sondaggio francese: mentre in quest’ultimo, il 59% degli spagnoli affermava di insultare alla guida, nella ricerca spagnola il numero si riduce alla metà. Solo il 26,4% dei guidatori, infatti, ha ammesso di offendere gli altri. Ma questa discordanza potrebbe dipendere da una miriade di fattori, a partire dalla scelta e composizione del campione. In ogni caso, la accantoniamo, perché la parte interessante della ricerca è un’altra: l’analisi dei motivi per i quali si insultano gli altri.

Perché offendiamo: questione di sopravvivenza

Secondo la ricerca, i tre motivi che spingono più spesso a insultare gli altri sono i seguenti:

  1. per reazione nei confronti di chi infrange una regola del Codice stradale (22,5% delle risposte): dunque, la rabbia si scatena quando qualcuno non rispetta le regole, perché si sente “più uguale degli altri” e pregiudica la convivenza civile in strada.
  2. per reazione a chi compie manovre pericolose (21,4%);
  3. per reazione a chi mi mette in pericolo (13,6%), a pari merito con “lo stress personale”. Quest’ultimo, lo stress personale, avrebbe meritato un approfondimento: perché siamo stressati? Secondo me, perché dobbiamo districarci in un traffico che diventa ogni giorno sempre più ingovernabile. Le città, le autostrade sono spesso intasate: non riescono a reggere l’afflusso di così tante vetture. E così si creano ingorghi, si perde tempo in coda, e ci si innervosisce (e qualcuno tenta di cavarsela facendo il furbo, vedi il punto 1).

Rabbia e paura sono i motori degli insulti stradali (foto tommaso79/Shutterstock)

Le risposte 2) e 3) sono molto simili: nel 35% dei casi (dunque, una volta su 3) ci arrabbiamo e insultiamo perché ci sentiamo in pericolo. E non è una sensazione illusoria: in Italia, solo nel 2017 ci sono stati quasi 175mila incidenti con lesioni, che hanno causato 3.378 morti e 246.750 feriti. L’Italia è al 18° posto in Europa per vittime della strada (55,8 per milione di abitanti, dati Istat). Dunque, in automobile si impreca perché corriamo davvero il rischio di lasciarci le penne o di rimanere feriti.
Dunque, in generale, le offese stradali esprimono rabbia e paura. Ed è inevitabile:  le parolacce, infatti, sono il linguaggio delle emozioni. E le emozioni sono le reazioni psicofisiche di fronte a uno stimolo che mette in gioco la nostra sopravvivenza. Dunque, quando qualcosa minaccia (o favorisce) la nostra sopravvivenza, noi diciamo parolacce. Un’ulteriore prova che il traffico urbano “è una giungla in cui la miglior difesa è l’offesa”, scrive Alonso. D’altronde, bisogna ricordare che quando siamo in auto non è in gioco solo la nostra sopravvivenza (o integrità) fisica. Sono in gioco anche altre cose importanti: un eventuale incidente ci fa perdere tempo (burocrazia, avvocati), soldi (meccanico, assicurazione), e ci potrebbe lasciare a piedi se il danno è grave.
A tutti questi fattori, Alonso ne aggiunge un altro: “tendiamo a vivere la nostra vettura come una casa su ruote, la cui integrità va mantenuta a ogni costo”: quindi, se qualcuno viola o mette in pericolo questo nostro spazio, fa scattare i nostri impulsi più primitivi di “difesa del nostro territorio”.
Dunque, viste le dinamiche primordiali in gioco (e visto che le città diventano sempre più congestionate dal traffico), dubito fortemente che sia possibile limitare le ingiurie al volante. Anche se un po’ più di civiltà al volante e di educazione stradale non guasterebbero di certo, anzi.

Che fare? La lezione di Fantozzi

Dunque, i motivi per imprecare abbondano, e sono anche per molti versi comprensibili. Ecco perché, in molte sentenze italiane, la Cassazione ha assolto persone che avevano pronunciato insulti anche pesanti nel traffico: la strada solletica i nostri istinti primordiali, quindi non ci si può scandalizzare troppo per le offese che nascono sull’asfalto. E, per inciso, lo stesso criterio di tolleranza è usato dai magistrati anche per valutare i diverbi in condominio, in politica e allo stadio. Tutti contesti dove le passioni si infiammano facilmente e le parole sono più volatili.
Ma attenzione: questo non significa che si possa insultare senza conseguenze, anche se si ha ragione. Se dite “figlio di puttana” a chi non rispetta la precedenza, correte il rischio che si offenda anche se ha torto. E che la rissa degeneri dalle parole ai fatti, come mostra questa celebre scena del film “Fantozzi” (1975): la signorina Silvani, a bordo dell’utilitaria di Fantozzi, dice a tre energumeni aggressivi a bordo di un’altra auto “Siete tre stronzi!” . Ecco cosa succede al malcapitato ragioniere:

Dunque, una migliore educazione civica ed educazione stradale possono aiutare a migliorare la situazione. Ma non bastano: se le strade continueranno a essere insufficienti ad assorbire il traffico di oggi, continueremo a sbroccare. Lo farebbe chiunque.
In futuro, vedremo se quando sulle strade circoleranno solo auto a guida autonoma, e il traffico sarà gestito in modo più razionale dall’intelligenza artificiale, i nostri nipoti si sfanculeranno meno di quanto facciamo noi oggi…

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Alcuni insulti discussi in tribunale (elaborazione foto Shutterstock).

Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi“, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi: questa espressione va condannata perché “è indice di disprezzo“, replica la Suprema Corte in un altro pronunciamento.
Le sentenze sugli insulti sono appassionanti, ma spesso sembrano contraddirsi e perciò rischiano di creare confusione: che cosa si può dire, allora, senza rischiare di finire in tribunale?
La questione è vitale, come testimoniano i numerosi e accorati appelli che mi arrivano da quando ho scritto un post sulla riforma del reato di ingiuria: «Se do a qualcuno dello “sciacallo” su Facebook, mi può denunciare?», chiede Luca. «Dopo che la mia ex fidanzata mi ha detto che mi aveva tradito, ai suoi messaggi sul telefonino ho risposto con pesanti parolacce, tipo lercia, zoccola, viscida, ecc , rischio qualcosa?», incalza Andrea.
Non sono quesiti astratti, visto che le leggi puniscono le offese (ingiuria, diffamazione, oltraggio) con multe fino a 12mila euro e carcere fino a 5 anni.

Ora, però, c’è finalmente un quadro d’insieme: lo offre il “Dizionario giuridico degli insulti” (A&B editrice, 196 pagg, 18 €), un libro straordinario, appena pubblicato, che passa in rassegna oltre un secolo di sentenze pronunciate dai tribunali italiani. Potete trovare, in ordine alfabetico, i pronunciamenti su 1.203 termini insultanti (da “A fess ‘e mammeta” a “Zozzo”) e 83 gesti (dal dito medio all’ombrello). L’autore è un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D’Alessandro, che i lettori di questo blog ricorderanno per un suo precedente libro (di cui avevo parlato qui), che pubblicava le statistiche sugli insulti più denunciati in tribunale (vedi grafico più sotto).
Il nuovo dizionario (a sin. la copertina) è un’opera preziosa: può essere utile non solo ai giuristi e ai linguisti, ma anche ai sociologi (per capire come cambia la percezione delle offese nel corso delle epoche) e ai giornalisti e blogger, per sapere quali parole possono o non possono usare nel criticare un personaggio pubblico.
Ma attenzione: fino a un certo punto, come spiegherò più sotto. Le parolacce, infatti, non si lasciano ingabbiare in una sentenza – di condanna o di assoluzione – perché possono essere usate in molti modi e non solo illeciti. Le parolacce, infatti, sono come i coltelli: si possono usare per ferire o uccidere, ma anche per sbucciare una mela o incidere una scultura nel legno…

PAROLE CONDANNATE

Nel libro, del quale ho scritto la prefazione, trovate tutti gli insulti classici (stronzo, carogna, puttana, verme, ladro, fogna, infame…). E anche espressioni molto più creative o ispirate dalla letteratura e dalla cronaca: dentiera ambulante, diesel fumoso, ancella giuliva, barabba, azzeccagarbugli, Zio Paperone, Papi girl, Pacciani, Lewinsky
Ma fra i termini offensivi sottoposti a giudizio trovate anche parole neutre (tizio, boy scout, coccolone) o addirittura complimenti: bella, bravo, onesto. Tutte – badate bene – espressioni condannate come insulti. Com’è possibile?
Dipende dall’intenzione comunicativa: se è vero che con le parolacce posso esprimere anche affetto (fra amici: «Come stai, vecchio bastardone?»), è altrettanto vero che 
si può camuffare un’offesa sotto le sembianze di un complimento.
Ne sa qualcosa, racconta il libro, la persona che nel 2010 disse a due vigilesse: «Siete due gran
fiche». E’ stata condannata, e non per sessismo: l’automobilista che aveva detto quella frase sarcastica era infatti una donna di Modena. Che stava usando un’altra figura retorica, l’antifrasi: una locuzione il cui significato era l’esatto opposto di quello che ha letteralmente. Dunque, vale la seguente equazione: complimento = insulto. La medesima parola, insomma, può avere entrambe le funzioni a seconda del tono (ovvero dell’intenzione comunicativa) con cui viene detta.

Gli insulti più processati in tribunale (clic per ingrandire)

Ecco perché i magistrati, per giudicare se una parola sia stata davvero offensiva, usano lo stesso criterio di un buon linguista: collocano quella espressione nel contesto. Cioè vanno a guardare chi l’ha detta, quando, perché, a chi, dove, con quale intenzione comunicativa.
E così
, grazie a questi dettagli, questo libro racconta tante storie, spesso divertenti. Come quella del magistrato che aveva chiamato i propri colleghi, durante un’infuocata camera di consiglio, “minchie mortee “nani mentali(fu condannato dalla Cassazione nel 2004). 
O quella dell’automobilista punito dalla Suprema corte nel 2011 per aver detto a un poliziotto che l’aveva sanzionato durante un controllo stradale: «Questa multa non mi toglie nemmeno un pelo di minchia». Peccato, era una bella battuta.
Altri giudici, in passato, si erano dimostrati più tolleranti: avevano assolto un uomo che aveva detto a un collega «Mi
fai una sega tu e la legge». Perché, scrissero i magistrati dell’epoca (era il 1948!) la frase, per quanto volgare e come tale emendabile, «aveva il significato traslato di “Sono assolutamente tranquillo di fronte alla minaccia di adire vie legali”».

I CONFINI DELLA CRITICA

Alcuni insulti fanno rischiare la galera (Shutterstock).

Ma fino a che punto ci si può spingere nel criticare qualcuno?
La libertà di criticare un personaggio pubblico è uno dei cardini della democrazia e della libertà di stampa. E’ in nome di questa libertà che Vittorio Feltri è stato assolto per la sua rubrica «Il bamba del giorno», che metteva alla berlina vari protagonisti delle cronache. Una critica anche feroce, purché argomentata, è infatti tollerata. Ma salendo di tono e di bersaglio, questa libertà inizia a scricchiolare: è legittimo affibbiare il soprannome di “Cialtracons” al Codacons, l’associazione dei consumatori? I giudici hanno detto di no.
E’ il noto dibattito sui confini della satira: fino a dove può spingersi per «castigare i costumi attraverso il riso»? La Cassazione parla di “continenza”: si possono usare parole forti, purché siano figlie di un dissenso ragionato. Ma, in realtà, è impossibile stabilire una formula a priori valida per tutti i casi.
E quando si parla di parolacce i dubbi da sciogliere sono numerosi e, a volte, involontariamente comici. Per esempio, muovere il bacino in avanti e indietro dicendo «Suca» (succhia) è un’ingiuria? I magistrati l’hanno inquadrata come atto contrario alla pubblica decenza, ma si potrebbe discutere a lungo. E la frase «Ti rompo le corna» è un’ingiuria o una minaccia? Dipende se si dà più peso al verbo rompere o alle corna...
E augurare a qualcuno che «gli venga un cancro»? Esemplare quanto hanno scritto i giudici della Cassazione nel 2008: «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale».
Miseria umana ma anche superstizione: la maledizione – questo il nome tecnico dell’augurare il male a qualcuno – si basa sulla credenza magica che un desiderio (malevolo) possa realizzarsi davvero. Molte espressioni volgari sono maledizioni, eppure nei loro confronti i giudici hanno pareri discordi: hanno assolto chi ha augurato la morte di qualcuno, ma condannato chi ha detto «Va a morì ammazzato», «Che ti vengano le emorroidi», «Che tu possa sputare sangue», e perfino «Va a cagare» (che per uno stitico sarebbe una benedizione).

SENTENZE DISCUTIBILI

Locandina del “Vernacoliere”, giornale satirico.

Com’è inevitabile, molte sentenze fanno discutere. Perché, in diversi giudizi, rompicoglioni è un termine tollerato («è una manifestazione scomposta di fastidio, di disappunto ma non lede l’onore») mentre rompicazzo è considerato insultante, pur avendo un significato equivalente? Perché i testicoli debbano avere una minor forza insultante rispetto al pene non è dato sapere.
Lo stesso dilemma si pone per i termini pagliaccio e buffone: pur essendo termini sovrapponibili, mentre il primo è stato sempre condannato, il secondo è stato anche assolto. Il buffone, del resto, è una figura ambigua: è ridicolo ma può anche rivelare verità scomode.
Ed è lecito che un insegnante dia dell’asino a un alunno? La Cassazione, nel 2013, ha scritto che il termine «potrebbe, in linea di principio, riconnettersi ad una manifestazione critica sul rendimento del giovane con finalità correttive». Sarà, ma ho qualche perplessità sull’efficacia educativa dell’insulto.
Di certo, per chi come me è giornalista, ovvero fa informazione critica, fa effetto leggere che è stato condannato chi ha usato i termini faccendiere, inqualificabile, modesto, politicante, scalmanato, sciagurato, sconcertante, specioso, strampalato.
D’altra parte, è pur vero che è stato assolto chi ha detto crumiro, dittatore, esaurito, fanatico, fazioso, incauto, inciucio, lacché, lottizzato, nepotismo, pazzo, retrivo, risibile, ruffiano (ma solo in senso metaforico), sanguisuga, sobillatore, sprovveduto, stravagante, superficiale, trombato, trombone, zelante e zombie.
Ma attenzione: non c’è alcuna garanzia che, usando questi termini, la passerete liscia. Dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice. Perché gli insulti possono sì ferire, ma restano pur sempre inafferrabili: come cantava don Basilio nel “Barbiere di Siviglia”, «la calunnia è un venticello».

AVVERTENZA IMPORTANTE

Diversi lettori mi chiedono pareri per insulti ricevuti o fatti. Rispondo volentieri, ma attenzione: sono un esperto di turpiloquio e degli aspetti psicosociali legati ad esso. Non sono un avvocato né un giurista, quindi non sono una fonte qualificata in campo legale. Per un parere qualificato dovete rivolgervi a un avvocato.
In ogni caso, se volete comunque una mia valutazione (sociale, relazionale), spiegate bene le circostanze: cosa avete detto, a chi (senza precisare il nome), dove, perché e se c’erano altri testimoni.
E se volete esprimere la vostra gratitudine per il mio impegno, la soluzione c’è: acquistate una copia del mio ebook. Costa meno di un aperitivo, e aiutate questo sito a vivere.

Hanno parlato di questo post: AdnKronos, L’Espresso, Ansa, Quotidiano.net, IlRestoDelCarlinoFranco Abruzzo, Il GiornaleIl Secolo d’Italia, StravizziFan Page, Enews24, Il DubbioGenova quotidiana, Ultima voce. E qui sotto c’è anche una video recensione di Dellimellow:

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Mi insultano su Facebook: che faccio? https://www.parolacce.org/2016/09/16/offese-social-network/ https://www.parolacce.org/2016/09/16/offese-social-network/#comments Fri, 16 Sep 2016 10:12:15 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10850 Scrive Horacio: «Se su Facebook dico a una donna intollerante con gli stranieri: “Sei una razzista di merda” lei può farmi causa?». Poi c’è il caso di Rosa: «Dopo un battibecco, mia cognata, tramite Whatsapp, mi ha dato della stronza,… Continue Reading

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pugnoScrive Horacio: «Se su Facebook dico a una donna intollerante con gli stranieri: “Sei una razzista di merda” lei può farmi causa?».
Poi c’è il caso di Rosa: «Dopo un battibecco, mia cognata, tramite Whatsapp, mi ha dato della stronza, della bambina viziata, della terrona e tramite emoticon mi ha mandato affanculo e dato della merda. Posso fare qualcosa?».
E il racconto di Elle: «Giocando su un sito online di partite a carte, c’è sempre un tizio che si lamenta per come gioco. Ho scritto in chat che “i rompicoglioni sono sempre presenti” e lui mi ha dato della troia. Cosa posso fare?».

Le storie di Horacio, Rosa ed Elle non sono rare. Me ne hanno raccontate a decine, da quando ho pubblicato su questo sito un articolo sulle nuove regole del reato di ingiuria. Quell’articolo, infatti, è stato sommerso, nei commenti, da decine di appelli (fra cui questi tre), e in pochi mesi è diventato uno dei più cliccati di questo sito. Un fatto inaspettato, dato che parolacce.org è un sito di linguistica e non di consulenza giuridica.
Queste storie mi hanno coinvolto emotivamente perché sono vere e sofferte: provate a leggerle, e vi accorgerete che davvero le parole possono ferire come pietre (o come pugni, vedi il fotomontaggio Shutterstock in alto).
Ma queste richieste d’aiuto sono anche il sintomo di un disagio diffuso: oggi molte persone non sanno come devono comportarsi nelle nuove piazze virtuali dei social network per evitare o affrontare questi “danni collaterali”.
E’ comprensibile.  Questi servizi sono entrati nelle nostre vite molto in fretta. E così, senza rendercene conto, negli ultimi 10 anni siamo diventati tutti non solo “connessi” ma in qualche modo anche “giornalisti”/editori. Grazie a Internet, infatti, possiamo far arrivare la nostra voce ovunque, a decine, centinaia o migliaia di persone. Proprio come i giornali.

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Questa opzione su Facebook non c’è: sarebbe un reato (Shutterstock).

E’ un cambio radicale, e nessuno ci aveva preparati per questo. Abbiamo acquisito grandi poterilibertà, ma siamo entrati in un gioco più grande di quanto immaginiamo. Per chattare su Whatsapp o su Ask, scrivere una recensione su Tripadvisor o su Yelp, pubblicare un post su Facebook o scrivere un tweet non abbiamo dovuto studiare un manuale o superare un test. Ma è come guidare un’auto senza aver preso la patente: possiamo essere piloti formidabili, ma se non conosciamo il Codice della strada rischiamo di prendere multe, di farci male o di finire in galera. Gli stessi rischi che corriamo se usiamo in modo inconsapevole i social network.
Ecco perché in questo articolo troverete una guida pratica su come prevenire e “curare” gli insulti su Facebook & C.

Le regole del gioco

Il primo passo è sapere le regole del gioco. Cioè le leggi. Molti pensano che Internet sia una terra di nessuno, una zona franca in cui ci si può esprimere come si vuole: come con gli amici al bar. Ma non è così: sul Web valgono le stesse norme della vita reale.

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A volte i social network sono un concentrato di insulti (Shutterstock).

In particolare, chi insulta qualcuno su Facebook & C. non commette il reato di ingiuria, che quest’anno è stato depenalizzato (non si rischia più la galera, ma solo sanzioni economiche: lo spiegavo nel mio post). Chi insulta sui social, invece, commette un reato più pesante: la diffamazione aggravata. Lo stesso reato che commettono i giornalisti quando scrivono un articolo ingiustamente offensivo. Ovvero, quando scrivono giudizi infamanti senza averne le prove. Anche gli insulti infatti (dire a qualcuno che è stronzo, bastardo, demente, etc) sono giudizi.
Su Facebook & C. le nostre frasi restano nero su bianco (pixel su pixel, byte su byte) e arrivano a un numero imprecisato di persone. Tanto più che le nostre chat, i nostri post, le recensioni restano online per anni. E li si può leggere in ogni momento e da ogni angolo del pianeta. Anche se contengono le peggiori parolacce.

E allora vediamo in che consiste il reato di diffamazione: quali sono le pene previste, le procedure di denuncia e i tempi. Per sapere tutte le altre leggi che regolano le parolacce in Italia, potete scaricare il mio libro.

DIFFAMAZIONE

Cos’è: si commette il reato di diffamazione quando si offende una persona assente, davanti ad almeno altri 2 testimoni. Questo reato si può commettere anche quando si offende via Facebook, Twitter, Tripadvisor, Google Plus, Linkedin, Yelp, Ask, Whatsapp (se è una chat di gruppo).

Eccezioni

Si può essere assolti se si riesce a provare la verità di un’accusa all’altra persona.

Non è punibile chi ha commesso il fatto come reazione a un’ingiustizia appena subita.

Procedura

Si può denunciare direttamente il fatto alle forze dell’ordine (polizia, carabinieri).
In alternativa, si può incaricare un avvocato di depositare una denuncia in Procura.

Tempi

La querela va presentata entro 3 mesi da quando si è venuti a conoscenza del reato. Dopo la denuncia penale ci si può costituire parte civile per chiedere il risarcimento dei danni subìti. In alternativa si può ricorrere – entro 5 anni – al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni.

Pene

Reclusione fino a 1 anno; oppure multa fino a 1032 €.

Aggravanti (e pene aumentate)

  • se si attribuisce un fatto determinato: se si fa un’accusa concreta (“ha rubato una bicicletta”) senza provarla: reclusione fino a 2 anni; oppure multa fino a 2065 €
  • se si diffama attraverso la stampa (o “altri mezzi di pubblicità“: su Facebook, Twitter, etc): reclusione da 6 mesi a 3 anni, oppure multa di almeno 516 €.

Legge di riferimento: Codice Penale, art. 595 

Leggendo questa scheda, salta subito all’occhio un paradosso: com’è possibile applicare la diffamazione a chi scrive su una chat? La diffamazione, di per sè, significa parlar male di qualcuno in sua assenza. Ma se l’altro è presente, seppure in modo virtuale, dall’altra parte dello schermo, su Whatsapp o Facebook e Twitter? Per la Cassazione, che ha sfornato diverse sentenze sul tema, la presenza digitale non conta: è difficilmente provabile, in un processo, che il destinatario dell’insulto fosse virtualmente “presente” (connesso) quando veniva scritto.
Ovviamente il Codice Penale – scritto nel lontano 1930, quando Internet non esisteva nemmeno nella fantasia degli scrittori di fantascienza – non poteva precisare questo dettaglio. Ma, aggiunge Giuseppe D’Alessandro, avvocato cassazionista a Niscemi, su questo punto non è detta l’ultima parola: in realtà il dibattito è ancora aperto.
«Il nostro Codice» spiega l’avvocato D’Alessandro «vieta di interpretare le leggi in maniera più punitiva per gli imputati. Le interpretazioni che attenuano un reato, quindi, sono possibili. Perciò, nessuno vieta, a un giudice, di interpretare la presenza virtuale come presenza effettiva: e questo trasformerebbe le offese via Facebook & C da diffamazione a ingiuria, un reato meno grave. E non è l’unico problema di interpretazione in questo campo: qual è il Tribunale competente a giudicare gli insulti sui social network? Per saperlo, bisogna sapere dove è stato commesso il reato: e quando il luogo è il cyberspazio, tutto si complica». La tendenza più diffusa, comunque, è di considerare competente il Tribunale dove risiede la vittima, ovvero chi ha presentato la querela. 

LE 9 REGOLE

Se seguirete queste 9 regole, limitate il rischio di offese e querele quando scrivete sui social network:

  1. Non usate mai termini che offendano l’intera persona. Ovvero quando si squalifica qualcuno per l’intelligenza, l’aspetto fisico, il modo di comportarsi (la morale: onestà, il rispetto delle leggi), la competenza professionale. Si può, invece, criticare un singolo comportamento. Meglio dire “Hai fatto una cazzata” (a patto che si spieghi perché) piuttosto che dire “sei un cazzone”. Si possono usare giudizi anche pesanti, purché non siano esageratamente offensivi: meglio dire “quel pesce era cucinato malissimo” piuttosto che “era una merda”. La legge garantisce la libertà di espressione, ma non quella di infangare gli altri.
  2. La regola 1 vale anche se si scrive in un post “chiuso”, non pubblico, riservato a una ristretta cerchia di amici
  3. La regola 1 vale anche se ci si rivolge a un personaggio pubblico (attore, sportivo, politico)
  4. La regola 1 vale anche se si parla male di una persona attraverso allusioni (“quel leccaculo raccomandato”) che siano comprensibili ad altre persone
  5. La regola 1 vale anche nelle recensioni di ristoranti, hotel, bar, etc
  6. La regola 1 vale, in modo ancora più stringente, nei confronti di istituzioni, capi di Stato, leader religiosi, etc: se li offendete, rischiate pene ancora più pesanti (trovate tutti i dettagli sul mio libro)
  7. Se, trascinati dall’ira e dalle passioni, avete esagerato: scusatevi apertamente con chi avete insultato e cancellate il post o le frasi offensive
  8. Se l’autore degli insulti è minorenne, è denunciabile (e condannabile) solo se ha compiuto 14 anni; prima, no
  9. Una recente sentenza della Cassazione afferma che chi condivide un post offensivo (senza aggiungere altro) non è imputabile. Ma su questo punto, ci sono opinioni contrastanti: personalmente, sconsiglio di inoltrare o cliccare “mi piace” su un post farcito di insulti. 

Cosa fare se vi hanno offeso su un social network?

  1. E’ difficile stabilire a priori qual è il confine fra una critica aspra ma lecita e un’offesa punibile dalla legge. Non esiste un elenco di parole vietate o cose simili. I giudici valutano l’offensività di una frase giudicando non solo le parole usate (sono parolacce?), ma anche il contesto (dove è stata detta la frase, in che modo, in risposta a che cosa, etc). Se avete dubbi su questo punto, chiedete un parere a un legale.
  2. Conservate la prova. Potete stampare la pagina con la frase offensiva, salvarla su pc o chiavetta Usb. Oppure potete fotografare la pagina del computer (fare uno “screenshot”). Ma non basta: siccome sarebbero prove facilmente manipolabili, l’unico modo per farle accogliere è fare autenticare quella pagina da un notaio, oppure mostrarla ad altri testimoni che poi la dovranno confermare in tribunale. Nel frattempo, è bene annotare (se possibile) quante persone hanno letto la frase offensiva, o quanti sono gli iscritti alla chat o al gruppo
  3. Segnalate la violazione direttamente alla polizia postale, che può anche convalidare e dare valore di prova al testo offensivo.
  4. Attenzione al fattore tempo: sia per l’ingiuria che per la diffamazione si ha tempo 3 mesi dal fatto (l’offesa) per presentare denuncia. Passato questo tempo, non potete fare più nulla (a meno di dimostrare che eravate nella giungla amazzonica e non avevate la connessione Internet).
  5. postSe non conoscete la vera identità di chi vi ha offeso, non è sempre facile (anche per la polizia) risalire all’autore, perché i server dove sono registrati i dati e il traffico di Facebook (o Whatsapp, etc etc) non sono in Italia.
  6. Se il “fattaccio” è accaduto su Facebook, potete segnalare la violazione al servizio: basta cliccare col mouse sulla piccola “v” che appare al bordo destro di ogni post, e si apre una finestra come questa a destra. Bisogna cliccare su “Segnala post”, e poi seguire le istruzioni che appariranno sullo schermo.
    La stessa opzione è possibile anche su Twitter: in questo social network basta cliccare in alto a destra sul 3 pallini, e appare anche qui l’opzione “segnala”.
PER SAPERNE DI PIU'

Se volete approfondire cosa dicono le sentenze dei tribunali in caso di ingiuria, diffamazione e oltraggio, trovate un altro articolo su questo blog. 

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Le contraddizioni delle tette https://www.parolacce.org/2016/06/05/significati-culturali-seno/ https://www.parolacce.org/2016/06/05/significati-culturali-seno/#comments Sun, 05 Jun 2016 11:15:17 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10274 Se volete prendere le distanze, potete chiamarle mammelle, seni, petto… Ma se ci aggiungete il sentimento e l’immaginazione, diventano borracce, zampogne, davanzali, cocomeri, meloni, pere, ciucce, poppe, sise, bocce, zinne, e, ovviamente, tette. Nella nostra lingua, i sinonimi delle ghiandole mammarie… Continue Reading

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thumbSe volete prendere le distanze, potete chiamarle mammelle, seni, petto… Ma se ci aggiungete il sentimento e l’immaginazione, diventano borracce, zampogne, davanzali, cocomeri, meloni, pere, ciucce, poppe, sise, bocce, zinne, e, ovviamente, tette. Nella nostra lingua, i sinonimi delle ghiandole mammarie sono quasi cento: per la precisione, i linguisti Giovanni Casalegno e Valter Boggione, nel “Dizionario storico del lessico erotico” (Longanesi) ne hanno trovati 94. E non è un dato insolito: i nomi dell’anatomia erotica stimolano da sempre la fantasia, sopra e sotto la cintura, come raccontavo in questo post. (Nella foto, campagna pubblicitaria dei reggiseni brasiliani “Hope” per taglie forti: “destra e sinistra insieme”, dice lo slogan).

SEXY. MA INFLAZIONATO?

Oggi, però, questa zona erogena sembra aver perso il suo potere: già dal 2000 la Cassazione ha sancito che il topless non offende il pudore in quanto “da vari lustri è comunemente accettato ed entrato nel costume sociale”. In effetti è vero: oggi un seno nudo non fa più scandalo, perché ormai inflazionato da rotocalchi, film e tv… occhiEppure, in Italia e nei Paesi mediterranei, è ancora un attributo essenziale della seduzione femminile: da decenni nel nostro immaginario cinematografico si alternano sempre nuove “maggiorate“, da Sophia Loren a Sabrina Ferilli, passando per le donne super prosperose di Federico Fellini.
Qualcuno dice che è un sintomo del mammismo italiano: può darsi, ma anche nel mondo anglosassone – tutt’altro che mammista – i tabloid con le foto di modelle tettone riscuotono molto successo: perché il seno è un simbolo di femminilità, accoglienza, caloredolcezza, cibofecondità, seduzione, salute. Sono come due grandi occhi che ipnotizzano lo sguardo maschile. E, se il seno è bello, suscita ammirazione (e un po’ di invidia) anche nelle altre donne. Oggi, però, è diventato una moda, un’ossessione, anzi: uno status symbol. Chi può, si rifà le zinne. Secondo l’Associazione italiana chirurgia plastica estetica (Aicpe), infatti, nel 2014 in Italia gli interventi per aumentare il seno (mastoplastica additiva) sono stati il secondo intervento più diffuso dopo la liposuzione: l’hanno fatto 33.532 donne, quanto l’intera popolazione di Castelfranco Veneto. Insomma, sono nate le poppe in serie: il seno tondo, sodo e abbondante è diventato uno standard omologato, uguale per tutte. E anche questo contribuisce a ridurne la carica erotica: tant’è che, secondo un’opinione abbastanza diffusa, “tette” non sarebbe una parolaccia ma un’espressione colloquiale o familiare. Infatti, la usano anche le mamme coi loro bambini: “Vieni qui, che ti do la tetta”…

TABU’ E ISTERIE

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“Io ce l’ho più grande del tuo”: anche a 69 anni, Susan Saradon (destra) fa a gara con Salma Hayek per il seno più “large”.

E’ davvero così? Sì e no. Già un indizio dovrebbe indurre alla cautela: se una donna va dal medico per una visita, non gli dirà che “sente un nodulo alle tette” ma al seno: altrimenti, porterebbe un aspetto di seduzione e di confidenza in un rapporto terapeutico. E, come raccontavo in questo post, i limiti d’uso – insieme al registro basso e ai colori emotivi – sono i tratti distintivi delle parolacce. Ma c’è anche un altro indizio, ancora più rilevante: il termine tette è usato anche nella letteratura erotica e nella pornografia (lo trovate nei siti hot, alla voce “tette grandi”, “tette enormi”, “tettone”). Senza contare che con le tette si può fare la “spagnola”, di cui parlavo qui.
Come si spiega questo fatto? E’ una delle tante schizofrenie sul seno, che oscilla fra due opposte polarità nella nostra cultura: simbolo di maternità e simbolo sexy.
Per la psicoanalisi non è una novità, ma per la nostra società (tradizionalista e maschilista) sono visioni inconciliabili: o sei madre, o sei puttana. Tutte e due le cose insieme, no. Ecco perché a volte si creano cortocircuiti culturali, come accade nelle reazioni isteriche di quanti non tollerano di vedere una donna che allatta in un luogo pubblico, come racconto più avanti.

LE PAROLE PER DIRLO

MappaTettePartiamo dall’analisi linguistica (clicca le mappe per ingrandirle; credito Shutterstock). I termini che si riferiscono al seno fanno riferimento per lo più alla loro forma rotonda (meloni, bisacce, palloni) o sporgente (zinne, dal longobardo “merlo di una muraglia”). Molto diffuso il termine poppe, che – contrariamente a quanto si può immaginare – non deriva dal termine poppare (che ne è un derivato) bensì da pupa, ragazza. Come dire che il seno è un elemento caratterizzante della femminilità. Da questo termine, tra l’altro, deriva anche l’inglese boobs.

Treviso, la Fontana delle tette (1559): zampillava vino.

Treviso, la Fontana delle tette (1559): zampillava vino.

Ma i termini più espressivi legano il termine all’atto del succhiare: ciucce, tette, zizze, menne, e lo stesso termine mamma e mammella riproducono, in modo onomatopeico, la suzione dei bambini. Dunque, mamma è colei che offre il petto da succhiare. E quando una parola evoca qualcosa in modo diretto e fortemente immaginifico, scattano le censure: ecco perché la parola tette non si può dire in ogni circostanza.
Nella nostra civiltà infatti, il seno è diventato una zona eroticamente carica: a differenza delle culture africane, dove è visto solo come un organo per allattare, che attrae solo i bambini. Ecco perché nelle tribù africane il topless è la regola e non turba nessunoSecondo molti antropologi, infatti, l’erotizzazione del seno è un fatto culturale, soggettivo: rappresenterebbe il passaggio da una sessualità “da tergo” (con il richiamo erotico dei glutei, come raccontavo qui) a una frontale, nella quale il seno richiama sul petto le rotondità del sedere.

SACRO E PROFANO

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Campagna in Germania: i lavori manuali sono sexy. Il nesso glutei-seno è evidente.

Eppure, anche nella nostra (apparentemente) libera civiltà, il seno riesce ancora a dare scandalo. Innanzitutto quando è usato nelle pubblicità, che ne sfruttano la carica erotica per attirare l’attenzione e sedurre. Ma mentre in passato era messo in mostra dalle prostitute per attirare i clienti, nella civiltà dei consumi il seno è esposto non per vendere il corpo femminile, bensì per piazzare altre merci, che siano liquori, telefonini, o automobili (ecco perché queste pubblicità sono accusate di sessismo, come raccontavo qui).
E’ un uso strumentale e commerciale del seno, che non ha precedenti nella storia. In passato, invece, il seno era usato in un campo diametralmente opposto: la religione. Leonardo_da_Vinci_Madonna_LittaMolte immagini sacre, dal 1300 in poi, raffigurano infatti la Madonna mentre allatta il bambin Gesù: una tradizione nata nell’arte bizantina nel V secolo, e poi approdata in occidente con grande successo, tanto da aver ispirato artisti come Ambrogio Lorenzetti, Nino Pisano, Jan van Eyck, Albrecht Durer e Leonardo da Vinci (dipinto a sinistra).
E’ la Madonna del latte (detta anche Virgo lactans o Galaktotrophousa, che nutre col latte), un tema che divenne molto popolare perché rappresentava Maria nella sua umanità terrena, nella sua tenerezza di mamma: quindi, più vicina ai fedeli. Col cristianesimo, insomma, l’allattamento è stato rivalutato. Le antiche greche e romane, invece, rifiutavano l’allattamento al seno: per non rovinarlo, le ricche affidavano i poppanti alle balie.
Madonna_del_Latte_San_Bernardo (1)Anzi, si arrivò al punto di rappresentare l’illuminazione mistica di Bernardo di Chiaravalle come una poppata di latte dal seno della Madonna: secondo una leggenda diffusa nel 1300, racconta Victor Stoichita, a Bernardo fu ordinato di predicare davanti al vescovo di Chalon. San Bernardo si rifiutò, si mise in preghiera davanti a Nostra Signora e si addormentò. “Nostra Signora gli mise il suo seno sulla bocca trasmettendogli la scienza divina. Da quel momento Bernardo divenne uno dei predicatori più sottili del suo tempo”. L’episodio fu illustrato da diversi artisti, come Alonso Cano che nel 1656 lo raffigurò come uno schizzo diretto alla bocca del santo (vedi dipinto a destra): d’altronde, era l’unico modo di mantenere le distanze fra la bocca di Bernardo e il seno di Maria. Ma nel frattempo erano cambiati i tempi: con l’austerità dei costumi voluta dalla Controriforma (1563), la Chiesa censurò queste immagini, raffigurando da allora in poi la Madonna in modo più castigato.

SE ALLATTARE FA SCANDALO

Eppure, ancora oggi, l’allattamento fa scandalo: nel 2014 ha fatto clamore la disavventura di una 35enne britannica, Louise Burns, che è stata costretta dai camerieri di un hotel di lusso di Londra, il Claridge, a coprirsi con un tovagliolo mentre allattava. Un caso tutt’altro che isolato, che dimostra quanto poco libera è la nostra civiltà: cosa c’è di scandaloso in una donna che allatta? Il motivo è che l’immagine naturale di un seno usato per la sua funzione fisiologica di ghiandola mammaria stride con quella del seno come richiamo erotico. E minaccia di annullarne la sua carica sexy.

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La top model Nicole Trunfio in una copertina pro allattamento e in una versione censurata.

Ma questo tabù nasconde in realtà anche un classismo e un interesse commerciale, denuncia in un recente saggio, Amy Bentley, docente di nutrizione all’università di New York: da quando, negli anni ’50, si diffuse il latte in polvere, l’industria alimentare ha fatto molte campagne per promuovere la nutrizione infantile tramite biberon, descrivendola come “pratica, utile, moderna”, facendo passare l’allattamento al seno come un’abitudine da classi povere e primitive.
Sono occorsi decenni di studi per comprendere invece che il latte materno è molto più sano di quello in polvere, perché rafforza le difese immunitarie dei bambini. E così sono nati i movimenti per sostenere l’allattamento al seno, come la Leche League. E da questo punto di vista, è molto più progressista papa Francesco, che fin dalla sua elezione ha sempre esortato le donne a nutrire i loro neonati, perfino in chiesa.

seno

Il seno per attirare l’attenzione: una scorciatoia usata in molti spot. E contestata per il suo sessismo.

LE TETTE IN POLITICA

I seni nudi sono le nostre armi: lo slogan di Femen.

I seni nudi sono le nostre armi: lo slogan di Femen.

Ma c’è un altro aspetto del seno che ha creato scandalo: il suo uso come arma di protesta. Sfruttando tutte queste contraddizioni della nostra cultura, le attiviste di Femen, movimento femminista ucraino, hanno inscenato diverse proteste presentandosi a seno nudo, spesso sovrastato da scritte e slogan. Le loro performance fanno sempre clamore, e non solo per i loro bersagli (uomini e luoghi di potere): ma soprattutto per il contrasto fra la nudità, la vulnerabilità, l’intimità femminile e l’esposizione mediatica. Danno un senso di intimità violata.
A differenza dei topless degli anni ’70, esibiti come bandiera della liberazione sessuale e dell’eguaglianza con gli uomini (“anche noi abbiamo diritto a stare a petto nudo”), le Femen invece mostrano un seno desessualizzato e politico. Non è più una zona erogena e nemmeno un attributo materno: è un’arma di protesta, un nudo di sofferenza e di rabbia tutta femminile davanti a un mondo che altrimenti le ignorerebbe. Le poppe nude fanno notizia e attirano l’attenzione? Bene, allora guardatele, perché sono la vetrina, il manifesto delle nostre idee. E’ nato un nuovo cortocircuito sulle tette.

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Non tutte le parolacce sono offese https://www.parolacce.org/2014/04/24/differenza-parolacce-offese/ https://www.parolacce.org/2014/04/24/differenza-parolacce-offese/#comments Thu, 24 Apr 2014 08:58:30 +0000 http://www.parolacce.org/?p=1637 “La Cassazione sdogana le parolacce”. “Frasi scurrili? Al parcheggio si può”. O addirittura: “Dire parolacce in auto non è più reato”. E’ stata presentata in questi termini una sentenza della Cassazione (la n° 15710 dell’8 aprile 2014). Peccato, però, che… Continue Reading

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“La Cassazione sdogana le parolacce”. “Frasi scurrili? Al parcheggio si può”. O addirittura: “Dire parolacce in auto non è più reato”.

E’ stata presentata in questi termini una sentenza della Cassazione (la n° 15710 dell’8 aprile 2014). Peccato, però, che la sentenza NON dica niente di tutto questo questo. Stabilisce invece un altro principio, del tutto normale anche se spesso trascurato: ovvero, che non tutte le parolacce sono offese.

L’episodio valutato dai giudici della suprema Corte risale al 2010: un uomo di San Pietro Vernotico (Brindisi) aveva trovato il passo carrabile ostruito dall’auto di una donna. Non riuscendo a uscire con la propria auto, colmo di rabbia, le aveva detto: “Mi hai cacato il c….”.

La donna lo aveva denunciato per ingiuria. Ma la Cassazione lo ha assolto, considerando quella frase come “un’espressione di fastidio e non di disprezzo per la persona in sé. Non è punibile, infatti, il linguaggio volgare in sé, ma solo l’offesa: ossia quando la volgarità viene usata per ledere l’onore di un’altra persona”.

La distinzione (già nota ai lettori del mio libro) è lampante: ci sono alcune parolacce (“somaro”, per esempio) che attaccano la dignità, l’autostima di un altra persona. Sono gli insulti. Altre parolacce, invece, sono usate per esprimere emozioni forti: rientrano in questa categoria le imprecazioni (“porca vacca”) ma anche i modi di dire come quello valutato dai giudici della Cassazione. In questo caso, le parolacce hanno una funzione catartica: servono come enfasi, valvola di sfogo, infrangendo un tabù linguistico. Si può discutere sulla volgarità, sulla scarsa educazione o eleganza, ma nessuno si può sentire direttamente offeso da queste espressioni. Che spesso sono una reazione automatica, un riflesso neurologico a uno stato di rabbia intensa. Se non ci credete, provate a darvi una martellata su un dito: scommettiamo che non vi uscirà dalla bocca una frase elegante?

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Di cosa parliamo quando diciamo vaffanculo https://www.parolacce.org/2013/07/24/significato-di-vaffanculo/ https://www.parolacce.org/2013/07/24/significato-di-vaffanculo/#comments Wed, 24 Jul 2013 18:51:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=1389 Diciamo la verità: il “vaffa” fa sempre notizia. Sarà anche inflazionato ma resta pur sempre una delle parolacce più usate della nostra lingua (la 10°, come ho raccontato in questa analisi). E resiste all’inflazione: due sentenze recenti della Cassazione, questa e… Continue Reading

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Diciamo la verità: il “vaffa” fa sempre notizia. Sarà anche inflazionato ma resta pur sempre una delle parolacce più usate della nostra lingua (la 10°, come ho raccontato in questa analisi).
E resiste all’inflazione: due sentenze recenti della Cassazione,
questa e questa hanno ribadito che questa espressione è un‘ingiuria che manifesta disprezzo verso un interlocutore.
Eppure, di questa parolaccia sappiamo poco. Innanzitutto, che tipo di espressione è? Linguisticamente parlando, è un’espressione formulaica o verbo polirematico: in parole povere, è una frase fatta, un prefabbricato linguistico, tanto da essere quasi indeclinabile (culo resta sempre al singolare, anche se il vaffa è rivolto a più persone: andate affanculo).
Ma cosa vuol dire esattamente vaffanculo? Su Internet circolano interpretazioni a dir poco fantasiose: come quella secondo cui “vaffa” era il nome del palo usato nel Medioevo per i condannati a morte… Niente di più sbagliato, anche se l’origine di questa espressione non è molto chiara, così come il suo significato: vuol dire augurare un rapporto anale attivo o passivo?

Pubblicità con doppio senso: è del 2013.

Innanzitutto, un po’ di storia, che ho ricostruito grazie al prezioso contributo di un collega linguista, Giovanni Casalegno. La prima testimonianza di questa espressione nella nostra letteratura è piuttosto recente. Si trova in un romanzo di Aldo Palazzeschi Roma, del 1953. “La signora Sequi s’alzò dal divano sul quale sedeva vicino a lui, con gli occhi sbarrati e le mani sui fianchi gridò: «va a ffanculo!». Come sempre accade, però, l’inserimento di una parola in un’opera letteraria avviene a distanza di molti anni dalla sua diffusione nell’italiano parlato: sicuramente il vaffa è molto più antico.
Da allora, comunque, il vaffa ne ha fatta di strada. Probabilmente siamo l’unico Paese al mondo che ha segnato la nascita di un movimento politico con un vaffa contro la politica: il V-Day organizzato nel 2007 da Beppe Grillo. E’ stata una manifestazione itinerante senza precedenti, che raccolse oltre 300mila firme per riformare i criteri di candidabilità dei politici. Senza dimenticare che c’è un’intera canzone, “Vaffanculo” di Marco Masini, diventata una hit nel 1993 (ma in questo campo i rapper statunitensi ci fanno una bella concorrenza):

L’espressione è una contrazione di “vai a fare in culo”, dove il verbo fare va inteso in senso generale come “praticare”. Significa “vai a praticare il sesso anale”, la sodomia, sia in senso attivo che passivo: una pratica che è sempre stata vista, in passato, in modo spregiativo fin dai tempi dei Romani (almeno per quanto riguarda il sesso passivo; su quello attivo erano più tolleranti).
Dal punto di vista funzionale, il vaffa rientra tra le maledizioni: significa scacciare qualcuno augurandogli un destino sgradevole. Nella visione – come ricorda Steven Pinker – che il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva sfruttandola o danneggiandola. Tant’è vero che inculare significa anche sfruttare, fregare, danneggiare.
Ed è probabile che la fortuna espressiva del vaffa abbia anche una ragione sonora, musicale: la parola è costituita da 3 consonanti fricative (la doppia labiale f e la dentale v), che comportano un’espulsione di fiato, e sono spesso usate, come afferma il fonosimbolismo, nelle espressioni che significano disgusto, disprezzo, rifiuto, condanna, insofferenza: come le parole vomito, fetente, fanfarone, fesso, schifo.
Di recente, è
emerso che Sharon Stone e Pupi Avati, mentre giravano un film a Roma, si salutassero con «Vaffanculo Pupi», «Vaffanculo Sharon», perché all’attrice statunitense piace il suono della parolaccia. Del resto, potrebbe non essere un caso che anche in inglese un’espressione equivalente sia costruita con la stessa consonante: fuck off. E anche sul fuck occorre smontare una leggenda metropolitana. Ovvero che sia l’acronimo di “furnicating under consent of the king”… (cioè si poteva fornicare solo con un permesso del re) come ben spiega Wikipedia inglese.

⇒⇒⇒⇒ Anche perché, come potete scoprire in questo altro post, esistono decine di espressioni equivalenti (e varianti) non solo in inglese, ma in molte altre lingue e dialetti.

A fronte di questa espressività sonora, però, bisogna sottolineare un difetto del vaffa dal punto di vista prosodico: la sua lunghezza. Quattro sillabe per scacciare qualcuno sono un po’ tante: non è un caso che gran parte degli insulti più efficaci sono costituiti da 2 sillabe (stronzo! pirla!, etc). D’altronde se, come diceva il filosofo Schopenhauer, l’insulto è un giudizio abbreviato, deve a maggior ragione essere breve e incisivo. Tant’è vero che il trio Aldo, Giovanni e Giacomo ne ha evidenziato l’effetto comico nel film “Tre uomini e una gamba” (1997): in una celebre scena Aldo pronuncia il vaffa più lungo della storia del cinema italiano (6 secondi):

Ma a parte l’efficacia espressiva, il vaffa esprime anche una verità poco nota: l’Italia è uno dei Paesi in cui il sesso anale è più diffuso. Il 56% degli italiani nati tra il 1937 e il 1988 ha avuto rapporti eterosessuali di questo tipo, per lo più in rapporti di coppia. Lo afferma un serissimo e documentatissimo libro di sociologia La sessualità degli italiani di Maurizio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna e Franco Garelli (Il Mulino, 2010). Dice a pag. 200/201: “il numero di coppe eterosessuali che li pratica (i rapporti anali) è cresciuto, durante il secolo scorso sia in Europa che negli Usa. Sorprendentemente, però, questo processo è iniziato, o è stato comunque più rapido, in Italia rispetto agli altri Paesi sui quali abbiamo dati. (…) Nella seconda metà del Novecento, la quota degli uomini italiani che hanno avuto rapporti anali con una donna è stata 5 volte più alta di quella degli inglesi. La diffusione di questa pratica è comunque molto maggiore da noi anche rispetto agli Usa e alla Francia”. La fonte del libro è, a sua volta, lo studio di T. Sandfort e altri “Sexual pratices and their social profiles” in M. Hubert “Sexual behaviour and Hiv/Aids in Europe”, London, 1998 (pag. 106-164).

Due sodomiti condannati al rogo in una miniatura del 1447: le condanne a morte durarono fino al 1700.

I motivi? Due, dicono Barbagli e colleghi. Primo, la maggior dipendenza delle donne dal partner, per una maggiore disuguaglianza di genere. Le donne, insomma, lo farebbero più per compiacere l’uomo.
Secondo (e credo ben più importante) un fattore storico: l’Italia è da secoli la patria europea dei rapporti anali, se già San Bernardino da Siena quasi 6 secoli fa, deprecava il fatto che, per i tedeschi di allora (ironia della sorte!) “non è generazione al mondo che sieno maggiori sodomiti che e’ Taliani”. Tanto che in tedesco il verbo florenzen (da Firenze) significa sodomizzare. Insomma, i famosi “rapporti contro natura” che la Chiesa deprecava sia nei rapporti etero che omosessuali, in quanto emblema del sesso non finalizzato alla procreazione “in un orifizio illecito” (e tanto più deprecabile in quanto “impuro”, essendo la via d’uscita degli escrementi).
Ma proprio per opporsi a questo forte tabù, diversi scrittori dei secoli scorsi decisero di sfidare la mentalità corrente, decantando nelle loro opere le gioie del sesso anale, come fece tra gli altri – lo racconto nel mio libro
Pietro Aretino nei “Sonetti lussuriosi” del 1526.

Dunque, la prossima volta che mandate qualcuno affanculo pensate a quale peso storico e culturale porta dentro di sè. Un peso che si può apprezzare in tutta la sua forza espressiva in una canzone amarissima di Piero Ciampi, “Adius”, ultimo scatto d’orgoglio di un innamorato ferito:
Ma come
Ma sono secoli che ti amo
Cinquemila anni
E tu mi dici di no
Ma vaffanculo
Sai che cosa ti dico
Vaffanculo…. vaffanculo….

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Politici, non rubateci le parolacce! https://www.parolacce.org/2008/03/13/politici-non-rubateci-le-parolacce/ https://www.parolacce.org/2008/03/13/politici-non-rubateci-le-parolacce/#respond Thu, 13 Mar 2008 14:43:00 +0000 http://www.parolacce.org/?p=43 «Sono vecchio, ma non rincoglionito». Silvio Berlusconi, 2 marzo 2008 «Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”». Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008 «Siamo incazzati». Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto) In effetti, sono… Continue Reading

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original«Sono vecchio, ma non rincoglionito».
Silvio Berlusconi, 2 marzo 2008

«Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”».
Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008

«Siamo incazzati».
Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto)

In effetti, sono incazzato anch’io. Non per i toni volgari di questa campagna elettorale: quando scrivevo “Parolacce”  ne ho lette a migliaia, di tutte le epoche e in tutte le lingue. Ci ho fatto l’abitudine… E che la politica scateni violente passioni è un fatto naturale, come ho già scritto in questo stesso blog.
Altrettanto assodato (lo hanno dimostrato molti studi scientifici) che, quando un leader usa il turpiloquio, accorcia le distanze con il suo uditorio ma al tempo stesso perde carisma, credibilità e autorevolezza: se i nostri politici vogliono correre questi rischi, fatti loro. Diciamo che ognuno ha il proprio “stile”…

 

Campagna antidroga di Forza Nuova (2008).

Campagna antidroga di Forza Nuova (2008).

Il problema è un altro: quando ascolto un candidato che dice volgarità, mi sento defraudato. E c’è un motivo oggettivo: le parolacce sono, da sempre, il linguaggio del popolo (non a caso, “volgare” significa “popolare”). E un linguaggio anarchico, senza padroni, intrinsecamente contro il potere costituito.
L’ha scoperto, il secolo scorso, un grande critico letterario russo, Michail Bachtin studiando la comicità nelle opere dello scrittore rinascimentale François Rabelais.
Le parolacce, diceva Bachtin, sono il linguaggio della piazza: fa cadere le barriere di potere e di classe, liberandoci “dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti”. Le parolacce, se usate per ridere, ci aiutano a superare la paura di vivere, non impongono divieti o restrizioni, corrodono i soprusi e la sopraffazione del potere. Non a caso, diceva Bachtin, “il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso”.

Manifesto della Lega padana (anno 2004)

Manifesto della Lega padana (anno 2004)

Ma allora perché i politici di oggi lo usano? Per biechi motivi di marketing elettorale: i politici, usando le parolacce, ci strizzano l’occhio, per farci credere che sono vicini a noi, che parlano come noi, che sono come noi… Ma non è vero: loro, a differenza di noi, hanno grandi poteri, ampi privilegi e gravose responsabilità. Compresi gli esponenti dei partiti che si definiscono “popolari” come la Lega Nord, forse il primo partito ad aver sdoganato le parolacce nei comizi e non solo.
Un conto è un politico che insulta l’avversario (uso legittimo, col beneplacito della Cassazione); tutt’altro conto è un politico che dica volgarità ai suoi elettori per conquistarli: è un mistificatore!

Quindi, i politici (nessuno escluso: siano di destra, di sinistra o di centro) facciano il sacrosanto piacere di non rubarci anche le parolacce, dopo averci sottratto la stabilità, l’avvenire e in diversi casi anche i soldi… Che lascino le parolacce al popolo e ai comici! Il che è anche un avvertimento a Beppe Grillo: se, un domani, decidesse di avventurarsi in politica, non sarebbe più legittimato a fare “Vaffa-day”… Quantomeno, dovrebbe chiamarli in un altro modo.

Beppe Grillo in azione.

Beppe Grillo in azione.

P.S.: A proposito di politica, se volete ripensarla in modo serio, interessante e divertente, non perdete il prossimo numero di Focus Extra, in edicola dal 5 aprile: scoprirete quanto può essere appassionante e utile la “vera” politica. Cazzarola.

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