censura | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 09 Apr 2024 16:14:18 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png censura | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Qatar, il Mondiale degli insulti (online) https://www.parolacce.org/2023/08/05/ricerca-offese-calcio/ https://www.parolacce.org/2023/08/05/ricerca-offese-calcio/#comments Sat, 05 Aug 2023 13:01:29 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19941 Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di… Continue Reading

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I calciatori della Germania posano con la mano sulla bocca all’inizio dei Mondiali: una protesta contro la FIFA, che aveva vietato di indossare fasce arcobaleno in Qatar (come solidarietà al mondo LGBT).

Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di mira, e quando.
La Fifa, infatti, durante il torneo aveva
alzato una barriera protettiva virtuale per i calciatori, il Servizio di protezione dei social media (SMPS): un sistema di intelligenza artificiale che ha monitorato le principali piattaforme di social media (Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, YouTube) alla ricerca di post o commenti insultanti. Che sono stati in parte censurati in tempo reale sugli account di giocatori, allenatori,staff, squadre, in parte segnalati alle piattaforme.

Ora, a distanza di mesi dall’evento, la Fifa ha pubblicato un report che fa un bilancio dell’esperienza. E offre molti interessanti spunti di riflessione, anche se l’Italia non ha partecipato al torneo: è una delle prime volte in cui un torneo mondiale è stato monitorato dall’intelligenza artificiale (sebbene affiancata da quella umana) in un’operazione di protezione (o censura, a seconda dei punti di vista) in tempo reale e su scala globale. Alle squadre e ai giocatori la Fifa ha dato infatti un software di moderazione che nasconde automaticamente i commenti offensivi sui loro account: in questo modo sono stati occultati al pubblico 286.895 commenti.

In più lo studio ha risposto ad alcune curiosità: quanto sono frequenti gli insulti a squadre e giocatori? [ Risposta: poco ] Quali offese sono più frequenti e da dove arrivano? [ quelle generiche, e dall’Europa ]  Ci sono squadre più bersagliate di altre? [ la Francia ]. Con molte sorprese: razzismo e omofobia non sono stati i temi più frequenti della fogna virtuale.

Il sistema protettivo

La fasce anti discriminazione consentite dalla Fifa ai Mondiali femminili in Australia e Nuova Zelanda

Che il calcio sia uno sfogatoio dell’aggressività non è una novità. Molti calciatori diventano bersaglio dei tifosi, a ogni latitudine. E spesso questo può pregiudicare la loro serenità e il loro rendimento in campo. L’ex attaccante del Brasile Willian Borges da Silva ha sperimentato in prima persona gli abusi online: i tifosi del Corinthians insultavano lui e la sua famiglia ogni volta che non giocava all’altezza delle loro aspettative. Così, per evitare questi episodi, ha deciso di trasferirsi in Inghilterra (per il Fulham). 

«Un ambiente online tossico è un posto difficile e rischioso per i giocatori. L’odio e la discriminazione nell’ambiente online avere effetti dannosi sul loro benessere generale con attacchi di ansia, depressione, bassa autostima, disturbi del sonno, cambiamenti nelle abitudini alimentari, sentimenti di inadeguatezza, ritiro sociale e isolamento» ammonisce il report. 

Perciò, in vista dei mondiali, la Fifa ha attivato il Servizio di protezione dei social media (SMPS) chiamato “Threat Matrix” della società britannica Signify.ia: i giocatori di tutte le 32 Federazioni hanno fruito di un servizio di monitoraggio, segnalazione e moderazione dei commenti offensivi nelle lingue delle squadre che partecipavano al torneo. In pratica, un sistema di intelligenza artificiale, impostato in modo da riconoscere migliaia di parole-chiave insultanti nelle 7 lingue ufficiali della Fifa (inglese, francese, tedesco, spagnolo, arabo, portoghese e russo), ha analizzato oltre 20 milioni di post e commenti. Gran parte veniva da utenti di Instagram (43%), seguito da Twitter (26%) e Facebook (24%), il resto da TikTok (6%) e YouTube (1%).

Gli insulti? Un’eccezione

Fra i 20 milioni di commenti, il sistema ne ha segnalati 434mila (il 2,17%) agli operatori umani per ulteriore controllo: di questi, quasi 287mila (1,4%) sono stati bloccati (cioè resi invisibili sugli account dei partecipanti al Mondiale e al pubblico) e 19.600 (0,1%) sono stati segnalati alle piattaforme dei social media in quanto verificate come offensive. 

Voglio sottolineare le percentuali in gioco: i commenti sospettati come offensivi erano il 2,17%, quelli effettivamente bloccati l’1,4% e quelli più gravi, segnalati alle piattaforme,solo lo 0,1%.

Una statistica del tutto in linea con i trend che avevo rilevato nel linguaggio parlato (lo studio qui): le parolacce usate nell’italiano rappresentano lo 0,2% (in questo caso, però, ho conteggiato una singola parola, mentre nel report Fifa si conteggiano i post o i commenti, che possono contenere più di un termine insultante). Ed è un fatto insolito che sui social i commenti offensivi siano così bassi, dato che – rispetto al linguaggio parlato – ci si può nascondere dietro uno schermo e un nome falso. In ogni caso, per valutare seriamente la rappresentatività di questo dato bisognerebbe sapere quali e quante parole-chiave siano state impostate nel monitoraggio (e questo non è dato sapere).

Il report precisa che la Fifa «migliorerà ulteriormente i filtri di moderazione SMPS in vista del Campionato del mondo femminile Australia e Nuova Zelanda 2023» che terminerà in agosto.

Gli autori? Chissà

La nota dolente del report riguarda la possibilità di identificare ed eventualmente sanzionare gli autori di commenti irrispettosi: sono stati censiti 12.600 autori di post offensivi (in teoria ne avrebbero scritti 34 a testa) e solo 306 di loro (il 2,4%) sono stati effettivamente identificati per nome, cognome e indirizzo. Le loro identità sono state messe a disposizione dalla FIFA alle Federazioni affiliate e alle autorità giurisdizionali «per supportare l’azione intrapresa nel mondo reale contro coloro che hanno inviato commenti offensivi, discriminatori e minacciosi alle squadre e ai giocatori partecipanti durante la Coppa del Mondo FIFA». Ma il report segnala che «la risposta iniziale di Meta (proprietaria di Instagram e Facebook, ndr) alle loro segnalazioni era spesso una risposta automatica “che il team di revisione non era stato in grado di esaminarle”».
In più, prosegue il report, «
è stato rilevato un abuso razzista proveniente da un account in cui persino il nome dell’account conteneva termini chiaramente offensivi e razzisti, violando chiaramente i termini di servizio di Meta. Ciò ha segnalato una vulnerabilità nel processo di revisione della piattaforma, poiché l’account offensivo è rimasto attivo per più di 4 mesi dopo la fine del torneo, nonostante fosse stato segnalato il giorno della finale».
Non a caso, il p
residente della Fifa Gianni Infantino ha commentato: «Ci aspettiamo che le piattaforme di social media si assumano le proprie responsabilità e ci sostengano nella lotta contro ogni forma di discriminazione».

Dei 12.618 account che hanno inviato messaggi offensivi durante il torneo, è stato possibile identificare le loro provenienze per 7.204. Tre quarti dei “leoni da tastiera” vivono fra Europa (38%) e Sud America (36%).

Gli insulti più usati

Quali tipi di insulti sono stati rilevati? Per lo più generici (26,24%), seguiti da termini osceni (17,09%) e sessismo (13,47%). Solo 4° l’omofobia (12,16%) e il razzismo (10,7%), anche se a quest’ultima voce bisognerebbe aggiungere xenofobia (0,92%), anti Rom (0,37%), antisemitismo (0,18%), e forse anche islamofobia (1,94%), per un totale del 14,11%. Difficile, comunque, districarsi nella miriade di categorie con cui sono stati censiti gli insulti: come l’abilismo (che io ho tradotto con “insulti anti disabili”), o gli “insulti allusivi” (dog whistle: “banchieri internazionali” come sinonimo allusivo di “ebrei”), più altri difficilmente valutabili.

Ciò che conta, comunque, è la prevalenza di insulti generici o osceni, per un totale del 43,33%, quasi la metà dei casi: omofobia e razzismo, che tanto fanno scalpore sulle cronache, messi insieme arrivano solo a un quarto dei casi. Sono episodi emendabili ma non sono i più diffusi. E tra l’altro sono quelli che destano più preoccupazioni alla Fifa, che nel suo statuto ha inserito la lotta alla discriminazione in tutte le sue forme.

Per fare un confronto, «le finali di AFCON 2021 ed EURO 2020 sono state più colpite pesantemente dai contenuti razzisti e omofobi, con il 78% di tutti gli abusi rilevati che rientrano in una di queste due categorie. L’abuso razzista e omofobo è in genere il più eclatante e più facilmente identificabile e perseguibile dalle piattaforme».

D’altronde, nello sport, come nelle guerre, nel traffico o nelle riunioni di condominio (ovvero i contesti ad alto tasso di aggressività) si offende più per sfogare le proprie pulsioni aggressive che per volontà di emarginare: e tutto l’arsenale delle offese va bene pur di per ferire (simbolicamente) un avversario.

I più bersagliati (e quando)

Interessanti le statistiche su quale sia stata la nazione più bersagliata dagli insulti: la Francia, seguita da Brasile e Inghilterra, E più giù Messico, Argentina e Uruguay. La Germania (la nostra bestia nera ai Mondiali) è in coda alla classifica. Lascio agli esperti di calcio ulteriori interpretazioni che non sono in grado di dare.
Interessante, comunque, notare che la partita che ha acceso maggiormente gli animi non è stata la finale Argentina-Francia, bensì lo scontro Inghilterra-Francia, due rivali storiche, bersagliato da oltre 12mila commenti offensivi. Seguono la finale Argentina-Francia, e Marocco-Portogallo, entrambi sopra i 10mila. Accese anche le reazioni durante i match che hanno visto coinvolta la Germania (contro il Giappone e il Costa Rica) oltre ad Arabia Saudita-Messico.
«
La violenza e la minaccia sono diventate più estreme man mano che il torneo andava avanti con le famiglie dei giocatori sempre più referenziate e molti minacciati se sono tornati in un determinato Paese. Nelle fasi finali del torneo, il targeting individuale è stato più pronunciato, a causa di prestazioni, incidenti o rigori sbagliati» conclude il report. Il tifo si è acceso man mano che la posta in gioco si faceva più rilevante.

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70 anni di censure del…. biiip! https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/ https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/#respond Tue, 13 Sep 2022 11:00:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19392 E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita.… Continue Reading

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E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita. Ha ancora senso questo sistema di censura? Negli Stati Uniti sembra destinato a finire in soffitta, mentre in Italia è un sistema ancora molto usato da trasmissioni come “Striscia la notizia” o “Le iene”.
Durante la sua lunga storia, che qui vi racconto, da strumento di repressione delle parolacce sta oggi diventando un loro involontario amplificatore. Una parabola che i suoi inventori, negli Stati Uniti, non avrebbero mai potuto immaginare.

La nascita: le radio americane

Studio radiofonico statunitense in una foto d’epoca

La censura nasce insieme alle prime radio private, subito dopo la prima guerra mondiale.  Il Congresso aveva posto fine al monopolio che la Marina aveva sulle trasmissioni radio. Ma il governo manteneva comunque un controllo severo sui programmi: mandare in onda contenuti offensivi poteva costare la revoca della licenza. Così quando radio WOR di New York, nel 1924, ospitò l’attrice e cantante Olga Petrova – nota per le sue posizioni a favore del controllo delle nascite – i tecnici della radio erano pronti a spegnere il microfono al primo sentore di contenuti scottanti. E così fecero: mentre l’attrice parlava, la luce rossa della messa in onda si spense. Al suo posto, la regia  mandò in onda per qualche minuto un brano musicale.
Decenni dopo fu inventato un sistema di censura più raffinato. Nel 1952 l’emittente radio WKAP di Allentown, in Pennsylvania, decise di avviare un programma “Open mic” (microfono aperto), mandando in onda le telefonate degli ascoltatori. Ma le leggi dell’epoca vietavano di trasmettere conversazioni telefoniche in diretta. Così un ingegnere della radio, Frank Cordaro, inventò un sistema per aggirare il divieto e al tempo stesso non rischiare di trasmettere contenuti inaccettabili: l’uso di due registratori a nastro distanziati di 3 metri l’uno dall’altro. Il primo registrava la trasmissione in onda, il secondo la riproduceva su una bobina di riavvolgimento: in questo modo si avevano 7 secondi di ritardo sulla diretta, sufficienti per cancellare eventuali frasi offensive.
Un sistema simile fu usato da Long John Nebel che nel 1954 conduceva “Party line”, un programma notturno su radio WOR: parlava di ufo, fantasmi, complotti e altri argomenti controversi interagendo con gli ascoltatori al telefono. Il sistema della doppia bobina gli permetteva di stoppare le chiamate offensive o di cancellare le parole inopportune.
Dopo qualche tempo i tecnici radiofonici
iniziarono a utilizzare un oscillatore, un’apparecchiatura del banco regia che genera suoni di prova ad alta frequenza (1000 Hz). Un fischio insopportabile. Un modo per coprire una frase offensiva senza lasciare muto il canale. Una censura, insomma: l’equivalente sonoro di una fascia nera su un’immagine o dei segni tipografici (@#§) negli scritti (e ci sono anche i pittogrammi dei fumetti, di cui ho parlato qui). 

L’arrivo in tv (e le invettive di Sgarbi)

Eventide BD600: dispositivo digitale capace di ritardare una trasmissione di qualche secondo

Oggi lo stesso risultato si riesce a fare con strumenti digitali, come quello nella foto a lato, capace di ritardare di alcuni secondi una diretta per consentire ai tecnici radiofonici di inserire i “beep” quando occorra. E non è l’unico ritrovato in questo campo: Apple, ad esempio, sta lavorando da diverso tempo a una nuova tecnologia in grado di eliminare automaticamente parole e frasi volgari da tutte le canzoni presenti sui propri dispositivi.
Lo stratagemma è poi approdato in tv: nel 1966 un’emittente di Los Angeles trasmise, nello show “Therapy”, le sedute di psicoterapia di gruppo con adolescenti, infarcite di parolacce (bippate).
In Italia, uno dei primi esempi dell’uso di bip censorio in tv fu “Sgarbi quotidiani” su Canale 5: nel 1993, volendo contestare la riforma dell’immunità parlamentare, Vittorio Sgarbi attaccò l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; ma, per non incorrere nel reato di vilipendio alla massima carica dello Stato, le sue invettive furono censurate (col suo accordo) con 7 secondi di “biip”.

L’esordio nella pubblicità e nella comicità

Con il passare del tempo, il “biip” ha assunto nuove funzioni, oltre a quella di censurare. E’ stato usato in alcune pubblicità per dare un effetto realistico e simpatico, come lo spot della salsa piccante Red Hot di Frank, con lo slogan “Metto quella merda (biip) su tutto”. in questo spot, la frase è pronunciata da una cameriera alla (finta) regina d’Inghilterra:

D’altronde, si sa: proibire (o nascondere) qualcosa significa renderlo ancora più significativo. E così i censori spesso rischiano, con i beep, di rendere ancor più evidenti le trasgressioni linguistiche: tutti possono facilmente immaginare quali espressioni sono coperte dai segnali acustici. Tanto che i Monty Python, gruppo comico britannico, già nel 1987 hanno scritto una canzone intitolata “I Bet You They Won’t Play This Song On The Radio” (“Scommetto che non trasmetteranno questa canzone alla radio”): il testo è pieno di allusioni volgari, coperte da vari suoni (fischi, campanelli, trombette, clacson, urla, pernacchie), con un effetto molto divertente. Qui sotto riporto il testo con traduzione e il video:

I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they won’t play this new ### song.

It’s not that it’s ### or ### controversial

just that the ### words are awfully strong.

You can’t say ### on the radio,

or ### or ### or ###

You can’t even say I’d like to ### you someday

unless you’re a doctor with a very large. ###

So I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they damn ### wellprogram it.

I bet you ### their program directors who think it’s a load of horse ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che non suoneranno questa nuova canzone di ###.

Non è che ###  o ###  sia controverso

solo che quelle ###  di parole sono terribilmente forti.

Non si può dire ### alla radio,

O ### O ### O ###

Non puoi nemmeno dire che un giorno mi piacerebbe ### te

a meno che tu non sia un medico con un grande ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che lo programmeranno alla ###.

Scommetto che i loro ###  di direttori di programma pensano che sia un gran carico di ###  di cavallo.

Le contraddizioni del bip

Il conduttore radiofonico Howard Stern

Ed è la comicità di questa canzone a far comprendere la contraddittorietà del beep, che, proprio mentre tenta di eliminare un contenuto scabroso, lo rende ancora più evidente. Non è l’unica contraddizione. Come tutte le censure, il biip limita la libertà di espressione garantita da tutte le democrazie occidentali. Nel 2002 lo scrittore Stephen King, parlando delle trasmissioni radiofoniche molto provocatorie di Howard Stern, disse: “Se dice cose che non ti piacciono, che ti offendono, allunghi la mano e spegni la radio. Non hai bisogno di un politico nel tuo soggiorno per dire che devi mettere un cerotto sulla bocca di quel ragazzo”. Stern, per inciso, durante la sua carriera ha collezionato ammende per un totale di 2.5 milioni di dollari per oscenità e volgarità, un record.

Ma nessun Paese si affida alla sola libertà degli ascoltatori. Perché le parolacce sono materiale esplosivo: parlano di argomenti delicati (sesso, differenze etniche, malattie, potere economico, religione) in modo offensivo e svilente. Soprattutto se arrivano alle orecchie dei bambini, che devono ancora formarsi una coscienza critica. Anche se, bisogna ricordarlo, ci sono parolacce e parolacce (e diversi modi di dirle) e non tutte sono necessariamente dannose: sulla questione ho già scritto un approfondimento qui.

Le pene: multe fino a 600mila euro e sospensioni

Già dal 1927 negli Usa le trasmissioni radio (e poi quelle televisive) erano controllate dalla Federal radio commission – oggi Federal Communication Commission – che comminava sanzioni pesanti a chi metteva in onda oscenità. E questo succede anche in Italia.
La norma oggi in vigore è
il decreto legislativo 208 (testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi) del 2021. Prevede che  nelle fasce d’ascolto riservate ai minori (in particolare dalle ore 16 alle ore 19) non si trasmettano contenuti “nocivi allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori, e, in  particolare,  i programmi che presentano scene di violenza  gratuita  o  insistita  o efferata ovvero scene pornografiche”. Le trasmissioni non devono evocare “discriminazioni di  razza, sesso e nazionalità” né offendere “convinzioni religiose o ideali”. E i film vietati ai minori di 14 anni non possono essere trasmessi prima delle ore 23 e dopo le ore 7. Le pene sono pesanti: multe da  30mila a 600mila euro, e, nei casi più gravi, la sospensione dell’efficacia della concessione o dell’autorizzazione a trasmettere programmi per un periodo da 7 a 180 giorni. Queste sanzioni spiegano perché i responsabili dei canali si prendano la briga di usare il bip censorio.

I conduttori dello “Zoo di 105”

Ne sa qualcosa Radio 105, che nel 2021 ha ricevuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni una sanzione di 62.500 euro per “continue allusioni sessuali marcate dal morboso, offese al sentimento religioso, ricorso gratuito a volgarità e turpiloquio, utilizzo di epiteti, con accezione dispregiativa e denigratoria, per designare le persone omosessuali”. E questo per sole due puntate di “Lo zoo di 105” trasmesse il 26 ottobre e 11 dicembre 2020 dalle ore 14 alle ore 16, in piena fascia protetta. Se avessero usato il bip, avrebbero evitato la multa. Ma probabilmente il programma sarebbe stato un fischio unico, intervallato da poche frasi.

Insomma, il biip censorio mette a nudo il difficile equilibrio fra lecito e illecito, libertà e censura. “Il segnale acustico” dice la scrittrice americana Maria Bustillos, “rivela una verità nascosta: il Super-Io, la coscienza morale che soffoca un impulso indegno. Una lotta che si svolge costantemente sotto la superficie in apparenza tranquilla della vita quotidiana. Il biip richiama l’attenzione su una divergenza di opinioni riguardante l’offensività di una frase. Prima era un fatto inconsapevole, ora lo è. Il “biip” è il rumore di una comunità impegnata nel processo di definizione dei valori, e che lotta per capire se stessa”.

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Caccavero e le altre città costrette a cambiar nome https://www.parolacce.org/2020/12/06/paesi-italiani-volgari-censurati/ https://www.parolacce.org/2020/12/06/paesi-italiani-volgari-censurati/#respond Sun, 06 Dec 2020 19:40:13 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17859 Il prossimo a cambiare nome sarà un paesino austriaco. Ha solo 106 abitanti, ma è famoso in tutto il mondo perché si chiama Fucking (“fottendo”, in inglese). L’amministrazione comunale, stanca delle orde di turisti che si fotografavano in pose osè… Continue Reading

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Due turiste brindano davanti al cartello di Fucking, Austria.

Il prossimo a cambiare nome sarà un paesino austriaco. Ha solo 106 abitanti, ma è famoso in tutto il mondo perché si chiama Fucking (“fottendo”, in inglese). L’amministrazione comunale, stanca delle orde di turisti che si fotografavano in pose osè davanti ai cartelli stradali (e spesso li rubavano) ha deciso di  voltare pagina: dal primo gennaio 2021 il paese si chiamerà Fugging. Cancellando così un appellativo che ha quasi mille anni di storia: risale infatti al 1070 e non ha un significato osceno. Deriva da Focko, il nobile bavarese che fondò l’insediamento nel VI secolo a 300 km da Vienna.Un nome ingombrante, e un destino scomodo cancellato con un colpo di spugna verbale. Le città, infatti, possono cambiar nome per diversi motivi: perché vengono accorpate ad altre, o per motivi ideologici o religiosi (come Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh in onore del fondatore del Vietnam) oppure – come nel caso di Fucking – perché sono imbarazzanti.

Ma non bisogna per forza andare all’estero per incontrare casi del genere. Anche in Italia, infatti, diverse località scurrili hanno dovuto cambiare nome nell’ultimo secolo. Sono 8, di cui 6 in Lombardia, una in Veneto e una in Molise. Anche se, come raccontavo in questo articolo, sono molte di più  quelle che hanno invece conservato un nome scurrile, da Troia a Cazzago fino a Chiappa e Pisciarelli. Per varie ragioni, infatti, queste località non sono finite sotto i riflettori dei benpensanti e hanno mantenuto (anche con un certo orgoglio) la propria denominazione.

Visto che siamo in periodo di “lock down”, faremo un viaggio almeno virtuale in questi 8 paesi censurati, di cui vi racconterò la storia. Ma attenzione, i loro appellativi sono tutti omofonie: somigliano cioè a parolacce per il loro suono, ma il loro significato originario non ha in realtà nulla di scurrile.

1) DA CACCAVERO A CAMPOVERDE – Lombardia, Brescia

Il paese di Caccavero trasformato in Campoverde (fotomontaggio).

Campoverde è oggi una frazione di Salò. FIn dal 1016, però, aveva un altro nome: Caccavero. Un termine che non ha origine escrementizia: il termine caccavo/caccabo designava infatti la caldaia usata per la lavorazione di concia dei pellami. Inizialmente il paese si chiamava infatti Cacabario, poi Cacavero. Il nome Caccavero fu cancellato nel 1907 in favore dell’attuale.

 

 2) DA FIGADELLI A SAN FELICE AL LAGO – Lombardia,  Bergamo

San Felice al Lago è  una frazione di Endine Gaiano in provincia di Bergamo. Questo toponimo si riferisce infatti al lago d’Endine. In origine però si chiamava Figadelli, un nome che non alludeva al sesso femminile bensì a un terreno su cui prosperavano i fichi (ficatus). Il nome imbarazzante fu cambiato nel 1925, e 3 anni dopo il paese passò sotto la giurisdizione di Endine Gaiano.

 3) DA CAZZIMANI A BORGO SAN GIOVANNI – Lombardia, Lodi

Borgo San Giovanni è un Comune di quasi 2.500 abitanti e ha una lunga storia. Fin dal 1034 si chiamava infatti Cozemano, poi storpiato in Cazzimani: nome che significava “Ca’ de Zimani”, ovvero casa degli Zimani, nobili lodigiani che avevano possedimenti in quelle località. Nel 1929, sotto il fascismo, il Comune diventò Borgo Littorio. Un nome ancor più ingombrante dopo la Liberazione: così nel 1947 gli fu dato il nome attuale, ispirato al santo patrono della parrocchia.

4) DA CAZZONE A CANTELLO – Lombardia, Varese

Il regio decreto che ha trasformato Cazzone in Cantello.

Oggi Cantello è celebre per i suoi deliziosi asparagi bianchi. Ma un tempo questo paese era famoso per un altro motivo: si chiamava Cazzone. Nessun intento offensivo: Il nome pare derivasse da casone (grossa casa), oppure da cazzun, mestolo, dato che il suo territorio è contenuto in una piccola valle, come su un cucchiaio.
Per secoli l’appellativo non creò particolari problemi. Ma quando, alla fine del 1800, in paese fu collocata una caserma della Guardia di Finanza (Cazzone era vicina al confine con la Svizzera), quel nome cominciò a diventare scomodo: i militari ricevevano lettere dai parenti con intestazioni tipo “Salvatore Scognamillo, Cazzone”, oppure “Gennaro Cacace, Cazzone”. Più che un indirizzo, un insulto. Così, dopo varie lettere di protesta delle Fiamme gialle, il governo corse ai ripari: con il Regio Decreto CLXXV del 18 luglio 1895, re Umberto I e il premier Francesco Crispi decisero che Cazzone sarebbe diventato Cantello. Non tutti, però, ne furono soddisfatti: alcuni abitanti irriducibili formarono un comitato cittadino che chiedeva di tornare al nome originale. Il loro motto: “Cazzoni siamo e cazzoni resteremo“… 

 5) DA FIGAZZO A LIETO COLLE – Lombardia, Como

L’origine del nome di questa località non è chiara, ma è probabile che anch’essa, come Figadelli, alluda a piante di Fico. L’imbarazzante nome fu cambiato nel 1928 con quello più poetico di Lieto Colle, che dal 1956 è diventato una frazione di Parè.

 

6) DA CACCAVONE A POGGIO SANNITA – Molise, Isernia

Lo stemma di Poggio Sannita con la pentola di rame e la scritta latina “Samniticum caccabonense castellum” (castello sannitico caccabonese).

Il paese, poco più di 600 abitanti, sorge su un promontorio roccioso. Fino al secolo scorso si chiamava Caccavone perché in passato era sede della produzione del caccavo, dal latino caccabus, come nel caso di Caccavero (v. sopra). In questo caso, però, il termine designava un pentolone in rame usato dai contadini per la coagulazione del latte. Circa un secolo fa, il 20 febbraio 1921, il consiglio comunale decide di rinunciare a quel nome scomodo che “ricorda nella prima parte una cosa che disgusta, e nella seconda un accrescitivo che riempie la bocca e gli orecchi, suscitando il riso e la derisione della gente”. Così Caccavone viene cambiato in Vinoli, in omaggio alla produzione enologica. Ma nel luglio di quello stesso anno il consiglio comunale, non ritenendo abbastanza caratterizzante il nuovo nome, torna sulla questione: dato che il paese ricadeva nella regione dell’antico Sannio e dato che sorgeva su un poggio, il Comune viene ribattezzato in Poggio Sannita. Su proposta del ministero dell’Interno, il 15 gennaio 1922 un Regio Decreto recepisce la delibera del Consiglio Comunale e cambia la denominazione del Comune. Il caccavo, antico e amato simbolo del paese, rimane comunque presente negli stemmi delle istituzioni locali e nel gonfalone comunale.

7) DA MERDEGÒ A VERDEGÒ – Lombardia, Lecco

In origine questo paese, che oggi ha 2.300 abitanti, si chiamava Mardegorium, dalla fusione di “Martie Horreum”, granaio della via Marzia, un’antica strada militare dedicata a Marte. Mardegorium, nei secoli, diventò Merdagore, poi Merdegò (1837) e anche Merdago. Insomma, un appellativo poco onorevole. Così Merdegò nel 1938 cambiò iniziale e diventò un più accettabile Verdegò. [ ringrazio della segnalazione il lettore Davide Viganò ]

8) DA PORCARIZZA A ISOLA RIZZA – Veneto, Verona

Stemma di Isola Rizza con la scrofa.

Il nome originario di questo paese di oltre 3mila abitanti era “Insula Porcaritia”: “insula” perché l’abitato sorgeva in una spianata al di fuori dei boschi e delle paludi che circondavano la zona, e “porcaritia” nel senso di “recinto di porci“, per gli allevamenti presenti nella zona. Nel corso dei secoli, “Porcaritia” divenne “Porcarizza”. Nel 1872 gli isolani cambiarono il nome del paese in Isola Rizza, dimenticandosi del vecchio nome considerato volgare. In seguito però recuperarono la scrofa con il riso in bocca nello stemma comunale del 1932, che riprendeva il vecchio simbolo della comunità riprodotto ai piedi del campanile dal 1535.

 

LA VAGINA, IL PAESE PREMIATO CON PORNO GRATIS

A volte abitare in un paese dal nome imbarazzante può diventare un (discutibile) vantaggio. Nel 2018 il celebre sito canadese a luci rosse “Porn Hub” ha lanciato una campagna di marketing a sfondo geografico: premiare con un abbonamento gratuito “premium” chi abitava in un paese dal nome osceno. “Per rimediare agli anni di prese in giro, Per rendere questi fortunati residenti fieri delle proprie radici e far provare un po’ d’invidia al resto del mondo”, recitava lo slogan. Erano i “premium places”: nella lista dei 50 paesi ovviamente spiccava la solita Fucking. Ma ce n’era anche uno italiano, che ha un nome sexy ma non scurrile, anzi: scientifico: La Vagina, una frazione di Fosdinovo (Massa-Carrara). È un gruppo di case sorto in un luogo ricco d’acqua e di lavatoi, da cui è derivato il nome (lavaghina, che poi ha perso la h). I pornomani anglofoni l’hanno scovata perché il sesso femminile si chiama così anche in inglese. Se avessero saputo l’italiano, avrebbero  dovuto premiare anche gli abitanti di Scopa, Sega, Troia, La Ficaccia, Gnocca, Cazzago e molti altri paesi italiani dal nome osè… Per PornHub sarebbe stato un pessimo affare.

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La petizione: «Lasciateci scrivere Troia!» https://www.parolacce.org/2019/06/10/citta-di-troia-puglia/ https://www.parolacce.org/2019/06/10/citta-di-troia-puglia/#respond Sun, 09 Jun 2019 22:05:23 +0000 https://www.parolacce.org/?p=15760 Il nome della loro città è censurato da un celebre portale di annunci di compravendita online, subito.it. Perciò hanno lanciato una petizione online, raccogliendo firme di protesta su Change.org: chiedono che il loro Comune possa essere citato senza restrizioni.  Non… Continue Reading

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Troia (FG): l’ingresso della città con il cartello stradale.

Il nome della loro città è censurato da un celebre portale di annunci di compravendita online, subito.it. Perciò hanno lanciato una petizione online, raccogliendo firme di protesta su Change.org: chiedono che il loro Comune possa essere citato senza restrizioni.  Non è un caso di razzismo geografico (di cui ho parlato nell’ultimo post); semmai, è frutto del contrario, ovvero di un perbenismo eccessivo. La città in questione, infatti, si chiama Troia: è un paese di 7mila abitanti in provincia di Foggia (Puglia).

Antonio Salandra

Un paese celebre, oltre che per il suo nome imbarazzante, per 4 motivi: per un vino rinomato, il Nero di Troia (è fatto con un’uva autoctona, coltivata soprattutto nell’area di Castel del Monte); perché fu sede di 4 Concili ecclesiastici nel Medioevo; per il rosone della concattedrale romanica di Beata Maria Vergine assunta, che era raffigurato nelle vecchie banconote da 5mila lire; e perché un suo cittadino, Antonio Salandra, fu presidente del Consiglio dal 1916 al 1918.
Dunque, una città con una storia lunga e particolare. Che mostra come un nome volgare possa diventare troppo ingombrante. Un destino condiviso – come vedremo più sotto – da altre città, come Fucking in Austria. O da altre località italiane scurrili: come Cazzone e Figazzo, che cambiarono nome per regio decreto alla fine del 1800.

Un nome dato dai bizantini

Troia e il suo gonfalone (clic per ingrandire)

Ma andiamo con ordine. Partendo da Troia, una città a ridosso del Tavoliere delle Puglie. Le sue origini sono antichissime: le prime testimonianze risalgono già al quarto millennio a.C.
Prima di essere colonizzata dai Romani, la città si chiamava in realtà Aika, poi latinizzata in Aecae. Distrutta dai bizantini nel 7° secolo d.C., fu ricostruita nel 1019 da un alto ufficiale bizantino, Basilio Bojoannes, che le diede il nome di Troia. Forse un omaggio all’Iliade, o, ipotizza qualcuno, il nome può derivare dal greco troas, triade o trivio (punto di incontro di 3 strade). E con questo nome è arrivata fino a oggi.
Non senza problemi: durante il periodo prefascista, alcuni parlamentari si rivolgevano ad Antonio Salandra, un politico di Troia che era stato premier e ministro, dicendo frasi equivoche del tipo: «Come ha testè affermato l’illustre figlio di Troia…». Al che Salandra rispondeva: «Ciò che per me fu patria, per voi fu madre».

Parola vietata negli annunci

Una delle numerose etichette del vino Nero di Troia.

Insomma, quel nome scomodo non è mai passato inosservato. Fino ai giorni nostri. La petizione su Change.org, infatti, è stata lanciata proprio da un abitante di Troia, Dario Intiso. Che aveva tentato invano di inserire annunci sul portale subito.it. Il portale, infatti, accetta Troia come località dell’annuncio, ma se si inserisce il nome nella descrizione dell’oggetto (“Vendo casa a Troia”) si rifiuta di pubblicarlo. E fa apparire un messaggio di errore: “Il tuo testo contiene parole non consentite: troia”. Troia, infatti, significa prostituta, donna di facili costumi: il termine designa originariamente la scrofa, la femmina del maiale (in questo articolo  ho spiegato perché).

Il messaggio di errore su subito.it (clic per ingrandire)

«Immaginate di commerciare vini ed essere costretti a scrivere “Vendo Nero di…” oppure vendo “Nero di T***a”. Anche la forma “Affitto casa a Troia (FG)” non è consentita. Io mi sento offeso e “bullizzato” dal portale!» scrive Intiso nella petizione “Ci sono moltissime persone che in Italia hanno il cognome Troia. Allora cosa facciamo le escludiamo dai colloqui di lavoro poiché non è possibile inserire parolacce nei curriculum?». In effetti, fra Troia e Troja risultano quasi 800 famiglie in Italia, come raccontavo in questo articolo dedicato ai cognomi volgari.

Censurati ma fieri

La cattedrale con il rosone, riprodotto (sotto) sulle banconote da 5mila lire (foto Shutterstock).

La censura di subito.it è uno degli effetti collaterali della lotta agli abusi verbali su Internet. Una lotta giocata a suon di regolamenti e proclami, ma soprattutto a suon di software: molti siti, per impedire la pubblicazione di messaggi offensivi o osceni, col corollario di denunce legali e scandali, hanno fatto ricorso all’intelligenza artificiale per bloccare sul nascere troll e molestatori. Basta programmare il sito in modo che, chi usa una delle parolacce contenute in una lista nera, non possa pubblicare online il testo. A meno di cancellare l’espressione scurrile.
La petizione ha raccolto quasi 200 adesioni, e non è passata inosservata: il promotore scrive di essere stato stato contattato da subito.it, che si è detta disposta a sedersi a un tavolo per discutere la questione. Difficile prevedere come evolverà questo caso. Che è interessante anche perché mostra come anche un nome ingombrante non cancelli l’amore per le proprie radici: «Sono fiero di abitare a Troia” scrive Intiso “e di essere troiano. Ma soprattutto non rinnego la storia».

Marketing triviale: t-shirt e pompa

La presentazione delle T-shirt “Figlio di Troja!”.

Ecco perché, come in tutte le città turistiche, non mancano le targhe ricordo e le calamite da frigo con la scritta “I love Troia” e simili. Ma, nella storia di questa cittadina, si sono registrate anche due iniziative di marketing che hanno sfruttato – con esiti discutibili – questo nome scomodo.
La prima risale al 2013, quando l’associazione A.c.t.! Monti Dauni, impegnata nella tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico, ambientale della città, lanciò una T-shirt che aveva il seguente slogan: “Figlio di Troja”, con l’ulteriore scritta “di patria ma non di madre”. Sul retro, invece, campeggiava il più pudico slogan “Figlio di Puglia”. Non si sa se abbiano avuto successo.

La contestata campagna sul benzinaio di Troia.

Ma ancora più pesante è stata una campagna lanciata nel 2014. Per promuovere l’apertura di una nuova stazione di servizio nel paese, gestita dalla Vi Gi srl, la locale agenzia di comunicazione Alka Promo Service lanciò una campagna di affissioni che ritraeva un erogatore di carburante. Con lo slogan: “Che Troia sarebbe senza una pompa? Una pompa per tutti”. Una campagna diventata virale su Internet (“la pompa più famosa d’Italia”), ma anche contestata per l’osceno doppio senso. Il manifesto è poi diventato un gadget per i clienti della stazione di servizio.

 

I GUAI DI FUCKING

Il difficile destino di Troia è condiviso da una località austriaca: Fucking. Il nome deriva da Focko, un nobile bavarese che la fondò nel VI secolo. Il suo nome fu registrato in latino come Adalpertus de Fucingin, poi Vucchingen, Fukching, Fugkhing e Fucking dal 1700. La desinenza – ing indica appartenenza: dunque, Fucking significa “(luogo) di Focko“. Ma non in inglese, in cui vuol dire “fottendo” (ma il nome della città se si pronuncia Fuchin e non Fachin come in inglese).

Uno dei tanti gruppi di turisti posa davanti al cartello di Fucking.

Se ne accorsero, durante l’ultima guerra mondiale, i soldati inglesi e americani stanziati nella vicina Salisburgo. E iniziarono un pellegrinaggio a Fucking per farsi fotografare davanti al cartello col nome del paese. Che oggi è rimasto piccolo: ha un centinaio di abitanti ed è la frazione di Tarsdorf. Eppure è meta di un discreto flusso di turisti, attratti dalla prospettiva di farsi un selfie in quel luogo. Ma il fenomeno è degenerato: molti, non contenti della foto, hanno portato via un souvenir ben più tangibile, i cartelli stradali. E dato che ciascuno costa 300 euro, la moda ha iniziato a pesare sui magri bilanci del paese, tanto che nel 2004 fu messo ai voti il cambio di nome, che fu però bocciato dagli abitanti. Così si è trovata una soluzione pratica: i cartelli sono stati saldati in acciaio e fissati nel cemento.
Ma questo non ha posto fine ai disagi per gli abitanti: la mania dei selfie è arrivata al punto che alcuni turisti si facevano filmare mentre avevano rapporti sessuali davanti ai cartelli d Fucking (scopando, per l’appunto). E le autorità hanno dovuto installare in paese diverse telecamere di sorveglianza per dissuadere l’insana abitudine.

La birra “Fucking hell”.

Nel 2009, però, un residente, Josef Winkler, ha pensato di capitalizzare tutta questa visibilità, creando una linea di T-shirt con la scritta  “I love Fucking in Austria” (mi piace trombare in Austria). L’idea ebbe successo, tanto che la rivista americana “Maxim” lo contattò per valutare una vendita abbinata; ma gli abitanti del paese non gradirono la dubbia notorietà portata dalle magliette, arrivando a minacciare Winkler quando lo incontravano per la strada. Così Winkler decise di lasciar perdere.
E’ andata meglio a un birrificio tedesco, Brauerei Waldhaus, che nello stesso anno tentò di registrare il marchio “Fucking hell” (inferno del cazzo) presso l’Euipo, l‘Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale. Dopo un iniziale rifiuto, fece appello e la spuntò: in tedesco “hell” significa pale lager, un tipo di birra chiara a bassa fermentazione. E Fucking fu spacciato per omaggio alla località austriaca. Cosa non si fa per la celebrità.

La blogger e linguista Licia Corbolante mi segnala che il caso di Troia (e di Fucking, vedi qui sotto) è un fenomeno noto come “problema di Scunthorpe“: il termine indica la censura informatica di un testo che contiene parole volgari, anche quando sono in realtà innocue. Il termine deriva dalla cittadina di Scunthorpe (Regno Unito) che nel 1996 fu bloccata dal sito aol.com perché il nome contiene il termine cunt (figa). Lo stesso è accaduto alla città di Whakatane (Nuova Zelanda): si pronuncia fakatane, come il verbo fuck (fottere).

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Sorpresa: imprechiamo (e tanto) mentre dormiamo https://www.parolacce.org/2017/10/30/parolacce-durante-sonno/ https://www.parolacce.org/2017/10/30/parolacce-durante-sonno/#respond Mon, 30 Oct 2017 10:00:50 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13125 Un secolo fa, per studiare l’inconscio, Sigmund Freud si faceva raccontare i sogni dai suoi pazienti. Oggi alcuni scienziati francesi hanno trovato un modo più diretto per farlo: hanno registrato centinaia di persone che parlavano mentre dormivano. E hanno fatto una… Continue Reading

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Nel sonno, gli uomini dicono più parolacce delle donne (elaborazione foto Shutterstock).

Un secolo fa, per studiare l’inconscio, Sigmund Freud si faceva raccontare i sogni dai suoi pazienti. Oggi alcuni scienziati francesi hanno trovato un modo più diretto per farlo: hanno registrato centinaia di persone che parlavano mentre dormivano. E hanno fatto una scoperta straordinaria: durante il sonno, pronunciamo più parolacce rispetto a quando siamo svegli. Una frase su 10 registrata dai ricercatori, infatti, conteneva imprecazioni o insulti. Il motivo? Quando sogniamo viviamo spesso conflitti con nemici immaginari.
Sono questi i risultati di un’affascinante ricerca fatta all’ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi da un gruppo di neurologi, guidati da Isabelle Arnulf e Ginevra Uguccioni. Lo studio, intitolato “What does the sleeping brain say?” (Che cosa dice il cervello che dorme?) è stato da poco pubblicato sulla rivista scientifica “Sleep”.
Parlare nel sonno (in termini clinici, il sonniloquio) è un campo interessante ma poco indagato, per due motivi. Primo, è un’abitudine poco diffusa: solo il 6,3% degli adulti parla almeno una volta alla settimana mentre riposa di notte. E, soprattutto, il sonniloquio non ha conseguenze sulla salute, se si esclude il disturbo al vicino di letto, moglie o marito che sia.

I volontari: sonnambuli e chiacchieroni

Il sonniloquio è più frequente nelle persone che soffrono di disturbi del sonno (parasonnia), come ad esempio i sonnambuli. Per questo motivo, gli scienziati parigini hanno puntato su di loro quando hanno selezionato i volontari da studiare: 232 persone, dai 29 ai 69 anni, in maggioranza maschi (59%). Oltre il 93% di loro era affetto da parasonnia; gli altri erano soggetti sani con l’abitudine di parlare durante la notte. I volontari hanno dormito per una o due notti consecutive nel Laboratorio del sonno dell’ospedale parigino, indossando i sensori della polisonnografia per monitorare i parametri fisici (elettroencefalogramma, elettro-oculogramma, elettromiografia, pressione nasale, elettrocardiogramma). Per registrare quanto dicevano, i ricercatori hanno piazzato vicino a loro alcuni microfoni.

I risultati: sogni senza censure

Un uomo durante la polisonnografia.

Gli scienziati hanno registrato 883 chiacchierate notturne, per lo più (59%) incomprensibili o non verbali: sospiri, grugniti, risate, mugugni, pianti. Il che è normale, se si pensa che durante il sonno i nostri muscoli sono per bloccati per gran parte del tempo.
Eccettuati i grugniti, le frasi, quando erano articolate con le parole, risultavano corrette sia dal punto di vista grammaticale (concordanza dei verbi, dei generi, dei numeri) e da quello sintattico (soggetto-verbo-complemento). Il che non è scontato: dunque, anche se il nostro organismo funziona a ranghi ridotti, le funzioni complesse come il linguaggio restano attive.
E, contrariamente alle aspettative, sono stati più loquaci gli uomini rispetto alle donne: i maschi hanno detto in media 26 parole a notte contro le 15 delle donne.
Ma vediamo cos’altro hanno scoperto i neurologi esaminando le 3.349 parole comprensibili:

  • quasi la metà (46,2%) erano esclamazioni di vario genere (oh, ah, eh), il resto (1.801) parole vere e proprie.
  • Quasi una parola su 10 (9,1%) era una negazione (no, niente, nessuno).
  • Nel 90% dei casi, le frasi erano rivolte a un “tu”, cioè a un interlocutore immaginario. Spesso, dopo aver detto una frase durante il sonno, le persone tacevano, come se stessero ascoltando la risposta dalla persona con cui immaginavano di parlare: quindi, dicono i ricercatori, nel sonno pronunciamo a voce solo le frasi che esprimono il nostro personale punto di vista.
  • Per quanto riguarda tempi e modi dei verbi, la maggior parte delle volte (81,9%) erano coniugati al presente, seguito dall’imperativo (11,6%). Segno che, quando sogniamo, ci immaginiamo di vivere un evento in diretta, e spesso affrontiamo persone immaginarie ordinando loro di fare (o di non fare) qualcosa.
  • E, quel che più conta per noi, il 9,7% delle frasi, una su 10, conteneva parolacce.

Gli esempi, citati negli allegati della ricerca, sono eloquenti. I ricercatori hanno registrato frasi come “putain j’en ai marre pff” (porca troia, sono stufo, pff), “alors t’es sûr, putain” (allora sei sicuro, porca troia), “Oh merde je peux pas les attrapper” (Oh merda, non riesco a prenderli), “Qu’est-ce que tu fais? Sacré connard” (Che fai? Maledetto coglione), e così via.

Le donne dicono in media 1/3 delle parolacce rispetto agli uomini (Shutterstock).

Insomma, ben più di un uso sporadico e casuale. Anzi, la 9a parola più pronunciata in assoluto durante il sonno (2,4% delle parole pronunciate) è stata proprio “putain”, puttana, termine che in francese è usato più come imprecazione che come insulto: l’equivalente del nostro “porca puttana”. In francese ha un’alta frequenza, come la parola cazzo in italiano.
Al 14° posto in classifica appare un’altra volgarità, “merde” (1,2%).
Si potrebbe pensare che frequenze del 2,4% e dell’1,2% siano basse per queste due parolacce, ma non è così: da svegli, nel linguaggio parlato, queste parolacce in francese rappresentano rispettivamente solo lo 0,003% e lo 0,002% delle parole, un valore simile a quanto accade in italiano (lo raccontavo qui). Dunque, durante il sonno le volgarità sono 800 volte più frequenti che rispetto alla veglia!
E gli uomini non hanno solo parlato di più: hanno anche detto più parolacce rispetto alle donne, quasi il triplo (il 7,3% contro il  2,7% del gentil sesso).
I ricercatori hanno anche notato che gli insulti (coglione!) sono stati più frequenti nella fase Rem (Rapid eye movement, movimenti rapidi degli occhi: la fase del sonno con la più intensa attività onirica); mentre le imprecazioni (merda!) sono dette più spesso nella fase non Rem

I sogni come allenamento ai conflitti

Come interpretano questi risultati i ricercatori? Innanzitutto, la prima sorpresa è che anche durante il sonno il cervello mantiene attive le funzioni complesse, come il linguaggio.
In generale, esaminando i contenuti delle frasi, durante il sonno prevalgono le emozioni negative: tristezza, rabbia, confusione, paura, preoccupazione. E le parolacce servono proprio a sfogare queste emozioni. Anzi, dicono i francesi, la presenza di così tante parolacce conferma la teoria secondo cui i sogni servono ad allenarci ad affrontare i pericoli che potremmo incontrare quando siamo svegli. E’ per questo che sogniamo spesso di conversare, in modo conflittuale, con un interlocutore immaginario. Oppure, aggiungo, possono essere un modo per sfogare paure o aggressività represse.
Ma bisogna aggiungere anche un  altro fattore, peraltro già ipotizzato da Freud: durante il sonno cala la censura, e questo dà via libera alle parolacce, che invece – durante la veglia – sono per lo più represse o comunque limitate.

I sonnambuli parlano durante la notte (Shutterstock).

Forse, ipotizzano i ricercatori, gli uomini dicono più parolacce nel sonno rispetto alle donne o per motivi culturali (in generale, gli uomini ne dicono più delle donne), oppure perché gli uomini sognano più spesso minacce fisiche.
Ma l’uso frequente di volgarità, aggiungono, potrebbe dipendere anche da motivi cerebrali: durante il sonno abbiamo meno inibizioni perché sono meno attive le aree corticali, e c’è una maggior attivazione dell’emisfero destro, più legato all’espressione delle emozioni (in questo mio articolo c’è un approfondimento sull’anatomia del turpiloquio).
“Questi risultati” concludono i ricercatori “valgono per le persone affette da disturbi del sonno, che rappresentano la maggioranza del campione che abbiamo studiato. Ma, seppure con frequenza minore, le conclusioni possono applicarsi anche alla popolazione generale. Per trarre conclusioni più certe, bisognerebbe monitorare un migliaio di persone per alcune notti. In ogni caso, la componente linguistica del sonno è una fonte straordinaria di informazioni sui processi cerebrali che avvengono durante il sonno”. E, aggiungo, le parolacce sono un pezzo importante di questo puzzle.

RADIO MONTE CARLO
Monica Sala ha parlato di questo articolo il 31 ottobre su Radio Monte Carlo con Massimo Valli e Stefano Andreoli nella trasmissione “Bonjour Bonjour“.
Potete ascoltare il loro intervento cliccando sul player qui sotto.

 

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I bambini imparano le parolacce per imitazione. Ma spesso non ne conoscono il reale significato (Shutterstock).

Come comportarsi quando un bambino dice una parolaccia? Meglio sgridarlo, punirlo o far finta di niente? Si possono prevenire le volgarità nei più piccoli, e come?
Inutile negarlo: fra genitori e insegnanti, il turpiloquio scatena notevoli ansie. Soprattutto quando è usato come forma di violenza, per esempio nei casi di bullismo, o quando riguarda il sesso: come spiegare perché non si può dire frocio, sega o troia? Dire troppe parolacce disturberà lo sviluppo emotivo dei bambini, rendendoli violenti, insensibili o perversi? Sentire un linguaggio sboccato è un trauma per la loro delicata sensibilità?
Qui risponderò a tutte queste domande. Lo faccio ora perché proprio in questi giorni è uscito, su Focus Junior, il primo articolo in cui spiego, direttamente ai bambini, che cosa sono le parolacce, perché dirle (e non dirle) e quali sono i loro effetti.
Da questo sito, invece, mi rivolgo agli educatori, per indicare una strategia efficace e con basi scientifiche per affrontare le parolacce nei piccoli, sfatando alcuni miti infondati. Primo fra tutti, che le parolacce facciano sempre male ai bambini.

Il mio articolo sulle parolacce e la copertina di Focus Junior (clic per ingrandire).

Quest’ultima affermazione è sbagliata, e basta riflettere un istante per accorgersene: si basa infatti su una generalizzazione, ovvero che le parolacce siano tutte uguali. Niente di più sbagliato: è come dire che lo sport è rischioso, ma nel concetto di “sport” rientrano non solo la boxe o il base jumping (salto nel vuoto da palazzi, ponti o da pareti rocciose con il paracadute), ma anche le bocce, il ping pong o il golf, che non hanno lo stesso livello di rischio dei precedenti.
Anche le parolacce sono una categoria generica, nella quale rientrano le espressioni più diverse: insulti (imbecille!), oscenità (sega), maledizioni (vaffanculo), imprecazioni (porca troia), scatologia (merda)… Sono locuzioni con contenuti ed effetti molto diversi, e non tutti dannosi. Senza contare che, come tutte le altre parole, anche le parolacce possono essere pronunciate con diverse intenzioni comunicative: per sfogarsi, per scherzare, per ferire

Parolacce diverse, effetti diversi

Vediamo allora che cosa dicono le ricerche in merito agli effetti dei diversi tipi di scurrilità (per chi vuole approfondire e consultare direttamente le fonti, rimando all’ampia trattazione sul mio libro).

  • insulti e maledizioni: i maltrattamenti verbali hanno sempre effetti negativi sui bambini. I minori che vengono insultati (da adulti o da coetanei) provano rabbia, imbarazzo, depressione, emarginazione. E possono diventare verbalmente violenti a loro volta. E’ il caso del bullismo, una forma di violenza verbale.
  • I bambini sono spesso crudeli: infieriscono su chi è debole e diverso (Shutterstock).

    scatologia: parlare di cacca e affini non fa danni. Anzi: secondo molti educatori (compreso Gianni Rodari, come raccontavo qui)  può essere persino benefico, perché aiuta i bambini a sdrammatizzare e sfogare le ansie sul controllo delle funzioni corporee (lo spettro di “farsela addosso”).

  • imprecazioni: non c’è alcuna prova che ascoltare un adulto che impreca generi traumi in un bambino. L’unico rischio (certo) è che anche lui, nei momenti di rabbia, imiti il linguaggio degli adulti.
  • oscenità: molti genitori credono che i loro discorsi sul sesso determineranno le abitudini sessuali dei figli, perciò pensano che possa turbarli sapere troppi dettagli (omosessualità, sesso orale, masturbazione), e sono preoccupati di come i termini sessuali detti dai figli saranno giudicati fuori dalla famiglia. Perciò, per evitare ogni rischio, eliminando i problemi alla radice, i termini sessuali vengono censurati, punto e stop. In realtà questo è un modo miope di relazionarsi: innanzitutto perché – lo sappiamo dai tempi di Freud – anche i bambini piccoli hanno impulsi sessuali, anche se non ne sono consapevoli. Alcuni studiosi affermano, anzi, che è più dannosa la censura, perché “produce effetti nocivi sull’immaginazione e sulla maturazione psicologica”, afferma Marjorie Heins, giurista, autrice del saggio “Not in front of children”. In sostanza, scrive Heins, nessuno ha mai dimostrato che l’esposizione a espressioni oscene abbia conseguenze traumatiche sui minori. A patto, però, che siano spiegate dagli adulti, come racconterò più avanti.

Intenzioni e inflazione

Campagna antibullismo del Comune di Montevarchi.

In generale, comunque, le parolacce in sè non fanno né bene né male: dipende da come vengono usate, ovvero dall’intenzione comunicativa (e anche dal contesto, come vedremo). Perciò bisogna distinguere:
– se le volgarità sono dette per offendere e svilire un bambino, avranno effetti negativi;
– se sono dette per sfogarsi non avranno effetti negativi (a parte l’imitazione: il bambino comincerà a usarle per sfogarsi, come facciamo noi);
– se sono usate per un riso liberatorio (come nell’umorismo escrementizio) possono avere effetti positivi;
– se sono dette per parlare di sesso, dipende: all’interno di una corretta educazione sessuale, sono ininfluenti; diversamente, rischiano di dare una prospettiva parziale o distorta dell’erotismo.
E, in generale, comunque, l’abuso di parolacce fa correre ai bambini lo stesso rischio che abbiamo noi adulti: l’inflazione.
Quando una parola, anche forte, viene ripetuta continuamente, in ogni circostanza, perde il suo potere espressivo perché ne diventiamo assuefatti (e un po’ sta accadendo a molte parolacce, come raccontavo qui).

LE 8 REGOLE DA SEGUIRE
Come limitare le parolacce? In questo articolo avevo già raccontato la scarsa efficacia delle punizioni: in realtà, l’intervento sulle parolacce non è così semplice, perché, come abbiamo visto, queste espressioni sono una famiglia molto ricca e variegata. Per affrontare le parolacce nel giusto modo, occorre quindi un approccio su più livelli: bisogna saper educare alle parolacce!
Queste regole sono diventate la tesi di laurea (titolo: “Io lo dico alla maestra!”) appena discussa da una docente svizzera, Sabrina Chiesa, studente dell’Alta Scuola Pedagogica dei Grigioni a Coira. Le racconto qui, con alcune integrazioni.
1) CREARE UN CLIMA DI FIDUCIA E DI RISPETTO (in classe o in famiglia): è la condizione principale per rapportarsi ai bambini in modo costruttivo. I bambini devono sapere che possono parlare di tutto con serenità
2) DARE IL BUON ESEMPIO: un adulto che predica bene (“Non dite parolacce, siate rispettosi!”) e alla prima occasione, per esempio quando guida, si mette a imprecare come un camallo, perde credibilità perché non è coerente. Il buon esempio viene sempre dall’alto.
3) LODARE IL BUON LINGUAGGIO: questa strategia dà molti più frutti rispetto alle punizioni verso chi usa un’espressione volgare.
4) NON DARE TROPPO PESO A UNA PAROLACCIA, se è detta con lo scopo di attirare l’attenzione. Se il bambino si accorge che dicendo parolacce riceve attenzioni (fossero anche rimproveri) tenderà a usarle spesso come strumento di richiamo.

La strategia per affrontare le parolacce: clic per ingrandire (foto Shutterstock).

5) RIFLETTERE INSIEME SUL SIGNIFICATO E LE FUNZIONI DELLE PAROLACCEquando un bambino dice una parolaccia (e lo fa sempre “per sentito dire”), invece di punirlo è importante prima di tutto verificare se ne conosce davvero il significato. E distinguere: un insulto (stronzo) è diverso da un’imprecazione (cazzo!). Con un insulto si può ferire un’altra persona, quindi non va mai detto; mentre un’imprecazione non è rivolta a nessuno perché è uno sfogo.
Su alcune espressioni, per esempio quelle escrementizie, si può anche precisare quando si può dire ( in famiglia o fra amici, ma mai a scuola). Che lo vogliate o no, la conoscenza delle parolacce fa parte della competenza linguistica, ovvero dell’abilità a capire e parlare una lingua in modo corretto. E’ importante saper dire “Posso andare in bagno” ma anche capire cosa intende qualcuno quando ti dice che “Sei un cesso”. Certo, questa strategia diventa più impegnativa quando si tratta di espressioni oscene: spiegarne il significato in modo neutro e pacato comporta spendere più tempo rispetto a proibirle e basta. E presuppone, soprattutto, che l’adulto stesso sia sereno di fronte ad alcuni temi, il che non è scontato.
6) ESPRIMERE LE EMOZIONI: se un bambino dice una volgarità, è importante far emergere per quale motivo l’ha detta. Questo può aiutarlo a esprimere le sue emozioni facendogli prendere coscienza dei sentimenti in gioco. Per vincere il bullismo, ad esempio, più che punire o proibire gli insulti, è molto più efficace far parlare chi ne è vittima: questo porta i “carnefici” a rendersi conto che le loro offese possono far male nel profondo a un’altra persona. Il bullismo si può battere solo con l’empatia, come mostra la storia di Ivan, 12enne preso in giro dai coetanei perché non ama il calcio e ha la voce acuta. Come racconta la sua insegnante a “Repubblica”, “quando ha finito di leggere il tema in cui raccontava i suoi anni di bambino umiliato e respinto, i suoi compagni gli hanno fatto un applauso”.
7) ABITUARE A CHIEDERE SCUSA: se un bambino ha detto un insulto con l’intenzione di offendere, bisogna abituarlo a chiedere scusa, come farebbe se desse un pugno a un compagno.
8) INSEGNARE PAROLE ALTERNATIVE: le funzioni delle parolacce (esprimere rabbia, disappunto, disgusto, gioco, sorpresa….) sono importanti e non si possono eliminare. Perché privarli delle valvole di sfogo, che peraltro noi usiamo? Dunque, è utile insegnare ai bambini delle parole depotenziate (ovvero gli eufemismi, di cui ho parlato qui) per esprimere le loro emozioni: porca paletta (invece di porca puttana), salame (e non coglione), caspita (al posto di cazzo) possono aiutare i bambini a sfogarsi senza far male ad altri o infrangere le regole sociali.
Insomma, come dice la Heins, la vita è come una piscina: può essere pericolosa per i bambini. “Per proteggerli, si possono mettere sbarre e allarmi. Ma la cosa più efficace è insegnar loro a nuotare”. 

Ho parlato di questo argomento su Radio Cusano Campus.
Potete ascoltare l’audio cliccando il player qui sotto:

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Le parolacce di Totò https://www.parolacce.org/2017/05/23/turpiloquio-film-toto/ https://www.parolacce.org/2017/05/23/turpiloquio-film-toto/#comments Tue, 23 May 2017 10:30:46 +0000 https://www.parolacce.org/?p=12343 Fra i tanti miti su Totò ce n’è uno che demolirò (solo in parte!) in questo articolo: ovvero, che in tutti i suoi film – ben 97 in 31 anni di carriera – non abbia mai detto una sola parolaccia.… Continue Reading

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Scena da “Il più comico spettacolo del mondo” (1953).

Fra i tanti miti su Totò ce n’è uno che demolirò (solo in parte!) in questo articolo: ovvero, che in tutti i suoi film – ben 97 in 31 anni di carriera – non abbia mai detto una sola parolaccia.
Sbagliato: ne ha dette tre, o per essere precisi: due e mezza. In questo articolo vi mostrerò un video con le scene più “hot”, unite insieme per la prima volta. Resta comunque un record per un uomo che «odiava le barzellette, le parolacce, le carte da gioco e i dolci», come racconta Ennio Bispuri nel libro “La vita di Totò”. Spesso infatti i comici, nella vita, sono molto seri.
Anzi, proprio lui che era tanto rigoroso, oltre che conservatore, aristocratico e monarchico, si ritrovò suo malgrado a indossare i panni del sovversivo: diversi film da lui interpretati, infatti, furono oggetto di aspre censure, in realtà più per gli argomenti trattati che per il linguaggio. Ne parlo in questo articolo, in occasione del 50° anniversario della sua scomparsa che ricorre quest’anno.

Le 3 volgarità

Ma andiamo con ordine. E partiamo dalle uniche tre parolacce pronunciate dal Principe della risata, il quale, più che alle battute verbali, affidava la sua comicità soprattutto alla mimica, della quale fu un maestro insuperato. Le volgarità appaiono in tre film consecutivi dei primi anni ’60:

I DUE MARESCIALLI (1961)

Il film è ambientato nel 1943, in piena guerra mondiale. Totò è nei panni Antonio Capurro, un ladruncolo: per salvarsi dall’arresto, riesce a prendere il posto di un maresciallo dei carabinieri (Vittorio De Sica) nel paese di Scalitto. Ma si troverà a dover svolgere il difficile compito di fronteggiare, con l’autorità della divisa, i nazisti e i fascisti presenti nel paese.
In una delle scene iniziali, Totò incontra in caserma, alla presenza del tenente tedesco Kessler, il podestà fascista Achille Pennica (Gianni Agus). Fra lui e Totò scatta un’antipatia immediata, con frecciatine reciproche. Quando Kessler, in un momento d’ira, colpisce per sbaglio la mano di Totò con un frustino, lui esplode in un «Li mortacci tua!».

I DUE COLONNELLI (1962)

Anche questo film è ambientato nel 1943 a Montegreco, al confine fra la Grecia e l’Albania. Totò interpreta il colonnello fascista Antonio Di Maggio, il quale riceve l’ordine dal maggiore Kruger, un nazista, di bombardare il paese e uccidere donne, vecchi e bambini per stanare i nemici inglesi. Ma Totò si rifiuta: «Io l’ordine di sparare non lo darò né ora né mai». Kruger lo minaccia: «Badate colonnello, che io ho carta bianca! (sono autorizzato a fare qualsiasi cosa, ndr)». E Totò gli risponde: «E ci si pulisca il culo!!!!». Una risposta liberatoria, che anticipa di 14 anni la scena in cui Fantozzi, dopo essere stato costretto a vedere un noioso cineforum aziendale, urla: «La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!».
In realtà, Totò si era rifiutato di pronunciare quella parola: il Principe rifuggiva le volgarità. Il regista, Steno, riuscì a convincerlo con uno stratagemma: gli disse che gli altri attori presenti, con il loro vociare, avrebbero coperto la sua battuta, che non si sarebbe sentita. Totò accettò, ma avendo un microfono la sua battuta fu registrata forte e chiara, passando alla storia. Lo racconta Giancarlo Magalli, all’epoca nella troupe (dal minuto 44):


IL MONACO DI MONZA (1963)

Il film è ambientato nel 1600 (come la vicenda della monaca di Monza). Totò è nei panni di Pasquale Cicciacalda, un calzolaio che per mantenere 12 figli si traveste da frate alla ricerca di cibo e carità. A lui si unisce un pastore, Mamozio (Macario) e insieme giungono al castello del perfido marchese Egidio De Lattanzis (Nino Taranto). Dopo varie peripezie, i due credono di essere riusciti ad avvelenare il marchese, che si finge morto (tanto che poi “resusciterà”).
In una scena, Totò e Macario, dopo aver subìto varie angherie, si sfogano insultando il suo corpo in apparenza senza vita. «Birichino!» gli dice, timido, Macario. «Ma che birichino!» ribatte Totò. «Questo è un figlio di una mignocca (mignotta, ndr) bisogna trattarlo così!» e gli dà uno schiaffo.

Dunque, due parolacce più un eufemismo che però lascia trasparire il suo significato originario. Guardando più a fondo, sono due insulti (“mortacci tua” e “figlio di una mignotta”) e un’oscenità (“culo”), e sono stati usati tutti per esprimere un’emozione forte, la rabbia.
Sorprende che queste tre espressioni – oggi fanno sorridere, ma all’epoca erano considerate forti – siano sopravvissute al vaglio della censura cinematografica, che in quegli anni era molto attiva sui film: prima di essere proiettati nelle sale, infatti, le pellicole erano sottoposte al vaglio di una Commissione di revisione, che indicava i contenuti sensibili, scandalosi o critici, da tagliare. Nei primi due casi, forse il sentimento antifascista incarnato dalle battute di Totò, ha prevalso sulle remore linguistiche.
In ogni caso, Steno (Stefano Vanzina) il regista de “I due colonnelli” raccontò che dovette faticare non poco per convincere Totò a pronunciare la parola “culo”. Ma, come tutti i professionisti, anche il Principe si è dovuto adattare alle esigenze narrative del copione.
Se volete ascoltare le tre storiche parolacce di Totò, eccole riunite in un unico video qui sotto: le trovate al minuto 1:30 (“mortacci tua”), al minuto  4:09 (“culo”) e al minuto 5:52 (“mignocca”). Qualcuno afferma che queste siano state le prime parolacce nella storia del cinema italiano: falso! Ne sono state pronunciate altre ben prima di questi film, e non da Totò. Per chi è interessato, lo racconto nel mio libro.

Pulito ma censurato

Eppure, nonostante questo record (oggi inimmaginabile per un comico) il napoletano Antonio De Curtis fu tra gli attori più censurati della sua epoca. Com’è possibile?In alcuni casi, fu proprio per la presenza di parolacce nel copione: sempre ne “I due marescialli” fu tagliata una battuta in cui Totò diceva a De Sica «Questi figli di puttane!».
Il film “I soliti ignoti” (1958) doveva intitolarsi “Le madame” (soprannome della polizia in romanesco) ma fu censurato come termine irrispettoso, perché evocava anche le prostitute.
In “Totò, Peppino e… la dolce vita” (1961) furono cassate le battute che giocavano sul doppio senso Procio-frocio (una sensibilità anti-omofoba): il regista, Sergio Corbucci, dovette tagliare una scena in cui Totò e Peppino prendevano in giro i personaggi della “dolce vita” con riferimento all’Odissea: «Qui, guardati intorno, sono tutti Proci!» dice Totò e Peppino risponde: «Me ne sono accorto»; ribatte Totò: «Oggi essere Procio è un titolo d’onore. Io, per esempio, se fossi in te, dato che hai anche il fisico, modestamente, fatti Procio!» e ancora «Tu sei scemo!», «Fatti Procio!», «Ma vattene!».

Scena da “Totò a colori” (1952).

Ma, tolte queste eccezioni, Totò fu censurato soprattutto per gli argomenti trattati nei film. Molti tagli riguardavano frecciate polemiche (già allora!) contro i politici corrotti. In “Sua eccellenza si fermò a mangiare” (1961), per esempio, fu sforbiciata una battuta sui ministri ladri («Se è ministro, per forza!»), così come in “Totò all’inferno” (un diavolo: «E’ un onorevole, dallo in pasto agli elettori»).

Ma la palma del film più osteggiato dai censori va a “Totò e Carolina” (1955) di Mario Monicelli: racconta la storia di un poliziotto vedovo, che accoglie in casa una ragazza scappata di casa perché incinta. Un tema spinosissimo per quell’epoca. Il film si arenò per un anno e mezzo fra audizioni e polemiche: Monicelli dovette fare 82 tagli prima di riuscire a proiettarlo nei cinema. I censori temevano di mettere in ridicolo l’immagine della polizia, e tagliarono tutti i riferimenti critici verso le forze dell’ordine: la battuta «Io le guardie le conosco, sò carogne!» fu attenuata in «Io le guardie le conosco, sò dritte!».
Per prendere ulteriormente le distanze, il nome del protagonista, impersonato da Totò, fu il farsesco Antonio Caccavallo (un cognome che è tutto un programma). E il capo del governo, Scelba, impose che subito dopo i titoli di testa fosse inserita questa avvertenza: «Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda sia vissuta da Totò, trasporta il tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi nella realtà non hanno riferimenti precisi, e sono sempre riscattati da quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza e il rispetto che ogni cittadino deve alle forze di Polizia». Da che mondo è mondo, il Potere non tollera le prese in giro.
In più, oltre al tema della gravidanza illegittima c’erano riferimenti al suicidio (che «solo i ricchi possono permettersi di attuare») e al comunismo (un gruppo di operai che cantava “Bandiera rossa”). Tutto tagliato.
Tanto che Totò, che considerava questo film il migliore che avesse interpretato, disse sconsolato: « Se a un comico tolgono la possibilità di fare la satira che cosa gli resta?».

 

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Caspita! Gli eufemismi, parolacce col “lifting” https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/ https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/#comments Wed, 07 Dec 2016 14:29:58 +0000 https://www.parolacce.org/?p=11378 “Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno… Continue Reading

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La pizzeria “Col cacchio” aperta da italiani in Sud Africa.

Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno risaltare ancor di più. E, nel loro essere così artificiosi e innaturali risultano un po’ patetici. Con l’aggravante che spesso gli eufemismi sono usati dagli ipocriti per mascherare le loro cattive azioni o intenzioni.
Eppure, a ben guardare, questi surrogati verbali sono un’invenzione straordinaria: nella nostra lingua sono circa 200 e si possono usare in 6 modi diversi, non solo per censurare o mistificare la verità ma anche per varie forme di delicatezza. Studiarli, anzi, è affascinante perché sono come un trattato di sociologia: svelano le nostre fobie più nascoste.
In questo articolo solleveremo queste foglie di fico linguistiche per vedere che cosa nascondono. Racconteremo la lunga, insospettabile storia degli eufemismi; sveleremo come si costruiscono, quanti sono nel dizionario e quali concetti cercano di camuffare. E ascolteremo i divertenti eufemismi consigliati da Elio e le storie tese.
Infine, potrete leggere la lista dei 79 eufemismi più spassosi della nostra lingua, con un gioco: dovrete indovinare quale parolaccia sostituiscono. Insomma, un test per mettere alla prova la vostra cultura: sapete il significato originario di alcune espressioni come cacchio? E perché ci sono così tanti vegetali (cavolo, capperi, corbezzoli…) in questo elenco?

La storia

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L’osteria “Maremma maiala“: non è in Toscana ma in provincia di Cremona.

Partiamo dalla loro storia: quando sono stati inventati gli eufemismi, e perché? Sono nati ben prima del galateo e delle buone maniere. Gli eufemismi (dal greco “parlar bene”) infatti erano già presenti nelle società primitive, che credevano nel potere magico delle parole. Nelle civiltà più antiche i nomi non erano soltanto simboli, ma erano “l’anima” delle cose: chi conosceva il nome d’un essere l’aveva in suo potere. Per questo, i nomi delle divinità e quelli dei defunti erano tabù: non si potevano pronunciare, perché dicendoli si sarebbero evocati quegli spiriti. Così furono inventati termini allusivi ma neutri, da usare nelle conversazioni al posto di quelli “pericolosi”. Dunque, gli eufemismi sono nati in campo religioso.
Con l’umanesimo e il cristianesimo, a questi nomi se ne sono aggiunti altri: quelli del sesso e delle parti del corpo, per motivi di pudore e di etica. Infine, nell’ultimo secolo, sull’onda del “politicamente corretto”, ne sono nati altri per difendere alcune categorie sociali svantaggiate (come “non udente” al posto di “sordo”) ma anche per propaganda politica o economica: come l’espressione “adeguamento tariffario” invece di “aumento”, “riduzione di organico” invece di “licenziamento”.

I modi di usarli

Questa lunga e ricca stratificazione ha aumentato gli ambiti d’uso degli eufemismi. Si usano in 6 modi:

  1. con i bambini: sono parole depotenziate, disinfettate. Sono come armi giocattolo, pistole col tappino rosso: “Accipicchia, sei proprio un monello!”.
  2. per scrupoli religiosi: si utilizzano per non peccare, sono come preservativi linguistici per non contaminarsi con contenuti tabù. Sono una forma di autocensura: “Cribbio, mi avete stufato!”.
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    Gli eufemismi sono come pistole giocattolo (foto Shutterstock).

    per scrupoli sociali: si usano davanti ad estranei, o superiori, o anziani. Insomma, quando non si vuole rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno. Si usano per decenza, convenienza, cortesia, tatto: sono una frenata in extremis, uno slalom morale, un modo di indorare la pillola, un lifting delle parole. “Penso che Franca faccia la escort” (invece di “puttana”). Gli eufemismi sono messaggi in codice, strizzate d’occhio: “io ti dico mezza verità, ma sappiamo entrambi che è una foglia di fico che nasconde ben altro”.

  4. per blocchi psicologici: gli eufemismi sono usati per timidezza o inibizioni morali. li usano le persone represse, sono l’espressione del “vorrei ma non posso”: “Ma vaffancuore!”.
  5. per educazione, autocontrollo: gli eufemismi sono come non mangiare con la bocca aperta o non ruttare. Svolgono una funzione importante: esprimono rabbia, ma lo fanno in una maniera socialmente accettabile, mostrando che chi li dice sa controllare i propri impulsi. Sono un compromesso fra espressione e censurta, un messaggio in codice fra gentiluomini (o donne). Insomma, gli eufemismi sono come la valvola di una pentola a pressione, fanno sfiatare il vapore in eccesso: “Fiiiischia che roba!”. L’opposto è dell’eufemismo è infatti il disfemismo, ovvero dire le cose nude e crude: per esempio “i miei vecchi” al posto di “i miei genitori”
  6. per ipocrisia e mistificazione: sono un forma di contrabbando, tentano di far passare di sottecchi qualcosa di inaccettabile. Invece di ammettere di aver rubato truccando i bilanci, si dice “Ci sono delle irregolarità contabili”.

Quei geniacci di “Elio e le storie tese” hanno fatto un intervento molto divertente proponendo dei nuovi eufemismi (parole di senso compiuto) che sembrano bestemmie, “da utilizzare nelle barzellette estreme per non urtare la sensibilità dell’elettore cattolico”: le potete ascoltare cliccando il video qui sotto.

Quanti sono e cosa nascondono

Quanti sono gli eufemismi in italiano? Il modo più scientifico di calcolarli è estrapolare le parole contrassegnate come “eufemismo” (alla voce “limite d’uso”) nel dizionario. Io ho usato lo Zingarelli su Cd-Rom. Nel mio libro ne ho censiti 172; nel 2011 erano saliti a 185, nel 2012 la linguista tedesca Ursula Reutner – direttrice del Centro linguistico all’Università di Passau, in Germania – ne ha trovati 240. Nell’ultimo, lo Zingarelli 2017 (pubblicato quest’anno) gli eufemismi sono 183: da “abile” (nella locuzione “diversamente abile“) a “zio” .
Perché queste variazioni? Innanzitutto perché la lingua è viva e sempre in evoluzione, e i dizionari lo registrano: la loro crescita altalenante può essere l’effetto del “politicamente corretto”, che ha aumentato la nostra sensibilità (e quindi le forme di censura) su molte parole.

sorbole

Commedia erotica di Alfredo Rizzo (1976).

Ma, come ha notato la professoressa Reutner, non è facile censire gli eufemismi: “ad esempio, lo Zingarelli non marca come eufemistiche diverse espressioni che lo sono (come audioleso e fuoco amico). Nei dizionari la stessa espressione può essere marcata come eufemistica in un punto e non in un altro”. Anche perché molti eufemismi diventano tali in espressioni composte: “casa” e “chiusa” non sono termini eufemistici presi singolarmente; ma l’espressione che li unisce, “casa chiusa“, è un eufemismo di bordello. Per questo, i censimenti di queste parole sono approssimativi.
E di cosa parlano gli eufemismi? Degli aspetti più delicati della nostra vita, come si può vedere da questa interessante statistica stilata dalla professoressa Reutner:

  • il 23,3% delle espressioni eufemistiche riguardano la vita e gli atti sessuali (escort/puttana, rapporti intimi/ trombare);
  • il 20,4% riguardano la morte (passare a miglior vita/crepare, mancare/schiattare);
  • un altro 19,2% le parti del corpo (fondoschiena/culo, scatole/coglioni);
  • l’11,3% riguarda Dio e diavolo (vivaddio/bestemmia);
  • il 7,5% i bisogni fisiologici (andare di corpo/cagare);
  • il 5,4% soldi e lavori (ritocco tariffario/aumento, lavoretto/lavoro umile);
  • 5,4% qualità fisiche e mentali, comportamenti (robusto/grasso, maturo/vecchio);
  • 5%, malattia (male incurabile/cancro, non udente/sordo);
  • 2,5% biologia femminile (stato interessante, avere le cose).
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Borsa di “Mani in pasta“, associazione culinaria.

Come nascono gli eufemismi? La nostra lingua usa 4 stratagemmi: l’omissione (non dire il termine scottante), la modificazione, la sostituzione con altri termini o l’abbreviazione.
Nella maggior parte dei casi (il 78%) gli eufemismi nascono per sostituzione: si mette una parola accettabile al posto di una inaccettabile (andare a letto con qualcuno invece di scopare con qualcuno). Solo nell’1% dei casi sono abbreviazioni (poffare sta per “può fare Dio”). Per chi vuole approfondire questi 3 stratagemmi – che hanno molte e ingegnose varianti – rimando al mio libro, dove ne ho parlato più diffusamente.
In questo articolo, invece, mi concentro sulle deformazioni: ovvero gli eufemismi che nascono per alterazione fonetica (“sostituti parafonici”), salvando la prima sillaba e mutando le successive, oppure cambiando o sopprimendo l’iniziale. Gli eufemismi di questo tipo sono il 21%: ho scelto di approfondirli non solo perché sono i più usati nella lingua parlata al posto delle parolacce, ma anche perché sono i più divertenti.

La lista degli eufemismi

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Un libro ammiccante ma “educato”.

Come leggerete nella lista qui sotto, molti degli eufemismi sono parole che rimandano a ortaggi e frutta: cavolo, capperi, cacchiocorbezzoli, sorbole. Ma perché? Secondo la Suda, un’antica enciclopedia greca, nell’antichità “molti, per dare forza ai propri giuramenti”, giurano sugli ortaggi: non tanto per evitare di nominare invano i nomi delle divinità, quanto per sdrammatizzare.
Come ricorda Paolo Martino, docente di linguistica alla Lumsa di Roma, in un divertente saggio sull’esclamazione “capperi!”, Radamanto, il giudice dell’Averno, ordinò che si giurasse non sugli dèi, ma su piante e animali domestici. Tanto che nell’antichità si giurava “per il cane” (da cui l’esclamazione “porco cane”, di cui ho parlato in questo articolo), “per l’oca” (da cui il “porca l’oca” usato ancora oggi), ma anche “per il cavolo”, “per il cappero”. Dunque, questi sostituti sono stati scelti non solo per assonanza con “cazzo” ma anche perché avevano già una lunga storia linguistica. D’altronde, avevo già parlato in un altro articolo dell’importanza simbolica dei vegetali come sostituti sessuali, sia nelle immagini che nel linguaggio.

Dunque, ecco la lista dei più frequenti eufemismi parafonici: sono 79, e non tutti li trovate sullo Zingarelli, perché a volte i dizionari non riescono a registrare tutti i termini colloquiali. Qui sotto potete mettere alla prova la vostra cultura: sapete davvero che cosa si nasconde dietro queste “foglie di fico”? Basta fare caso alle lettere iniziali… Se non riuscite a indovinarli, niente paura: cliccate sulla striscia blu col segno “+” per espandere il box e scoprire che cosa c’è sotto, avrete qualche sorpresa, cazzarola! Per i casi più curiosi (segnalati dagli asterischi *) ho inserito anche una breve spiegazione sull’origine del termine.

A

accidempoli, acciderba, accipicchia*, acc

Sta per...

*accidenti, che ti venga un accidente: l’accidente (o incidente) per eccellenza è la morte

alimortè

Sta per...

dal romanesco “li mortacci tua”, ovvero “i tuoi spregevoli defunti”

ammappelo/ammappalo, ammappete, ammazza

Sta per...

dal romanesco “ammazzalo” o “ammazzate” (ammazzati)

azzolina, azzo

Sta per...

cazzo

B

boia d’un diavolo, bòia d’un dìèvel

Sta per...

boia d’un dio

C

cacchio*, canchero, capperi/o, caspita, caspiterina, cavolo, cazzarola, cazzica, corno

Sta per...

cazzo

* termine agricolo che indica i germogli della vite o di alcuni tipi di piante rampicanti o infestanti.

caramba, carramba

Sta per...

dallo spagnolo carajo, cazzo

che pizza

Sta per...

che palle

corbelli*, corbezzoli**, cordoni, cosiddetti

Sta per...

coglioni

*corba è una cesta di vimini o il suo contenuto: corbelli è sinonimo di scatole, nel senso di testicoli; **corbezzolo è un arbusto sempreverde che produce frutti a bacche simili a ciliegie

cribbio, Cristoforo Colombo, cristallo

Sta per...

Cristo

D

della malora

Sta per...

della Madonna

diacine, diamine*,

Sta per...

diavolo

*sovrapposizione di domine (domineddio, Dio) con diavolo

dio cantante, dio caro, dio campanaro

Sta per...

dio cane

dioniso, Diogene, Diomede

Sta per...

dio

F

fischia

Sta per...

figa

I

incavolarsi, incacchiarsi

Sta per...

incazzarsi

K

kaiser

Sta per...

cazzo

M

madosca, malora

Sta per...

Madonna

Maremma*, Maremma maiala

Sta per...

Madonna maiala

* la Maremma è una regione geografica fra il sud della Toscana e il Lazio

mizzega, mizzica, mizzeca

Sta per...

minchia

O

osteria, ostrega, ostrica

Sta per...

ostia

 P

paravento

Sta per...

paraculo

parbleu

Sta per...

dal francese par Dieu, per dio

per dinci, per dindirindina, per Diana

Sta per...

per dio

porco zio, porco diesel, porco Diaz*, porco dinci, porco diavolo, porco due

Sta per...

porco dio

*Armando Diaz fu un generale, capo dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale

porca paletta, porca puzzola, porca putrella

Sta per...

porca puttana

porca madosca, porca malora

Sta per...

porca Madonna  

porca trota, porca trottola

Sta per...

porca troia

S

sorbole*

Sta per...

dal dialetto bolognese soccmel (o soccia), succhiamelo

*le sorbole sono i frutti del sorbo, pianta della famiglia delle rosacee: sono piccoli pomi   

U

urca

Sta per...

porca

V

vaffa, vaffancuore, vaffanbagno

Sta per...

vaffanculo

và a farti frate

Sta per...

và a farti fottere

Z

zio cane, zio cantante, zio canterino, zio canarino

Sta per...

dio cane

Dedico questo post all’amico Davide Viganò, che pochi giorni fa mi ha detto: “Vito! Ma perché non fai un post sugli eufemismi?!?”, ricordandomi il loro fascino.

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Twitter e parolacce: 9 scoperte della scienza https://www.parolacce.org/2016/08/01/insulti-su-twitter/ https://www.parolacce.org/2016/08/01/insulti-su-twitter/#respond Mon, 01 Aug 2016 11:12:18 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10531 Quante parolacce circolano su Twitter? Più o meno rispetto a quante si dicono di persona, faccia a faccia? Quando se ne dicono di più? Sono più volgari gli uomini o le donne? A queste e altre domande risponde una ricerca straordinaria fatta… Continue Reading

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tweetBQuante parolacce circolano su Twitter? Più o meno rispetto a quante si dicono di persona, faccia a faccia? Quando se ne dicono di più? Sono più volgari gli uomini o le donne?
A queste e altre domande risponde una ricerca straordinaria fatta da 4 scienziati della Wright State university di Dayton (Usa): straordinaria perché gli autori – un gruppo di informatici guidati da Wenbo Wang – hanno studiato una montagna di tweet: 51 milioni, scritti in un mese (dall’11 marzo al 7 aprile 2013) da 14 milioni di persone: in media 3,6 tweet a persona. Insomma, è come se avessero studiato un gruppo pari alle popolazioni di Piemonte e Lombardia messe insieme. Con la differenza, però, che gli autori dei tweet erano parlanti di lingua inglese: le scoperte dei ricercatori, quindi, hanno radici nel mondo anglosassone.
Sarebbe interessante verificare se anche in Italia c’è uno scenario simile: la nostra cultura ha elementi di somiglianza oltre che di differenza con quella anglosassone. (Foto: Gli uccellini incazzosi protagonisti del film “Angry birds”, elaborazione foto Shutterstock).

In ogni caso, la ricerca merita di essere letta anche per la mole di dati che ha interpretato. Solo 20 anni fa sarebbe stata impensabile: all’epoca, per studiare la lingua parlata ci si doveva armare di registratore, girare per le strade e infine trascrivere a mano e catalogare tutte le parole registrate. Un lavoro certosino che, nel 1994, proprio in questo modo ha generato la Banca dati dell’italiano parlato. Un database preziosissimo (è il più corposo dei 5 “corpora” di lingua parlata esistenti in italiano) che però era limitato a un campione di 1.653 parlanti, quasi un decimillesimo rispetto a quelli studiati dalla Wright State university. Oggi invece, grazie all’informatica, si possono elaborare anche milioni di dati, e per la linguistica è una vera manna.
Ecco le 9 scoperte che hanno fatto gli scienziati.

1) QUANTE PAROLACCE SI TWITTANO?

I ricercatori hanno censito la frequenza d’uso di 788 parolacce in inglese, comprese le varianti digitali (la Computer mediated communication, ovvero le parole abbreviate o camuffate tipiche dell’informatica, per intenderci: $hit, b1tch, f*ck, che in italiano diventerebbero m&rda, tro1a, fan*ulo). Ebbene, su Twitter le parolacce sono l’1,15% di tutte le parole: ve ne aspettavate molte di più? Probabile, ma sappiate che anche nella conversazione a voce le parolacce non sono poi tante: sono solo lo 0,5% delle parole, come aveva rilevato una passata ricerca. In ogni caso, su Twitter si dicono pur sempre più del doppio di parolacce rispetto a quante se ne dicono a voce.
I tweet che contengono parolacce sono il 7,73% (uno su 13), ovvero il doppio di quanto è stato rilevato nelle chat (3%) in un’altra ricerca. Dunque, su Twitter si impreca, si insulta molto (rispetto ad altri mezzi di comunicazione): il motivo? Semplice: nascosti dal display di un cellulare o dal monitor di computer (e magari anche dietro un’identità fittizia) ci si sente più liberi d’esprimersi senza censure.

2) QUALI SONO LE PIÙ TWITTATE?

Nella tabella qui sotto potete leggere le 10 parolacce più twittate in inglese. Bastano le prime 7 (con i loro derivati e varianti) a coprire oltre il 90% di tutte le parolacce. Altra osservazione interessante: la maggioranza sono a sfondo sessuale (6: fuck, ass, bitch, whore, dick, pussy), seguito da quello escrementizio (2: shit, piss), etnico (1: nigga) e religioso (1: hell). A occhio, nei tweet in italiano potremmo avere la stessa proporzione di categorie di significato, ma con un lessico diverso.

Parolaccia Frequenza
fuck (fottere, scopare, fanculo) 34,73%
shit (merda) 15,04%
ass (culo, stupido) 14,48%
bitch (cagna) 10.34%
nigga (negro) 9,68%
hell (inferno) 4,46%
whore (troia) 1,82%
dick (cazzo) 1,67%
piss (pisciare, piscia) 1,53%
pussy (passera) 1,16%

3) QUALI EMOZIONI ESPRIMONO?

Viotti

Un tweet di Daniele Viotti (europarlamentare gay del Pd), infuriato con la componente cattolica del partito su unioni civili e stepchild adoption.

La domanda è interessante, ma viene da chiedersi come abbiano fatto i ricercatori a ricavare questa informazione leggendo 51 milioni di messaggi. Semplice: hanno usato un software automatico di riconoscimento di testo, Liwc (Linguistic Inquiry and Word Count), capace di analizzare e collegare i tweet alle 7 emozioni primarie (quelle fondamentali, presenti in ogni cultura): gioia, tristezza, rabbia, amore, paura, gratitudine e sorpresa. Dopo una fase di test su 500mila tweet, i ricercatori hanno però deciso di scartare sorpresa e paura perché il programma aveva una precisione inferiore al 65%. Pur premettendo che il software è tutt’altro che infallibile, ecco i risultati. Le parolacce nei tweet sono associate per lo più alle emozioni negative: a tristezza (21,83%) e rabbia (19,79%); per contrasto, infatti, solo l’11,31% dei tweet senza parolacce esprimevano tristezza e il 4,5% rabbia. Ma, osservano i ricercatori, non va trascurato il fatto che, comunque, il 6,59% dei tweet volgari esprimeva amore: le parolacce, infatti, si usano anche per enfatizzare emozioni positive (“che figata!”), nell’erotismo (“ti scoperei”) o per confidenza fra amici (“Non fare il pirla!”). Per quanto riguarda il tasso di frequenza di messaggi volgari all’interno di ciascuna emozione, il 23,82% dei tweet rabbiosi conteneva parolacce, contro il 13,93% di quelli tristi, il 4,16% di quelli d’’amore, il 3,26% di quelli di gratitudine e il 2,5% di quelli di gioia. In sintesi: se devo esprimere la rabbia tendo a farlo attraverso le parolacce; mentre in assoluto, la maggior percentuale di tweet volgari è figlio di un senso di tristezza.

4) QUANDO SE NE TWITTANO DI PIÙ?

quandoI momenti più “caldi” per insultare o imprecare sono fra le ore 21 e le 22. La maggior concentrazione di tweet volgari si registra dalle 22 all’1,30 di notte. Si è più volgari all‘inizio della settimana (dal lunedì al mercoledì) rispetto agli altri giorni, in cui – ipotizzano i ricercatori – si è più rilassati (cliccare sui diagrammi per ingrandirli).

5) QUALI SONO I TWEET PIÙ VOLGARI?

La più alta concentrazione di parolacce è nei retweet: i commenti senza censure sono quelli più popolari e letti. Insomma, la parolaccia fa notizia e si diffonde col passaparola.

6) DOVE SE NE DICONO DI PIÙ?

Combinando i Tweet con Foursquare, la rete sociale basata sulla geolocalizzazione degli utenti, i ricercatori hanno identificato da quali luoghi twittavano gli autori dei tweet volgari. Risultato: per lo più da casa (7,08%), seguita da università (6,45%), negozi (6,41%), locali notturni (6,37%), luoghi ricreativi (5,7%). Ovvero nei luoghi informali. Gli ambienti naturali (parchi, spiagge, montagna) sono quelli in cui si impreca di meno (4,9%): forse perché all’aperto si è più  rilassati, immaginano ancora gli scienziati. E quindi si ha di meglio da fare che stare a twittare insulti, aggiungo.

7) E CON CHI?

Incrociando le parolacce con il sesso degli utenti, i ricercatori hanno appurato che si è più sboccati soprattutto quando si sta insieme a persone del proprio sesso. E com’era facilmente prevedibile, il tasso più elevato di tweet volgari è nei discorsi fra uomini (5,48%), mentre in quelli tra donne la percentuale scende al 3,81%. Più raffinate, ma non così tanto.

8) MASCHI E FEMMINE DICONO LE STESSE?

No, prediligono insulti diversi: i maschi usano più spesso fuck (fottere, scopare, fanculo), shit (merda) e nigga (negro); le femmine, bitch e slut (troia). Gli uomini, insomma, vanno più sul pesante, ma hanno anche una maggior varietà lessicale, almeno quando si tratta di essere volgari.

9) CHI È FAMOSO NE DICE DI PIÙ O DI MENO?

Un dato curioso: il prestigio, alto o basso che sia, rende più trattenuti nel linguaggio. Infatti, dicono meno parolacce le persone col maggior numero e quelle col minor numero di followers: ovvero, quelli che devono mantenere o curare di più la propria immagine. Chi sta nel mezzo, non si preoccupa molto del proprio prestigio, forse perché ha poco da perdere. Ecco perché fa notizia quando un personaggio celebre twitta una parolaccia.

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Il logo di “parolacce” su Twitter.

Tutte scoperte interessanti, ma i risultati, avvertono i ricercatori, non valgono necessariamente anche fuori da Twitter: 14 milioni di utenti sono davvero tanti, ma non somigliano necessariamente a quelli di altri social network né tantomeno alla popolazione generale. Gli utenti di Twitter, infatti, sono solo una parte (circa il 25%) degli utenti di Internet, e sono per lo più persone abbastanza istruite, di ceto medio-alto, residenti in grandi città e di età compresa fra i 18 e i 50 anni (come ha appurato questa ricerca). Restano non censiti tutti gli altri strati sociali e anagrafici, e non sono pochi. In più, aggiungo, la comunicazione attraverso i sistemi digitali (i 140 caratteri di Twitter, per intenderci) non coincidono con gli stili di comunicazione che abbiamo quando siamo di fronte ad altre persone, senza la mediazione di schermi digitali.
Con questa doverosa avvertenza finiscono le scoperte della ricerca americana. Se volete essere aggiornati via Twitter con le ultime news sul turpiloquio, basta seguire l’account parolacce: dal 2013, più di 2mila tweet sul turpiloquio, in Italia e nel mondo.

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https://www.parolacce.org/2016/08/01/insulti-su-twitter/feed/ 0
I 30 anni di “Radio parolaccia” https://www.parolacce.org/2016/07/07/radio-radicale-radio-parolaccia/ https://www.parolacce.org/2016/07/07/radio-radicale-radio-parolaccia/#respond Thu, 07 Jul 2016 09:22:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10463 Più di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità da tutto il Paese. Oltre ad avere la più antica parolaccia scritta in una chiesa, l’Italia detiene un altro record: la maratona radiofonica più lunga e volgare della storia. Il primato non lo trovate sul… Continue Reading

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radioPiù di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità da tutto il Paese. Oltre ad avere la più antica parolaccia scritta in una chiesa, l’Italia detiene un altro record: la maratona radiofonica più lunga e volgare della storia. Il primato non lo trovate sul Guinness, ma lo meriterebbe: quasi 50mila minuti di volgarità trasmesse nell’etere in 35 giorni da Radio Radicale – ribattezzata per l’occasione “Radio parolaccia” – sono un evento unico al mondoMa che cosa era successo? Lo racconto in questo articolo, perché proprio in questi giorni ricorre il 30° anniversario dell’evento (a 3 mesi dalla scomparsa di Marco Pannella, storico leader radicale).
Era il 10 luglio del 1986, infatti, quando Radio Radicale si trovò in grandi difficoltà economiche. L’emittente era stata fondata 10 anni prima a Roma da un gruppo di attivisti, e svolgeva (come oggi) un doppio ruolo: non solo megafono del partito, ma anche radio di servizio, che trasmetteva in diretta le sedute del Parlamento e altri dibattiti istituzionali. Ma all’epoca la radio non riceveva contributi dal Governo: e così, di fronte a costi di gestione sempre più alti, quell’estate Radio Radicale era arrivata al punto di rischiare la chiusuraI dirigenti i decisero di sospendere tutti i programmi, per lasciare la parola agli ascoltatori: installarono 30 segreterie telefoniche, invitando gli italiani a registrare un messaggio di 1 minuto con le proprie opinioni sulla radio. A quell’epoca – giova ricordarlo – Internet ancora non c’era.

Dalla politica ai goliardi

radio-radicaleE così le segreterie telefoniche di Radio Radicale iniziarono a registrare le voci degli ascoltatori. Ma ai messaggi di stima e solidarietà per la radio si affiancarono subito le critiche dei detrattori. Una pensionata napoletana disse, contestando gli scioperi della fame dei radicali: “Nuje a fame a’ facimme senza ‘o sciopero. La nostra è ‘na fame radicale”.
Ma la politica passò rapidamente in secondo piano: l’occasione di avere un palcoscenico nazionale era troppo ghiotta per goliardi e disturbatori. C’era chi telefonava per trasmettere il rumore del vento, chi fischiettava, chi faceva pernacchie, chi simulava un orgasmo, chi cantava (da “Faccetta nera” all’ultimo successo di Eros Ramazzotti), chi diceva filastrocche senza senso. Alcuni incidevano messaggi d’amore (“Cerco Carla, senza di lei non posso più vivere”), altri protestavano per piccoli incidenti quotidiani (“Sono in campeggio e se n’è andata via la luce. Intervenite”), altri ancora che si facevano pubblicità (“Venite nella mia panetteria, è in via Garibaldi…”).
E ben presto si diffuse l’abitudine di lasciare messaggi sempre più osceni. Non solo insulti a sfondo politico (contro i radicali, i fascisti, i comunisti, i democristiani…) ma anche a sfondo calcistico fra opposte tifoserie: laziali contro romanisti, interisti contro juventini, etc. Ma la parte del leone fu presa dall’odio etnico: i settentrionali invocavano che l’Etna eruttasse per distruggere la Sicilia, i meridionali che invitavano Gheddafi a bombardare Milano o Torino… Ma anche telefonate contro “negri”, ebrei, paninari, e così via.

Sfogatoio a luci rosse

Ecco alcuni esempi: «Sono Roberto e chiamo da Milano, (…) volevo dire a quella manica di terroni di Roma che siete delle teste di cazzo inaudite a fare quelle telefonate oscene, pirloni, barboni, andate a lavorare, pirlaaa! Grazie».
«Filippo bastardo, figlio de ’na mignotta, bastardo che non sei altro… milanesi dovete crepare tutti, bastardi che non siete altri, venite a Roma che ve famo un culo come ’na capanna… mortacci vostri mortacci vostri… a voi e a tutto il Nord!».
Insomma, Radio Radicale divenne lo sfogatoio dei peggiori istinti degli italiani. Nel video qui sotto potete sentire dal vivo le voci dell’epoca: audio sconsigliato alle persone sensibili per la presenza di bestemmie.

I leader radicali, comunque, fedeli al loro approccio libertario e anarchico, decisero di non intervenire con censure: “la radio era in mano agli ascoltatori” ricorda l’ex direttore Massimo Bordin, “ed era giusto che dicessero ciò che volevano senza intermediari”. Insomma, Radio Parolaccia divenne un “troll” di massa. E in breve tempo, Radio Radicale battè tutti i record, diventando l’emittente più chiamata e ascoltata d’Italia. D’altronde, era un palcoscenico nazionale e privo di rischi: allora non c’era l’identificativo del chiamante, quindi tutte le telefonate restavano nel totale anonimato. Ma in una nazione guidata dall’asse catto-socialista moderato (Psi-Dc-Psdi, Pri, Pli, con Bettino Craxi presidente del consiglio) e la presenza del Vaticano, l’esperimento non poteva durare a lungo. Tanto più che diverse telefonate violavano le leggi: vilipendio delle istituzioni, apologia di fascismo, diffamazione, solo per citare alcuni reati.

Lo stop dei magistrati

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Pannella (primo a sin.) con lo staff di Radio Radicale.

Sommersa da denunce, interpellanze parlamentari, articoli di giornali indignati, la magistratura di Roma intervenne: il 14 agosto, dopo 35 giorni di trasmissioni, emise un decreto di sequestro degli impianti usati per trasmettere le telefonate. Tre funzionari della Digos e due tecnici della Questura si presentarono a Radio Radicale e portarono via le segreterie telefoniche che registravano i messaggi degli ascoltatori. L’emittente dovette ripiegare trasmettendo musica classica. Finché, in serata, ai microfoni Pannella si scagliò contro i magistrati: “Quando la Rai attenta ai diritti politici dei cittadini, non si trova un magistrato in tutta Italia che abbia il coraggio e la serietà di avviare un’indagine. Quando si tratta di Radio Radicale, invece, la magistratura scopre di essere armata per difendere la legge”.
Il giorno seguente, Ferragosto, Pannella tornò in radio per una diretta non-stop: un modo per tenere alta l’attenzione sui destini di Radio Radicale, ma anche delle radio in generale. La vicenda si risolse in autunno, quando il Parlamento intervenne per salvare l’emittente, estendendo alle radio il finanziamento pubblico per l’editoria di partito. Ma “Radio parolaccia-Radio bestemmia”, come fu ribattezzata, non terminò nel 1986 la sua esistenza.
Dopo una replica nel 1990, ancora nel 1993 (sempre per salvarsi dalla chiusura) l’emittente riattivò la segreteria telefonica, sempre con analoghi risultati.

Una foto dell’Italia

71-fdMGa5ULCon questa iniziativa, Pannella fu accusato di aver tolto il coperchio ai più bassi istinti degli italiani. Ma lui non era d’accordo: “E’ giusto che questo tetro mondo a luci rosse venga finalmente alla luce del sole. E’ una fotografia inquietante ma straordinariamente interessante dell’Italia. Ci sono tanti moralisti che borbottano, ma non c’è neanche un sociologo che si prenda la briga di studiarle quelle voci, e nemmeno un linguista che si mette ad analizzare la diversità delle parlate. Un enorme patrimonio di conoscenza e loro lo sprecano così”.
In effetti, su questo caso unico fu pubblicato solo un libro: “Pronto?! L’ Italia censurata delle telefonate a Radio radicale” (Mondadori). Ma è solo un’antologia impreziosita dalla prefazione di Oreste Del Buono. Insomma, quella miniera di fango è ancora tutta da esplorare: fu profetica nel mostrare non solo la voglia di protagonismo di tanta gente (in cerca di un palcoscenico nazionale, seppur anonimo e momentaneo), ma soprattutto la carica di odio razziale, di xenofobia e di intolleranza che di lì a poco sarebbero stati cavalcati dalla Lega Nord e da altri partiti. A distanza di 30 anni, peraltro, lo scenario non è molto cambiato: le ossessioni sono rimaste più o meno le stesse. Con la differenza che, oggi, le discariche emozionali sono a portata di mano sempre: basta andare su Twitter, Facebook o YouTube. L’unica differenza è che invece di nascondersi dietro a una voce anonima oggi ci si cela dietro un nickname. Un progresso? Dal punto di vista tecnologico senz’altro, ma da quello comunicativo non molto: sui social network manca il tono di voce, che rivela le reali intenzioni di chi parla. Insomma, su queste piattaforme è più difficile capire se chi insulta lo fa per semplice goliardia, odio violento, ribellione al sistema, sfogo liberatorio o disagio sociale. E così il rischio di equivoci e incomprensioni diventa più alto. Insomma, rispetto a 30 anni fa abbiamo molto più potere, ma il mondo è diventato più complicato: anzi, maledettamente ambiguo.

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