In Veneto, un bar a Castello di Godego, nel Trevigiano, ha cercato di frenare questa inflazione comminando multe (da 1 a 5 euro) per i clienti che bestemmiano: lo facevano già gli inglesi in età vittoriana, e i risultati si sono visti. Un provvedimento inutile, soprattutto per le imprecazioni che spesso sono una sorta di riflesso neurologico incontrollabile.
Ecco perché, in questo scenario, risultano più apprezzabili quanti allargano lo sguardo, utilizzando espressioni meno inflazionate. Un esempio? Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania, fra i personaggi pubblici, è fra i pochi che si preoccupano di perseguire una certa originalità e ironia quando devono criticare qualcuno. Ecco, ad esempio, quanto aveva affermato a proposito dell’ultimo festival di Sanremo: «Un festival di infelici, con gli sfessati, gli sciamannati, gli sfrantumati. Pensano di essere moderni. No, questi sono imbecilli. Un Festival di cafoni e volgari». Oppure il suo commento sarcastico su Mauro Corona, migrato dalla Rai a Rete4: «Spiace non poter più vedere quel Neanderthal, quel troglodita vestito come un capraio afgano, un cammelliere yemenita, sto male a immaginare che non avremo più quell’immagine di raffinatezza». A riprova del fatto che la cultura (De Luca è professore di storia e filosofia) è l’unico rimedio efficace contro gli insulti beceri e inflazionati.
Ecco dunque la mia “Top ten” con i 10 episodi volgari più emblematici e divertenti riportati dalle cronache nazionali e internazionali. Per sorridere e per riflettere. E’ la 16esima edizione: come in passato, ho selezionato gli episodi con 3 criteri: il loro valore simbolico, le loro conseguenze e la loro originalità. Buona lettura. E buon anno!
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La mia “Top ten” è stata rilanciata da AdnKronos , La Gazzetta del Mezzogiorno, Libero, La svolta, La ragione, Sicilia report, Corriere della Sardegna, Quotidiano di Bari, Affari italiani, Magazine Italia, Oggi Treviso, Informazione.it, Centro studi americani, Crema oggi, Sanremo news, Sbircia la notizia, Vetrina tv, Occhioche.it, L’identità, ViverePesaro, Trash italiano, Basilicata vera, Vivere Senigallia, Vivi centro, Cronache di Milano , La città di Roma, Tf news, Olbia notizie, OglioPo news, Italy24 press spanish , Il dubbio , identità.it, I like Puglia , Giornale dell’Umbria, il Millimetro , Tvsette , Radio Colonna
Se volete leggere le classifiche degli ultimi 15 anni, potete cliccare sui link qui di seguito: 2022, 2021, 2020, 2019, 2018, 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010, 2009 e 2008.
The post Parolacce: la “Top ten” dell’anno 2023 first appeared on Parolacce.]]>Che ti venga il coronavirus! La maledizione dei nostri tempi.
“Ti deve venire il coronavirus!”: il primo a ricevere la nuova offesa è stato, a marzo, Juan Jesus, calciatore brasiliano della Roma. Segno dei tempi: la frase gli è arrivata su Instagram da un ragazzino di 15 anni. E mostra che la pandemia è entrata non solo nelle nostre vite quotidiane, ma anche nei modi di dire, dando origine a una nuova espressione offensiva.
Entrerà nei vocabolari? Presto per dirlo, come spiegherò più sotto. In ogni caso, non sarebbe l’unica offesa a sfondo patologico. Le offese, infatti, si possono esprimere non solo usando termini legati ai tabù del sesso, degli escrementi o della religione, ma anche evocando le malattie. Perché hanno una grande forza immaginifica: ci fanno immedesimare in una situazione dolorosa.
Quali sono le espressioni che fanno leva sulla paura delle malattie? Sono molte e hanno una lunga storia: risalgono a un’epoca molto antica, quando si credeva nell’efficacia della magia e dei malefici. Queste offese, infatti, si chiamano “maledizioni” e sono molto usate nei nostri dialetti e in alcune lingue straniere come il polacco, lo yiddish (giudeo-tedesco) e soprattutto l’olandese, parlato nei Paesi Bassi e in Belgio. Qui l’espressione “corona” (usato come esclamazione o malaugurio) è già abbastanza popolare.
Meme olandese: anche tu puoi beccarti il cancro
In olandese c’è un ricco catalogo di espressioni volgari, che sembrano uscite da un trattato di medicina. E l’intensità, l’offensività degli insulti è proporzionale alla gravità della patologia evocata. Ecco l’elenco dei principali modi di dire:
CANCRO (KANKER): è usato come esclamazione di rabbia o sorpresa, (tipo “cazzo!”), ma è usato anche come cattivo augurio (“Krjg de kanker”, prendi il cancro). L’espressione “kankeren” significa “lamentarsi troppo”. “Kankerlijer”, malato di cancro, è un insulto pesante, tipo “figlio di puttana”.
A volte è usato come rafforzativo in senso positivo (“kankerlekker” equivale a “cazzutamente delizioso”)
COLERA (KLERE/KOLERE): ha un uso simile a kanker. Anche in questo caso, klerelijer (malato di colera) è un’offesa pesante.
ICTUS (TAKKE): usato come aggettivo squalificante. “Krijg de takke” (beccati un ictus) è un’offesa
LEBBRA (LAZZARO): è usato come termine gergale per “ubriacarsi di brutto”.
PESTE (PESTE): usato come rafforzativo. “Pesten”o “pestkop” (testa di peste) significa “bullo, prepotente”; “de pest in hebben” (avere la peste in) significa essere incazzati.
PLEURITE (PLEURIS): è un equivalente di tubercolosi. Si usa nell’espressione “krjg de pleuris” (beccati la tubercolosi) e “alles ging naar de pleuris” (è andato tutto a puttane). “Pleurislijer” (malato di tubercolosi) è un insulto equivalente a stronzo.
POLIOMIELITE (POLIO): è usato nell’espressione “heb je soms polio?” (hai la polio?) per insultare una persone eccessivamente pigra.
TIFO (TYFUS): usato come esclamazione o come offesa (“tyfuslijer”, malato di tifo). Ma anche come malaugurio: krijg de tyfus (beccati il tifo) e persino “optiefen” (vai via col tifo, ovvero vaffanculo).
TUBERCOLOSI (TERING): è usato come imprecazione o come aggettivo insultante ( “teringlijer”, malato di tubercolosi). “Krijg de tering” (beccati la tubercolosi) è un’offesa comune.
VAIOLO (POKKEN): usato come rafforzativo. “Pokkenlijer” (malato di vaiolo) è un insulto tipo “figlio di puttana”.
Un meme olandese: cosa penso (sensazioni confuse) e cosa dico (cancro!)
Negli ultimi tempi, a questo elenco si è aggiunto (era inevitabile) anche il coronavirus (corona), usato nello stesso modo di cancro, colera, tubercolosi e tifo, cioè come insulto, esclamazione o malaugurio.
Da dove salta fuori questa ossessione degli olandesi per le malattie? E’ il ricordo di passate epidemie che hanno funestato i fiamminghi? No: è una sensibilità culturale di tipo religioso. Una ricerca di Tom Ruette, lessicologo dell’università di Lovanio (Belgio) ricollega questo uso al calvinismo: secondo questa fede (il ceppo puritano del protestantesimo, diffuso nei Paesi Bassi dal 16° secolo), la malattia è considerata un segno di dannazione divina,una punizione da parte di Dio per una condotta immorale o antireligiosa. Così come la virtù viene ripagata su questa Terra con prosperità e salute. Dunque, una visione profondamente religiosa, che interpreta gli eventi negativi come voluti da Dio per dare un’avvertenza o un castigo a chi si comporta male. Anche gli ebrei dell’Antico Testamento la pensavano così: la malattia era vista come una punizione divina. Una posizione che mette la religione in un vicolo cieco, perché fa apparire Dio come un essere vendicativo e meschino: tant’è vero che per giustificare l’esistenza delle malattie si è dovuto o incolpare il diavolo o descriverle come occasione per redimere la propria anima attraverso la sofferenza del corpo.
Striscione da stadio rivolto ai tifosi del Napoli.
Nella nostra lingua, a differenza dell’olandese, restano poche tracce di insulti a sfondo sanitario. Ne ho trovati solo 5, a cui ne ho aggiunto uno in siciliano:
TIFOSO: questo aggettivo designa gli appassionati di uno sport o di una squadra. Ma in origine si riferiva ai malati di tifo, che hanno la coscienza offuscata a causa della febbre alta
ROGNOSO: l’aggettivo indica una persona ingrata, difficile, fastidiosa, pedante. Ma deriva da “rogna”, termine popolare per la scabbia, una malattia della pelle che causa prurito e infiammazione
MICROBO: il termine indica una persona meschina, abietta o insignificante (anche se non tutti i microbi sono patogeni). Peraltro, la pandemia ci ha dimostrato l’opposto: un microbo può mettere in ginocchio intere nazioni.
COLEROSO: di per sè indica un malato di colera. Ma si è trasformato in un insulto (soprattutto negli stadi) da quando un focolaio di questa malattia si è presentato in Campania, Puglia e Sardegna nel 1973. I tifosi delle squadre settentrionali usano questo appellativo per denigrare i tifosi del sud, imputando loro (a torto) scarsa igiene e civiltà.
Birra prodotta in Sicilia: “camurria”.
PESTE/PESTIFERO: il termine è usato (per lo più in modo scherzoso, come iperbole) per indicare un bambino capriccioso, con un carattere difficile da gestire)
CAMURRIA/CAMURRIUSU: sono termini siciliani, resi celebri dai romanzi di Andrea Camilleri. Camurria deriva da gonorrea, e significa “pesante seccatura, fastidio”; il termine è usato nelle imprecazioni (che camurrìa!). “Camurriusu” è una persona o una situazione seccante e fastidiosa.
Quando la scienza ha fatto crollare la fede nella magia, le maledizioni sono un modo immaginifico di sfogare la propria rabbia verso qualcuno, augurandogli ogni male. E in qualche modo hanno mantenuto il loro potere “magico”: perché riescono a trasmettere l’odio di chi le pronuncia, e a far provare un dispiacere a chi le riceve. Non è gradevole, infatti, immaginare di soffrire: che, da un certo punto di vista, è peggio rispetto a morire, dato che la morte libera dalle sofferenze. Ecco perché le maledizioni stimolano la fantasia nei modi più concreti e crudeli, come vedremo.
Va ricordato, però, che queste espressioni hanno effetto nella misura in cui chi le riceve dà loro peso. Se i placebo sono sostanze inerti che hanno efficacia terapeutica se chi le assume crede nel loro potere, le maledizioni sfruttano l’effetto-nocebo: la credenza che qualcosa (una frase negativa) abbia davvero effetto.
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Film di Mario Mattoli del 1951.
La nostra lingua non è molto ricca di maledizioni a sfondo sanitario. Ecco quelle che ho rintracciato:
ACCIDENTI: il termine designa un evento fortuito imprevisto. Ma questa espressione è la contrazione di “che ti venga un accidente” ovvero una malattia grave e improvvisa.
MANNAGGIA: mal n’aggia, che tu abbia male. E’ un malaugurio generico, che può riguardare malattie ma anche altri generi di eventi.
CHE TI VENGA UN CANCRO: è una delle espressioni che nel volgarometro, un sondaggio fra i navigatori di questo blog, è risultata fra le più offensive in italiano. Fra le varianti: che ti venga un colpo/un infarto. Su questa espressione si è pronunciata la Cassazione nel 2008, con una sentenza di assoluzione che trovo esemplare per la sua lucidità: «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale». Questa considerazione, ovviamente, vale per tutte le espressioni che cito in questo articolo.
Il discorso però cambia se la malattia che si desidera è legata a un’azione dell’imputato (“Ti faccio venire un infarto”): in tal caso si è in presenza del reato di minaccia, ha stabilito un’altra sentenza della Cassazione.
CHE TI VENGA LO SCOLO: espressione in disuso. Lo scolo è un termine popolare per indicare la gonorrea, una malattia sessuale.
Schermata di Instagram di Juan Jesus: l’offesa è evidenziata con un cerchio, con la risposta del calciatore.
CHE TI VENGA/BECCATI IL CORONAVIRUS: Cosa vuol dire esattamente questa espressione? In questo momento storico, il Covid-19 è ancora un nemico oscuro: non sappiamo bene come si diffonde, quanto tempo resti attivo al di fuori da un organismo, se una volta contagiati e guariti si resti immuni per sempre…. E soprattutto non abbiamo ancora strumenti efficaci per diagnosticarlo in modo rapido ed economico, né un vaccino o farmaci antivirali per curarci. Non sapendo quanti siano davvero i contagiati, non abbiamo certezze neppure sul suo reale tasso di mortalità. E’ comunque ben al di sotto dei valori di altri agenti infettivi tipo Ebola: di fatto, risulta rischioso, soprattutto per gli anziani, per i maschi e per chi è immunodepresso o soffre di altre patologie. E il suo impatto mortale è acuito dal fatto che i servizi di rianimazione sono troppo congestionati per garantire a tutti le cure necessarie.
Dunque, augurare a qualcuno il coronavirus non equivale direttamente a prospettargli la morte. Ma innesca una situazione ancora peggiore: l’angoscia verso un pericolo indeterminato e sfuggente. Non sapere a quale destino si andrà incontro. Ecco perché Juan Jesus si è offeso per la frase, dicendo che chi l’ha scritta aveva “mezzo cervello”.
I dialetti hanno radici più antiche rispetto all’italiano. E così sono molto più ricchi di fantasiose e crudeli maledizioni. E in questo campo, il primato va al sardo e al napoletano: probabilmente in Sardegna e in Campania è ancora diffusa una mentalità magica e superstiziosa.
Bolognese
CAT VEGNA UN CANCHER: che ti venga un cancro. Oltre a essere un malaugurio, questa espressione è usata anche come imprecazione, per sfogo contro una situazione sgradita.
Milanese
VA A ONGES: vai a ungerti. Si basa sull’antica credenza che si potesse contrarre la peste a causa di unguenti malefici che i malvagi spargevano sulle porte, sui muri, sulle cose.
Sardo
In sardo, maledire si dice “frastimare”. E le maledizioni sono davvero abbondanti:
IS MANUS CANCARADAS/CANCARAU SIADA: che ti si blocchino le mani (per una paresi).
ANCU TI SI BENGADA SU BREMINI: che ti vengano i vermi.
ANCU TI CALIDI GUTTA: che ti venga la gotta.
TINDI DEPPINT’ARRUI IS’OGUS IN SU COMURU: che ti cadano gli occhi nel cesso. Malattia impossibile, ma la prospettiva fa impressione.
Napoletano
Chi vuole il male di questa casa deve morire prima di entrare.
Come il sardo, è un dialetto ricco di immagini macabre, che si spingono non solo ad augurare malattie gravi e pesanti sofferenze: arrivano anche a proiettarsi fino al post-mortem, in una sorta di vilipendio di cadavere.
PUOZZ’ CACÀ SANG: che tu possa cagare sangue (per un tumore intestinale o emorroidi)
PUOZZ’ CICÀ: che tu possa perdere la vista
PUOZZ’ STRUPPIÀ: che tu possa diventare storpio
PUOZZ’ NZURDISC: che tu possa diventare sordo
PUOZZ JETTÀ O’ SANG: che tu possa buttare il sangue, ovvero subìre una pesante emorragia
TE POZZA VENÌ ‘NU TOCCO: che ti venga un colpo apoplettico
PUOZZE SCULÀ: che tu possa perdere i fluidi corporei (procedimento usato prima di inumare i cadaveri).
PUOZZE SCHIATTÀ: che tu possa scoppiare, cioè (sempre da cadavere) gonfiarti fino a esplodere
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Ringrazio Michelangelo Panico per le segnalazioni delle maledizioni in napoletano
A questo post ha dedicato un servizio l’emittente locale “Il 13” (TriVeneto) nell’edizione serale del Tg del 4 aprile. Potete vederlo cliccando sul player qui sotto:
Le volgarità possono costare il posto, ma non tutte (montaggio foto Shutterstock).
C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina viziata”: lei l’ha portato in tribunale chiedendogli un risarcimento di 12 milioni di dollari. Come andrà a finire?
Difficile dirlo. Le sentenze sulle offese pronunciate negli ambienti di lavoro sono molto diverse fra loro. Chi finisce sotto processo può aspettarsi di tutto: di essere multato, licenziato o dichiarato innocente. In Italia è rimasto scottato Gian Luca Rana, il figlio del re dei tortellini. E, negli Stati Uniti, il fondatore di Apple Steve Jobs e il padre del sistema operativo Linux, Linus Torvalds: qui sotto vi racconterò le loro storie.
Quando vengono insultati, i capi licenziano: ma spesso è un provvedimento eccessivo (Shutterstock)
Ma allora come dobbiamo regolarci? Si possono usare o no le parolacce sul lavoro? La risposta è maledettamente complessa: “dipende”. Dipende da chi le dice, da come le dice, da chi le subisce e in quale ambiente. Infatti, se ci fate caso, il quesito è generico: chiedere cosa si rischia dicendo parolacce sul lavoro è come domandare se lo sport è pericoloso. L’alpinismo lo è senz’altro, ma le bocce molto meno, anche se entrambi sono “sport”. Infatti anche le parolacce, come lo sport, sono una grande famiglia che comprende espressioni molto diverse fra loro: insulti, termini enfatici, imprecazioni, oscenità… Ciascuna ha una carica offensiva diversa, e può essere usata in modi e in ambienti differenti.
Dunque, per valutare quanto è rischioso l’uso di un’espressione scurrile, bisogna entrare nel merito ed esaminare la situazione in ogni dettaglio. In questo articolo racconterò i principali orientamenti della giurisprudenza sul lavoro, dividendoli a seconda del tipo di scurrilità e di situazione. Perché i magistrati, quando si pronunciano su questi casi, soppesano non solo la carica offensiva di un insulto (c’è un ottimo libro che racconta come sono stati giudicati oltre 1.200 termini), ma devono considerare anche altri elementi: l’intenzione del parlante, i suoi modi, il contesto in cui parla e chi lo ascolta. Sono fattori importanti, che possono appesantire o annullare la carica offensiva di una parola.
Negozio imbrattato con scritte insultanti a Fermo.
Prima di passare in rassegna i principali casi, un’avvertenza importante: ricordo che sono un giornalista e linguista, non un giurista. Quindi, la mia rassegna è una sintesi giornalistica, non una rassegna giurisprudenziale completa. Se cercate un parere giuridico qualificato su un caso specifico, dovete rivolgervi a un avvocato.
Per praticità, ho suddiviso i casi nelle due grandi famiglie di parolacce:
1) imprecazioni, modi di dire e oscenità, ovvero le volgarità usate per “colorire” il discorso ma senza ledere l’onorabilità di una persona (“Che rottura di coglioni!”, o “Porca puttana!”, o “Questo cazzo di computer”);
2) insulti (“Sei uno stronzo”) e maledizioni (“Vaffanculo”), cioè le espressioni che danno un giudizio negativo o augurano il male a un’altra persona.
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Se siete interessati al tema “leggi e parolacce” su questo sito trovate molti altri articoli sull’argomento (cliccare per andare al link):
• dare dell’idiota è reato? Guida pratica sugli insulti e la legge
• come difendersi dagli insulti su Facebook e gli altri social network
• ingiuria
• oltraggio a pubblico ufficiale
• e molti altri argomenti nel canale leggi e sentenze
Un gestaccio in auto: stando chiusi nell’abitacolo, è il modo più efficace di insultare (foto Hayk_Shalunts/Shutterstock)
Perché al volante, anche le anime candide diventano volgari come scaricatori di porto? Che cosa scatta nella nostra testa quando siamo nel traffico, portandoci a insultare, imprecare e fare gestacci peggio degli ultras allo stadio? In questo articolo risponderò a queste domande con l’aiuto di uno studio pubblicato dall’università di Valencia. La ricerca ha vinto l’IgNobel, il premio ironico assegnato ogni anno negli Usa alle ricerche strane, divertenti o assurde, che “prima fanno ridere e poi fanno riflettere”.
Lo studio, infatti, ha il merito di accendere i riflettori su un problema diffuso: l’aggressività sulle strade. Un problema che riguarda anche l’Italia: secondo una recente ricerca europea, non siamo i più volgari del Vecchio continente (il primato spetterebbe alla Grecia), ma siamo comunque al 3° posto per inciviltà verbale al volante. Perché accade questo? E si può fare qualcosa per portare più civiltà sulle strade?
Prima di raccontare la ricerca spagnola, val la pena partire proprio dai numeri: quanto sono frequenti le ingiurie nel traffico?
Quest’anno, la fondazione francese “Vinci autoroutes” (la società che gestisce le autostrade francesi) ha pubblicato un report, intitolato “Gli europei e la condotta responsabile”. Con un sondaggio svolto da Ipsos, la fondazione ha intervistato 11.038 persone (dai 15 anni in su) di 11 Paesi europei: Francia, Germania, Belgio, Spagna, Regno Unito, Italia, Svezia, Grecia, Polonia, Paesi Bassi, Slovacchia.
Fra gli aspetti affrontati, c’era l’inciviltà al volante: comportamenti come “clacsonare contro altri automobilisti che ti innervosiscono”, “temere il comportamento aggressivo da parte di un altro conducente”, “urtare deliberatamente il veicolo di chi vi innervosisce”, “sorpassare a destra”, “scendere dal veicolo per discutere con altri conducenti”… E – ciò che interessa a noi – “offendere un altro guidatore”.
Nelle risposte è emerso che lo scenario più diffuso (nell’81% dei casi) è la paura del comportamento aggressivo da parte di altri guidatori, soprattutto in Francia, Spagna e Grecia. Il secondo comportamento più frequente (55%) sono proprio gli insulti. Un campo nel quale, a dispetto delle nostre aspettative, non siamo in cima alla classifica: primeggia la Grecia (71%), seguita a pari merito da Francia e Germania (69%). L’Italia (65%) è al terzo posto. L’unica isola di civiltà risulta la Svezia, dove afferma di insultare solo un guidatore su 4 (28%).
Al volante, anche le donne offendono (foto Demkat/Shutterstock)
Al di là dei numeri, comunque, perché le offese diventano frequenti “on the road”? A questa domanda ha voluto rispondere la ricerca di Francisco Alonso dell’Istituto di sicurezza stradale dell’Università di Valencia. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Journal of sociology and anthropology”, si intitola “Shouting and Cursing while Driving: Frequency, Reasons, Perceived Risk and Punishment” (Grida e imprecazioni mentre si guida: frequenza, motivi, rischio percepito e punizione). E, come dicevo, ha vinto l’IgNobel per la pace assegnato dalla rivista scientifico-umoristica statunitense “Annals of Improbable Research”: questa rivista, tra l’altro, aveva a suo tempo segnalato il mio scoop sul professor Stronzo Bestiale.
Ma torniamo alla ricerca spagnola, premiata “per la pace” perché si proponeva di ridurre l’aggressività sulle strade. I ricercatori hanno fatto un sondaggio su 1.100 persone, per approfondire la frequenza, e le motivazioni, delle offese al volante. Il risultato è diverso da quello del sondaggio francese: mentre in quest’ultimo, il 59% degli spagnoli affermava di insultare alla guida, nella ricerca spagnola il numero si riduce alla metà. Solo il 26,4% dei guidatori, infatti, ha ammesso di offendere gli altri. Ma questa discordanza potrebbe dipendere da una miriade di fattori, a partire dalla scelta e composizione del campione. In ogni caso, la accantoniamo, perché la parte interessante della ricerca è un’altra: l’analisi dei motivi per i quali si insultano gli altri.
Secondo la ricerca, i tre motivi che spingono più spesso a insultare gli altri sono i seguenti:
Rabbia e paura sono i motori degli insulti stradali (foto tommaso79/Shutterstock)
Le risposte 2) e 3) sono molto simili: nel 35% dei casi (dunque, una volta su 3) ci arrabbiamo e insultiamo perché ci sentiamo in pericolo. E non è una sensazione illusoria: in Italia, solo nel 2017 ci sono stati quasi 175mila incidenti con lesioni, che hanno causato 3.378 morti e 246.750 feriti. L’Italia è al 18° posto in Europa per vittime della strada (55,8 per milione di abitanti, dati Istat). Dunque, in automobile si impreca perché corriamo davvero il rischio di lasciarci le penne o di rimanere feriti.
Dunque, in generale, le offese stradali esprimono rabbia e paura. Ed è inevitabile: le parolacce, infatti, sono il linguaggio delle emozioni. E le emozioni sono le reazioni psicofisiche di fronte a uno stimolo che mette in gioco la nostra sopravvivenza. Dunque, quando qualcosa minaccia (o favorisce) la nostra sopravvivenza, noi diciamo parolacce. Un’ulteriore prova che il traffico urbano “è una giungla in cui la miglior difesa è l’offesa”, scrive Alonso. D’altronde, bisogna ricordare che quando siamo in auto non è in gioco solo la nostra sopravvivenza (o integrità) fisica. Sono in gioco anche altre cose importanti: un eventuale incidente ci fa perdere tempo (burocrazia, avvocati), soldi (meccanico, assicurazione), e ci potrebbe lasciare a piedi se il danno è grave.
A tutti questi fattori, Alonso ne aggiunge un altro: “tendiamo a vivere la nostra vettura come una casa su ruote, la cui integrità va mantenuta a ogni costo”: quindi, se qualcuno viola o mette in pericolo questo nostro spazio, fa scattare i nostri impulsi più primitivi di “difesa del nostro territorio”.
Dunque, viste le dinamiche primordiali in gioco (e visto che le città diventano sempre più congestionate dal traffico), dubito fortemente che sia possibile limitare le ingiurie al volante. Anche se un po’ più di civiltà al volante e di educazione stradale non guasterebbero di certo, anzi.
Dunque, i motivi per imprecare abbondano, e sono anche per molti versi comprensibili. Ecco perché, in molte sentenze italiane, la Cassazione ha assolto persone che avevano pronunciato insulti anche pesanti nel traffico: la strada solletica i nostri istinti primordiali, quindi non ci si può scandalizzare troppo per le offese che nascono sull’asfalto. E, per inciso, lo stesso criterio di tolleranza è usato dai magistrati anche per valutare i diverbi in condominio, in politica e allo stadio. Tutti contesti dove le passioni si infiammano facilmente e le parole sono più volatili.
Ma attenzione: questo non significa che si possa insultare senza conseguenze, anche se si ha ragione. Se dite “figlio di puttana” a chi non rispetta la precedenza, correte il rischio che si offenda anche se ha torto. E che la rissa degeneri dalle parole ai fatti, come mostra questa celebre scena del film “Fantozzi” (1975): la signorina Silvani, a bordo dell’utilitaria di Fantozzi, dice a tre energumeni aggressivi a bordo di un’altra auto “Siete tre stronzi!” . Ecco cosa succede al malcapitato ragioniere:
Dunque, una migliore educazione civica ed educazione stradale possono aiutare a migliorare la situazione. Ma non bastano: se le strade continueranno a essere insufficienti ad assorbire il traffico di oggi, continueremo a sbroccare. Lo farebbe chiunque.
In futuro, vedremo se quando sulle strade circoleranno solo auto a guida autonoma, e il traffico sarà gestito in modo più razionale dall’intelligenza artificiale, i nostri nipoti si sfanculeranno meno di quanto facciamo noi oggi…
Alcuni insulti discussi in tribunale (elaborazione foto Shutterstock).
Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi“, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi: questa espressione va condannata perché “è indice di disprezzo“, replica la Suprema Corte in un altro pronunciamento.
Le sentenze sugli insulti sono appassionanti, ma spesso sembrano contraddirsi e perciò rischiano di creare confusione: che cosa si può dire, allora, senza rischiare di finire in tribunale?
La questione è vitale, come testimoniano i numerosi e accorati appelli che mi arrivano da quando ho scritto un post sulla riforma del reato di ingiuria: «Se do a qualcuno dello “sciacallo” su Facebook, mi può denunciare?», chiede Luca. «Dopo che la mia ex fidanzata mi ha detto che mi aveva tradito, ai suoi messaggi sul telefonino ho risposto con pesanti parolacce, tipo lercia, zoccola, viscida, ecc , rischio qualcosa?», incalza Andrea.
Non sono quesiti astratti, visto che le leggi puniscono le offese (ingiuria, diffamazione, oltraggio) con multe fino a 12mila euro e carcere fino a 5 anni.
Ora, però, c’è finalmente un quadro d’insieme: lo offre il “Dizionario giuridico degli insulti” (A&B editrice, 196 pagg, 18 €), un libro straordinario, appena pubblicato, che passa in rassegna oltre un secolo di sentenze pronunciate dai tribunali italiani. Potete trovare, in ordine alfabetico, i pronunciamenti su 1.203 termini insultanti (da “A fess ‘e mammeta” a “Zozzo”) e 83 gesti (dal dito medio all’ombrello). L’autore è un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D’Alessandro, che i lettori di questo blog ricorderanno per un suo precedente libro (di cui avevo parlato qui), che pubblicava le statistiche sugli insulti più denunciati in tribunale (vedi grafico più sotto).
Il nuovo dizionario (a sin. la copertina) è un’opera preziosa: può essere utile non solo ai giuristi e ai linguisti, ma anche ai sociologi (per capire come cambia la percezione delle offese nel corso delle epoche) e ai giornalisti e blogger, per sapere quali parole possono o non possono usare nel criticare un personaggio pubblico.
Ma attenzione: fino a un certo punto, come spiegherò più sotto. Le parolacce, infatti, non si lasciano ingabbiare in una sentenza – di condanna o di assoluzione – perché possono essere usate in molti modi e non solo illeciti. Le parolacce, infatti, sono come i coltelli: si possono usare per ferire o uccidere, ma anche per sbucciare una mela o incidere una scultura nel legno…
Nel libro, del quale ho scritto la prefazione, trovate tutti gli insulti classici (stronzo, carogna, puttana, verme, ladro, fogna, infame…). E anche espressioni molto più creative o ispirate dalla letteratura e dalla cronaca: dentiera ambulante, diesel fumoso, ancella giuliva, barabba, azzeccagarbugli, Zio Paperone, Papi girl, Pacciani, Lewinsky…
Ma fra i termini offensivi sottoposti a giudizio trovate anche parole neutre (tizio, boy scout, coccolone) o addirittura complimenti: bella, bravo, onesto. Tutte – badate bene – espressioni condannate come insulti. Com’è possibile?
Dipende dall’intenzione comunicativa: se è vero che con le parolacce posso esprimere anche affetto (fra amici: «Come stai, vecchio bastardone?»), è altrettanto vero che si può camuffare un’offesa sotto le sembianze di un complimento.
Ne sa qualcosa, racconta il libro, la persona che nel 2010 disse a due vigilesse: «Siete due gran fiche». E’ stata condannata, e non per sessismo: l’automobilista che aveva detto quella frase sarcastica era infatti una donna di Modena. Che stava usando un’altra figura retorica, l’antifrasi: una locuzione il cui significato era l’esatto opposto di quello che ha letteralmente. Dunque, vale la seguente equazione: complimento = insulto. La medesima parola, insomma, può avere entrambe le funzioni a seconda del tono (ovvero dell’intenzione comunicativa) con cui viene detta.
Ecco perché i magistrati, per giudicare se una parola sia stata davvero offensiva, usano lo stesso criterio di un buon linguista: collocano quella espressione nel contesto. Cioè vanno a guardare chi l’ha detta, quando, perché, a chi, dove, con quale intenzione comunicativa.
E così, grazie a questi dettagli, questo libro racconta tante storie, spesso divertenti. Come quella del magistrato che aveva chiamato i propri colleghi, durante un’infuocata camera di consiglio, “minchie morte” e “nani mentali” (fu condannato dalla Cassazione nel 2004). O quella dell’automobilista punito dalla Suprema corte nel 2011 per aver detto a un poliziotto che l’aveva sanzionato durante un controllo stradale: «Questa multa non mi toglie nemmeno un pelo di minchia». Peccato, era una bella battuta.
Altri giudici, in passato, si erano dimostrati più tolleranti: avevano assolto un uomo che aveva detto a un collega «Mi fai una sega tu e la legge». Perché, scrissero i magistrati dell’epoca (era il 1948!) la frase, per quanto volgare e come tale emendabile, «aveva il significato traslato di “Sono assolutamente tranquillo di fronte alla minaccia di adire vie legali”».
Alcuni insulti fanno rischiare la galera (Shutterstock).
Ma fino a che punto ci si può spingere nel criticare qualcuno?
La libertà di criticare un personaggio pubblico è uno dei cardini della democrazia e della libertà di stampa. E’ in nome di questa libertà che Vittorio Feltri è stato assolto per la sua rubrica «Il bamba del giorno», che metteva alla berlina vari protagonisti delle cronache. Una critica anche feroce, purché argomentata, è infatti tollerata. Ma salendo di tono e di bersaglio, questa libertà inizia a scricchiolare: è legittimo affibbiare il soprannome di “Cialtracons” al Codacons, l’associazione dei consumatori? I giudici hanno detto di no.
E’ il noto dibattito sui confini della satira: fino a dove può spingersi per «castigare i costumi attraverso il riso»? La Cassazione parla di “continenza”: si possono usare parole forti, purché siano figlie di un dissenso ragionato. Ma, in realtà, è impossibile stabilire una formula a priori valida per tutti i casi.
E quando si parla di parolacce i dubbi da sciogliere sono numerosi e, a volte, involontariamente comici. Per esempio, muovere il bacino in avanti e indietro dicendo «Suca» (succhia) è un’ingiuria? I magistrati l’hanno inquadrata come atto contrario alla pubblica decenza, ma si potrebbe discutere a lungo. E la frase «Ti rompo le corna» è un’ingiuria o una minaccia? Dipende se si dà più peso al verbo rompere o alle corna...
E augurare a qualcuno che «gli venga un cancro»? Esemplare quanto hanno scritto i giudici della Cassazione nel 2008: «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale».
Miseria umana ma anche superstizione: la maledizione – questo il nome tecnico dell’augurare il male a qualcuno – si basa sulla credenza magica che un desiderio (malevolo) possa realizzarsi davvero. Molte espressioni volgari sono maledizioni, eppure nei loro confronti i giudici hanno pareri discordi: hanno assolto chi ha augurato la morte di qualcuno, ma condannato chi ha detto «Va a morì ammazzato», «Che ti vengano le emorroidi», «Che tu possa sputare sangue», e perfino «Va a cagare» (che per uno stitico sarebbe una benedizione).
Com’è inevitabile, molte sentenze fanno discutere. Perché, in diversi giudizi, rompicoglioni è un termine tollerato («è una manifestazione scomposta di fastidio, di disappunto ma non lede l’onore») mentre rompicazzo è considerato insultante, pur avendo un significato equivalente? Perché i testicoli debbano avere una minor forza insultante rispetto al pene non è dato sapere.
Lo stesso dilemma si pone per i termini pagliaccio e buffone: pur essendo termini sovrapponibili, mentre il primo è stato sempre condannato, il secondo è stato anche assolto. Il buffone, del resto, è una figura ambigua: è ridicolo ma può anche rivelare verità scomode.
Ed è lecito che un insegnante dia dell’asino a un alunno? La Cassazione, nel 2013, ha scritto che il termine «potrebbe, in linea di principio, riconnettersi ad una manifestazione critica sul rendimento del giovane con finalità correttive». Sarà, ma ho qualche perplessità sull’efficacia educativa dell’insulto.
Di certo, per chi come me è giornalista, ovvero fa informazione critica, fa effetto leggere che è stato condannato chi ha usato i termini faccendiere, inqualificabile, modesto, politicante, scalmanato, sciagurato, sconcertante, specioso, strampalato.
D’altra parte, è pur vero che è stato assolto chi ha detto crumiro, dittatore, esaurito, fanatico, fazioso, incauto, inciucio, lacché, lottizzato, nepotismo, pazzo, retrivo, risibile, ruffiano (ma solo in senso metaforico), sanguisuga, sobillatore, sprovveduto, stravagante, superficiale, trombato, trombone, zelante e zombie.
Ma attenzione: non c’è alcuna garanzia che, usando questi termini, la passerete liscia. Dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice. Perché gli insulti possono sì ferire, ma restano pur sempre inafferrabili: come cantava don Basilio nel “Barbiere di Siviglia”, «la calunnia è un venticello».
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Diversi lettori mi chiedono pareri per insulti ricevuti o fatti. Rispondo volentieri, ma attenzione: sono un esperto di turpiloquio e degli aspetti psicosociali legati ad esso. Non sono un avvocato né un giurista, quindi non sono una fonte qualificata in campo legale. Per un parere qualificato dovete rivolgervi a un avvocato.
In ogni caso, se volete comunque una mia valutazione (sociale, relazionale), spiegate bene le circostanze: cosa avete detto, a chi (senza precisare il nome), dove, perché e se c’erano altri testimoni.
E se volete esprimere la vostra gratitudine per il mio impegno, la soluzione c’è: acquistate una copia del mio ebook. Costa meno di un aperitivo, e aiutate questo sito a vivere.
Hanno parlato di questo post: AdnKronos, L’Espresso, Ansa, Quotidiano.net, IlRestoDelCarlino, Franco Abruzzo, Il Giornale, Il Secolo d’Italia, Stravizzi, Fan Page, Enews24, Il Dubbio, Genova quotidiana, Ultima voce. E qui sotto c’è anche una video recensione di Dellimellow:
The post Processo agli insulti: cosa dicono le sentenze first appeared on Parolacce.]]>Le storie di Horacio, Rosa ed Elle non sono rare. Me ne hanno raccontate a decine, da quando ho pubblicato su questo sito un articolo sulle nuove regole del reato di ingiuria. Quell’articolo, infatti, è stato sommerso, nei commenti, da decine di appelli (fra cui questi tre), e in pochi mesi è diventato uno dei più cliccati di questo sito. Un fatto inaspettato, dato che parolacce.org è un sito di linguistica e non di consulenza giuridica.
Queste storie mi hanno coinvolto emotivamente perché sono vere e sofferte: provate a leggerle, e vi accorgerete che davvero le parole possono ferire come pietre (o come pugni, vedi il fotomontaggio Shutterstock in alto).
Ma queste richieste d’aiuto sono anche il sintomo di un disagio diffuso: oggi molte persone non sanno come devono comportarsi nelle nuove piazze virtuali dei social network per evitare o affrontare questi “danni collaterali”.
E’ comprensibile. Questi servizi sono entrati nelle nostre vite molto in fretta. E così, senza rendercene conto, negli ultimi 10 anni siamo diventati tutti non solo “connessi” ma in qualche modo anche “giornalisti”/editori. Grazie a Internet, infatti, possiamo far arrivare la nostra voce ovunque, a decine, centinaia o migliaia di persone. Proprio come i giornali.
Questa opzione su Facebook non c’è: sarebbe un reato (Shutterstock).
E’ un cambio radicale, e nessuno ci aveva preparati per questo. Abbiamo acquisito grandi poteri e libertà, ma siamo entrati in un gioco più grande di quanto immaginiamo. Per chattare su Whatsapp o su Ask, scrivere una recensione su Tripadvisor o su Yelp, pubblicare un post su Facebook o scrivere un tweet non abbiamo dovuto studiare un manuale o superare un test. Ma è come guidare un’auto senza aver preso la patente: possiamo essere piloti formidabili, ma se non conosciamo il Codice della strada rischiamo di prendere multe, di farci male o di finire in galera. Gli stessi rischi che corriamo se usiamo in modo inconsapevole i social network.
Ecco perché in questo articolo troverete una guida pratica su come prevenire e “curare” gli insulti su Facebook & C.
Il primo passo è sapere le regole del gioco. Cioè le leggi. Molti pensano che Internet sia una terra di nessuno, una zona franca in cui ci si può esprimere come si vuole: come con gli amici al bar. Ma non è così: sul Web valgono le stesse norme della vita reale.
A volte i social network sono un concentrato di insulti (Shutterstock).
In particolare, chi insulta qualcuno su Facebook & C. non commette il reato di ingiuria, che quest’anno è stato depenalizzato (non si rischia più la galera, ma solo sanzioni economiche: lo spiegavo nel mio post). Chi insulta sui social, invece, commette un reato più pesante: la diffamazione aggravata. Lo stesso reato che commettono i giornalisti quando scrivono un articolo ingiustamente offensivo. Ovvero, quando scrivono giudizi infamanti senza averne le prove. Anche gli insulti infatti (dire a qualcuno che è stronzo, bastardo, demente, etc) sono giudizi.
Su Facebook & C. le nostre frasi restano nero su bianco (pixel su pixel, byte su byte) e arrivano a un numero imprecisato di persone. Tanto più che le nostre chat, i nostri post, le recensioni restano online per anni. E li si può leggere in ogni momento e da ogni angolo del pianeta. Anche se contengono le peggiori parolacce.
E allora vediamo in che consiste il reato di diffamazione: quali sono le pene previste, le procedure di denuncia e i tempi. Per sapere tutte le altre leggi che regolano le parolacce in Italia, potete scaricare il mio libro.
Cos’è: si commette il reato di diffamazione quando si offende una persona assente, davanti ad almeno altri 2 testimoni. Questo reato si può commettere anche quando si offende via Facebook, Twitter, Tripadvisor, Google Plus, Linkedin, Yelp, Ask, Whatsapp (se è una chat di gruppo).
Eccezioni
Si può essere assolti se si riesce a provare la verità di un’accusa all’altra persona.
Non è punibile chi ha commesso il fatto come reazione a un’ingiustizia appena subita.
Procedura
Si può denunciare direttamente il fatto alle forze dell’ordine (polizia, carabinieri).
In alternativa, si può incaricare un avvocato di depositare una denuncia in Procura.
Tempi
La querela va presentata entro 3 mesi da quando si è venuti a conoscenza del reato. Dopo la denuncia penale ci si può costituire parte civile per chiedere il risarcimento dei danni subìti. In alternativa si può ricorrere – entro 5 anni – al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni.
Pene
Reclusione fino a 1 anno; oppure multa fino a 1032 €.
Aggravanti (e pene aumentate)
Legge di riferimento: Codice Penale, art. 595
Leggendo questa scheda, salta subito all’occhio un paradosso: com’è possibile applicare la diffamazione a chi scrive su una chat? La diffamazione, di per sè, significa parlar male di qualcuno in sua assenza. Ma se l’altro è presente, seppure in modo virtuale, dall’altra parte dello schermo, su Whatsapp o Facebook e Twitter? Per la Cassazione, che ha sfornato diverse sentenze sul tema, la presenza digitale non conta: è difficilmente provabile, in un processo, che il destinatario dell’insulto fosse virtualmente “presente” (connesso) quando veniva scritto.
Ovviamente il Codice Penale – scritto nel lontano 1930, quando Internet non esisteva nemmeno nella fantasia degli scrittori di fantascienza – non poteva precisare questo dettaglio. Ma, aggiunge Giuseppe D’Alessandro, avvocato cassazionista a Niscemi, su questo punto non è detta l’ultima parola: in realtà il dibattito è ancora aperto.
«Il nostro Codice» spiega l’avvocato D’Alessandro «vieta di interpretare le leggi in maniera più punitiva per gli imputati. Le interpretazioni che attenuano un reato, quindi, sono possibili. Perciò, nessuno vieta, a un giudice, di interpretare la presenza virtuale come presenza effettiva: e questo trasformerebbe le offese via Facebook & C da diffamazione a ingiuria, un reato meno grave. E non è l’unico problema di interpretazione in questo campo: qual è il Tribunale competente a giudicare gli insulti sui social network? Per saperlo, bisogna sapere dove è stato commesso il reato: e quando il luogo è il cyberspazio, tutto si complica». La tendenza più diffusa, comunque, è di considerare competente il Tribunale dove risiede la vittima, ovvero chi ha presentato la querela.
Se seguirete queste 9 regole, limitate il rischio di offese e querele quando scrivete sui social network:
Se volete approfondire cosa dicono le sentenze dei tribunali in caso di ingiuria, diffamazione e oltraggio, trovate un altro articolo su questo blog.
Oggi, però, questa zona erogena sembra aver perso il suo potere: già dal 2000 la Cassazione ha sancito che il topless non offende il pudore in quanto “da vari lustri è comunemente accettato ed entrato nel costume sociale”. In effetti è vero: oggi un seno nudo non fa più scandalo, perché ormai inflazionato da rotocalchi, film e tv… Eppure, in Italia e nei Paesi mediterranei, è ancora un attributo essenziale della seduzione femminile: da decenni nel nostro immaginario cinematografico si alternano sempre nuove “maggiorate“, da Sophia Loren a Sabrina Ferilli, passando per le donne super prosperose di Federico Fellini.
Qualcuno dice che è un sintomo del mammismo italiano: può darsi, ma anche nel mondo anglosassone – tutt’altro che mammista – i tabloid con le foto di modelle tettone riscuotono molto successo: perché il seno è un simbolo di femminilità, accoglienza, calore, dolcezza, cibo, fecondità, seduzione, salute. Sono come due grandi occhi che ipnotizzano lo sguardo maschile. E, se il seno è bello, suscita ammirazione (e un po’ di invidia) anche nelle altre donne. Oggi, però, è diventato una moda, un’ossessione, anzi: uno status symbol. Chi può, si rifà le zinne. Secondo l’Associazione italiana chirurgia plastica estetica (Aicpe), infatti, nel 2014 in Italia gli interventi per aumentare il seno (mastoplastica additiva) sono stati il secondo intervento più diffuso dopo la liposuzione: l’hanno fatto 33.532 donne, quanto l’intera popolazione di Castelfranco Veneto. Insomma, sono nate le poppe in serie: il seno tondo, sodo e abbondante è diventato uno standard omologato, uguale per tutte. E anche questo contribuisce a ridurne la carica erotica: tant’è che, secondo un’opinione abbastanza diffusa, “tette” non sarebbe una parolaccia ma un’espressione colloquiale o familiare. Infatti, la usano anche le mamme coi loro bambini: “Vieni qui, che ti do la tetta”…
“Io ce l’ho più grande del tuo”: anche a 69 anni, Susan Saradon (destra) fa a gara con Salma Hayek per il seno più “large”.
E’ davvero così? Sì e no. Già un indizio dovrebbe indurre alla cautela: se una donna va dal medico per una visita, non gli dirà che “sente un nodulo alle tette” ma al seno: altrimenti, porterebbe un aspetto di seduzione e di confidenza in un rapporto terapeutico. E, come raccontavo in questo post, i limiti d’uso – insieme al registro basso e ai colori emotivi – sono i tratti distintivi delle parolacce. Ma c’è anche un altro indizio, ancora più rilevante: il termine tette è usato anche nella letteratura erotica e nella pornografia (lo trovate nei siti hot, alla voce “tette grandi”, “tette enormi”, “tettone”). Senza contare che con le tette si può fare la “spagnola”, di cui parlavo qui.
Come si spiega questo fatto? E’ una delle tante schizofrenie sul seno, che oscilla fra due opposte polarità nella nostra cultura: simbolo di maternità e simbolo sexy.
Per la psicoanalisi non è una novità, ma per la nostra società (tradizionalista e maschilista) sono visioni inconciliabili: o sei madre, o sei puttana. Tutte e due le cose insieme, no. Ecco perché a volte si creano cortocircuiti culturali, come accade nelle reazioni isteriche di quanti non tollerano di vedere una donna che allatta in un luogo pubblico, come racconto più avanti.
Partiamo dall’analisi linguistica (clicca le mappe per ingrandirle; credito Shutterstock). I termini che si riferiscono al seno fanno riferimento per lo più alla loro forma rotonda (meloni, bisacce, palloni) o sporgente (zinne, dal longobardo “merlo di una muraglia”). Molto diffuso il termine poppe, che – contrariamente a quanto si può immaginare – non deriva dal termine poppare (che ne è un derivato) bensì da pupa, ragazza. Come dire che il seno è un elemento caratterizzante della femminilità. Da questo termine, tra l’altro, deriva anche l’inglese boobs.
Treviso, la Fontana delle tette (1559): zampillava vino.
Ma i termini più espressivi legano il termine all’atto del succhiare: ciucce, tette, zizze, menne, e lo stesso termine mamma e mammella riproducono, in modo onomatopeico, la suzione dei bambini. Dunque, mamma è colei che offre il petto da succhiare. E quando una parola evoca qualcosa in modo diretto e fortemente immaginifico, scattano le censure: ecco perché la parola tette non si può dire in ogni circostanza.
Nella nostra civiltà infatti, il seno è diventato una zona eroticamente carica: a differenza delle culture africane, dove è visto solo come un organo per allattare, che attrae solo i bambini. Ecco perché nelle tribù africane il topless è la regola e non turba nessuno. Secondo molti antropologi, infatti, l’erotizzazione del seno è un fatto culturale, soggettivo: rappresenterebbe il passaggio da una sessualità “da tergo” (con il richiamo erotico dei glutei, come raccontavo qui) a una frontale, nella quale il seno richiama sul petto le rotondità del sedere.
Eppure, anche nella nostra (apparentemente) libera civiltà, il seno riesce ancora a dare scandalo. Innanzitutto quando è usato nelle pubblicità, che ne sfruttano la carica erotica per attirare l’attenzione e sedurre. Ma mentre in passato era messo in mostra dalle prostitute per attirare i clienti, nella civiltà dei consumi il seno è esposto non per vendere il corpo femminile, bensì per piazzare altre merci, che siano liquori, telefonini, o automobili (ecco perché queste pubblicità sono accusate di sessismo, come raccontavo qui).
E’ un uso strumentale e commerciale del seno, che non ha precedenti nella storia. In passato, invece, il seno era usato in un campo diametralmente opposto: la religione. Molte immagini sacre, dal 1300 in poi, raffigurano infatti la Madonna mentre allatta il bambin Gesù: una tradizione nata nell’arte bizantina nel V secolo, e poi approdata in occidente con grande successo, tanto da aver ispirato artisti come Ambrogio Lorenzetti, Nino Pisano, Jan van Eyck, Albrecht Durer e Leonardo da Vinci (dipinto a sinistra).
E’ la Madonna del latte (detta anche Virgo lactans o Galaktotrophousa, che nutre col latte), un tema che divenne molto popolare perché rappresentava Maria nella sua umanità terrena, nella sua tenerezza di mamma: quindi, più vicina ai fedeli. Col cristianesimo, insomma, l’allattamento è stato rivalutato. Le antiche greche e romane, invece, rifiutavano l’allattamento al seno: per non rovinarlo, le ricche affidavano i poppanti alle balie.
Anzi, si arrivò al punto di rappresentare l’illuminazione mistica di Bernardo di Chiaravalle come una poppata di latte dal seno della Madonna: secondo una leggenda diffusa nel 1300, racconta Victor Stoichita, a Bernardo fu ordinato di predicare davanti al vescovo di Chalon. San Bernardo si rifiutò, si mise in preghiera davanti a Nostra Signora e si addormentò. “Nostra Signora gli mise il suo seno sulla bocca trasmettendogli la scienza divina. Da quel momento Bernardo divenne uno dei predicatori più sottili del suo tempo”. L’episodio fu illustrato da diversi artisti, come Alonso Cano che nel 1656 lo raffigurò come uno schizzo diretto alla bocca del santo (vedi dipinto a destra): d’altronde, era l’unico modo di mantenere le distanze fra la bocca di Bernardo e il seno di Maria. Ma nel frattempo erano cambiati i tempi: con l’austerità dei costumi voluta dalla Controriforma (1563), la Chiesa censurò queste immagini, raffigurando da allora in poi la Madonna in modo più castigato.
Eppure, ancora oggi, l’allattamento fa scandalo: nel 2014 ha fatto clamore la disavventura di una 35enne britannica, Louise Burns, che è stata costretta dai camerieri di un hotel di lusso di Londra, il Claridge, a coprirsi con un tovagliolo mentre allattava. Un caso tutt’altro che isolato, che dimostra quanto poco libera è la nostra civiltà: cosa c’è di scandaloso in una donna che allatta? Il motivo è che l’immagine naturale di un seno usato per la sua funzione fisiologica di ghiandola mammaria stride con quella del seno come richiamo erotico. E minaccia di annullarne la sua carica sexy.
Ma questo tabù nasconde in realtà anche un classismo e un interesse commerciale, denuncia in un recente saggio, Amy Bentley, docente di nutrizione all’università di New York: da quando, negli anni ’50, si diffuse il latte in polvere, l’industria alimentare ha fatto molte campagne per promuovere la nutrizione infantile tramite biberon, descrivendola come “pratica, utile, moderna”, facendo passare l’allattamento al seno come un’abitudine da classi povere e primitive.
Sono occorsi decenni di studi per comprendere invece che il latte materno è molto più sano di quello in polvere, perché rafforza le difese immunitarie dei bambini. E così sono nati i movimenti per sostenere l’allattamento al seno, come la Leche League. E da questo punto di vista, è molto più progressista papa Francesco, che fin dalla sua elezione ha sempre esortato le donne a nutrire i loro neonati, perfino in chiesa.
Il seno per attirare l’attenzione: una scorciatoia usata in molti spot. E contestata per il suo sessismo.
Ma c’è un altro aspetto del seno che ha creato scandalo: il suo uso come arma di protesta. Sfruttando tutte queste contraddizioni della nostra cultura, le attiviste di Femen, movimento femminista ucraino, hanno inscenato diverse proteste presentandosi a seno nudo, spesso sovrastato da scritte e slogan. Le loro performance fanno sempre clamore, e non solo per i loro bersagli (uomini e luoghi di potere): ma soprattutto per il contrasto fra la nudità, la vulnerabilità, l’intimità femminile e l’esposizione mediatica. Danno un senso di intimità violata.
A differenza dei topless degli anni ’70, esibiti come bandiera della liberazione sessuale e dell’eguaglianza con gli uomini (“anche noi abbiamo diritto a stare a petto nudo”), le Femen invece mostrano un seno desessualizzato e politico. Non è più una zona erogena e nemmeno un attributo materno: è un’arma di protesta, un nudo di sofferenza e di rabbia tutta femminile davanti a un mondo che altrimenti le ignorerebbe. Le poppe nude fanno notizia e attirano l’attenzione? Bene, allora guardatele, perché sono la vetrina, il manifesto delle nostre idee. E’ nato un nuovo cortocircuito sulle tette.
“La Cassazione sdogana le parolacce”. “Frasi scurrili? Al parcheggio si può”. O addirittura: “Dire parolacce in auto non è più reato”.
E’ stata presentata in questi termini una sentenza della Cassazione (la n° 15710 dell’8 aprile 2014). Peccato, però, che la sentenza NON dica niente di tutto questo questo. Stabilisce invece un altro principio, del tutto normale anche se spesso trascurato: ovvero, che non tutte le parolacce sono offese.
L’episodio valutato dai giudici della suprema Corte risale al 2010: un uomo di San Pietro Vernotico (Brindisi) aveva trovato il passo carrabile ostruito dall’auto di una donna. Non riuscendo a uscire con la propria auto, colmo di rabbia, le aveva detto: “Mi hai cacato il c….”.
La donna lo aveva denunciato per ingiuria. Ma la Cassazione lo ha assolto, considerando quella frase come “un’espressione di fastidio e non di disprezzo per la persona in sé. Non è punibile, infatti, il linguaggio volgare in sé, ma solo l’offesa: ossia quando la volgarità viene usata per ledere l’onore di un’altra persona”.
La distinzione (già nota ai lettori del mio libro) è lampante: ci sono alcune parolacce (“somaro”, per esempio) che attaccano la dignità, l’autostima di un altra persona. Sono gli insulti. Altre parolacce, invece, sono usate per esprimere emozioni forti: rientrano in questa categoria le imprecazioni (“porca vacca”) ma anche i modi di dire come quello valutato dai giudici della Cassazione. In questo caso, le parolacce hanno una funzione catartica: servono come enfasi, valvola di sfogo, infrangendo un tabù linguistico. Si può discutere sulla volgarità, sulla scarsa educazione o eleganza, ma nessuno si può sentire direttamente offeso da queste espressioni. Che spesso sono una reazione automatica, un riflesso neurologico a uno stato di rabbia intensa. Se non ci credete, provate a darvi una martellata su un dito: scommettiamo che non vi uscirà dalla bocca una frase elegante?
Diciamo la verità: il “vaffa” fa sempre notizia. Sarà anche inflazionato ma resta pur sempre una delle parolacce più usate della nostra lingua (la 10°, come ho raccontato in questa analisi).
E resiste all’inflazione: due sentenze recenti della Cassazione, questa e questa hanno ribadito che questa espressione è un‘ingiuria che manifesta disprezzo verso un interlocutore.
Eppure, di questa parolaccia sappiamo poco. Innanzitutto, che tipo di espressione è? Linguisticamente parlando, è un’espressione formulaica o verbo polirematico: in parole povere, è una frase fatta, un prefabbricato linguistico, tanto da essere quasi indeclinabile (culo resta sempre al singolare, anche se il vaffa è rivolto a più persone: andate affanculo).
Ma cosa vuol dire esattamente vaffanculo? Su Internet circolano interpretazioni a dir poco fantasiose: come quella secondo cui “vaffa” era il nome del palo usato nel Medioevo per i condannati a morte… Niente di più sbagliato, anche se l’origine di questa espressione non è molto chiara, così come il suo significato: vuol dire augurare un rapporto anale attivo o passivo?
Pubblicità con doppio senso: è del 2013.
Innanzitutto, un po’ di storia, che ho ricostruito grazie al prezioso contributo di un collega linguista, Giovanni Casalegno. La prima testimonianza di questa espressione nella nostra letteratura è piuttosto recente. Si trova in un romanzo di Aldo Palazzeschi Roma, del 1953. “La signora Sequi s’alzò dal divano sul quale sedeva vicino a lui, con gli occhi sbarrati e le mani sui fianchi gridò: «va a ffanculo!». Come sempre accade, però, l’inserimento di una parola in un’opera letteraria avviene a distanza di molti anni dalla sua diffusione nell’italiano parlato: sicuramente il vaffa è molto più antico.
Da allora, comunque, il vaffa ne ha fatta di strada. Probabilmente siamo l’unico Paese al mondo che ha segnato la nascita di un movimento politico con un vaffa contro la politica: il V-Day organizzato nel 2007 da Beppe Grillo. E’ stata una manifestazione itinerante senza precedenti, che raccolse oltre 300mila firme per riformare i criteri di candidabilità dei politici. Senza dimenticare che c’è un’intera canzone, “Vaffanculo” di Marco Masini, diventata una hit nel 1993 (ma in questo campo i rapper statunitensi ci fanno una bella concorrenza):
L’espressione è una contrazione di “vai a fare in culo”, dove il verbo fare va inteso in senso generale come “praticare”. Significa “vai a praticare il sesso anale”, la sodomia, sia in senso attivo che passivo: una pratica che è sempre stata vista, in passato, in modo spregiativo fin dai tempi dei Romani (almeno per quanto riguarda il sesso passivo; su quello attivo erano più tolleranti).
Dal punto di vista funzionale, il vaffa rientra tra le maledizioni: significa scacciare qualcuno augurandogli un destino sgradevole. Nella visione – come ricorda Steven Pinker – che il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva sfruttandola o danneggiandola. Tant’è vero che inculare significa anche sfruttare, fregare, danneggiare.
Ed è probabile che la fortuna espressiva del vaffa abbia anche una ragione sonora, musicale: la parola è costituita da 3 consonanti fricative (la doppia labiale f e la dentale v), che comportano un’espulsione di fiato, e sono spesso usate, come afferma il fonosimbolismo, nelle espressioni che significano disgusto, disprezzo, rifiuto, condanna, insofferenza: come le parole vomito, fetente, fanfarone, fesso, schifo.
Di recente, è emerso che Sharon Stone e Pupi Avati, mentre giravano un film a Roma, si salutassero con «Vaffanculo Pupi», «Vaffanculo Sharon», perché all’attrice statunitense piace il suono della parolaccia. Del resto, potrebbe non essere un caso che anche in inglese un’espressione equivalente sia costruita con la stessa consonante: fuck off. E anche sul fuck occorre smontare una leggenda metropolitana. Ovvero che sia l’acronimo di “furnicating under consent of the king”… (cioè si poteva fornicare solo con un permesso del re) come ben spiega Wikipedia inglese.
A fronte di questa espressività sonora, però, bisogna sottolineare un difetto del vaffa dal punto di vista prosodico: la sua lunghezza. Quattro sillabe per scacciare qualcuno sono un po’ tante: non è un caso che gran parte degli insulti più efficaci sono costituiti da 2 sillabe (stronzo! pirla!, etc). D’altronde se, come diceva il filosofo Schopenhauer, l’insulto è un giudizio abbreviato, deve a maggior ragione essere breve e incisivo. Tant’è vero che il trio Aldo, Giovanni e Giacomo ne ha evidenziato l’effetto comico nel film “Tre uomini e una gamba” (1997): in una celebre scena Aldo pronuncia il vaffa più lungo della storia del cinema italiano (6 secondi):
Ma a parte l’efficacia espressiva, il vaffa esprime anche una verità poco nota: l’Italia è uno dei Paesi in cui il sesso anale è più diffuso. Il 56% degli italiani nati tra il 1937 e il 1988 ha avuto rapporti eterosessuali di questo tipo, per lo più in rapporti di coppia. Lo afferma un serissimo e documentatissimo libro di sociologia La sessualità degli italiani di Maurizio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna e Franco Garelli (Il Mulino, 2010). Dice a pag. 200/201: “il numero di coppe eterosessuali che li pratica (i rapporti anali) è cresciuto, durante il secolo scorso sia in Europa che negli Usa. Sorprendentemente, però, questo processo è iniziato, o è stato comunque più rapido, in Italia rispetto agli altri Paesi sui quali abbiamo dati. (…) Nella seconda metà del Novecento, la quota degli uomini italiani che hanno avuto rapporti anali con una donna è stata 5 volte più alta di quella degli inglesi. La diffusione di questa pratica è comunque molto maggiore da noi anche rispetto agli Usa e alla Francia”. La fonte del libro è, a sua volta, lo studio di T. Sandfort e altri “Sexual pratices and their social profiles” in M. Hubert “Sexual behaviour and Hiv/Aids in Europe”, London, 1998 (pag. 106-164).
Due sodomiti condannati al rogo in una miniatura del 1447: le condanne a morte durarono fino al 1700.
I motivi? Due, dicono Barbagli e colleghi. Primo, la maggior dipendenza delle donne dal partner, per una maggiore disuguaglianza di genere. Le donne, insomma, lo farebbero più per compiacere l’uomo.
Secondo (e credo ben più importante) un fattore storico: l’Italia è da secoli la patria europea dei rapporti anali, se già San Bernardino da Siena quasi 6 secoli fa, deprecava il fatto che, per i tedeschi di allora (ironia della sorte!) “non è generazione al mondo che sieno maggiori sodomiti che e’ Taliani”. Tanto che in tedesco il verbo florenzen (da Firenze) significa sodomizzare. Insomma, i famosi “rapporti contro natura” che la Chiesa deprecava sia nei rapporti etero che omosessuali, in quanto emblema del sesso non finalizzato alla procreazione “in un orifizio illecito” (e tanto più deprecabile in quanto “impuro”, essendo la via d’uscita degli escrementi).
Ma proprio per opporsi a questo forte tabù, diversi scrittori dei secoli scorsi decisero di sfidare la mentalità corrente, decantando nelle loro opere le gioie del sesso anale, come fece tra gli altri – lo racconto nel mio libro – Pietro Aretino nei “Sonetti lussuriosi” del 1526.
Dunque, la prossima volta che mandate qualcuno affanculo pensate a quale peso storico e culturale porta dentro di sè. Un peso che si può apprezzare in tutta la sua forza espressiva in una canzone amarissima di Piero Ciampi, “Adius”, ultimo scatto d’orgoglio di un innamorato ferito:
Ma come
Ma sono secoli che ti amo
Cinquemila anni
E tu mi dici di no
Ma vaffanculo
Sai che cosa ti dico
Vaffanculo…. vaffanculo….
«Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”».
Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008
«Siamo incazzati».
Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto)
In effetti, sono incazzato anch’io. Non per i toni volgari di questa campagna elettorale: quando scrivevo “Parolacce” ne ho lette a migliaia, di tutte le epoche e in tutte le lingue. Ci ho fatto l’abitudine… E che la politica scateni violente passioni è un fatto naturale, come ho già scritto in questo stesso blog.
Altrettanto assodato (lo hanno dimostrato molti studi scientifici) che, quando un leader usa il turpiloquio, accorcia le distanze con il suo uditorio ma al tempo stesso perde carisma, credibilità e autorevolezza: se i nostri politici vogliono correre questi rischi, fatti loro. Diciamo che ognuno ha il proprio “stile”…
Il problema è un altro: quando ascolto un candidato che dice volgarità, mi sento defraudato. E c’è un motivo oggettivo: le parolacce sono, da sempre, il linguaggio del popolo (non a caso, “volgare” significa “popolare”). E un linguaggio anarchico, senza padroni, intrinsecamente contro il potere costituito.
L’ha scoperto, il secolo scorso, un grande critico letterario russo, Michail Bachtin studiando la comicità nelle opere dello scrittore rinascimentale François Rabelais.
Le parolacce, diceva Bachtin, sono il linguaggio della piazza: fa cadere le barriere di potere e di classe, liberandoci “dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti”. Le parolacce, se usate per ridere, ci aiutano a superare la paura di vivere, non impongono divieti o restrizioni, corrodono i soprusi e la sopraffazione del potere. Non a caso, diceva Bachtin, “il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso”.
Ma allora perché i politici di oggi lo usano? Per biechi motivi di marketing elettorale: i politici, usando le parolacce, ci strizzano l’occhio, per farci credere che sono vicini a noi, che parlano come noi, che sono come noi… Ma non è vero: loro, a differenza di noi, hanno grandi poteri, ampi privilegi e gravose responsabilità. Compresi gli esponenti dei partiti che si definiscono “popolari” come la Lega Nord, forse il primo partito ad aver sdoganato le parolacce nei comizi e non solo.
Un conto è un politico che insulta l’avversario (uso legittimo, col beneplacito della Cassazione); tutt’altro conto è un politico che dica volgarità ai suoi elettori per conquistarli: è un mistificatore!
Quindi, i politici (nessuno escluso: siano di destra, di sinistra o di centro) facciano il sacrosanto piacere di non rubarci anche le parolacce, dopo averci sottratto la stabilità, l’avvenire e in diversi casi anche i soldi… Che lascino le parolacce al popolo e ai comici! Il che è anche un avvertimento a Beppe Grillo: se, un domani, decidesse di avventurarsi in politica, non sarebbe più legittimato a fare “Vaffa-day”… Quantomeno, dovrebbe chiamarli in un altro modo.
P.S.: A proposito di politica, se volete ripensarla in modo serio, interessante e divertente, non perdete il prossimo numero di Focus Extra, in edicola dal 5 aprile: scoprirete quanto può essere appassionante e utile la “vera” politica. Cazzarola.