Dante ha inserito espressioni scurrili nella “Divina commedia” (montaggio su ritratto di Botticelli, 1495).
Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto che nel corso dei secoli – e persino quest’anno – la sua opera è stata pesantemente criticata, da Petrarca in poi, e più volte censurata. Reazioni spropositate, da parte di chi non ha capito la sua arte: la “Divina commedia” è un poema universale, che ritrae tutte le sfumature dell’animo umano. Perciò ha mescolato volutamente diversi registri linguistici – aulici e grotteschi, intellettuali e popolareschi, celestiali e terreni. Ha saputo, insomma, mescolare “alto” e “basso” come solo i grandi poeti sanno fare. Un altro esempio di questo livello è William Shakespeare.
Le parolacce, in particolare, sono servite a Dante per descrivere le peggiori bassezze dell’animo umano, a creare effetti comici e anche a dar voce alle sue passioni religiose, politiche e morali esprimendo la sua profonda indignazione. Dante modellava la lingua a seconda dei personaggi e delle situazioni che voleva descrivere.
Nel 700° anniversario della sua morte, ho deciso quindi di approfondire il turpiloquio di Dante, che probabilmente a scuola non vi hanno raccontato. In questo articolo troverete tutte le strofe (e relative spiegazioni) che contengono parole volgari, così potrete capire le precise ragioni artistiche che lo hanno indotto a usarle: Alighieri infatti ha sempre scelto con grande cura il lessico nel suo poema.
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Dante e Virgilio guardano gli adulatori (Gustave Dore, 1885).
Dante usò la lingua del popolo, il “volgare”, ponendo le radici del lessico italiano. La sua lingua è una tavolozza espressiva multiforme, che va dai termini più bassamente popolari a quelli aulici. Dante, insomma, non si fa problemi a introdurre anche i registri bassi se sono funzionali alle sue esigenze narrative.
Ma c’è un’altra radice, giustamente sottolineata dal filologo Federico Sanguineti: la Bibbia. In molti passi dell’Antico Testamento, ma anche nell’Apocalisse, infatti, i profeti non esitano a citare gli escrementi e le prostitute per esprimere la loro riprovazione nei confronti degli empi, siano essi singole persone o interi popoli. Trovate esempi in abbondanza nel mio libro, che potrà farvi compagnia quest’estate.
Non è un caso che le parolacce più usate da Dante siano proprio “puttana” e “merda”: esprimono entrambe il disprezzo verso la dissolutezza morale, il disgusto per chi ha una condotta empia, la condanna verso persone che hanno piegato la propria anima al male.
Com’era prevedibile, nessuna delle espressioni scurrili trova posto nel Paradiso, dove avrebbero contaminato i temi e gli ambienti più elevati. La maggior parte (7) sono nell’Inferno, le altre 4 nel Purgatorio. Il canto con la maggior presenza di parolacce è il 18° dell’Inferno dedicato a ruffiani e seduttori: persone che, evidentemente, suscitavano la maggiore ira in Dante. Per uno abituato a cantarle chiare – come si vede nella “Divina commedia” – è più che comprensibile.
Andrea di Buonaiuto, discesa al Limbo nel cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1365).
In tutto il poema Dante usa 11 volte 6 diverse espressioni scurrili: puttana, bordello, merda, culo, fiche, poppe. Pochissime: dato che la Divina Commedia ha in tutto 101.698 parole, il turpiloquio rappresenta lo 0,01%: un’esigua minoranza, circa un ventesimo di quante ne diciamo oggi nel parlato quotidiano (vedi le statistiche che ho ricavato qui). Eppure sono significative: hanno attirato l’attenzione degli intellettuali dell’epoca e per molti secoli a venire.
Già Petrarca, intellettuale d’élite, precisava di non provare invidia per Dante che era apprezzato da “tintori, bettolai e lanaioli”, cioè la plebe. E un altro umanista dell’epoca, Niccolò Niccoli, sosteneva addirittura che Dante andrebbe allontanato dal circolo esclusivo degli umanisti “per esser consegnato a farsettai, panettieri e simili essendosi egli stesso espresso in modo tale da sembrare voler stare a proprio agio solo con un pubblico di bassa estrazione sociale e culturale”. Insomma, la scelta di inserire termini popolari e volgari è stata un atto di coraggio in un’epoca in cui la cultura era un fatto elitario, snob, aristocratico.
Non stupisce, quindi, che quelle 11 parolacce sono state spesso censurate dai copisti che trascrivevano l’opera. Il filologo Federico Sanguineti ricorda che già nel 1300 Francesco di ser Nardo da Barberino sostituì “merda” con «feccia» (Inferno, 18°); nel codice Barberiniano latino 3975 sono anneriti gli endecasillabi in cui è denunciato il «puttaneggiar» della Chiesa (Inferno 19°). Il codice Canoniciano 115 nella bestemmia di Vanni Fucci (Inferno 25°) la parola «Dio» è sostituita da puntini sospensivi. E la censura prosegue anche oggi: quest’anno una casa editrice, Blossom Books, ha pubblicato una versione olandese della “Divina commedia” per ragazzi in cui è stato cancellato Maometto, per evitare che l’episodio risultasse «inutilmente offensivo per un pubblico di lettori che è una parte così ampia della società olandese e fiamminga». Ricordiamo infatti che Maometto è trattato come uno scismatico che ha diviso al suo interno il cristianesimo, e soprattutto è raffigurato con orrende e grottesche mutilazioni.
The post Le parolacce di Dante, spiegate bene first appeared on Parolacce.]]>Non era un episodio isolato. Morandi – seguito su Facebook da oltre 1,7 milioni di fan – ha un modo inusuale di reagire agli insulti, tanto da avere ispirato schiere di seguaci, come il sito umoristico “Rispondere agli insulti come farebbe Gianni Morandi“. Un esempio (positivo) da imitare, insomma.
Infatti, a ben guardare, quella di Morandi è ben più di una semplice “buona educazione” per gli utenti dei social network: è uno stile di comportamento, che si manifesta non solo sul Web ma anche nella vita reale.
Ma qual è il suo segreto, la ricetta, la formula ideale per reagire agli insulti? Studiando le risposte di Morandi, possiamo identificare 3 regole pratiche per difenderci da chi ci offende. Scoprendo che, in realtà, la ricetta di Morandi non è affatto “nuova”. Anzi…
1) Non offendersi: badare al contenuto, più che alla forma. Come fa una parolaccia a offendere? E’ soltanto una parola: riesce a far presa sulla nostra autostima solo se le attribuiamo un significato, un potere. Dunque, a differenza di uno schiaffo (ben più difficile da ignorare) una parolaccia ha potere solo se glielo attribuiamo: se la ignoriamo, perde ogni valore. “Raglio d’asino non arriva in cielo”, dice infatti il proverbio. Per far questo, occorre una grande dose non solo di autocontrollo, ma soprattutto di sicurezza e di solidità interiore.
E’ anche vero, però, che ignorare del tutto una persona è una mancanza di rispetto, come raccontavo in questo post sui gesti insultanti. Perciò, a volte, la miglior risposta è esaminare che cosa dice chi ti attacca: spesso, guardandolo con distacco, si scoprono appigli per ribaltare l’insulto su chi lo ha lanciato. Insomma, si può sfruttare la forza dell’avversario per ritorcerla contro di lui, come nel judo.
Avevo già raccontato in quest’altro post, infatti, perché gli insulti garbati risultano spesso più efficaci di quelli volgari.
Facciamo un esempio concreto. Lo scorso maggio, Morandi aveva pubblicato una propria foto su una spiaggia romagnola. Un lettore gli ha scritto questo commento offensivo: “Ciao Gianni, stai attento alle minchie di mare, possono essere molto pericolose soprattutto se ti attaccano da dietro”. Ed ecco la risposta di Morandi: “Grazie di avermi avvertito, non ne conoscevo l’esistenza. Tu quante volte sei stato attaccato? Un abbraccio”. Pungente, ma con eleganza.
2) Usare l’autoironia: a volte un insulto può essere un modo, per quanto offensivo, di dire una verità. In tal caso, il trucco è accettarla senza farne un dramma. Così, una debolezza ammessa (innanzitutto a se stessi) può diventare un punto di forza: solo chi crede di non aver difetti è pronto a puntare l’indice su quelli degli altri. Chi invece conosce ed accetta i propri limiti, è più tollerante verso quelli altrui. Come dice il Vangelo: non giudicate. “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello” (Luca, 6, 37-42).
Per esempio, molti fan prendono in giro Morandi per le sue mani enormi. Un atteggiamento infantile, a cui il cantante risponde prendendosi in giro per primo: “Ciao Gianni…. un giorno Apple farà un iPhone8 plus per le tue enormi mani”, gli scrive un fan. E lui: “Caro Raffaele, ci vorrebbe almeno il 12 per cominciare a ragionare”. Se un insulto è tale perché mira ad abbassare l’autostima di chi lo riceve, mostrare che la propria autostima non è stata intaccata da un’offesa significa neutralizzare, spuntare le armi di chi ci aggredisce.
3) Restare gentili e affettuosi: questa reazione spiazza i provocatori, che traggono dalla rabbia dei destinatari la benzina di altro rancore. La gentilezza, invece, fa risaltare ancora di più la meschinità di chi attacca per primo, di chi usa un linguaggio offensivo: perché l’insulto squalifica innanzitutto chi lo dice. In questo, Morandi si comporta come un padre affettuoso, con l’effetto di trasformare i suoi denigratori in bambini immaturi e scomposti: all’Io-bambino dei bulli, Morandi contrappone un Io-genitore accogliente (i termini sono tratti dall’analisi transazionale, che inquadra la comunicazione fra persone nelle dinamiche fra un Io-genitore, un Io-adulto o un Io-bambino).
Per esempio dopo aver postato la foto di un piatto di fave, piselli, moscardini e pomodoro, un lettore gli ha scritto provocatoriamente: “Gianni, sempre con le mani tra i piselli stai”. Morandi gli ha risposto: “Caro Oscar, se vuoi puoi venire a darmi una mano tu. Un saluto affettuoso”.
Come Morandi ha spiegato in un’intervista, anche davanti agli attacchi più pesanti lui non dimentica mai la compassione. «Mai rispondere male a chi ti aggredisce, critica o insulta. Quando uno entra cattivo, io lo accarezzo e gli scrivo: “Ma no, come mai? Io non volevo offenderti. Scusa se ti ho disturbato. Se proprio ti do fastidio con un clic puoi cancellarmi”. Qualcuno va via. Poi però vedo che tornano. E non mi insultano più». In altre parole: “don’t feed the trolls”, non gettare benzina sul fuoco. Lascia che ti critichino e passa oltre: come diceva Dante: “Non ragioniam di loro, ma guarda e passa”. Un modo zen di rimanere imperturbabili.
Anche in questo, Morandi segue un ammonimento del Vangelo: “non è ciò che entra in bocca a contaminare l’uomo, ma ciò che vi esce” (Matteo, 15, 17-20). Oppure: “Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono” (Luca, 6, 27-35).
Per Morandi, al di là della fede religiosa, è soprattutto un dono, una questione di carattere, come racconta sua moglie Anna: “Lui non vuole dire cose negative, non perché abbia elaborato una teoria, ma perché non le dice proprio a nessuno”.
Ma allora Morandi si nasce o si diventa? Alcune settimane fa, il calciatore dell’Inter Andrea Ranocchia, dopo alcune partite non esaltanti, ha deciso di seguire lo stile-Morandi su Facebook, finora con ottimi risultati. Per esempio, a chi gli diceva “Con Miranda e Murillo vedrai tanta, tanta panchina”, il calciatore ha risposto: “L’importante è che sia riscaldata! Un abbraccio”.
Se ce l’ha fatta lui, forse possiamo riuscirci anche noi. Certo, mantenere la lucidità via Internet è molto più facile che di persona: basta trattenere l’impulso di reagire, di rispondere a tono e il gioco è fatto. Ma nella vita reale? Beh, è più dura: è proprio qui che si vede chi è davvero “zen” e chi, invece, si atteggia soltanto.
Franco Battiato.
E’ giusto che Franco Battiato sia stato silurato dalla carica di assessore alla Cultura della Regione Sicilia per aver detto: “Ci sono troie in giro in Parlamento che farebbero di tutto, dovrebbero aprire un casino”?
A dispetto delle apparenze: no. La sua uscita – indubbiamente inelegante – non meritava di pagare un prezzo così alto. E l’ha pagato non per l’insulto pronunciato (come vedremo, ha solo ricordato un fatto noto del passato), non perché abbia offeso un’istituzione (semmai, alcune persone di quell’istituzione) ma perché quella frase è il frutto di un equivoco strumentale.
E’ questa l’unica interpretazione che riesco a dare ai fatti. Prima di spiegare il perché, riavvolgiamo il nastro, per chi li avesse persi. Il cantautore, nelle vesti di assessore alla Cultura della Regione Sicilia, era a Bruxelles per chiedere fondi al Parlamento europeo. Parlando a braccio durante una conferenza, ha ricordato sua zia sarta che aveva 15 collaboratrici ragazzine, che “quando passava un uomo era finito, vedevano tutti i difetti immediatamente… Uno si rallegra quando un essere non è così servo dei padroni, mentre farebbero qualunque cosa queste troie qui che si trovano in giro nel Parlamento. E’ inaccettabile. Dovrebbero aprire un casino e farlo pubblico”.
Per giudicare la sua sortita, è utile ascoltare il suo intervento integrale qui. Una frase forte, ma espressa con pacatezza e in un clima colloquiale. L’insulto – rilanciato dai media ed estrapolato dal contesto, peraltro non chiarissimo – ha innescato una levata di scudi senza precedenti, da destra e da sinistra.
Per due motivi: la frase è stata considerata un oltraggio all’istituzione Parlamento in quanto tale, con l’aggravante di un insulto sessista contro le donne. Sul primo punto, l’accusa è infondata: Battiato si riferiva a persone (e non all’istituzione) non ha generalizzato (“ci sono troie”). Ma anche la seconda accusa è inconsistente: a parte il fatto che tutti gli insulti sono “politicamente scorretti” (lo sono intrinsecamente, altrimenti non sarebbero insulti), come avrebbe dovuto definire Battiato i casi, che tutti conosciamo, di alcune parlamentari che si sono vendute (fisicamente o moralmente) al politico di turno, ricevendo in cambio cariche o prebende?
L’espressione comunque non era rivolta verso le donne in quanto tali, ma in generale contro chi si vende, contro chi tradisce l’etica politica per denaro. Come ha poi precisato lo stesso cantautore: “Prendo atto con dispiacere che il senso della mia frase, che ovviamente si riferiva a passate esperienze politiche caratterizzate da una logica da mercimonio offensiva della dignità delle donne, sia stato travisato e interpretato come una offesa al Parlamento attuale, per il quale ho stima, o per le donne, o addirittura riferibile al parlamento europeo. Era evidente che il riferimento era a passate stagioni parlamentari che ogni italiano di buon senso vuole dimenticare. Stagioni caratterizzate dal malaffare politico, dal disprezzo per le donne e per il bene pubblico. Dispiace, altresì, prendere atto che dopo un’ora e mezza di conferenza in cui abbiamo raccontato quello che stiamo facendo per ridare dignità e speranza alla Sicilia, sia passata una singola frase che ovviamente non poteva essere riferibile all’attualità”.
Per chi conosce Battiato (che ha chiarito il suo pensiero in un’intervista che trovate qui), non è una sorpresa: già nel 1991 cantava in “Povera patria”:
Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere / di gente infame, che non sa cos’è il pudore, / si credono potenti e gli va bene quello che fanno; / e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
In questa canzone, ma anche nell’intervento a Bruxelles, si riconoscono i caratteri tipici dell’invettiva, un genere letterario che esprime l’indignazione, la rabbia per un amore o un ideale tradito. Persino Dante Alighieri aveva definito l’Italia una puttana! Ricordate il VI canto del Purgatorio? “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”.
Ma allora perché tanto clamore, tanto che nel giro di 24 ore il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta ha silurato Battiato? Politici con ruoli superiori – esempio a caso: Umberto Bossi – hanno fatto sparate ben più pesanti contro le istituzioni, e sono rimasti al loro posto. E volendo cavalcare l’accusa di sessismo, ben più imbarazzante è stato il siparietto di Berlusconi alla Green Power di un mese fa:
http://www.youtube.com/watch?v=dG7JSR8-hjI
Perché, allora, Battiato ha pagato cara la sua sparata? Perché da una frase equivocabile è nato un caso strumentale. Lo scandalo non era solo nella frase: era nel fatto che l’avesse detta un artista-intellettuale. E allora quella banale constatazione non era più catalogabile come una sparata da comizio o da osteria: era diventata una verità autorevole. Un giudizio di peso. Per questo è stato considerato pericoloso (da destra e da sinistra) e quindi punito. Del resto, l’Italia è un Paese senza memoria. E i politici – già in difficoltà su tutti i fronti – non hanno tollerato che un autorevole artista rinfrescasse certi ricordi. Perché loro sono diversi. Loro, quelle cose, no.
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