con | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 27 Dec 2019 12:16:19 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png con | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Cin-cin, curva e altre parole da non dire all’estero https://www.parolacce.org/2016/03/23/falsi-amici-italiano/ https://www.parolacce.org/2016/03/23/falsi-amici-italiano/#comments Wed, 23 Mar 2016 17:08:52 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9741 Il più famoso è il cin-cin: se fate un brindisi con amici giapponesi, evitatelo come la peste. Nel Paese del Sol Levante, infatti, significa pene, nel senso di organo sessuale maschile (montaggio con foto Shutterstock). Ma non è l’unica espressione italiana che,… Continue Reading

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cinCin2Il più famoso è il cin-cin: se fate un brindisi con amici giapponesi, evitatelo come la peste. Nel Paese del Sol Levante, infatti, significa pene, nel senso di organo sessuale maschile (montaggio con foto Shutterstock). Ma non è l’unica espressione italiana che, in altre lingue, ha un significato volgare.
Avevo già raccontato (
qui) i casi contrari: ovvero le parole straniere che in italiano suonano come parolacce.  Ora, però, visto che si avvicinano le vacanze (e i viaggi) di Pasqua, vale la pena conoscere i fenomeni inversi: i “falsi amici” italiani, ovvero le nostre parole che hanno assonanze con parolacce straniere: ne ho trovate 28 in 8 lingue (se avete altri casi da segnalare aggiornerò la lista). Se le conosci, le eviti: se non volete rischiare equivoci o situazioni imbarazzanti

 

CECO

kurva2

Gli Szeki Kurva, gruppo punk.

Flag_of_the_Czech_RepublicSe andate a Praga, non dite che avete preso una curva: in ceco, kurva non è una strada tortuosa, significa puttana. Il termine è diventato molto celebre, tanto da essere usato anche in altri Paesi dell’est: Polonia, Russia, Ucraina, Bielorussia.
E ha un’etimologia curiosa: il termine, infatti, ha davvero a che fare con le curve. In passato, infatti, le donne che avevano difetti fisici (tra i quali le gambe “incurvate” o “arcuate”) erano emarginate perché considerate inadatte al lavoro nei campi e ad allevare figli. Così, alle “zitelle” con questo difetto fisico, non restavano molte alternative: spesso diventavano prostitute. E come tali erano mal viste dalle altre donne, che hanno caricato di disprezzo il termine kurva.

Non è l’unico termine imbarazzante in ceco. Anche la parola panna può creare equivoci: significa vergine, che non è una parolaccia ma introduce un tema sessuale mentre siamo convinti di parlare di cibo.
E il nostro avverbio
così ha una pronuncia simile a kozy, che vuol dire capre ma anche tette.

FINLANDESE
Flag_of_FinlandQui, la parola panna è ancora più pesante che in Repubblica ceca: significa mettere, anche nel senso di fottere, scopare. E attenti: portto non è un molo ma vuol dire puttana, come akka (occhio quando fate lo spelling: non è la H!). La parola bimbo, invece, è per adulti: significa tetta, sciocco, coglione.

UNGHERESE

Flag_of_HungarySe dite che state seguendo un ciclo di conferenze, potreste risultare comici: ha la stessa pronuncia di csikló, che significa clitoride.  Ma va decisamente peggio per chi ha un amico o un marito si chiama Pino: non chiamatelo ad alta voce in strada, perché il suo suono è identico a pina, che vuol dire fica.

SPAGNOLO

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“Nonna, passami la canna!”

Nonostante le notevoli corrispondenze fra la nostra lingua e lo spagnolo, i “falsi amici” sono numerosi. Anche fra le espressioni volgari. Per esempio, parlando di verdure, attenti a dire porro: significa persona goffa, maleducata e stupida, ed è anche un sinonimo gergale di spinello. Così come il burro non è un alimento: vuol dire asino, incivile, grezzo.
Chi si occupa di lavorazione delle pelli, meglio che sappia che concia, in molti Paesi latino-americani (Argentina, Perù, Bolivia, Cile, Guatemala, Paraguay, Uruguay) ha lo stesso suono di concha, fica (in origine significa conchiglia).
Se volete andare a pranzo in Messico, Ecuador, Honduras, El Salvador o in Nicaragua, state attenti a parlare di mensa con una cameriera: significa stupida, tontaIn Argentina, invece, se dite che amate dedicarvi all’orto, non stupitevi se chi vi ascolta resterà interdetto: state parlando del culo.
Ma il capolavoro più sorprendente di ambiguità è la parola bergamasca: una donna che dica “Yo soy bergamasca”, può suscitare l’ilarità generale. Perché “berga” ha lo stesso suono di verga (cazzo), e masca significa “mastica”: la sua frase, quindi, può essere intesa come “Io sono mastica cazzo”.

PORTOGHESE

Flag_of_Portugal

Il portoghese non è una lingua monolitica: come lo spagnolo, in America Latina si arricchisce di nuovi vocaboli e significati. E, soprattutto in Brasile, terra di immigrazione, si mescola con altre lingue: l’italiano è una di queste. Ecco perché, in alcuni Stati brasiliani, le parole italiane sono entrate nei modi di dire gergali. Come testimonia il sito Brazzil.commosca, polaca, minestra, piranha, a dispetto delle apparenze, significano tutti “puttana” (e mosca può significare anche fica). Mentre ferramenta non si riferisce al negozio di utensili: significa affare nel senso di pene. Ma non è tutto. In Brasile, se dite a una donna “Posso entrar?”, potreste ricevere uno schiaffo: entrar significa anche penetrare, fottere.

FRANCESE

Flag_of_France

sarko-colere

Quando Sarkozy disse: “Taci, povero coglione”.

La stretta parentela fra italiano e francese può generare molti equivoci. Se dite, guardando il cielo, “Che belle scie“, la frase, in francese, suonerebbe “Che bella cacata” perché scie, in francese, ha la stessa pronuncia di chier = cagare.
E ricordate che
con, in francese, non è una congiunzione ma significa figa, stronzo (è diventata celebre quando la usò l’ex presidente Nicholas Sarkozy per zittire un contestatore).
Attenti, infine, a tradurre
baciare con baiser (vuol dire anche scopare) e gatta con chatte (che indica anche la vulva).

INGLESE
Flag_of_the_United_KingdomLa distanza fra le radici linguistiche dell’italiano e dell’anglosassone produce poche assonanze volgari. Fra le più evidenti c’è ass, che non vuol dire asso ma (negli Usa) culo, stupido. Ma nella lista delle parole pericolose bisogna segnalarne due italiane che sono entrate nel dizionario inglese con significati del tutto diversi: bagnio (con la i) non vuol dire toilette ma bordello; e bimbo non vuol dire bambino ma sciacquina, oca giuliva, svampita.

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La processione fallica Kanamara Matsuri.

GIAPPONESE

Flag_of_JapanL’ho già anticipato all’inizio di questo post: in giapponese, chinchin (pronuncia: cin cin) vuol dire pene. Tant’è vero che il festival della Kanamara Matsuri, la processione fallica che si svolge ogni anno a Kawasaki per propiziare la fertilità, è chiamato anche Chinchin Matsuri (festival del… cazzo). Se siete in Giappone, quest’anno l’appuntamento è fissato per il 3 aprile. E se volete brindare con gli amici giapponesi, dovete usare un’altra espressione: “kanpai”.
Ma perché in italiano per brindare usiamo l’espressione cin cin? In effetti, l’espressione ha origini orientali, per la precisione cinesi: deriva infatti da qǐng qǐng, che significa “prego, prego”. Queste parole erano usate fra i marinai di Canton come forma di saluto cordiale ma scherzoso, e si diffuse nei porti europei. E’ entrato nei nostri modi di dire per la somiglianza onomatopeica con il suono prodotto dal tintinnare di due bicchieri tra loro.

RmcHo parlato di questo post con Monica Sala e Max Venegoni su Radio Montecarlo. Potete ascoltare il podcast con il mio intervento cliccando qui.

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Perché i genitali sono diventati insulti? https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/ https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/#respond Wed, 17 Feb 2016 14:07:43 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9415 “Cazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene,… Continue Reading

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deadpoolCOLCazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene, vulva, glutei sono usati anche per offendere le persone (coglione, testa di cazzo, faccia da culo, rincoglionito)?
Non è strano che gli organi sessuali (nei quali ho inserito anche i glutei, in quanto richiami erotici) siano usati per descrivere le caratteristiche psicologiche o i modi di fare delle persone, e per di più in modo negativo?
La questione è intrigante. Indagando ho scoperto che queste metafore sessuali sembrano indicarci una rotta morale, additando i peggiori difetti umani, sia intellettivi che comportamentali. E lo fanno con una lucidità sorprendente: sembrano aver attinto da un trattato di psichiatria. I difetti che queste espressioni mettono alla berlina, infatti, sono così universali che caratterizzano molti celebri personaggi cinematografici: non solo Deadpool, ma tutte le macchiette rappresentate nei film di Carlo Verdone… e non solo.

Prima di svelare la mappa semantica degli insulti derivati dai genitali, affrontiamo subito la questione di fondo: cosa c’entrano gli organi sessuali con i difetti morali? Perché i nomi del sesso sono usati per esprimere offesa, disistima, disprezzo?
Innanzitutto perché i nomi osceni, evocando il sesso, sono emotivamente carichi, sono parole impregnate di passioni. Ma questa carica non è solo positiva (eros, piacere, seduzione, forza vitale, eccitazione, fecondità…). Il sesso ha anche un risvolto negativo: ci ricorda la nostra natura animalesca, da cui cerchiamo sempre di prendere le distanze. Ecco perché il sesso è usato per “abbassare” il valore di una persona: se dico a qualcuno che è una “testa di cazzo”, metto la sua intelligenza sullo stesso piano della pulsione sessuale, irrazionale e incontrollata. Quella persona, invece di ragionare col cervello, si lascia guidare dal pube. La “torre di controllo” si è spostata dall’alto al basso

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Iniziativa di un gruppo di creativi free lance: non vogliono essere sotto pagati, cioè trattati da coglioni.

Questa visione svilente della sessualità è stata rafforzata, nella cultura occidentale, dall’orfismo, un movimento religioso nato in Grecia nel VI secolo a.C.: gli orfici disprezzavano il corpo, mortale e limitato, perché lo consideravano inferiore all’anima, pura e immortale. Nei secoli successivi questo contrasto fra mente e corpo è stato rafforzato anche dal cristianesimo, per il quale la vita terrena vale solo in funzione di quella ultraterrena.

Ecco perché, in moltissime lingue, i nomi che designano i genitali sono usati come insulti, anche se con molte variazioni da un Paese all’altro: alcuni Paesi utilizzano più le metafore derivate da pene e testicoli, altri quelle dalla vulva, altri ancora quelle che rimandano ai glutei.
Per esempio, tornando al film  “Deadpool”,  la tripletta inglese che lo descrive, significa letteralmente: tosto, saccente, grandioso, ed è giocata sulle varianti di “ass”, culo. In Italia, anche se culo è una parola dai molti significati (ne avevo parlato qui), preferiamo usare come metafora i genitali maschili: il “lato A” invece del “lato B”. Ecco perché nella versione italiana i traduttori hanno puntato sugli aggettivi derivati dal pene: cazzone, cazzuto, incazzato. Infatti, cazzuto è la traduzione corretta di bad ass,; smart ass è reso con cazzone, mentre sarebbe stato più corretto definirlo cazzaro (fanfarone, spaccone). Per il terzo aggettivo, great ass, non esiste un corrispettivo derivato dai genitali maschili: sarebbe stato corretto tradurlo come figone. E infatti in italiano le metafore derivate dal sesso femminile esprimono per lo più concetti positivi: figa (bella donna), figo (bell’uomo, alla moda, attraente, elegante), figata (cosa bella, piacevole, ben riuscita)… L’unica eccezione è fighetto, inteso come elegante, vanesio, affettato. Ma d’altronde non bisogna dimenticare che fesso (= sciocco, scemo) deriva da fessa (fessura, vulva), e fregnone (= sciocco, stupido) da fregna (vulva).

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T-shirt: sono con un testa di…

Qualcuno ha ipotizzato che forse la nostra cultura è fissata alla fase fallica (la fase dello sviluppo infantile che concentra la libido sul pene) mentre quella anglosassone a quella anale, ma è una lettura troppo semplicista: anche in italiano abbiamo molti riferimenti al deretano (faccia da culo) e agli escrementi (faccia di merda) nei nostri insulti. Forse, il contrasto fra pene-spregiativo e vulva-elogiativa è uno dei tanti sintomi del maschilismo della nostra cultura: i maschi disprezzano il proprio sesso, apprezzando quello opposto. C’è del vero, ma come spiegare, allora, gli spregiativi derivati dal sesso femminile?
E’ più probabile che questa opposizione nasca da un altro aspetto: mentre la vulva è nascosta e misteriosa, il pene è un organo evidente, appeso e penzolante, quindi in balìa dei movimenti del corpo: come tale si presta a diventare il simbolo di un essere passivo e inanimato.
In ogni caso, è impossibile generalizzare: in francese, per esempio, il termine che designa la vulva, con, è usato come insulto: equivale al nostro coglione. Lo stesso avviene anche in inglese, dove il termine twat (vulva) è un’offesa pesante che significa coglione, stronzo, pezzo di merda. I nomi del sesso, insomma, sono veri jolly linguistici che possono esprimere tutto e il contrario di tutto, come già raccontavo in questo post.

Ed è proprio questa ricchezza espressiva a rendere difficile studiare questi appellativi, e tradurli da una lingua a un’altra: che cosa vogliamo dire quando affermiamo che una persona è “un coglione“? E’ questa la prima difficoltà con cui ci si scontra se si vuole fare una mappa semantica degli insulti tratti dal lessico sessuale, traducendo le parolacce in termini neutri o almeno non volgari. Così facendo, ho potuto distinguere gli insulti genitali in due grandi famiglie: quelli contro l’intelligenza e quelli contro il comportamento. E mentre compilavo questo elenco (nel quale ho inserito, in blu, alcuni corrispettivi in inglese) mi sono venuti in mente diversi personaggi cinematografici che incarnassero quei difetti. Tipi umani presenti a ogni epoca e latitudine.

insultiGenitali1Gli insulti contro l’intelligenza si possono dividere in 2 sottocategorie: quelli che condannano l’incapacità di intendere, ovvero il ritardo mentale in varie forme; e quelli che puntano l’indice contro l’ottusità, l’ostinazione, ovvero la demenza e i deficit di attenzione. Mentre i primi sono difetti permanenti, i secondi possono essere transitori: perché si è presa una botta in testa, perché si è invecchiati, perché si è stanchi. Questi insulti, insomma, evidenziano – per contrasto – l‘importanza dell’intelligenza, della prontezza di riflessi, della capacità di discernere e agire di conseguenza.
Chi è privo di queste doti, è emarginato e disprezzato. Ma al tempo stesso fa ridere: se guardate i personaggi che incarnano questi difetti, sono tutti personaggi comici: da Checco Zalone a Mr Bean, fino al tontolone Leo, portato in scena da Carlo Verdone in “Un sacco bello”.

insultiGenitali2Discorso altrettanto interessante si può fare per gli insulti che stigmatizzano determinati comportamenti. Mettendoli tutti insieme, mi sono accorto che coincidono in modo impressionante con i disturbi di personalità, cioè le malattie mentali che compromettono l’equilibrio psicologico e relazionale di una persona. Sono tutte forme di disadattamento: chi ne è affetto risponde in modo inadeguato ai problemi della vita, compromettendo i rapporti con gli altri. Sono persone aggressive, false, esibizioniste, moleste, vittimiste, incapaci di empatia con gli altri, insensibili, cattive. E proprio per questo sono il bersaglio di molti e pesanti insulti, come potete vedere dal grafico qui a lato. Nei loro confronti, è difficile usare una chiave comica: soprattutto verso i sociopatici, che non a caso hanno ispirato schiere di “cattivi” nei film.

Dunque, riunendo tutti gli insulti derivati dai genitali, emerge un quadro sorprendente: additano le peggiori caratteristiche di una persona, che diventa così meritevole di disprezzo e di dileggio. Ma queste parolacce non sono soltanto offese. Indirettamente indicano (per contrasto) i valori più importanti che ognuno di noi dovrebbe perseguire se vuole ottenere la stima e la benevolenza altrui: l’intelligenza, l’acume, la ragionevolezza, l’altruismo, l’empatia, la dolcezza, il rispetto… Insomma, a ben guardare, gli insulti genitali non sono cazzate.

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Abbiamo diritto di insultare il presidente? https://www.parolacce.org/2014/11/09/vilipendio-sentenze-democrazia/ https://www.parolacce.org/2014/11/09/vilipendio-sentenze-democrazia/#comments Sun, 09 Nov 2014 13:40:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6687 Il telefono dell’avvocato Alessandro Micucci squilla in continuazione. Lo chiamano da tutta Italia perché è riuscito a far assolvere una donna di Rovigo che, su Facebook, aveva definito “testa di c***o” il presidente Giorgio Napolitano. L’avvocato è stato il primo, e… Continue Reading

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Foto(9)Il telefono dell’avvocato Alessandro Micucci squilla in continuazione. Lo chiamano da tutta Italia perché è riuscito a far assolvere una donna di Rovigo che, su Facebook, aveva definito “testa di c***o” il presidente Giorgio Napolitano. L’avvocato è stato il primo, e forse l’unico in Italia ad accorgersi che, secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo, abbiamo diritto di criticare, anche aspramente, i politici: tanto che i giudici di Strasburgo hanno assolto un francese che aveva dato del “coglione” (con, in francese) all’allora presidente Nicholas Sarkozy. Per i giudici europei, infatti, il vilipendio al Capo dello Stato è un reato che non ha ragion d’essere nelle democrazie moderne: occorre garantire l’uguaglianza e la libertà d’espressione dei cittadini, anche nei confronti della più alta carica dello Stato. E il Tribunale di Rovigo è d’accordo.

Di questo cambio di prospettiva, però, non sembrano essersi accorti i nostri politici. Proprio in questi giorni, infatti, alla commissione Giustizia del Senato si sta discutendo una proposta di legge per abolire il reato di vilipendio, ma questa non tiene conto né della sentenza europea, né di quella di Rovigo. Oltre che dai princìpi democratici, i senatori sono motivati dalla volontà di salvare alcuni colleghi politici che rischiano da 1 a 5 anni di carcere per aver offeso Napolitano: Umberto Bossi (Lega), Francesco Storace (La Destra) e Giorgio Sorial (M5S). Non a caso, la proposta in discussione al Senato è stata presentata dai senatori Lello Ciampolillo (M5S) e Maurizio Gasparri (Forza Italia): destra e M5S spingono per l’abolizione del reato di vilipendio, mentre il Pd pare più intenzionato a mitigarne le pene. La proposta, però, è bloccata in attesa del parere della Commissione affari costituzionali; nel frattempo, il 21 novembre Storace è stato condannato  a 6 mesi di reclusione (pena sospesa).
Ma perché una sentenza che potrebbe “fare giurisprudenza” è passata inosservata sui grandi giornali italiani? Forse perché è stata emessa da un Tribunale di provincia? La notizia circola per lo più nei blog e su Facebook, come se fosse una leggenda metropolitana o un caso bizzarro. Ho indagato e posso dire che non lo è: anzi, solleva riflessioni di grande attualità.

Ma prima di parlare della storica assoluzione del Tribunale di Rovigo, bisogna ricordare in che consiste il reato di vilipendio, descritto dall’articolo 278 del Codice Penale: “Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”. Sembra una norma semplice, ma in realtà – come spiega il Trattato di diritto penale (vol. I, delitti contro la personalità dello Stato, Utet) ha una potenza pervasiva senza limiti: è vietato insultare il Capo dello Stato come persona, ma anche come per i suoi atti politici. Non lo si può offendere neppure per quello che ha fatto prima che diventasse presidente. E non si possono neppure distruggere o rovinare le foto o le statue che lo ritraggano, o disegnare vignette offensive. Lo si può criticare per il suo operato, ma solo se non si usano espressioni ingiuriose, che minino il suo prestigio, lo mettano in ridicolo o lo facciano apparire inidoneo a rivestire la carica. Insomma, il presidente della Repubblica è di fatto intoccabile da ogni punto di vista. Perché?

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Dopo essere stata denunciata per vilipendio, la comica Sabina Guzzanti ha intitolato così il suo tour del 2009.

Beppe Grillo – dopo che 22 simpatizzanti del suo movimento sono finiti indagati per vilipendio – ha scritto tempo fa che questo reato è un retaggio del fascismo: in effetti, come raccontavo qui, circa 5mila italiani furono denunciati per il semplice fatto di aver imprecato o fatto battute contro Mussolini. Le dittature mal sopportano di essere messe in discussione e tanto meno in ridicolo.
Ma in realtà le radici del vilipendio sono molto più antiche: il Codice Toscano del 1853, rimasto in vigore anche dopo l’Unità d’Italia, all’art. 109 prevedeva che “chiunque fa offesa alla riverenza dovuta al Granduca, è punito con la carcere”. E ancora più esplicito l’art. 471 del Codice sardo-italiano del 1859 (che 30 anni dopo fu inglobato nel Codice penale italiano): ogni pubblico discorso che ecciti lo sprezzo e il malcontento contro la Sacra Persona del Re sarà punito col carcere. Qui sta il punto: il vilipendio non è altro che il delitto di lesa maestà applicato però al presidente della Repubblica.
E anche al papa, se le offese a lui dirette si consumano sul suolo italiano e davanti al pubblico, come ha scoperto a proprie spese Sabina Guzzanti. Che finì indagata per vilipendio al papa quando nel 2008, contestando le ingerenze politiche del Vaticano, disse che “fra 20 anni Ratzinger sarà morto e starà dove deve stare: all’inferno, tormentato da  diavoloni frocioni attivissimi”. Non se ne fece nulla perché l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, decise di non procedere contro di lei. L’apertura di un processo per vilipendio, infatti, deve essere autorizzata dal ministro della Giustizia, anzi: è più appropriato chiamarlo Guardasigilli, visto che parliamo di lesa maestà. Nel corso del 2013, il ministero ha esaminato 18 casi di vilipendio.

Ma qui iniziano i problemi: l’intoccabilità del presidente come si concilia con i princìpi democratici dell’uguaglianza e della libertà d’espressione? Se siamo tutti uguali e liberi di esprimerci, perché se critico il presidente io rischio la galera e se lo fa lui no?
La norma sembra contrastare con le garanzie democratiche della Costituzione: eppure la Corte Costituzionale – che si è già pronunciata in merito – l’ha difesa più volte. Nel 1969 e nel 1978 la Corte ha stabilito che il vilipendio non contraddice l’uguaglianza dei cittadini. Il presidente della Repubblica, ha stabilito la Corte, gode di tutele speciali non perché la sua persona abbia un valore superiore a quello degli altri, bensì perché egli incarna l’istituzione repubblicana: un bene di “eccezionale rilevanza” che va difeso sopra ogni cosa. Dunque, il nostro ordinamento, pur di difendere se stesso, accetta che l’onore non sia uguale per tutti: chi rappresenta lo Stato vale di più. Tant’è vero che chi offende il presidente (o anche un pubblico ufficiale, vedi il reato di oltraggio) è punito più severamente rispetto a chi offende un “semplice” cittadino.
Nel 1996, poi, la Corte ha stabilito anche che le pene previste per il reato di vilipendio non sono eccessive: anzi, sono giustificate perché “scolpiscono (…) il particolare disvalore che assume per l’intera collettività l’offesa all’onore e al prestigio della più alta magistratura dello Stato”.
Infine, nel 2004, la Corte di Cassazione ha pure aggiunto che la difesa della figura del presidente da qualunque forma di critica che lo possa far apparire inadatto a rivestire la carica, si giustifica non solo come principio astratto, ma anche per garantire il sereno svolgimento delle funzioni presidenziali.

Ma è proprio questo il punto che è stato scardinato dalle leggi europee. In particolare dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu): “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Un principio non nuovo: la Convenzione risale al 1950 ed è stata accolta dall’Italia nel 1955. E allora perché proprio oggi rischia di scardinare il reato di vilipendio?

Perché l’anno scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha assolto, in base a questa legge, un attivista francese, Hervé Eon: nel 2008, in occasione di una visita del presidente Nicholas Sarkozy a Laval, Eon aveva brandito un cartello con la scritta “Casse toi pov’con”, ovvero: “Sparisci, povero coglione”. Eon aveva utilizzato una frase detta dallo stesso Sarkozy, in quello stesso anno, a un agricoltore. Questi aveva rifiutato la stretta di mano di Sarkozy (“Non mi toccare, mi sporchi”) e il presidente aveva replicato: “Eh bien casse-toi alors, pauv’con” (Ah beh, allora sparisci, povero coglione).

La reazione di Sarkozy aveva suscitato grandissima indignazione in Francia: il presidente era stato contestato non solo per l’aggressione a un comune cittadino, ma anche per la sua incapacità di mantenere, persino nelle occasioni ufficiali, un contegno idoneo alla sua carica. Tanto che molti avevano riutilizzato quella frase contro lo stesso Sarkozy. Un caso clamoroso. Eppure, proprio per quella frase il signor Eon era stato denunciato e poi condannato in due gradi di giudizio, seppure alla mite pena di 30 euro di ammenda. Così si è rivolto alla Corte europea per i diritti dell’uomo.
La Corte lo ha assolto, considerando quell’insulto come una critica politica fatta con il linguaggio della satira. Secondo la Corte, anche i termini forti devono essere tollerati dai politici: quando si entra in politica, ci si espone inevitabilmente e consapevolmente a un attento controllo del proprio operato dai parte dei cittadini. Dunque, il diritto di criticare un politico prevale sulla difesa della sua onorabilità, perché altrimenti si limiterebbe la libertà di critica dei cittadini, ovvero la stessa democrazia.

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L’articolo uscito su “La voce di Rovigo” a firma di Ketty Areddia.

Questi princìpi sono applicabili in Italia? Sì, secondo il giudice Pietro Mondaini di Rovigo, autore della sentenza di assoluzione che parolacce.org pubblica in esclusiva qui: Sentenza 157 2014 TRIBUNALE DI ROVIGO
Vediamo perché. Il caso risale al 2012: Napolitano, durante un incontro con gli amministratori pubblici di Bologna, aveva esortato tutti al sacrificio per uscire dalla crisi economica. La donna di Rovigo, su Facebook, aveva commentato: “noi i sacrifici li stiamo già facendo perché non abbiamo scelta, capito testa di c***o?”.
“Era lo sfogo di una donna disperata: disoccupata e in stato di gravidanza” racconta il suo difensore, l’avvocato Micucci. “Anche se dopo aveva inviato una lettera di scuse a Napolitano (lettera rimasta peraltro senza risposta), il pm aveva chiesto per lei la pena di 10 mesi di reclusione. Uno sproposito”.
Il giudice, alla luce della sentenza della Corte europea, ha assolto la donna, affermando la necessità di distinguere le critiche gratuitamente offensive, immotivate o eversive, dalle critiche – anche aspre – di natura politica: “La possibilità di esprimere il proprio pensiero politico” scrive il giudice “non è solo un diritto ma anche l’essenza stessa di uno Stato che, in difetto, non può dirsi democratico”.

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Una vignetta di “Libero” (2011) denunciata per vilipendio: ritrae anche Napolitano.

Bisogna aggiungere però, come nota acutamente la penalista Irene Gittardi, alcune grosse differenze fra le legge anti vilipendio francese e quella italiana: in Francia si puniscono solo le offese scritte o dette a voce, mentre in Italia si puniscono le offese in qualunque forma (anche gesti, pernacchie, manomissioni di foto, vignette satiriche); in Francia si puniscono solo le offese dette in pubblico, mentre in Italia questo aspetto è irrilevante; infine, in Francia la pena prevista è solo pecuniaria (ammenda fino a 45mila euro), mentre in Italia è solo detentiva. Ma, quel che più conta, in Francia il presidente della Repubblica è anche il capo del governo: fermare le critiche nei suoi confronti significherebbe limitare il dibattito politico. In Italia, invece, il presidente ha un ruolo soprattutto simbolico: è il capo dello Stato, rappresenta l’unità nazionale ed ha alcuni poteri di indirizzo politico.
Ecco perché, in Italia, il contrasto fra vilipendio e libertà di espressione può essere risolto solo riformando il Codice penale, come lo stesso Napolitano ha auspicato già nel 2013, non nascondendo, però, le sue preoccupazioni per i possibili abusi: la libertà di critica, ha detto, non deve prevedere “grossolane, ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni”. Un equilibrio difficile: che cosa accadrebbe se tutti fossero liberi di insultare il presidente? Calunnie, ingiurie e diffamazioni sono punite da diverse leggi, ma la carica più alta dello Stato ha bisogno di un rispetto e di tutele maggiori? D’altra parte, se un presidente – parlo in astratto – si comportasse in modo scorretto, come lo si potrebbe criticare senza il timore di cadere nel reato di vilipendio?

Probabilmente, la soluzione che si adotterà in Italia sarà sul versante delle pene: non più il carcere, ma pene pecuniarie. Vedremo come andrà a finire: nel frattempo, qui sotto ho riassunto i casi di vilipendio che hanno innescato il dibattito al Senato. A voi giudicare se se i 3 imputati “eccellenti” meritino una condanna o no:

Protagonista

Frase incriminata

Umberto Bossi. L’episodio risale al 2011. E’ stato condannato a un anno e 15 giorni di reclusione in Cassazione (12 settembre 2018) Durante un raduno della Lega ad Albino, Bossi disse: “Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica [ fa il gesto delle corna ]. D’altra parte, nomen omen, Uno che si chiama Napolitano, Napolitano … non sapevo che l’era un terùn…”. Fonte e video qui
Francesco Storace. L’episodio risale al 2007. Storace è stato condannato a 6 mesi (pena sospesa). Napolitano aveva definito “indegno” chi attaccava i senatori a vita, e in particolare Rita Levi Montalcini. Allora Storace scrisse «non so se devo temere l’arrivo dei corazzieri a  difesa di villa Arzilla, ma una cosa è certa; Giorgio Napolitano non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare, per evidente faziosità istituzionale, è indegno di una carica usurpata a maggioranza». La fonte qui
Giorgio Sorial. L’episodio risale al 2014. E’ stato rinviato a giudizio nel 2016, si ignora l’esito L’esponente grillino ha accusato il presidente di non garantire le opposizioni nelle discussioni delle leggi: “il termine ‘tagliola’ riporta in mente che ci sia una violenza verso le opposizioni. Il boia Napolitano sta avallando una serie di azioni contro le opposizioni per cucire loro le bocche, anzi per tagliarci quasi la testa ed evitare che possiamo riportare i lavori di queste aule per il bene dei cittadini”. Fonte e video qui. Sorial risulta rinviato a giudizio nel 2016 (fonte qui), e non si conosce l’esito del procedimento.
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La patata e la patacca: parolacce da Nobel https://www.parolacce.org/2010/12/17/dario-fo-parolacce-sacro/ https://www.parolacce.org/2010/12/17/dario-fo-parolacce-sacro/#comments Fri, 17 Dec 2010 14:51:00 +0000 http://www.parolacce.org/?p=7 Quando si parla di sesso, non esistono termini “neutri”. Le parole del sesso possono essere eccitanti, ributtanti, oscene, provocatorie e offensive…. Ma perché in alcuni paesi i genitali maschili sono sinonimo di disprezzo (pirla, cazzone…), mentre in altri lo sono… Continue Reading

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Dario Fo e la copertina del suo ultimo libro.

Dario Fo e la copertina del suo libro sulle parolacce.

Quando si parla di sesso, non esistono termini “neutri”. Le parole del sesso possono essere eccitanti, ributtanti, oscene, provocatorie e offensive….
Ma perché in alcuni paesi i genitali maschili sono sinonimo di disprezzo (pirla, cazzone…), mentre in altri lo sono quelli femminili (fregnaccia, zoccola)?
Un libro appena uscito lancia un’ipotesi suggestiva: la carica di disprezzo che si attribuisce ai genitali maschili o femminili dipende dal valore che si attribuisce all’uomo o alla donna. Che, a sua volta, dipende da una visione religiosa: il tipo di fede e di divinità che si hanno, influenza il valore che si attribuisce all’essere uomo e donna. Dunque, l’osceno è sacro.

È proprio questo il titolo del nuovo libro di Dario Fo, edito da Guanda. Un libro rivoluzionario anche per un altro motivo: è il primo studio di un premio Nobel sulle parolacce (l’avevo anticipato su questo blog). Il libro di Fo è inconsueto: non è un romanzo, ma neppure un saggio (non c’è bibliografia). E’, piuttosto, un canovaccio di riflessioni e racconti per uno  spettacolo teatrale. E in quest’ottica si spiegano i 133 disegni che Fo ha inserito nel libro: saranno parte integrante della coreografia.

La tesi di Fo parte da un’osservazione: “i latini, per indicare una persona sciocca e di poco senno, la insultavano definendola cunia, cioè il sesso femminile, ritenuto evidentemente un organo privo di valori, bellezza e armonia. Cunia significava matrice, cioè parte del congegno per mezzo del quale si stampavano le monete. Ancora oggi i francesi e gli spagnoli sembrano dello stesso avviso, giacché l’insulto a uno sciocco continua a essere in Francia, con o tête de con, e, in Spagna, coño.

Il sesso femminile associato a un concetto positivo... per goliardia.

Il sesso femminile associato a un concetto positivo… per goliardia.

Fo si spinge più avanti nella storia. Notando che i napoletani sfottono usando come lessico il sesso femminile (fesso deriva da fessa, fessura, cioè vulva). E l’allusione al sesso femminile diventa greve, profondamente offensiva a Roma con i termini fregna (= spaccatura), sorca (= ratto), zoccola (= ratto). “Tanta trivialità di termini si produce nel caposaldo clericale d’Europa e del mondo, dove, è ben risaputo, la misoginia è addirittura proverbiale”.

Diverso il discorso nel nord Italia: il termine fica è associato – oltre all’organo sessuale femminile – a Venere, dea dell’amore, per cui chi è privo della sua protezione è detto, appunto, sfigato (anche oggi in portoghese, per tradurre fortuna si usa il termine figa con i derivati enfigao, enfigu, figant…).

“Ma come mai” si chiede Fo “in queste regioni è un dato costante l’atteggiamento quasi sacrale verso il sesso della femmina? E perché al contrario il ruolo di imbecille di basso spirito viene immancabilmente imposto al sesso maschile, cosicché pirla (= trottola), bigolo (= vermicello), piciu (= piccolo), etc diventano sinonimi di tonto, ottuso, scervellato, eccetera?”.

La Venere di Willendorf, divinità femminile paleolitica.

La Venere di Willendorf, divinità femminile paleolitica.

Ecco la grande intuizione di Fo: “Nel nord e nel centro Italia, prima che arrivassero i Romani, le primordiali divinità celtico-insubri erano quasi esclusivamente di sesso femminile”. Basti ricordare Cerere, dea madre presso i Romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca (come la Sicilia). Dunque, nel Medioevo, Umbria, Romagna, Toscana e Marche esprimevano nel linguaggio una forma di alto rispetto per il mondo femminile.
Fino alla metà del Trecento, quando lo Stato della Chiesa apostolica romana, con i propri eserciti e i propri amministratori clericali, conquistò e governò in modo dispotico quei territori (Abruzzo, Marche, parte dell’Umbria, Romagna fino a Bologna) assoggettandole per ben 5 secoli.
Risultato? “Le laudi si sono trasformate in lazzi di disprezzo verso la donna e il suo sesso”.

Una "pataca" di Macao: designava una moneta usata dai portoghesi nelle colonie.

Una “pataca” di Macao: designava una moneta usata dai portoghesi nelle colonie.

Un esempio lampante è offerto dal termine “patacca” per indicare il sesso femminile: la “patacca” era una grossa moneta di basso valore, messa in circolazione dagli spagnoli nel 1500. Aggiunge Fo: “Le uniche zone non invase dalla tirannia del regno papalino furono la repubblica veneta, la signoria genovese, Lombardia e Piemonte, e parte dell’Emilia: terre, queste ultime, dove si è continuato a impiegare epiteti offensivi ricavati dal sesso maschile”. Ecco perché, in queste terre, non è mai venuto meno il rispetto anche lessicale verso il sesso femminile, indicato con termini delicati e poetici come parpaja (= farfalla), broegna (= prugna), mügnaga (albicocca), persega (= pesca).

Il cuore del pensiero di Fo è questo. Il resto del libro è un’accattivante raccolta di testi letterari, noti e meno noti, fra cui spicca un divertente fabliau (un racconto francese) medievale, sulla “parpaja topola“: la storia di una giovane sposa, Alessia, che fa credere al novello marito, un candido coglioncione, di possedere una parpàja dotata di completa autonomia: e così, pur di non affrontare con lui la prima notte di nozze, lo sguinzaglia alla ricerca della sua parpaja, dicendo di averla dimenticata a casa… Con notevoli effetti comici.

La cupola di San Pietro: la forma ricorda il seno (come il campanile il fallo), antichi simboli sessuali usati nei riti.

La cupola di San Pietro: la forma ricorda il seno (come il campanile il fallo), antichi simboli sessuali usati nei riti.

Anche se non cita prove documentali a supporto, l’intuizione di Fo è geniale, inedita e difficilmente contestabile storicamente. Perché mette a nudo il legame, come scrive anche il mio libro, fra osceno e sacro: se la parolaccia è una parola tabù, vietata, probabilmente le prime parole tabù sono state quelle religiose. Il comandamento “non nominare il nome di Dio invano” è applicabile a tutte le parolacce, che parlino di sesso, escrementi, malattie e quant’altro. Del resto, come intuisce Fo alla fine del suo libro, tutte le parole vietate parlano dello stesso argomento: la morte, e la paura della morte.

Era destino, insomma, che proprio il re della commedia dell’arte riflettesse sulle parolacce. Dandoci un’altra perla: la stessa parola “giullare” deriva da ciollo e ciullo, che “tanto in lombardo antico quanto in siciliano identifica il sesso maschile (ciullare indica l’atto sessuale con il conseguente sfottere e sfottere)”. Dunque, il re della risata liberatoria, colui che sveglia le coscienze anche facendo uso di lazzi osceni, il comico, è la personificazione del sesso: diffonde una fecondatrice e gioiosa energia vitale.

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