diritto | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 07 Feb 2020 10:57:12 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png diritto | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Si possono dire parolacce al lavoro? https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/ https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/#respond Sun, 02 Feb 2020 20:12:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=16745 C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina… Continue Reading

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Le volgarità possono costare il posto, ma non tutte (montaggio foto Shutterstock).

C’è l’avvocato che definisce “pazzo” il suo capo: i giudici l’hanno assolto. E c’è l’insegnante che dà della “ignorante” a una collega: condannato. E poi c’è Robert De Niro, accusato dall’ex segretaria Chase Graham Robinson d’averla chiamata “troia” e “bambina viziata”: lei l’ha portato in tribunale chiedendogli un risarcimento di 12 milioni di dollari. Come andrà a finire?
Difficile dirlo. Le sentenze sulle offese pronunciate negli ambienti di lavoro sono molto diverse fra loro. Chi finisce sotto processo può aspettarsi di tutto: di essere multato, licenziato o dichiarato innocente
In Italia è rimasto scottato Gian Luca Rana, il figlio del re dei tortellini. E, negli Stati Uniti, il fondatore di Apple Steve Jobs e il padre del sistema operativo Linux, Linus Torvalds: qui sotto vi racconterò le loro storie.

Quando vengono insultati, i capi licenziano: ma spesso è un provvedimento eccessivo (Shutterstock)

Ma allora come dobbiamo regolarci? Si possono usare o no le parolacce sul lavoro?  La risposta è maledettamente complessa: “dipende”. Dipende da chi le dice, da come le dice, da chi le subisce e in quale ambiente. Infatti, se ci fate caso, il quesito è generico: chiedere cosa si rischia dicendo parolacce sul lavoro è come domandare se lo sport è pericoloso. L’alpinismo lo è senz’altro, ma le bocce molto meno, anche se entrambi sono “sport”. Infatti anche le parolacce, come lo sport, sono una grande famiglia che comprende espressioni molto diverse fra loro: insulti, termini enfatici, imprecazioni, oscenità… Ciascuna ha una carica offensiva diversa, e può essere usata in modi e in ambienti differenti. 

Come giudicano i giudici

Dunque, per valutare quanto è rischioso l’uso di un’espressione scurrile, bisogna entrare nel merito ed esaminare la situazione in ogni dettaglio. In questo articolo racconterò i principali orientamenti della giurisprudenza sul lavoro, dividendoli a seconda del tipo di scurrilità e di situazione. Perché i magistrati, quando si pronunciano su questi casi, soppesano non solo la carica offensiva di un insulto (c’è un ottimo libro che racconta come sono stati giudicati oltre 1.200 termini), ma devono considerare anche altri elementi: l’intenzione del parlante, i suoi modi, il contesto in cui parla e chi lo ascolta. Sono fattori importanti, che possono appesantire o annullare la carica offensiva di una parola.

Negozio imbrattato con scritte insultanti a Fermo.

Prima di passare in rassegna i principali casi, un’avvertenza importante: ricordo che sono un giornalista e linguista, non un giurista. Quindi, la mia rassegna è una sintesi giornalistica, non una rassegna giurisprudenziale completa. Se cercate un parere giuridico qualificato su un caso specifico, dovete rivolgervi a un avvocato.
Per praticità, ho suddiviso i casi nelle due grandi famiglie di parolacce:

 1) imprecazioni, modi di dire e oscenità, ovvero le volgarità usate per “colorire” il discorso ma senza ledere l’onorabilità di una persona (“Che rottura di coglioni!”, o “Porca puttana!”, o “Questo cazzo di computer”);

2) insulti (“Sei uno stronzo”) e maledizioni (“Vaffanculo”), cioè le espressioni che danno un giudizio negativo o augurano il male a un’altra persona. 

Nel nostro Codice, infatti, gli insulti sono sempre puniti (tranne particolari eccezioni), mentre per le maledizioni non c’è un orientamento univoco: a volte sono assolte come “mere espressioni di fastidio”, a volte sono condannate. Dipende da come vengono dette (con aggressività, esasperazione, astio…) e a chi: quelle rivolte a un’autorità o a un pubblico ufficiale (poliziotto, insegnante, carabiniere, giudice, controllore…) di solito sono punite.

1) IMPRECAZIONI, MODI DI DIRE, OSCENITA’

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FRA COLLEGHI
 

Al lavoro, siamo liberi di sfogarci o di colorare il discorso? Possiamo dire “Che giornata di merda oggi!”? Dipende dal tipo di lavoro.

Se è un lavoro a contatto con il pubblico, questo tipo di linguaggio è condannato perché è considerato inopportuno e inaccettabile: rischia di ferire la sensibilità dei clienti, e di ledere l’immagine dell’azienda.
In generale, osserva Yehuda Baruch, docente di management alla Southampton Business School, “le società, per allinearsi alle aspettative dei clienti, evitano di esprimersi in un linguaggio volgare perché questo contrasta con le norme sociali. Perciò proibiscono l’uso del linguaggio forte al personale che ha contatto col pubblico”. Chi svolge professioni come il medico, l’infermiere, l’impiegato delle Poste, il portiere d’albergo, il cameriere, il cassiere è tenuto a usare un vocabolario pulito con i clienti/pazienti. Perché chi usa un linguaggio a tinte forti dà l’impressione di essere irrispettoso, incapace di controllarsi, scomposto. In una parola, maleducato: i clienti/pazienti si sentirebbero a disagio, e l’azienda perderebbe prestigio

Fra colleghi spesso si usano parole forti (Shutterstock).

Ma spesso, dietro questa facciata “per bene”, il dietro le quinte è ben diverso. Le aziende, insomma, hanno una doppia morale: se da un lato vietano ai dipendenti di essere volgari davanti ai clienti, dall’altro permettono, o tollerano, o si disinteressano del fatto che dicano parolacce fra loro. Anche perché questa abitudine svolge funzioni importanti: cementa la confidenza fra colleghi, rende più fluide le interazioni e aiuta a sfogare gli stress.
L’ha accertato uno studio fatto in Nuova Zelanda dalla Victoria University di Wellington  e pubblicato sul “Journal of pragmatics” nel 2004. I ricercatori hanno studiato le interazioni fra gli operai di una fabbrica di sapone. Scoprendo  che i lavoratori imprecavano per lo più all’interno del proprio gruppo, usando invece un linguaggio pulito con gli altri. L’espressione “fuck” (fanculo, cazzo) era  utilizzata per “legare i membri del team, allentare le tensioni ed equilibrare i rapporti fra colleghi con diversi livelli di potere e responsabilità“.

Usare un linguaggio sboccato insomma è una manifestazione di parità e confidenza: è come dire “Ti conosco così bene che posso essere così scortese con te”. Senza contare che riducendo le barriere della formalità, un linguaggio più “terra terra” permette rapporti più sciolti e confidenziali.

Anzi: fra colleghi, le regole si ribaltano: chi parla un linguaggio “educato” rischia di essere emarginato, invece di essere apprezzato. Lo ha vissuto sulla propria pelle un collega del professor Baruch, Stuart Jenkins, che aveva lavorato come magazziniere in un magazzino di vendita per corrispondenza nel Regno Unito: al’inizio era stato escluso dal gruppo, ma le cose sono cambiate dopo un confronto rude contro un altro dipendente, che l’aveva accusato di lavorare molto meno di lui. Jenkins gli ha risposto: “Ma vaffanculo, tu sei uno stronzo pigro”.
Il diverbio è finito lì. Ma da quel momento, Jenkins è stato invitato a partecipare alle pause caffé da cui finora era stato escluso. Il ricercatore ha raccontato l’esperienza sul “Leadership organization development Journal”, concludendo che le parolacce sono “un rito di iniziazione che cementa i legami col resto del gruppo”. Insomma, fra colleghi l’inciviltà diventa accettabile, e il comportamento antisociale (spesso veicolato dalle parolacce) diventa socievole. A patto che questo avvenga fra pari grado: lo si può fare con i propri superiori solo se lo consentono o lo favoriscono.

Ben diverso, invece, l’uso delle oscenità, ovvero dei termini sessualmente espliciti. Il confine fra una battuta spiritosa piccante e la molestia, infatti, è molto labile. Chi la fa, deve essere certo che la battuta sia solo e soltanto scherzosa, e che chi la ascolta (se è una persona di sesso opposto) gradisca questo genere di ironia.

Una recente sentenza della Cassazione (1999/2020), infatti, ha ribadito che rivolgere alle colleghe, con insistenza, battute a sfondo sessuale o domande sulle loro abitudini sessuali (anche senza usare termini volgari) ricade nel reato di molestie sessuali, che prevede l’arresto fino a 6 mesi e un’ammenda fino a 516 euro.
 

IMPRECARE AL CAPO
 

Ma nei rapporti con i superiori le cose si complicano. Un autista di autobus che lavorava per una società di Velletri, ad esempio, aveva imprecato (non sappiamo cos’abbia detto, probabilmente qualcosa tipo “E che cazzo!”) quando il suo capo gli aveva chiesto di fare gli straordinari. E il capo l’aveva licenziato. Dopo 2 gradi di giudizio, la Cassazione (sentenza 19460/2018) ha annullato il licenziamento, considerandolo un provvedimento spropositato, a maggior ragione per il fatto che l’autista non aveva insultato il suo superiore ma si era solo sfogato, seppure usando termini forti.

Scelta simile anche per un medico napoletano che in un momento di rabbia aveva detto al direttore dell’ospedale, davanti a impiegati e utenti, “ma tu non hai un cazzo da fare… cresci una buona volta!”, sbattendo la porta. Era stato licenziato, ma la Cassazione (sentenza 12102/2018) lo ha fatto riassumere perché ha considerato il provvedimento “sproporzionato”.

Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro, infatti, non è il rispetto della forma (che ha pure un peso), quanto il rispetto di orari, mansioni, prestazioni. Se un dipendente insulta il proprio capo, per rimettere i rapporti sui giusti binari è sufficiente una lettera di richiamo o al limite una sospensione dal lavoro per qualche giorno. Il licenziamento è una misura eccessiva: offendere un capo non è un delitto di “lesa maestà”. Vista l’asimmetria dei rapporti (il capo ha potere, il dipendente molto meno) un insulto detto in un momento di stress si può anche tollerare, se rimane un caso isolato.

QUANDO IL CAPO IMPRECA AI SOTTOPOSTI
 

E cosa succede a ruoli invertiti? Ovvero quando un capo usa un linguaggio triviale coi sottoposti? Prendiamo ad esempio Steve Jobs: il fondatore della Apple era noto infatti per non avere peli sulla lingua. Con chiunque: fossero estranei, manager di altre società, giornalisti o anche i propri sottoposti.  All’amministratore delegato della Nike, Mike Parker, ha detto in faccia: “Produci alcuni dei migliori prodotti al mondo, ma fai anche un sacco di merda. Sbarazzati delle cose di merda”. Ma il discorso diventa delicato quando queste critiche sprezzanti sono rivolte ai propri sottoposti. Anche se il giudizio pesante è rivolto a una prestazione, è molto probabile che si senta colpito anche l’autore della prestazione: la nostra autostima si basa anche sulla stima altrui, soprattutto se è quella del capo.

Steve Jobs: non le mandava a dire a nessuno, sia in azienda che fuori.

A Ken Kocienda, l’ingegnere che aveva realizzato la prima versione del software di iPhone, Steve Jobs disse che il suo lavoro era “Merda di cane”.
Che fare? Dargli ragione sarebbe stata una pessima idea: “avrei dovuto spiegare perché gli davo un prodotto fatto male”, ha raccontato in un articolo sul Wall Street Journal. Ma contestare il giudizio sarebbe stato peggio: pensi di saperne più di Steve Jobs in campo informatico? Quella frase, per fortuna, non era l’inizio di un lungo cazziatone, ma è rimasta isolata. “Mi alzai e la ascoltai senza commentare”, dice Kocienda. Nonostante questo episodio, Kocienda ha lavorato in Apple per 16 anni: “Da quell’esperienza ho capito due cose. La prima è che il prototipo nuovo di zecca di un prodotto spesso non va bene. Risultati eccellenti arrivano solo alla fine di una lunga catena di sforzi. E quando è necessaria una revisione, di solito è meglio dirlo chiaramente, senza girarci intorno. La seconda cosa che ho capito è che una critica può essere efficace anche se non è costruttiva. Steve non ha mai avuto problemi a rifiutare qualcosa senza dare spiegazioni. Se non gli piaceva qualcosa, lo diceva e basta. Le critiche dirette, anche brutali, possono aiutare a migliorare un progetto se c’è un ambiente di fiducia in cui tutti sanno che i commenti riguardano il lavoro che hai fatto e non te come persona”.

L’ultima precisazione è determinante: una critica anche aspra da un capo si può tollerare se – e solo se – avviene in un ambiente che dia valore ai contributi di tutti e abbia un obiettivo condiviso da tutti. Solo in questo contesto di stima e alleanza reciproca ci si può permettere di dire la verità, di chiamare le cose con il loro nome, anche se è un nome scomodo.
Anche se, in questa vicenda, hanno giocato anche altri fattori: la stima verso Jobs, la consapevolezza di lavorare per uno dei guru dell’informatica e di contribuire a rivoluzionare il settore. E per uno stipendio presumo corposo. Non è così comune lavorare in contesti come questo. E, personalmente, a un genio sgarbato ne preferisco uno un po’ meno genio ma gentile.

2) INSULTI

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ALL'AZIENDA
 

Il caso che sto per raccontare è finito nell’ultima “Top ten”, la classifica delle 10 parolacce più emblematiche del 2019. E’ una pronuncia controcorrente della Cassazione (sentenza 12786/2019): l’anno scorso aveva respinto il licenziamento di una guardia giurata che, lamentandosi con la centralinista per alcuni disservizi, si era sfogato dicendo “che azienda di merda”.

La Cassazione l’ha difeso affermando che un dipendente non ha “alcun dovere di stima nei confronti della propria azienda”. Il “nocciolo duro” del rapporto di lavoro consiste nel fatto che il lavoratore osservi i doveri di diligenza e fedeltà. E tanto basta. Ma attenzione: i giudici hanno dato ragione alla guardia giurata solo perché il suo volgare giudizio è rimasto all’interno dell’azienda. Se avesse detto la stessa frase su Facebook o in un bar, la guardia avrebbe commesso il reato di diffamazione e il suo licenziamento sarebbe rimasto probabilmente definitivo. Perché in quel caso l’insulto avrebbe leso all’esterno l’immagine, l’onorabilità dell’azienda: e questo rischia di danneggiarla, ovvero di farle perdere credibilità e clienti.

FRA COLLEGHI

Se un lavoratore insulta un collega, non ci sono alternative: sarà condannato. La legge, infatti punisce l’ingiuria (le offese dette in presenza dell’interessato) e la diffamazione (offese dette davanti ad altri, in carne e ossa o sui social network).
Proprio per quest’ultimo reato è stato condannato (Cassazione, sentenza 50831/2016) un docente di Napoli che aveva affisso sulla bacheca della scuola un foglio in cui definiva “ignorante” una collega a proposito delle norme antifumo. 

INSULTARE IL CAPO
 

Il rapporto fra capo e sottoposti è asimmetrico: il capo ha il potere di decidere l’organizzazione del lavoro (orari, mansioni), oltre che la carriera e lo stipendio del dipendente. E c’è un’asimmetria anche nel campo della comunicazione: il capo può redarguire i suoi collaboratori, ma non è ammesso l’inversoEcco perché in alcuni casi la magistratura ha riequilibrato questo rapporto difendendo i lavoratori che avevano “osato” criticare aspramente i loro responsabili.

Per esempio, la Cassazione (Sentenza 17672/2010) ha assolto un avvocato che, parlando del proprio responsabile (in sua assenza) aveva detto “è un pazzo, vuole restare circondato da leccaculo”. Per i giudici, quelle espressioni non erano gratuitamente offensive, ma erano un modo “sintetico ed efficace di rappresentare la conduzione scorretta dell’ufficio, che rischia di portarlo alla rovina”. Insomma, a volte una doccia fredda può servire a rimettere capo e colleghi sulla retta via.
E cosa succede se si dice in faccia “ignorante” al proprio capo? L’impiegato di una ditta di Potenza era stato licenziato per questo, ma la Cassazione (sentenza 14177/2014) l’ha fatto riassumere, considerando sproporzionato il provvedimento: un’offesa, per quanto irritante, non è così grave da impedire di proseguire un rapporto di lavoro.

Il licenziamento, infatti, è ammissibile solo quando nega gravemente gli elementi essenziali del rapporto di lavoro, e in particolare la fiducia. Se un dipendente non si presenta puntuale in ufficio, se lavora male, se ruba i soldi, allora in questo caso è licenziabile perché procura un grave danno morale o materiale all’azienda.

QUANDO IL CAPO INSULTA I SOTTOPOSTI

Ma quando accade il contrario, ovvero, quando è il datore di lavoro a offendere un proprio dipendente, il discorso cambia: i giudici puniscono i capi che dalla loro posizione di potere mancano di rispetto ai sottoposti (che di solito non reagiscono, temendo di perdere il lavoro).
E’ il caso di un uomo di Avezzano, che aveva strigliato una propria dipendente dicendole “Sei una stronza se te la prendi”. La Cassazione (Sentenza 35099/2010) l’ha condannato a pagarle 800 euro di risarcimento ribadendo che quando un datore di lavoro fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non può prescindere dai “normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica”.

Lo stesso principio è stato ribadito anche in caso di prese in giro insultanti. La Cassazione (ordinanza 4815/2019) ha ribadito infatti che Gian Luca Rana, amministratore delegato e figlio del fondatore del celebre pastificio Rana, dovrà risarcire un ex manager: in pubblico lo chiamava “finocchio”. Il manager non gradiva l’appellativo, ma taceva “perché era in una condizione di inferiorità gerarchica”, e temeva conseguenze per la propria carriera e per il suo stesso posto di lavoro. Così ha fatto causa all’azienda solo dopo essersi dimesso, lamentando uno “stato d’ansia e di stress e danni alla vita di relazione, alla dignità e professionalità”. Rana si è difeso dicendo che era un appellativo scherzoso: può darsi, ma scherzare davanti ad altri sull’orientamento sessuale di un’altra persona non è una scelta rispettosa. Tant’è che la Corte ha deciso che l’ex manager aveva diritto a un risarcimento per la lesione di “diritti inviolabili della persona”.  

Linus Torvalds fa il dito medio contro Nvidia, produttore di chip da lui contestato.

Ne sa qualcosa anche Linus Torvalds, l’informatico finlandese che ha sviluppato Linux, il celebre software “open source”. Torvalds è stato molto contestato perché nelle chat con gli sviluppatori del programma (gratuito) chiamava alcuni di loro “fucking idiots” (idioti del cazzo). Di fronte all’ondata di indignazione internazionale per questo comportamento, nel 2018 Torvalds ha riconosciuto che “il suo comportamento non andava bene”, dicendosi molto dispiaciuto. Tanto che si è preso una pausa per “farsi aiutare a comportarsi in modo diverso”. E ora il progetto Linux si è dato un codice di condotta che stabilisce di usare un comportamento professionale e gentile. 

Per approfondire

Se siete interessati al tema “leggi e parolacce” su questo sito trovate molti altri articoli sull’argomento (cliccare per andare al link):

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https://www.parolacce.org/2020/02/02/sentenze-insulti-lavoro/feed/ 0
Oltraggio: il ritorno degli intoccabili (a parole) https://www.parolacce.org/2009/07/18/oltraggio-il-ritorno-degli-intoccabili-a-parole/ https://www.parolacce.org/2009/07/18/oltraggio-il-ritorno-degli-intoccabili-a-parole/#comments Sat, 18 Jul 2009 14:29:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=23 Misurate le parole. D’ora in poi, se insultate un vigile (ma anche un poliziotto, un medico, un controllore sul treno, un pilota d’aereo, un insegnante…) rischiate grosso: fino a 3 anni di carcere. Molto meno di quanto rischierebbe se lo… Continue Reading

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La legge è uguale per tutti, con qualche eccezione.

La legge è uguale per tutti, con qualche eccezione.

Misurate le parole. D’ora in poi, se insultate un vigile (ma anche un poliziotto, un medico, un controllore sul treno, un pilota d’aereo, un insegnante…) rischiate grosso: fino a 3 anni di carcere. Molto meno di quanto rischierebbe se lo facesse lui: rischierebbe al massimo 1 anno di galera.
In Italia gli insulti non sono più uguali per tutti. Da luglio, infatti, è stata ripristinata una nuova categoria di intoccabili, almeno a parole: i pubblici ufficiali. Per loro, il governo giallo-verde ha riesumato, nell’agosto 2019, il reato di “oltraggio”, che era stato depenalizzato 20 anni fa. In realtà l’aveva fatto già il governo Berlusconi nel 2009 (vedi qui); ora nell’ennesimo decreto sulla sicurezza (DL 53/2019, articolo 7) le pene vengono ulteriormente inasprite.
In pratica, chi insulta un pubblico ufficiale in servizio rischia pene molto più severe rispetto a chi insulta un comune cittadino. Due pesi e due misure: solo se si tocca un rappresentante del Potere si “va oltre misura” (“oltraggio” significa proprio “andare oltre”).
Perché questa disparità di trattamento, quando la nostra Costituzione (art. 3) stabilisce a chiare lettere che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”?

Per rispondere a questa domanda, bisogna prima capire chi sono i pubblici ufficiali: per il Codice Penale sono le persone che esercitano una pubblica funzione legislativa (i parlamentari), giudiziaria (i magistrati) o amministrativa (gli impiegati pubblici con compiti di autorità o certificazione). Ovvero, come ricorda  Wikipedia, oltre alle forze dell’ordine e ai militari anche molte altre figure professionali: assistenti sociali, ausiliari del traffico, insegnanti, ufficiali giudiziari, medici e infermieri, guardie venatorie, piloti di aerei, treni, navi, notai, membri di seggi elettorali, avvocati, curatori fallimentari, direttori di lavori di opere pubbliche…
In una parola: tutti quelli che rappresentano, nel loro agire, lo Stato.
E che, proprio per questo, lo Stato tutela in modo particolare. Come racconto in “Parolacce”, il reato era esistito fino al 1999, poi fu abolito per sgravare i Tribunali da procedimenti di minor peso. Nel 2009 è stato reintrodotto: perché? Su richiesta delle stesse forze dell’ordine, “per rendere più incisiva l’azione di polizia e più autorevole l’immagine della Polizia”. Ora, l’ulteriore inasprimento del 2019 mira a tutelare “le manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico (come treni e bus)”.

La locandina del film “Il vigile” con Alberto Sordi.

Ma prima della riforma, chi offendeva un pubblico ufficiale era comunque punito, con le pene previste per l’ingiuria aggravata. Un’operazione di facciata, per mostrare i muscoli del governo? Oppure un modo per tacitare le voci critiche? Difficile dirlo. In ogni caso, al governo è costato senz’altro meno ripristinare una norma di principio come questa che dare gli agognati rinforzi (uomini, mezzi e finanziamenti) alle forze dell’ordine…
Motivazioni a parte, la disparità di trattamento tra un pubblico ufficiale e un semplice cittadino risulta evidente non solo valutando la diversità di pene previste, ma anche se si considera che la parola di un pubblico ufficiale vale di più: secondo il Codice Civile la sua testimonianza è assunta sempre come vera a meno che qualcuno riesca a provare che menta. Ma se un vigile a cui sei stato antipatico ti accusa di averlo chiamato “stronzo”, come fai a dimostrare che mente?
Ecco perché la nuova legge pone una serie di condizioni per evitare o limitare gli abusi: l’offesa deve avvenire “in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone” e deve offendere contemporaneamente “l’onore (= il valore sociale) e il decoro (= le doti fisiche, intellettuali e professionali)” del pubblico ufficiale. Ed è stata introdotta una pena minima: 6 mesi di reclusione. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha criticato un aspetto della legge: il fatto che non preveda eccezioni, neppure se l’offesa è molto tenue.
Insomma, una clamorosa retromarcia rispetto al quadro generale del nostro ordinamento giuridico: negli ultimi 20 anni erano stati depenalizzati non solo gli oltraggi ai pubblici ufficiali, ma anche a pubblici impiegati, a un corpo politico, alla Repubblica, alla bandiera (ora puniti con semplici multe).

Piero Ricca.

Piero Ricca.

Anche per questo motivo, quando il blogger Piero Ricca qualificò come “buffone” Silvio Berlusconi all’uscita dal processo Sme, fu assolto: si trattava di una “forte critica” a un personaggio politico, e come tale legittima.
Finora, le uniche eccezioni privilegiate nel nostro Codice Penale erano (e continuano a essere) i giudici in udienza e il presidente della Repubblica. Loro sono più “uguali” degli altri cittadini: chi li insulta rischia fino a 5 (cinque!) anni di carcere.

IN FRANCIA VOGLIONO ABOLIRE IL REATO

Queste contraddizioni, in Italia, passano sotto il solito silenzio rassegnato. Non così avviene in Francia: al Convegno internazionale sugli insulti a cui ho partecipato all’università di Chambéry è stato oggetto di dibattiti appassionati. Anche perché Oltralpe è stato fondato il Codedo (Collectif pour une dépénalisation du délit d’outrage, Collettivo per la depenalizzazione del delitto di oltraggio), un’associazione che sta raccogliendo firme per abolire il reato di oltraggio, definito “obsoleto, iniquo e retrivo”. Sottolineando 2 aspetti aberranti: nell’oltraggio, chi constata il reato ne è al tempo stesso anche la vittima. E in tribunale la sua parola vale di più di quella di un semplice cittadino.
Ma non è tutto. In Francia, dicono i membri del Codedo, le denunce per oltraggio sono aumentate del 42% negli ultimi 11 anni. Il motivo? Un clima “sempre più repressivo”, per coprire e legittimare i crescenti soprusi della polizia. E anche perché, da quando Sarkozy era ministro dell’Interno (2002) le denunce per oltraggio erano usate come strumento per mostrare una maggiore efficienza nella repressione dei reati.

Ma, secondo il Codedo, il reato di oltraggio sta diventando uno strumento con cui il presidente Sarkozy vorrebbe zittire gli oppositori in nome di una sorta di “delitto di lesa maestà”: di recente un francese è stato condannato a pagare 30 euro di multa per aver brandito un cartello con la scritta “Smamma, povero pirla” (“Casse-toi, pauvre con”), durante il passaggio del corteo presidenziale. È stata considerata un’offesa a tutta la nazione… Eppure, proprio quella frase era stata pronunciata mesi prima da Sarkozy al Salone dell’agricoltura (v. filmato qui sotto), a un cittadino che non gli aveva voluto stringere la mano.

 

Ora, argomenta il Codedo, “quale rispetto accordare a un presidente della Repubblica così poco rispettoso dei suoi concittadini?”. Ecco perché il Codedo spera di raccogliere abbastanza firme per cancellare il reato di oltraggio dal Codice Penale. Dunque, i nostri cugini francesi, figli della rivoluzione illuminista, si dimostrano ancora una volta più sensibili di noi nel reclamare l’attuazione dei principi di uguaglianza (libertè, Égalité, Fraternité è il motto della Repubblica francese). Ma io credo che sia un’utopia: è impensabile che il Potere tolleri di essere messo in discussione, o peggio ancora svilito, preso in giro, disprezzato. Perché questo gli toglierebbe… potere.

Michail Bachtin.

Michail Bachtin.

L’aveva già capito un grande critico letterario russo, Michail Bachtin (1895-1975), sottolineando come il Potere statale sia sempre collegato alla violenza e ai divieti, all’autoritarismo: “il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso (= le parolacce). C’è sempre in questa serietà un elemento di paura e di intimidazione”. Soprattutto se chi rappresenta il Potere non ne è affatto degno.
Credo sia più realizzabile, quindi, introdurre una norma per  compensare le disparità ed eventuali abusi. Se l’autorità ha bisogno di essere rispettata, soprattutto se è davvero rappresentativa di un popolo, è giusto  punire severamente chi la insulta.

Scontri al G8 di Genova.

Scontri al G8 di Genova.

Ma se l’autorità abusa del proprio potere, non rispettando i propri cittadini, deve essere punita ancora più duramente, perché approfitta della propria posizione di vantaggio per fare violenza. Se un cittadino che insulta un’autorità rischia 3 anni di carcere, un’autorità che insulti un cittadino deve rischiarne almeno 6. Per non avere la tentazione di abusare del proprio potere. Come, purtroppo, è accaduto (e senza grandi conseguenze penali) alle forze dell’ordine che hanno commesso abusi durante il G8 di Genova 2001: molti manifestanti sono stati portati in caserma e qualificati con epiteti come “bastardi, stronzi, figli di puttana, drogati, comunisti di merda, stronzi, coglioni, puttana, troia“… Trovate tutto nella sentenza della Cassazione su Bolzaneto che trovate qui
Un’autorità degna di questo nome non dovrebbe mai spingersi così “oltre”.

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