eufemismi | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Wed, 26 Jun 2024 08:33:39 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png eufemismi | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Perché “vecchio” è un’offesa? https://www.parolacce.org/2021/03/01/insulti-agli-anziani/ https://www.parolacce.org/2021/03/01/insulti-agli-anziani/#comments Mon, 01 Mar 2021 09:04:52 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18554 Sono sopravvissuti a molte tempeste, e dal loro bagaglio di esperienze (e di errori) avremmo tutti da imparare. Tanto che “vecchio” e “saggio” sono quasi sinonimi. Eppure agli anziani non riserviamo solo rispetto. Nel nostro vocabolario ci sono 60 offese… Continue Reading

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Film dei fratelli Cohen (2007).

Sono sopravvissuti a molte tempeste, e dal loro bagaglio di esperienze (e di errori) avremmo tutti da imparare. Tanto che “vecchio” e “saggio” sono quasi sinonimi.
Eppure agli anziani non riserviamo solo rispetto. Nel nostro vocabolario ci sono 60 offese su di loro: mummia, fossile, carampana… e molte altre. 

Perché attacchiamo gli over 65enni? Guardare da vicino queste offese ci permette di riflettere su quale posto e quale ruolo riserviamo oggi alla terza età. Un ruolo ambiguo, fatto non solo di ingiusta discriminazione, ma anche di angosce esistenziali, scontri generazionali, rancori sociali (non sempre infondati). In definitiva, gli anziani sono il simbolo della nostra epoca longeva che però non ha saputo ancora dare loro un ruolo sensato e costruttivo.

Perché si insultano in tutto il mondo

  1. Attaccare la generazione degli anziani, ovvero quella dei nostri genitori e dei nostri nonni, è un atto del tutto naturale, come insegnano il mito di Edipo e la psicoanalisi. Per crescere occorre “uccidere” metaforicamente il padre, ovvero acquisire la propria identità autonoma uscendo dalla dipendenza psicologica coi propri genitori e con il modello educativo e culturale che propongono. E’ un atto di distacco non solo individuale ma anche generazionale: la ribellione dell’adolescenza. Uno dei termini offensivi, ormai desueto, verso gli anziani è “matusa” (abbreviativo di “Matusalemme”), ed è stato coniato nel ‘68, cioè nell’epoca che più di ogni altra ha incarnato la ribellione giovanile.
  2. “Nessuno ha una data di scadenza”: pubblicità contro la discriminazione degli anziani.

    A questo aspetto se ne aggiunge un altro tipico della nostra epoca. Viviamo in un’era di veloci trasformazioni, progresso, efficienza. E in un contesto del genere, la lentezza, la resistenza ai cambiamenti, l’inefficienza degli anziani è vista come un difetto e un ostacolo al progresso della società. Poche sono le nazioni capaci di valorizzare – sul lavoro, nel sociale – l’esperienza degli anziani: che in molti casi, pur avendo ottime capacità, si ritrovano parcheggiati ai margini della società senza poter dare un contributo che sarebbe prezioso. In inglese la discriminazione in base all’età si chiama “ageismo”.

  3. Insultare gli anziani è un modo per allontanare da sè la paura del decadimento fisico e della morte. Se il “vecchio decrepito” sei tu, mi libero dall’angoscia di pensare al fatto che anch’io sono incamminato verso questo stesso destino. Ecco perché nella nostra epoca la vecchiaia è semplicemente rimossa, anche a suon di cosmesi, interventi chirurgici, abbigliamento “giovanile”. L’inefficienza, la sgradevolezza fisica è uno dei tabù più forti della nostra epoca.

VECCHIO? NO, VINTAGE

Altra pubblicità progresso: il vecchio è “nonno”.

E’ proprio per scacciare l’angoscia per il decadimento fisico che la vecchiaia, accanto a termini insultanti, è designata anche con diversi eufemismi, cioè termini che cercano di addolcire la pillola di questo aspetto inquietante. Sono 15 espressioni che servono ad allontanare la paura e il pensiero della morte a cui, prima o poi, siamo tutti destinati.

anziano, attempato, canuto, maturo, navigato, nonno, pantera grigia, patriarca, pensionato, persona di una certa età, persona in là negli anni, stagionato, terza età, venerabile, vegliardo (uomo di età molto avanzata, augusto e venerando), veterano, vintage

Discorso a parte il termine “umarell”, che designa il pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri urbani, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono. E’ un termine canzonatorio più affettuoso che denigrante.

I termini spregiativi per la terza età

Vecchio e sdentato sono quasi sinonimi.

Ed ecco la lista dei termini offensivi verso le persone attempate. Hanno vari livelli di intensità offensiva, dalla presa in giro ironica al disprezzo. Li ho riuniti per categorie semantiche, ovvero ho messo insieme i termini che hanno un significato affine, che vanno a colpire lo stesso aspetto.
Come si può vedere, il gruppo più nutrito di epiteti prende di mira l’aspetto fisico cadente, sintomo (come dicevo sopra) dalla nostra angoscia di morte ma anche del grande valore che la nostra epoca attribuisce. Spesso il termine “vecchio” (percepito come spregiativo perché più diretto rispetto ad “anziano”) è unito agli aggettivi “bavoso”, “rincoglionito”, “babbione”, “porco”.

 

lunga età
(12)
antico, antidiluviano, antiquato, bacucco (dal profeta biblico Abacuc, rappresentato nella tradizione popolare come un vecchio col volto coperto da un panno che in arabo si chiama bakok, da cui il più noto burqua), giurassico, matusa (da Matusalemme), preistorico, rinvecchignito, stagionato, stravecchio, vecchio/vecchiaccio, vetusto  
aspetto fisico cadente
(39)
ammuffito, appassito, arrugginito, avvizzito, bavoso, cadente, cariatide (persona tarda e retrograda), consumato, decrepito, fatiscente, frusto, fossile, grigio, imbalsamato, impolverato,  incartapecorito, infeltrito,  ingiallito, logoro, marcio, matusa, mummia, polveroso, raffermo, rancido, rifatto, rifritto, rimasticato, ritrito, rovinato, rugoso, scalcagnato,  scalcinato,  scassato, sdentato, sgangherato, stantio, stravecchio, tarlato 
mentalità inefficiente / non al passo coi tempi
(7)
demodè, fuori moda, obsolescente, primitivo, retrivo, sorpassato, superato

Perché si insultano (ancor più) in Italia

Un “umarell” in azione.

Oltre al disprezzo e alle paure diffuse un po’ ovunque, nel mondo, verso gli anziani si aggiungono altri sentimenti che sono specifici della situazione sociale dell’Italia. 

  1. Innanzitutto, siamo un Paese vecchio, anzi: fra i più vecchi in assoluto. Per la precisione siamo il terzo Paese al mondo, dopo Giappone e Germania, per età mediana (45,7 anni). Le statistiche sono eloquenti. La popolazione da 0 a 30 anni è solo il 29%, dai 31 ai 64 il 47,7%, e dai 65 agli oltre 100 il 23,2%. Dunque, quasi un italiano su 4 è over 65 anni (e gli over 75 sono l’11,8%). L’indice di vecchiaia è elevatissimo: ci sono 179,4 anziani ogni 100 giovani fino a 14 anni.
    Questo scenario è causato da due fattori: siamo una nazione longeva (forse grazie alla dieta mediterranea) avendo un’aspettativa di vita di 83,5 anni. E, soprattutto, siamo da anni in calo demografico: il numero di morti supera quello dei nati, e le immigrazioni – checché ne dicano i paladini delle frontiere chiuse – non riescono a compensare questo calo. Con il Covid, questo calo è arrivato nel 2020 a circa 300mila unità. 
  2. Età media dei ministri da De Gasperi a oggi (clic per ingrandire).

    Siamo un Paese tradizionalista e gerontocratico. Il potere, cioè, è saldamente nelle mani delle persone anziane, e il ricambio generazionale è bloccato da decenni: il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 30%, anche perché l’accesso al lavoro è spesso bloccato da atteggiamenti familistici (ti assumo perché “figlio di” o “raccomandato da”) piuttosto che dal merito. E questa gerontocrazia si vede soprattutto nei luoghi di potere, governati da “grandi vecchi”: le grandi industrie, le università, la magistratura e la politica. Nei nostri governi, dal 1948 a oggi, l’età media dei ministri è stata 54,9 anni. Solo col governo Renzi (Il “rottamatore”, che ha governato dal 2014 al 2016) l’età media è scesa al livello più basso della nostra storia, 47,3 anni, mentre il governo Monti è stato quello con la media più alta, 62,7 anni, 2011-2012. Con Mario Draghi l’età media dei ministri è di 54,5 anni. D’altra parte, nelle caserme, i “nonni” sono i militari prossimi al congedo, che spesso esercitano atti di prepotenza e intimidazion (“nonnismo”) verso le reclute.

  3. Le persone nate fra gli anni ‘40 e ‘60 sono quelle che hanno consumato, spesso senza ritegno, le risorse economiche del Paese, inquinandolo, indebitandolo e sacrificando il suo futuro con la complicità di diversi politici corrotti e clientelari negli anni ‘60 e ‘70. E così si sono guadagnate il rancore delle generazioni più giovani, che dubitano di arrivare mai a prendere la pensione (mentre fra gli ultrasessantenni ci sono molti baby pensionati)

SESSISMO POST-DATATO

Insulto sessista: befana.

Ai termini della lista qui sopra, che valgono per tutti gli anziani a prescindere dal sesso, ce ne sono 4 in italiano che si usano solo per offendere le donne anziane. Sono quindi sessisti: attaccano le donne per il loro aspetto fisico cadente e sgradevole. Una sorta di contrappasso dantesco: in gioventù la bellezza dà alle donne un vantaggio sociale innegabile, ma con l’età sfiorisce e le priva di appeal, a volte anche a prescindere dal loro valore umano. Come diceva il filosofo Friedrich Nietzsche, “la vecchiaia è l’inferno delle donne”: è il rovescio della medaglia di una società maschilista. Il prezzo tardivo che paga chi ha basato il proprio successo e riconoscimento sociale solo sulla bellezza fisica. Ma anche un gratuito pregiudizio verso le donne, come se la gradevolezza estetica fosse il loro unico valore possibile.

♦ befana (donna vecchia e brutta)

♦ carampana (donna volgare, sguaiata, oppure brutta e vecchia: forse dal nome della Ca’ Rampani, palazzo nobiliare e poi rione assegnato dalla Repubblica di Venezia ad abitazione delle prostitute)

♦ megera (donna di carattere aspro, litigioso e violento, per lo più brutta e vecchia, o fisicamente malmessa: dal nome di una delle Erinni della mitologia greca: era preposta all’invidia e alla gelosia e induceva a commettere delitti, come l’infedeltà matrimoniale),

 ♦ strega (donna brutta e malvagia)  

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I bambini imparano le parolacce per imitazione. Ma spesso non ne conoscono il reale significato (Shutterstock).

Come comportarsi quando un bambino dice una parolaccia? Meglio sgridarlo, punirlo o far finta di niente? Si possono prevenire le volgarità nei più piccoli, e come?
Inutile negarlo: fra genitori e insegnanti, il turpiloquio scatena notevoli ansie. Soprattutto quando è usato come forma di violenza, per esempio nei casi di bullismo, o quando riguarda il sesso: come spiegare perché non si può dire frocio, sega o troia? Dire troppe parolacce disturberà lo sviluppo emotivo dei bambini, rendendoli violenti, insensibili o perversi? Sentire un linguaggio sboccato è un trauma per la loro delicata sensibilità?
Qui risponderò a tutte queste domande. Lo faccio ora perché proprio in questi giorni è uscito, su Focus Junior, il primo articolo in cui spiego, direttamente ai bambini, che cosa sono le parolacce, perché dirle (e non dirle) e quali sono i loro effetti.
Da questo sito, invece, mi rivolgo agli educatori, per indicare una strategia efficace e con basi scientifiche per affrontare le parolacce nei piccoli, sfatando alcuni miti infondati. Primo fra tutti, che le parolacce facciano sempre male ai bambini.

Il mio articolo sulle parolacce e la copertina di Focus Junior (clic per ingrandire).

Quest’ultima affermazione è sbagliata, e basta riflettere un istante per accorgersene: si basa infatti su una generalizzazione, ovvero che le parolacce siano tutte uguali. Niente di più sbagliato: è come dire che lo sport è rischioso, ma nel concetto di “sport” rientrano non solo la boxe o il base jumping (salto nel vuoto da palazzi, ponti o da pareti rocciose con il paracadute), ma anche le bocce, il ping pong o il golf, che non hanno lo stesso livello di rischio dei precedenti.
Anche le parolacce sono una categoria generica, nella quale rientrano le espressioni più diverse: insulti (imbecille!), oscenità (sega), maledizioni (vaffanculo), imprecazioni (porca troia), scatologia (merda)… Sono locuzioni con contenuti ed effetti molto diversi, e non tutti dannosi. Senza contare che, come tutte le altre parole, anche le parolacce possono essere pronunciate con diverse intenzioni comunicative: per sfogarsi, per scherzare, per ferire

Parolacce diverse, effetti diversi

Vediamo allora che cosa dicono le ricerche in merito agli effetti dei diversi tipi di scurrilità (per chi vuole approfondire e consultare direttamente le fonti, rimando all’ampia trattazione sul mio libro).

  • insulti e maledizioni: i maltrattamenti verbali hanno sempre effetti negativi sui bambini. I minori che vengono insultati (da adulti o da coetanei) provano rabbia, imbarazzo, depressione, emarginazione. E possono diventare verbalmente violenti a loro volta. E’ il caso del bullismo, una forma di violenza verbale.
  • I bambini sono spesso crudeli: infieriscono su chi è debole e diverso (Shutterstock).

    scatologia: parlare di cacca e affini non fa danni. Anzi: secondo molti educatori (compreso Gianni Rodari, come raccontavo qui)  può essere persino benefico, perché aiuta i bambini a sdrammatizzare e sfogare le ansie sul controllo delle funzioni corporee (lo spettro di “farsela addosso”).

  • imprecazioni: non c’è alcuna prova che ascoltare un adulto che impreca generi traumi in un bambino. L’unico rischio (certo) è che anche lui, nei momenti di rabbia, imiti il linguaggio degli adulti.
  • oscenità: molti genitori credono che i loro discorsi sul sesso determineranno le abitudini sessuali dei figli, perciò pensano che possa turbarli sapere troppi dettagli (omosessualità, sesso orale, masturbazione), e sono preoccupati di come i termini sessuali detti dai figli saranno giudicati fuori dalla famiglia. Perciò, per evitare ogni rischio, eliminando i problemi alla radice, i termini sessuali vengono censurati, punto e stop. In realtà questo è un modo miope di relazionarsi: innanzitutto perché – lo sappiamo dai tempi di Freud – anche i bambini piccoli hanno impulsi sessuali, anche se non ne sono consapevoli. Alcuni studiosi affermano, anzi, che è più dannosa la censura, perché “produce effetti nocivi sull’immaginazione e sulla maturazione psicologica”, afferma Marjorie Heins, giurista, autrice del saggio “Not in front of children”. In sostanza, scrive Heins, nessuno ha mai dimostrato che l’esposizione a espressioni oscene abbia conseguenze traumatiche sui minori. A patto, però, che siano spiegate dagli adulti, come racconterò più avanti.

Intenzioni e inflazione

Campagna antibullismo del Comune di Montevarchi.

In generale, comunque, le parolacce in sè non fanno né bene né male: dipende da come vengono usate, ovvero dall’intenzione comunicativa (e anche dal contesto, come vedremo). Perciò bisogna distinguere:
– se le volgarità sono dette per offendere e svilire un bambino, avranno effetti negativi;
– se sono dette per sfogarsi non avranno effetti negativi (a parte l’imitazione: il bambino comincerà a usarle per sfogarsi, come facciamo noi);
– se sono usate per un riso liberatorio (come nell’umorismo escrementizio) possono avere effetti positivi;
– se sono dette per parlare di sesso, dipende: all’interno di una corretta educazione sessuale, sono ininfluenti; diversamente, rischiano di dare una prospettiva parziale o distorta dell’erotismo.
E, in generale, comunque, l’abuso di parolacce fa correre ai bambini lo stesso rischio che abbiamo noi adulti: l’inflazione.
Quando una parola, anche forte, viene ripetuta continuamente, in ogni circostanza, perde il suo potere espressivo perché ne diventiamo assuefatti (e un po’ sta accadendo a molte parolacce, come raccontavo qui).

LE 8 REGOLE DA SEGUIRE
Come limitare le parolacce? In questo articolo avevo già raccontato la scarsa efficacia delle punizioni: in realtà, l’intervento sulle parolacce non è così semplice, perché, come abbiamo visto, queste espressioni sono una famiglia molto ricca e variegata. Per affrontare le parolacce nel giusto modo, occorre quindi un approccio su più livelli: bisogna saper educare alle parolacce!
Queste regole sono diventate la tesi di laurea (titolo: “Io lo dico alla maestra!”) appena discussa da una docente svizzera, Sabrina Chiesa, studente dell’Alta Scuola Pedagogica dei Grigioni a Coira. Le racconto qui, con alcune integrazioni.
1) CREARE UN CLIMA DI FIDUCIA E DI RISPETTO (in classe o in famiglia): è la condizione principale per rapportarsi ai bambini in modo costruttivo. I bambini devono sapere che possono parlare di tutto con serenità
2) DARE IL BUON ESEMPIO: un adulto che predica bene (“Non dite parolacce, siate rispettosi!”) e alla prima occasione, per esempio quando guida, si mette a imprecare come un camallo, perde credibilità perché non è coerente. Il buon esempio viene sempre dall’alto.
3) LODARE IL BUON LINGUAGGIO: questa strategia dà molti più frutti rispetto alle punizioni verso chi usa un’espressione volgare.
4) NON DARE TROPPO PESO A UNA PAROLACCIA, se è detta con lo scopo di attirare l’attenzione. Se il bambino si accorge che dicendo parolacce riceve attenzioni (fossero anche rimproveri) tenderà a usarle spesso come strumento di richiamo.

La strategia per affrontare le parolacce: clic per ingrandire (foto Shutterstock).

5) RIFLETTERE INSIEME SUL SIGNIFICATO E LE FUNZIONI DELLE PAROLACCEquando un bambino dice una parolaccia (e lo fa sempre “per sentito dire”), invece di punirlo è importante prima di tutto verificare se ne conosce davvero il significato. E distinguere: un insulto (stronzo) è diverso da un’imprecazione (cazzo!). Con un insulto si può ferire un’altra persona, quindi non va mai detto; mentre un’imprecazione non è rivolta a nessuno perché è uno sfogo.
Su alcune espressioni, per esempio quelle escrementizie, si può anche precisare quando si può dire ( in famiglia o fra amici, ma mai a scuola). Che lo vogliate o no, la conoscenza delle parolacce fa parte della competenza linguistica, ovvero dell’abilità a capire e parlare una lingua in modo corretto. E’ importante saper dire “Posso andare in bagno” ma anche capire cosa intende qualcuno quando ti dice che “Sei un cesso”. Certo, questa strategia diventa più impegnativa quando si tratta di espressioni oscene: spiegarne il significato in modo neutro e pacato comporta spendere più tempo rispetto a proibirle e basta. E presuppone, soprattutto, che l’adulto stesso sia sereno di fronte ad alcuni temi, il che non è scontato.
6) ESPRIMERE LE EMOZIONI: se un bambino dice una volgarità, è importante far emergere per quale motivo l’ha detta. Questo può aiutarlo a esprimere le sue emozioni facendogli prendere coscienza dei sentimenti in gioco. Per vincere il bullismo, ad esempio, più che punire o proibire gli insulti, è molto più efficace far parlare chi ne è vittima: questo porta i “carnefici” a rendersi conto che le loro offese possono far male nel profondo a un’altra persona. Il bullismo si può battere solo con l’empatia, come mostra la storia di Ivan, 12enne preso in giro dai coetanei perché non ama il calcio e ha la voce acuta. Come racconta la sua insegnante a “Repubblica”, “quando ha finito di leggere il tema in cui raccontava i suoi anni di bambino umiliato e respinto, i suoi compagni gli hanno fatto un applauso”.
7) ABITUARE A CHIEDERE SCUSA: se un bambino ha detto un insulto con l’intenzione di offendere, bisogna abituarlo a chiedere scusa, come farebbe se desse un pugno a un compagno.
8) INSEGNARE PAROLE ALTERNATIVE: le funzioni delle parolacce (esprimere rabbia, disappunto, disgusto, gioco, sorpresa….) sono importanti e non si possono eliminare. Perché privarli delle valvole di sfogo, che peraltro noi usiamo? Dunque, è utile insegnare ai bambini delle parole depotenziate (ovvero gli eufemismi, di cui ho parlato qui) per esprimere le loro emozioni: porca paletta (invece di porca puttana), salame (e non coglione), caspita (al posto di cazzo) possono aiutare i bambini a sfogarsi senza far male ad altri o infrangere le regole sociali.
Insomma, come dice la Heins, la vita è come una piscina: può essere pericolosa per i bambini. “Per proteggerli, si possono mettere sbarre e allarmi. Ma la cosa più efficace è insegnar loro a nuotare”. 

Ho parlato di questo argomento su Radio Cusano Campus.
Potete ascoltare l’audio cliccando il player qui sotto:

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Caspita! Gli eufemismi, parolacce col “lifting” https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/ https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/#comments Wed, 07 Dec 2016 14:29:58 +0000 https://www.parolacce.org/?p=11378 “Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno… Continue Reading

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La pizzeria “Col cacchio” aperta da italiani in Sud Africa.

Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno risaltare ancor di più. E, nel loro essere così artificiosi e innaturali risultano un po’ patetici. Con l’aggravante che spesso gli eufemismi sono usati dagli ipocriti per mascherare le loro cattive azioni o intenzioni.
Eppure, a ben guardare, questi surrogati verbali sono un’invenzione straordinaria: nella nostra lingua sono circa 200 e si possono usare in 6 modi diversi, non solo per censurare o mistificare la verità ma anche per varie forme di delicatezza. Studiarli, anzi, è affascinante perché sono come un trattato di sociologia: svelano le nostre fobie più nascoste.
In questo articolo solleveremo queste foglie di fico linguistiche per vedere che cosa nascondono. Racconteremo la lunga, insospettabile storia degli eufemismi; sveleremo come si costruiscono, quanti sono nel dizionario e quali concetti cercano di camuffare. E ascolteremo i divertenti eufemismi consigliati da Elio e le storie tese.
Infine, potrete leggere la lista dei 79 eufemismi più spassosi della nostra lingua, con un gioco: dovrete indovinare quale parolaccia sostituiscono. Insomma, un test per mettere alla prova la vostra cultura: sapete il significato originario di alcune espressioni come cacchio? E perché ci sono così tanti vegetali (cavolo, capperi, corbezzoli…) in questo elenco?

La storia

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L’osteria “Maremma maiala“: non è in Toscana ma in provincia di Cremona.

Partiamo dalla loro storia: quando sono stati inventati gli eufemismi, e perché? Sono nati ben prima del galateo e delle buone maniere. Gli eufemismi (dal greco “parlar bene”) infatti erano già presenti nelle società primitive, che credevano nel potere magico delle parole. Nelle civiltà più antiche i nomi non erano soltanto simboli, ma erano “l’anima” delle cose: chi conosceva il nome d’un essere l’aveva in suo potere. Per questo, i nomi delle divinità e quelli dei defunti erano tabù: non si potevano pronunciare, perché dicendoli si sarebbero evocati quegli spiriti. Così furono inventati termini allusivi ma neutri, da usare nelle conversazioni al posto di quelli “pericolosi”. Dunque, gli eufemismi sono nati in campo religioso.
Con l’umanesimo e il cristianesimo, a questi nomi se ne sono aggiunti altri: quelli del sesso e delle parti del corpo, per motivi di pudore e di etica. Infine, nell’ultimo secolo, sull’onda del “politicamente corretto”, ne sono nati altri per difendere alcune categorie sociali svantaggiate (come “non udente” al posto di “sordo”) ma anche per propaganda politica o economica: come l’espressione “adeguamento tariffario” invece di “aumento”, “riduzione di organico” invece di “licenziamento”.

I modi di usarli

Questa lunga e ricca stratificazione ha aumentato gli ambiti d’uso degli eufemismi. Si usano in 6 modi:

  1. con i bambini: sono parole depotenziate, disinfettate. Sono come armi giocattolo, pistole col tappino rosso: “Accipicchia, sei proprio un monello!”.
  2. per scrupoli religiosi: si utilizzano per non peccare, sono come preservativi linguistici per non contaminarsi con contenuti tabù. Sono una forma di autocensura: “Cribbio, mi avete stufato!”.
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    Gli eufemismi sono come pistole giocattolo (foto Shutterstock).

    per scrupoli sociali: si usano davanti ad estranei, o superiori, o anziani. Insomma, quando non si vuole rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno. Si usano per decenza, convenienza, cortesia, tatto: sono una frenata in extremis, uno slalom morale, un modo di indorare la pillola, un lifting delle parole. “Penso che Franca faccia la escort” (invece di “puttana”). Gli eufemismi sono messaggi in codice, strizzate d’occhio: “io ti dico mezza verità, ma sappiamo entrambi che è una foglia di fico che nasconde ben altro”.

  4. per blocchi psicologici: gli eufemismi sono usati per timidezza o inibizioni morali. li usano le persone represse, sono l’espressione del “vorrei ma non posso”: “Ma vaffancuore!”.
  5. per educazione, autocontrollo: gli eufemismi sono come non mangiare con la bocca aperta o non ruttare. Svolgono una funzione importante: esprimono rabbia, ma lo fanno in una maniera socialmente accettabile, mostrando che chi li dice sa controllare i propri impulsi. Sono un compromesso fra espressione e censurta, un messaggio in codice fra gentiluomini (o donne). Insomma, gli eufemismi sono come la valvola di una pentola a pressione, fanno sfiatare il vapore in eccesso: “Fiiiischia che roba!”. L’opposto è dell’eufemismo è infatti il disfemismo, ovvero dire le cose nude e crude: per esempio “i miei vecchi” al posto di “i miei genitori”
  6. per ipocrisia e mistificazione: sono un forma di contrabbando, tentano di far passare di sottecchi qualcosa di inaccettabile. Invece di ammettere di aver rubato truccando i bilanci, si dice “Ci sono delle irregolarità contabili”.

Quei geniacci di “Elio e le storie tese” hanno fatto un intervento molto divertente proponendo dei nuovi eufemismi (parole di senso compiuto) che sembrano bestemmie, “da utilizzare nelle barzellette estreme per non urtare la sensibilità dell’elettore cattolico”: le potete ascoltare cliccando il video qui sotto.

Quanti sono e cosa nascondono

Quanti sono gli eufemismi in italiano? Il modo più scientifico di calcolarli è estrapolare le parole contrassegnate come “eufemismo” (alla voce “limite d’uso”) nel dizionario. Io ho usato lo Zingarelli su Cd-Rom. Nel mio libro ne ho censiti 172; nel 2011 erano saliti a 185, nel 2012 la linguista tedesca Ursula Reutner – direttrice del Centro linguistico all’Università di Passau, in Germania – ne ha trovati 240. Nell’ultimo, lo Zingarelli 2017 (pubblicato quest’anno) gli eufemismi sono 183: da “abile” (nella locuzione “diversamente abile“) a “zio” .
Perché queste variazioni? Innanzitutto perché la lingua è viva e sempre in evoluzione, e i dizionari lo registrano: la loro crescita altalenante può essere l’effetto del “politicamente corretto”, che ha aumentato la nostra sensibilità (e quindi le forme di censura) su molte parole.

sorbole

Commedia erotica di Alfredo Rizzo (1976).

Ma, come ha notato la professoressa Reutner, non è facile censire gli eufemismi: “ad esempio, lo Zingarelli non marca come eufemistiche diverse espressioni che lo sono (come audioleso e fuoco amico). Nei dizionari la stessa espressione può essere marcata come eufemistica in un punto e non in un altro”. Anche perché molti eufemismi diventano tali in espressioni composte: “casa” e “chiusa” non sono termini eufemistici presi singolarmente; ma l’espressione che li unisce, “casa chiusa“, è un eufemismo di bordello. Per questo, i censimenti di queste parole sono approssimativi.
E di cosa parlano gli eufemismi? Degli aspetti più delicati della nostra vita, come si può vedere da questa interessante statistica stilata dalla professoressa Reutner:

  • il 23,3% delle espressioni eufemistiche riguardano la vita e gli atti sessuali (escort/puttana, rapporti intimi/ trombare);
  • il 20,4% riguardano la morte (passare a miglior vita/crepare, mancare/schiattare);
  • un altro 19,2% le parti del corpo (fondoschiena/culo, scatole/coglioni);
  • l’11,3% riguarda Dio e diavolo (vivaddio/bestemmia);
  • il 7,5% i bisogni fisiologici (andare di corpo/cagare);
  • il 5,4% soldi e lavori (ritocco tariffario/aumento, lavoretto/lavoro umile);
  • 5,4% qualità fisiche e mentali, comportamenti (robusto/grasso, maturo/vecchio);
  • 5%, malattia (male incurabile/cancro, non udente/sordo);
  • 2,5% biologia femminile (stato interessante, avere le cose).
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Borsa di “Mani in pasta“, associazione culinaria.

Come nascono gli eufemismi? La nostra lingua usa 4 stratagemmi: l’omissione (non dire il termine scottante), la modificazione, la sostituzione con altri termini o l’abbreviazione.
Nella maggior parte dei casi (il 78%) gli eufemismi nascono per sostituzione: si mette una parola accettabile al posto di una inaccettabile (andare a letto con qualcuno invece di scopare con qualcuno). Solo nell’1% dei casi sono abbreviazioni (poffare sta per “può fare Dio”). Per chi vuole approfondire questi 3 stratagemmi – che hanno molte e ingegnose varianti – rimando al mio libro, dove ne ho parlato più diffusamente.
In questo articolo, invece, mi concentro sulle deformazioni: ovvero gli eufemismi che nascono per alterazione fonetica (“sostituti parafonici”), salvando la prima sillaba e mutando le successive, oppure cambiando o sopprimendo l’iniziale. Gli eufemismi di questo tipo sono il 21%: ho scelto di approfondirli non solo perché sono i più usati nella lingua parlata al posto delle parolacce, ma anche perché sono i più divertenti.

La lista degli eufemismi

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Un libro ammiccante ma “educato”.

Come leggerete nella lista qui sotto, molti degli eufemismi sono parole che rimandano a ortaggi e frutta: cavolo, capperi, cacchiocorbezzoli, sorbole. Ma perché? Secondo la Suda, un’antica enciclopedia greca, nell’antichità “molti, per dare forza ai propri giuramenti”, giurano sugli ortaggi: non tanto per evitare di nominare invano i nomi delle divinità, quanto per sdrammatizzare.
Come ricorda Paolo Martino, docente di linguistica alla Lumsa di Roma, in un divertente saggio sull’esclamazione “capperi!”, Radamanto, il giudice dell’Averno, ordinò che si giurasse non sugli dèi, ma su piante e animali domestici. Tanto che nell’antichità si giurava “per il cane” (da cui l’esclamazione “porco cane”, di cui ho parlato in questo articolo), “per l’oca” (da cui il “porca l’oca” usato ancora oggi), ma anche “per il cavolo”, “per il cappero”. Dunque, questi sostituti sono stati scelti non solo per assonanza con “cazzo” ma anche perché avevano già una lunga storia linguistica. D’altronde, avevo già parlato in un altro articolo dell’importanza simbolica dei vegetali come sostituti sessuali, sia nelle immagini che nel linguaggio.

Dunque, ecco la lista dei più frequenti eufemismi parafonici: sono 79, e non tutti li trovate sullo Zingarelli, perché a volte i dizionari non riescono a registrare tutti i termini colloquiali. Qui sotto potete mettere alla prova la vostra cultura: sapete davvero che cosa si nasconde dietro queste “foglie di fico”? Basta fare caso alle lettere iniziali… Se non riuscite a indovinarli, niente paura: cliccate sulla striscia blu col segno “+” per espandere il box e scoprire che cosa c’è sotto, avrete qualche sorpresa, cazzarola! Per i casi più curiosi (segnalati dagli asterischi *) ho inserito anche una breve spiegazione sull’origine del termine.

A

accidempoli, acciderba, accipicchia*, acc

Sta per...

*accidenti, che ti venga un accidente: l’accidente (o incidente) per eccellenza è la morte

alimortè

Sta per...

dal romanesco “li mortacci tua”, ovvero “i tuoi spregevoli defunti”

ammappelo/ammappalo, ammappete, ammazza

Sta per...

dal romanesco “ammazzalo” o “ammazzate” (ammazzati)

azzolina, azzo

Sta per...

cazzo

B

boia d’un diavolo, bòia d’un dìèvel

Sta per...

boia d’un dio

C

cacchio*, canchero, capperi/o, caspita, caspiterina, cavolo, cazzarola, cazzica, corno

Sta per...

cazzo

* termine agricolo che indica i germogli della vite o di alcuni tipi di piante rampicanti o infestanti.

caramba, carramba

Sta per...

dallo spagnolo carajo, cazzo

che pizza

Sta per...

che palle

corbelli*, corbezzoli**, cordoni, cosiddetti

Sta per...

coglioni

*corba è una cesta di vimini o il suo contenuto: corbelli è sinonimo di scatole, nel senso di testicoli; **corbezzolo è un arbusto sempreverde che produce frutti a bacche simili a ciliegie

cribbio, Cristoforo Colombo, cristallo

Sta per...

Cristo

D

della malora

Sta per...

della Madonna

diacine, diamine*,

Sta per...

diavolo

*sovrapposizione di domine (domineddio, Dio) con diavolo

dio cantante, dio caro, dio campanaro

Sta per...

dio cane

dioniso, Diogene, Diomede

Sta per...

dio

F

fischia

Sta per...

figa

I

incavolarsi, incacchiarsi

Sta per...

incazzarsi

K

kaiser

Sta per...

cazzo

M

madosca, malora

Sta per...

Madonna

Maremma*, Maremma maiala

Sta per...

Madonna maiala

* la Maremma è una regione geografica fra il sud della Toscana e il Lazio

mizzega, mizzica, mizzeca

Sta per...

minchia

O

osteria, ostrega, ostrica

Sta per...

ostia

 P

paravento

Sta per...

paraculo

parbleu

Sta per...

dal francese par Dieu, per dio

per dinci, per dindirindina, per Diana

Sta per...

per dio

porco zio, porco diesel, porco Diaz*, porco dinci, porco diavolo, porco due

Sta per...

porco dio

*Armando Diaz fu un generale, capo dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale

porca paletta, porca puzzola, porca putrella

Sta per...

porca puttana

porca madosca, porca malora

Sta per...

porca Madonna  

porca trota, porca trottola

Sta per...

porca troia

S

sorbole*

Sta per...

dal dialetto bolognese soccmel (o soccia), succhiamelo

*le sorbole sono i frutti del sorbo, pianta della famiglia delle rosacee: sono piccoli pomi   

U

urca

Sta per...

porca

V

vaffa, vaffancuore, vaffanbagno

Sta per...

vaffanculo

và a farti frate

Sta per...

và a farti fottere

Z

zio cane, zio cantante, zio canterino, zio canarino

Sta per...

dio cane

Dedico questo post all’amico Davide Viganò, che pochi giorni fa mi ha detto: “Vito! Ma perché non fai un post sugli eufemismi?!?”, ricordandomi il loro fascino.

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Bombe, fulmini, teschi e pugnali: così sono rappresentate le imprecazioni nei fumetti (foto Shutterstock, anche in homepage).

L’ultima novità è arrivata dalla Microsoft: nel sistema operativo Windows 10 sono state inserite le icone (emoji) del dito medio in tutti i possibili colori della pelle, per rendere il gestaccio fruibile a tutte le latitudini, senza discriminazioni. Microsoft sarà il primo colosso informatico a fornire l’icona, assente dalle piattaforme Apple e Android.
In realtà, da tempo, su cellulari, tablet e computer è tutto un fiorire di simboli e faccine per rappresentare gli insulti. Perché tutto questo fervore? E’ solo una moda sciocca o questi pittogrammi sono davvero necessari per comunicare? E chi li ha inventati?
Cercherò di rispondere a tutte queste domande. Partendo dalla loro storia, che è piuttosto curiosa: in realtà i simboli delle espressioni volgari sono nati molto prima dei computer e dei telefonini. Le prime parolacce disegnate risalgono infatti agli antichi Egizi.
Reinhold Aman, uno dei fondatori della scienza del turpiloquio (e mio caro amico) mi ha segnalato un geroglifico di 3.000 anni fa nel quale appare il disegno di un pene. Il geroglifico (qui sotto) significa: “Che tu possa essere fottuto da un asino!”.

Il geroglifico segnalato da Aman.

Il geroglifico segnalato da Aman.

Dunque, fin dall’antichità i pittogrammi (immagini con un significato immediato o astratto) sono stati messi a servizio anche degli insulti: in questo caso una “maledizione”, ovvero augurare il male a qualcuno.
Dopo questo esordio – il quale dimostra che le parolacce svolgono importanti funzioni comunicative, se sono apparse agli esordi della Storia – il sistema di scrittura alfabetico ha cancellato i disegni delle parolacce per millenni.

Stratagemmi tipografici

Bisognerà aspettare più o meno fino al 1800 per vedere le prime rappresentazioni innovative delle parolacce, che furono sostituite da segni tipografici: asterischi (vaffan****), trattini (vaffan—-), trattini bassi (vaffan____). Una forma di censura, insomma: per la precisione un eufemismo. Ognuno di questi caratteri impronunciabili, infatti, sta al posto di una lettera. Erano di fatto “istruzioni di lettura“: il lettore smaliziato doveva ricostruire nella sua mente le lettere da inserire al posto dei simboli, per rendere intellegibili quelle parole.

Fumetti

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Il fumetto di Dirks coi simboli delle parolacce (1902).

Il passo successivo nell’espressione simbolica delle parolacce è merito dei fumetti: inizialmente, per rappresentare un dolore acuto, i disegnatori introdussero le stelle, a cui poi aggiunsero le spirali. Erano la traduzione in pittogrammi dei gibberish, i suoni senza significato (spesso onomatopeici), per esprimere qualcosa senza usare le parole. Il fumettista statunitense Mort Walker, nel libro “The lexicon of comicana”, li ha chiamati con un termine nuovo: grawlixes. Il linguista statunitense Benjamin Zimmer li ha ribattezzati obscenicon. E ha trovato il primo fumetto in cui appaiono compiutamente questi logogrammi con senso volgare: Bibì e Bobò (The Katzenjammer kids) del fumettista Rudolph Dirks. Risale al 14 dicembre 1902: in una scena, c’è un marinaio che impreca perché un lampadario è caduto dal soffitto sulla testa di un comandante. Come si vede, i simboli sono ancora rudimentali: una stella, un’ancora (“imprecare come un marinaio” o uno scaricatore di porto, verrebbe da dire), punti esclamativi e interrogativi.
La rotta era tracciata: la trovata di Dirks ebbe successo, e i fumettisti americano l’arricchirono nei decenni successivi, come mostra questa notevole cronologia ricostruita dallo scrittore Gwillim Law. Gli obscenicon si sono via via arricchiti con asterischi, pianeti, teschi, pugnali... E già a partire dal 1934 furono adottati dal fumetto più celebre del mondo, Mickey Mouse-Topolino.
In tutti questi casi, i gibberish assolvono a una funzione notevole: esprimere l’inesprimibile, ovvero le emozioni forti. E hanno al tempo stesso la funzione di eufemismi, dato che sostituiscono parole volgari, seppure in modo indistinto: ognuno le può tradurre come meglio crede.
Ma sono eufemismi con valore universale: non hanno bisogno di essere tradotti da una lingua a un’altra, perché si sono ormai codificati come espressioni standard per le parolacce (soprattutto le imprecazioni, che in fondo sono urla di rabbia senza un vero significato letterale: se dico “Merda!” non alludo agli escrementi, ma voglio solo dire che sono arrabbiato, sorpreso, addolorato).

Caratteri tipografici

I fonts MenSwear

I fonts MenSwear

I passi successivi furono dovuti all’introduzione delle macchine per scrivere: i caratteri tipografici, però, non consentono grandi voli di fantasia. “I segni di punteggiatura non si prestavano a descrivere emozioni forti, perché sono troppo esili” osserva acutamente il linguista Arnold Zwicky. Si sono rivelati molto più adatti i punti esclamativi e di domanda, uniti agli altri caratteri tipografici che restavano: #$%&@+=. Tra l’altro, questi potevano prestarsi a un uso sostitutivo, nelle parole, dando più indizi al lettore rispetto agli asterischi o ai trattini: la sequenza $#!+ poteva sostituire in modo quasi fedele la parola SHIT (merda).

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Vietato dire parolacce.

Da allora, tutti questi caratteri sono stati standardizzati, al punto che ormai esistono intere collezioni di fonts per rappresentare le parolacce: come i curses, i menswear, i nuff said. Contengono spirali, pugnali, teschi, pistole, bombe, stelle, pianeti, dito medio, fulmini: tutti simboli di esplosioni rabbiose. Non solo. Questi caratteri tipografici si sono diffusi a tal punto da essere entrati nella cartellonistica stradale in alcuni Paesi, come l’Australia: sono usati per segnalare il divieto di dire parolacce, spesso punito con multe.

 

Le emoticon

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I primi emoticon sulla rivista “Puck”.

Poi sono nate le emoticon, faccine ottenute coi segni di punteggiatura. Una trovata grafica che in realtà è arrivata ben prima di computer e cellulari: già nel 1881, sulla rivista umoristica statunitense “Puck“, gli artisti si divertirono a riprodurre 4 espressioni del volto usando solo caratteri tipografici: parentesi, trattini e punti.
Ma era solo un gioco artistico che rimase un caso isolato. Le cose cambiarono quasi un secolo dopo, nel 1963, quando l’artista statunitense Harvey Ball inventò il celebre “smile“, un cerchio giallo con due occhi e un sorriso stilizzati per una compagnia di assicurazioni di Worcester, la State Mutual Life Assurance Company; quest’ultima era stata acquistata dalla Guarantee Mutual Company of Ohio, e fra i dipendenti si diffuse una notevole preoccupazione. Così Bell disegnò una faccia sorridente che doveva essere posta sulle scrivanie e stampata su alcuni poster da appendere al muro: gli smiley servivano quindi ad accrescere il morale dei lavoratori, soprattutto se impegnati con i clienti.

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Gli emoticon proposti da Fahlman (1984).

Fu solo due decenni dopo, nel 1984 che l’informatico Scott Fahlman, della Carnegie Mellon University, propose di usare i “:-)” per rimarcare una conversazione di tono scherzoso, e “:-(” per evidenziare le frasi serie. Fu un successo: la proposta si diffuse in Arpanet (il primo, rudimentale Web) e poi nel Web.
E col passare del tempo le faccine si sono arricchite anche con emoticon volgari: come quelli per “culo” (_._), (_*_) e “tette” (o)(o), (@)(@). Disegni rudimentali per display rudimentali. Ma non hanno preso molto piede, perché in realtà nella comunicazione sono  più utili gli insulti che i termini osceni.

Gli emoji

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I primi emoji

Quando gli schermi dei telefoni e dei computer hanno fatto progressi, sono apparsi gli emoji, le icone colorate: 😆 . La trovata fu di un giapponese, Shigetaka Kurita, che li aveva creati nel 1999 per la piattaforma mobile della telecom NTT DoCoMo. E con gli emoji è stata una vera esplosione: ne sono fioriti a decine, sia per i computer che per gli smartphone. Il dito medio, la pupù, il vomito, il sedere, il pene sono solo alcuni degli emoji che sono stati sviluppati nel frattempo da vari software.

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Le flirtmoji: emoji per comunicazioni sexy.

Una moda stupida? Mica tanto. Queste faccine non servono a riempire un vuoto di contenuti (non sempre, almeno): servono invece a colmare i vuoti della comunicazione virtuale, tecnicamente chiamata “Computer mediated communication” (Cmc).
La Cmc, quella dei cellulari e del Web, per intenderci, ha un grande vantaggio: è veloce, immediata e dà la possibilità di avere subito un riscontro (feedback) sulla reazione dell’altro interlocutore.

Gli emoji del dito medio per Windows 10.

Gli emoji del dito medio per Windows 10.

Ma questo tipo di comunicazione ha anche 3 grossi svantaggi:
1) è anonima: è una forma standard uguale per tutti (la grafia scritta a mano, invece, cambia da persona a persona); 
2) non riesce ad esprimere bene le emozioni, dato che non è arricchita dal tono di voce e dai gesti;
3) ha notevoli limiti di spazio (pensiamo ai 160 caratteri degli sms o ai 140 di Twitter).
Il risultato? Spesso questo tipo di comunicazione genera equivoci. Chi non ha mai sperimentato sulla propria pelle i malintesi, i fraintendimenti, i litigi, comunicando via sms, chat, mail? Una frase detta per scherzo o per gioco viene presa sul serio o viceversa. Le faccine e le icone, quindi, colmano proprio questo vuoto: servono a esprimere le emozioni, a dare colore ai messaggi, a far capire il proprio stato d’animo e le intenzioni comunicative.

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Esempi di messaggi con emoji offensivi.

Ma le icone delle parolacce quali effetti hanno? E’ un ritorno ai pittogrammi degli Egizi: sostituiscono una parola con un disegno. Sono comodi, perché permettono di risparmiare battute preziose se si è su Twitter, per esempio. E in qualche modo sostituiscono i gesti e la mimica facciale, che mancano nella comunicazione digitale.
Ma in realtà gli emoji restano dei surrogati. Di fatto, impoveriscono la comunicazione perché la riducono al solo aspetto denotativo: se invece della parola culo inserisco il disegno di un culo, questo perde tutti i significati connotativi e metaforici (didietro, fortuna, gay…)  limitandosi a indicare anatomicamente i glutei.
Deve essere il lettore a ricostruire nella sua mente le altre sfumature di significato: proprio come avviene nei rebus. In questo modo, gli emoji sdrammatizzano i messaggi volgari, portando un’atmosfera da fumetto, da collage digitale. Ecco perché ritengo che nei prossimi anni se ne farà un uso diffuso.
D’altra parte, via sms o chat si tende a dare maggior spazio alle emozioni rispetto ad altre forme di comunicazione, proprio perché – avendo il viso nascosto dallo schermo – ci si sente più liberi di esprimersi, vincendo le proprie timidezze.
Che poi questa libertà sia usata da molti per dare sfogo al peggio di sè – come diceva di recente Umberto Eco – beh: questa è tutta un’altra storia.

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♦ insultare con gli emoji

 

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Perché diciamo “porco cane” (e che senso ha) https://www.parolacce.org/2015/04/03/origine-espressione-porco-cane/ https://www.parolacce.org/2015/04/03/origine-espressione-porco-cane/#comments Fri, 03 Apr 2015 08:47:27 +0000 https://www.parolacce.org/?p=7208 Da dove salta fuori l’imprecazione “porco cane?”. Che senso ha dare dell’animale a un altro animale, per di più “il miglior amico dell’uomo”? In effetti, non diciamo “asino capra”, “allocco baccalà” o “sorcio coniglio”… E’ vero, c’è l’espressione “porca vacca”:… Continue Reading

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Un cinghiale: è lui il “porco-cane”? (foto Sergii Votit/Shutterstock.com)

Da dove salta fuori l’imprecazione “porco cane?”. Che senso ha dare dell’animale a un altro animale, per di più “il miglior amico dell’uomo”?
In effetti, non diciamo “asino capra”, “allocco baccalà” o “sorcio coniglio”… E’ vero, c’è l’espressione “porca vacca”: ma in questo caso “vacca” sta a significare “donna di facili costumi”, e “porca” serve a rafforzare il concetto con un’ulteriore nota di disprezzo. Senza contare il ridondante “porca troia” (letteralmente, “maiala maiala”) che ha lo stesso significato.
Così ho deciso di indagare sul mistero del “porco cane”. Scoprendo che, come tutti i misteri, nasconde una spiegazione sorprendente.

Ma andiamo con ordine. Smontando subito un preconcetto: per quanto amiamo i cani, la parola cane (e non solo in italiano) è usata anche come insulto: il dizionario Treccani (guardacaso…) ricorda che la parola cane indica “un uomo di animo cattivo, spietato, oppure inabile, incapace nel lavoro che fa: quel cane di aguzzinolavoro fatto da cani, di pessima fattura; un cane, cantante o attore di teatro inadatto alla scena per irrimediabile insufficienza di qualità e di mezzi. Anticamente fu titolo ingiurioso rivolto dai cristiani agli infedeli, specialmente ai Turchi; altre espressioni ingiuriose più generiche: cane d’un traditore!; figlio d’un cane! In molte similitudini il cane è considerato nella sua natura di bestia e come tale contrapposto all’uomovita da cani, insopportabile, dura, miserabile; vivere, lavorare, mangiare, dormire da cane…”.
Dunque, verso il cane abbiamo sentimenti ambivalenti: amore e disprezzo. Anzi, in epoca antica (greci, romani e almeno fino al Medioevo) il cane era più  disprezzato che amato, come racconta questo articolo.

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Identikit della “fiera bestia” che terrorizzò la Lombardia nel 1700.

Questo, però, non spiega del tutto l’accostamento fra cane e maiale: che bisogno c’è di  rafforzare lo spregiativo “cane” con il “porco”?
Sull’origine di questo detto, circola un’ipotesi inaspettata: l’espressione risalirebbe al 1792, quando in Lombardia si scatenò la caccia a una bestia feroce che aveva divorato diversi bambini nelle campagne seminando il terrore fra la gente. “La Campagna di questo Ducato trovasi infestata da una feroce Bestia di color cenericcio moscato quasi in nero, della grandezza di un grosso cane, e dalla quale furono già sbranati due fanciulli. Premurosa la medesima Conferenza di dare tutti li più solleciti provvedimenti, che servir possano a liberare la provincia dalla detta infestazione”.
Così recitava un avviso emanato il 14 luglio 1792 dalla Conferenza governativa di Milano. Per volere di Cesare Beccaria – l’autore di “Dei delitti e delle pene” era un funzionario governativo – furono organizzate corali battute di caccia e trappole per catturare la bestia. Che da molti testimoni era descritta così:  “lunga due braccia, alta uno, e mezzo, con testa porcina, orecchie cavalline, pelo caprino lungo folto, e bianchiccio sotto il ventre, e più ancora sotto il mento, e alla coda, che lunga era e spiegata, ma era rossiccio e corto sul dorso: gambe sottili, piede largo, ugne lunghe e grosse, largo petto, e stretto fianco”. Fu pure messa in palio la somma di 150 zecchini per chi fosse riuscito a ucciderla. Alla fine, dopo 2 mesi di terrore, la bestia fu ammazzata a 5 miglia da Milano: era un lupo.
Il caso fu archiviato, ma senza troppe convinzioni: “le unghie e i denti di questo lupo non sembravano compatibili” con le ferite inferte alle vittime. Se non era un lupo, che animale poteva essere? Una iena, dato che all’epoca un circense ne aveva smarrita una? Oppure un cinghiale, per l’appunto un “porco-cane”
Di questo caso parla anche Sebastiano Vassalli nel romanzo storico “La chimera.

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L’identikit della belva che ha terrorizzato la Namibia.

All’inizio del capitolo 19, Vassalli scrive: “fino agli ultimi avvistamenti ebbe forme a noi più familiari, di torello o di grosso cane con testa da cinghiale, o di “porcocane”: animale esistito a lungo negli incubi dell’uomo ed ora in via di estinzione, ma ancora vivo nell’uso della lingua italiana”.
Leggende d’altri tempi? Mica tanto: nel 2012 fece il giro del mondo la notizia di una bestia simile (un “dog-headed pig monster”, un maiale mostruoso con la testa di cane) che attaccava i villaggi della Namibia settentrionale. Tanto che la polizia di Windhoek ne ha diffuso un ritratto disegnato al computer.

Dunque, tornando ai nostri studi, l’espressione “porco cane” sarebbe stata in origine un’esclamazione di terrore che al tempo stesso incute paura, usata per scaramanzia, per esorcizzare un pericolo evocandolo (insomma, un gesto apotropaico). Ma è davvero così? Diversi indizi fanno pensare di no. L’espressione “porco cane” è citata da Vassalli nel suo romanzo del 1990; ma nei documenti dell’epoca è chiamata “bestia feroce”, “belva”, “fiera bestia”. Come si spiega allora l’espressione “porco cane”? Che, pensandoci bene, è un’espressione strana al pari di “porca l’oca”?

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Statua di Zeus (foto abxyz/Shutterstock.com).

Le due imprecazioni potrebbero avere in realtà un legame invisibile, secondo uno dei massimi linguisti del secolo scorso, Eugenio Coseriu. Per Coseriu, le due espressioni sono antichissime e risalgono alla lingua greca. In greco, infatti, oca (χηνα, chena) e cane (kuνα, cunahanno un’assonanza con Zeus (Ζηνα, zena): dunque, invece di esclamare “Per Zeus!” (in ogni religione è  vietato pronunciare il nome di Dio invano), gli antichi greci dicevano “per il cane!” o “per l’oca!”.
L’uso, sostiene
Coseriusi sarebbe poi trasferito dal Greco fino all’italiano, con le espressioni “porco cane” e “porca l’oca”. Che quindi  hanno la stessa funzione di Cribbio, Cristoforo Colombo, porco due, porco Diaz…: sono eufemismi per evitare di pronunciare bestemmie. Orcocane!
Un’altra studiosa del mondo antico, Spencer Alexander McDaniel, sostiene invece che l’espressione sia un riferimento ad Anubi, l’antico dio egizio della morte, che nell’arte egizia è rappresentato con la testa di uno sciacallo. In greco, infatti, sono censite le espressioni “Per il cane!” o “Per il cane d’Egitto!” o “Per il cane, il dio degli egizi!” (nei “Dialoghi” di Platone: sono tutte espressioni attribuite a Socrate). Anche questa è un’ipotesi plausibile.

 

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Parolacce: il linguaggio della verità https://www.parolacce.org/2014/12/14/parolacce-e-verita/ https://www.parolacce.org/2014/12/14/parolacce-e-verita/#comments Sun, 14 Dec 2014 13:01:25 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6814 Chi fa le crociate contro le parolacce spesso dimentica che hanno un aspetto positivo importante: sono un linguaggio di verità. Come i dialetti, esprimono la realtà in modo diretto, naturale, senza filtro. Me l’hanno ricordato due uomini di cultura che stimo… Continue Reading

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Tullio De Mauro e Andrea Camilleri (gent. conc. Laterza).

Chi fa le crociate contro le parolacce spesso dimentica che hanno un aspetto positivo importante: sono un linguaggio di verità. Come i dialetti, esprimono la realtà in modo diretto, naturale, senza filtro. Me l’hanno ricordato due uomini di cultura che stimo molto: il linguista Tullio De Mauro e lo scrittore Andrea Camilleri, in un libro pubblicato da poco, “La lingua batte dove il dente duole” (Laterza).
Il libro esalta il ruolo del dialetto: «la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare» dice Camilleri. «La parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la lingua, di quella stessa cosa, esprime il concetto». In pratica, il dialetto esprime l’essenza delle cose, la loro natura profonda senza le sovrastrutture artificiali della cultura. L’italiano, invece, è la lingua dell’astrazione, dei temi generali, ma anche della distanza dai sentimenti e dalla spontaneità. Ma che c’entrano i dialetti con le parolacce?

coverC’entrano. Per dimostrare che il dialetto è la lingua della verità, De Mauro cita un caso giudiziario scoperto da una linguista fiorentina, Patrizia Bellucci: un processo per stupro, celebrato probabilmente un secolo fa, ai danni di un certo Nicolino.
Il magistrato gli domanda: «Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi congresso (congresso carnale, ndr)?».
Nicolino lo guarda interdetto.
Il magistrato, paziente, cerca di essere a modo suo più chiaro: «Nicolino, fuvvi concubito (congiungimento carnale, ndr)?». Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentitagli dall’eloquio giudiziario: «Nicolino, ditemi, fuvvi copula (idem, ndr)?». Nicolino lo guarda smarrito.
E allora il magistrato abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: «Niculì, isso, Gaetano, te l’ha misse ‘n culo?».
E Nicolino finalmente annuisce e risponde: «Sì, sì».

L’episodio, oltre a far sorridere, è prezioso perché rivela aspetti profondi. Innanzitutto, che il linguaggio giuridico è (come tutti i linguaggi specialistici) artificioso, lontano dalla spontaneità: e questo è un grave handicap, dato che la giustizia dovrebbe essere istintiva e cristallina. Un linguaggio giuridico meno bizantino renderebbe la vita più difficile ai mistificatori (ricordate il latinorum di Manzoni?).
Ma l’aneddoto rivela soprattutto che le parolacce sono tali perché evocano il sesso in modo diretto, senza timore riverenziale, senza distanze. Pene e cazzo si riferiscono allo stesso oggetto, eppure il primo termine è accettabile e si può dire in ogni circostanza, mentre il secondo è offensivo. Perché? Perché mentre il termine scientifico parla di sesso in modo neutro, asettico, la parola volgare evoca in modo concreto ciò che nomina, e per di più in modo crudo. E questo ci turba non solo perché abbiamo bisogno di tenere a distanza il nostro lato animalesco, ma anche perché il sesso è fonte di ansie, di forti emozioni, e va quindi maneggiato con cautela.

Questo ragionamento vale non solo per i termini sessuali: vale per tutte le parolacce. Dire a qualcuno che è stronzo – se lo è davvero – è l’unico modo appropriato di dire la verità. Anzi: talvolta le parolacce possono addirittura essere rivelatrici di aspetti profondi e nascosti della realtà. Un tempo, nelle piazze, gli eroi o i potenti erano acclamaati e insultati al tempo stesso, racconta il critico russo Michail Bachtin:  la lode e l’inguria riuscivano a esprimere i sentimenti ambivalenti (odio e amore) che tutti proviamo.«L’ingiuria» dice Bachtin «è anche un modo per rivolgersi con schiettezza a chi si ama: chiamare le cose col loro nome, sollevare il velo sull’ambivalenza della realtà, in cui gli opposti convivono, dando spazio al gioco verbale e abolendo le frontiere fra persone». E’ per questo motivo che ci si può rivolgere a un amico dicendogli «Ehi, come va, vecchio scarpone?».

Proprio per questo le parolacce sono usate nella goliardia, dai comici, e in particolare nella satira: è il linguaggio del popolo, della piazza, che serve a innescare un’atmosfera di gioco e di libertà carnevalesca, infantile. Ma è anche un modo straordinario di rivelare qualcosa, di dire la verità così com’è: nuda e cruda. Come quando il comandante De Falco disse a Schettino: «Salga a bordo, cazzo!».
«Le parolacce» dice ancora Bachtin  «sono frammenti di una lingua estranea, nella quale si poteva dire qualsiasi cosa; ma ora si possono solo esprimere insulti privi di senso». Quando scriveva queste parole, i reality e la tv volgare ancora non c’erano, ma la frase descrive perfettamente l’uso dozzinale e inflazionato delle parolacce oggi. Per fortuna, però, ci sono i comici, i rapper, i poeti che tengono viva la funzione rivelatrice e schietta delle parolacce: come fa Corrado Guzzanti nell’antologia qui sotto. Contro le anestesie sterili degli eufemismi, del linguaggio “politicamente corretto”, che spesso è un alibi per castrare e tappare la bocca a chi vuol dire una verità scomoda.

 

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