fesso | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 14 Jun 2022 12:51:32 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png fesso | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Il contrasto (apparente) tra “figata” e “cazzata” https://www.parolacce.org/2021/10/25/spregiativi-sessuali-femminili/ https://www.parolacce.org/2021/10/25/spregiativi-sessuali-femminili/#respond Mon, 25 Oct 2021 13:02:31 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18906 Il contrasto è sotto gli occhi di tutti. Mentre “cazzata” significa “sciocchezza, stupidata, cosa da nulla, inezia”, “figata” sta al suo estremo opposto, perché significa “eccezionale, bello, piacevole, ammirevole”. Dunque, mentre il sesso maschile è sinonimo di disvalore, quello femminile… Continue Reading

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“Che figata”, ristorante italiano a Naperville, Illinois (Usa).

Il contrasto è sotto gli occhi di tutti. Mentre “cazzata” significa “sciocchezza, stupidata, cosa da nulla, inezia”, “figata” sta al suo estremo opposto, perché significa “eccezionale, bello, piacevole, ammirevole”. Dunque, mentre il sesso maschile è sinonimo di disvalore, quello femminile indica il contrario, cioè qualcosa di valore. Un fatto notevole: pur nascendo da una cultura tradizionalista e maschilista, questi termini sembrano ribaltare la scala dei valori, attribuendo al femminile un ruolo superiore. Com’è potuto accadere? In realtà le cose sono più complicate. Perché in italiano esistono anche termini che usano il sesso femminile come sinonimo di “cosa da nulla”. Ma andiamo con ordine…

Cazzata” (con i termini dialettali equivalenti: minchiata, pirlata, belinata) è un termine spregiativo: come molti altri termini, considera il sesso un aspetto animalesco, e quindi inferiore e disprezzabile. Ma perché lo stesso disprezzo non è applicato a “figata”? Com’è che il sesso femminile è visto invece come qualcosa di positivo, anzi di entusiasmante?
A ben vedere, anche questo uso potrebbe essere espressione di maschilismo: dal punto di vista maschile, il sesso femminile è un valore. Ma la realtà è più complessa. Secondo il premio Nobel Dario Fo, “Nel nord e nel centro Italia, prima che arrivassero i Romani, le primordiali divinità celtico-insubri erano quasi esclusivamente di sesso femminile”, scrive nel libro “L’osceno è sacro” (Guanda, 2010). Basti ricordare Cerere, dea madre presso i Romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca (come la Sicilia). 

“Levati di mezzo, ricco coglione!”: titolo di “Libération” contro l’imprenditore Bernard Arnault che aveva chiesto la cittadinanza belga.

In francese, invece, è il sesso femminile ad avere un significato negativo: “con” (vulva”) significa “imbecille”. Lo stesso accade in inglese, con i termini “twat” e “cunt”, che designano sia la vulva che le persone stupide. In spagnolo, invece, la vulva (coño) è usata non come insulto ma come imprecazione e rafforzativo (que coño haces? Che cazzo fai?). Occorre ricordare che “cunt” e “coño” hanno la stessa origine: derivano dal latino “cuneus” a sua volta riconducibile al greco kusòs, buco (da cui deriva cunicolo): il “cuneo” è l’attrezzo appuntito che produce un  buco. 

Perché accade tutto questo? La contraddizione è solo apparente. In generale i termini sessuali, poiché rimandano al nostro lato animalesco, sono connotati dal disprezzo, perché ci consideriamo superiori alle bestie. L’uso di metafore sessuali, maschili e femminili, è al servizio di questo sguardo sul mondo e può usare indifferentemente sia metafore sessuali maschili che femminili. Tant’è che anche in italiano esistono – anche in dialetto – 4 termini che utilizzano una metafora sessuale femminile per esprimere disprezzo: fesseria, fregnaccia, monada e patacca.

 

Fesso, fesseria e “a fess e soreta”

“Totò d’Arabia”, film del 1965.

“Fesseria” deriva da “fessa”, vulva in napoletano: il termine significa infatti letteralmente “spaccatura”. Dunque, fessa = cosa da nulla, fesseria = stupidaggine, sciocchezza, sbaglio;  e fesso = sciocco, tonto. Il sesso femminile è utilizzato anche come maledizione (augurare il male): va fa int’ a’ fessa  ‘e mammeta /soreta, ovvero “vai a fottere dentro la vulva di tua madre/sorella”. Un modo, insomma, di costringere un’altra persona a fare un pensiero sgradevole, ovvero ad augurargli l’incesto.

 

Fregnacce e fregnoni

Sagra della fregnaccia a Montasola (Rieti).

Lo stesso ragionamento è all’origine di “fregnaccia”, termine romano che deriva da “fregna”, vulva. Il termine ha un’origine incerta: potrebbe derivare dal latino fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre “rompere”. Il termine fregna è usato anche come sinonimo di stupidaggine, fandonia, come anche fregnaccia, fregno (persona o cosa di scarsa importanza), fregnone (sciocco, minchione, babbeo). “Avere le fregne” significa essere preoccupato di pessimo umore: l’espressione si collega agli sbalzi d’umore legati alle mestruazioni.
Tra l’altro, “fregnaccia” è anche l’appellativo di una frittella romana:
si fa una pastella con acqua, farina e sale; se ne prende una cucchiaiata che si mette a cuocere in padella, con olio bollentissimo, rigirando di quando in quando. Si ottiene così una frittella che viene cosparsa di zucchero oppure pecorino; poi, la frittella si piega congiungendo un punto del cerchio al centro, e poi piegando di nuovo. Le fregnacce, consumate fredde, sono una prelibatezza ma, vista la povertà degli ingredienti e la facilità della preparazione, sono, appunto, fregnacce.

 

Patacca  e pataccari

Una t-shirt beneaugurante.

La “patacca” era una moneta grossa ma di basso valore (perché conteneva poco argento), messa in circolazione dagli spagnoli nel 1500.  Il termine è diventato o sinonimo di “cosa di nessun valore”, ma anche di grossa  macchia di sporco. “Pataccaro” è chi vende monete false, ovvero uno sbruffone, un truffatore.  Nel dialetto romagnolo il termine prende anche a indicare il sesso femminile: i peli pubici formano una macchia scura, una patacca per l’appunto.   

 

Mona e monada

Cartello contro gli incivili a Salgareda (Treviso).

In veneto, “mona” indica la vulva. Deriva dall’arabo maimunscimmia’. Forse un parallelismo fra il corpo peloso della scimmia e i peli pubici. “Mona” indica anche una persona sciocca, balordo,cretino (da cui anche il termine monello). Com’è avvenuto il passaggio? Probabilmente è un’espressione  di  maschilismo: “essere un mona” significa essere una femmina, considerata in passato un essere inferiore. Tanto che “andare in mona” può significare sia “compiere un  atto sessuale” sia andare al diavolo, andare male (“ma va in mona!”).

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Perché i genitali sono diventati insulti? https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/ https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/#respond Wed, 17 Feb 2016 14:07:43 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9415 “Cazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene,… Continue Reading

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deadpoolCOLCazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene, vulva, glutei sono usati anche per offendere le persone (coglione, testa di cazzo, faccia da culo, rincoglionito)?
Non è strano che gli organi sessuali (nei quali ho inserito anche i glutei, in quanto richiami erotici) siano usati per descrivere le caratteristiche psicologiche o i modi di fare delle persone, e per di più in modo negativo?
La questione è intrigante. Indagando ho scoperto che queste metafore sessuali sembrano indicarci una rotta morale, additando i peggiori difetti umani, sia intellettivi che comportamentali. E lo fanno con una lucidità sorprendente: sembrano aver attinto da un trattato di psichiatria. I difetti che queste espressioni mettono alla berlina, infatti, sono così universali che caratterizzano molti celebri personaggi cinematografici: non solo Deadpool, ma tutte le macchiette rappresentate nei film di Carlo Verdone… e non solo.

Prima di svelare la mappa semantica degli insulti derivati dai genitali, affrontiamo subito la questione di fondo: cosa c’entrano gli organi sessuali con i difetti morali? Perché i nomi del sesso sono usati per esprimere offesa, disistima, disprezzo?
Innanzitutto perché i nomi osceni, evocando il sesso, sono emotivamente carichi, sono parole impregnate di passioni. Ma questa carica non è solo positiva (eros, piacere, seduzione, forza vitale, eccitazione, fecondità…). Il sesso ha anche un risvolto negativo: ci ricorda la nostra natura animalesca, da cui cerchiamo sempre di prendere le distanze. Ecco perché il sesso è usato per “abbassare” il valore di una persona: se dico a qualcuno che è una “testa di cazzo”, metto la sua intelligenza sullo stesso piano della pulsione sessuale, irrazionale e incontrollata. Quella persona, invece di ragionare col cervello, si lascia guidare dal pube. La “torre di controllo” si è spostata dall’alto al basso

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Iniziativa di un gruppo di creativi free lance: non vogliono essere sotto pagati, cioè trattati da coglioni.

Questa visione svilente della sessualità è stata rafforzata, nella cultura occidentale, dall’orfismo, un movimento religioso nato in Grecia nel VI secolo a.C.: gli orfici disprezzavano il corpo, mortale e limitato, perché lo consideravano inferiore all’anima, pura e immortale. Nei secoli successivi questo contrasto fra mente e corpo è stato rafforzato anche dal cristianesimo, per il quale la vita terrena vale solo in funzione di quella ultraterrena.

Ecco perché, in moltissime lingue, i nomi che designano i genitali sono usati come insulti, anche se con molte variazioni da un Paese all’altro: alcuni Paesi utilizzano più le metafore derivate da pene e testicoli, altri quelle dalla vulva, altri ancora quelle che rimandano ai glutei.
Per esempio, tornando al film  “Deadpool”,  la tripletta inglese che lo descrive, significa letteralmente: tosto, saccente, grandioso, ed è giocata sulle varianti di “ass”, culo. In Italia, anche se culo è una parola dai molti significati (ne avevo parlato qui), preferiamo usare come metafora i genitali maschili: il “lato A” invece del “lato B”. Ecco perché nella versione italiana i traduttori hanno puntato sugli aggettivi derivati dal pene: cazzone, cazzuto, incazzato. Infatti, cazzuto è la traduzione corretta di bad ass,; smart ass è reso con cazzone, mentre sarebbe stato più corretto definirlo cazzaro (fanfarone, spaccone). Per il terzo aggettivo, great ass, non esiste un corrispettivo derivato dai genitali maschili: sarebbe stato corretto tradurlo come figone. E infatti in italiano le metafore derivate dal sesso femminile esprimono per lo più concetti positivi: figa (bella donna), figo (bell’uomo, alla moda, attraente, elegante), figata (cosa bella, piacevole, ben riuscita)… L’unica eccezione è fighetto, inteso come elegante, vanesio, affettato. Ma d’altronde non bisogna dimenticare che fesso (= sciocco, scemo) deriva da fessa (fessura, vulva), e fregnone (= sciocco, stupido) da fregna (vulva).

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T-shirt: sono con un testa di…

Qualcuno ha ipotizzato che forse la nostra cultura è fissata alla fase fallica (la fase dello sviluppo infantile che concentra la libido sul pene) mentre quella anglosassone a quella anale, ma è una lettura troppo semplicista: anche in italiano abbiamo molti riferimenti al deretano (faccia da culo) e agli escrementi (faccia di merda) nei nostri insulti. Forse, il contrasto fra pene-spregiativo e vulva-elogiativa è uno dei tanti sintomi del maschilismo della nostra cultura: i maschi disprezzano il proprio sesso, apprezzando quello opposto. C’è del vero, ma come spiegare, allora, gli spregiativi derivati dal sesso femminile?
E’ più probabile che questa opposizione nasca da un altro aspetto: mentre la vulva è nascosta e misteriosa, il pene è un organo evidente, appeso e penzolante, quindi in balìa dei movimenti del corpo: come tale si presta a diventare il simbolo di un essere passivo e inanimato.
In ogni caso, è impossibile generalizzare: in francese, per esempio, il termine che designa la vulva, con, è usato come insulto: equivale al nostro coglione. Lo stesso avviene anche in inglese, dove il termine twat (vulva) è un’offesa pesante che significa coglione, stronzo, pezzo di merda. I nomi del sesso, insomma, sono veri jolly linguistici che possono esprimere tutto e il contrario di tutto, come già raccontavo in questo post.

Ed è proprio questa ricchezza espressiva a rendere difficile studiare questi appellativi, e tradurli da una lingua a un’altra: che cosa vogliamo dire quando affermiamo che una persona è “un coglione“? E’ questa la prima difficoltà con cui ci si scontra se si vuole fare una mappa semantica degli insulti tratti dal lessico sessuale, traducendo le parolacce in termini neutri o almeno non volgari. Così facendo, ho potuto distinguere gli insulti genitali in due grandi famiglie: quelli contro l’intelligenza e quelli contro il comportamento. E mentre compilavo questo elenco (nel quale ho inserito, in blu, alcuni corrispettivi in inglese) mi sono venuti in mente diversi personaggi cinematografici che incarnassero quei difetti. Tipi umani presenti a ogni epoca e latitudine.

insultiGenitali1Gli insulti contro l’intelligenza si possono dividere in 2 sottocategorie: quelli che condannano l’incapacità di intendere, ovvero il ritardo mentale in varie forme; e quelli che puntano l’indice contro l’ottusità, l’ostinazione, ovvero la demenza e i deficit di attenzione. Mentre i primi sono difetti permanenti, i secondi possono essere transitori: perché si è presa una botta in testa, perché si è invecchiati, perché si è stanchi. Questi insulti, insomma, evidenziano – per contrasto – l‘importanza dell’intelligenza, della prontezza di riflessi, della capacità di discernere e agire di conseguenza.
Chi è privo di queste doti, è emarginato e disprezzato. Ma al tempo stesso fa ridere: se guardate i personaggi che incarnano questi difetti, sono tutti personaggi comici: da Checco Zalone a Mr Bean, fino al tontolone Leo, portato in scena da Carlo Verdone in “Un sacco bello”.

insultiGenitali2Discorso altrettanto interessante si può fare per gli insulti che stigmatizzano determinati comportamenti. Mettendoli tutti insieme, mi sono accorto che coincidono in modo impressionante con i disturbi di personalità, cioè le malattie mentali che compromettono l’equilibrio psicologico e relazionale di una persona. Sono tutte forme di disadattamento: chi ne è affetto risponde in modo inadeguato ai problemi della vita, compromettendo i rapporti con gli altri. Sono persone aggressive, false, esibizioniste, moleste, vittimiste, incapaci di empatia con gli altri, insensibili, cattive. E proprio per questo sono il bersaglio di molti e pesanti insulti, come potete vedere dal grafico qui a lato. Nei loro confronti, è difficile usare una chiave comica: soprattutto verso i sociopatici, che non a caso hanno ispirato schiere di “cattivi” nei film.

Dunque, riunendo tutti gli insulti derivati dai genitali, emerge un quadro sorprendente: additano le peggiori caratteristiche di una persona, che diventa così meritevole di disprezzo e di dileggio. Ma queste parolacce non sono soltanto offese. Indirettamente indicano (per contrasto) i valori più importanti che ognuno di noi dovrebbe perseguire se vuole ottenere la stima e la benevolenza altrui: l’intelligenza, l’acume, la ragionevolezza, l’altruismo, l’empatia, la dolcezza, il rispetto… Insomma, a ben guardare, gli insulti genitali non sono cazzate.

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Pino Daniele: le parolacce di un bluesman popolare e viscerale https://www.parolacce.org/2015/01/11/parolacce-pino-daniele/ https://www.parolacce.org/2015/01/11/parolacce-pino-daniele/#comments Sun, 11 Jan 2015 11:56:14 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6929 I testi di Pino Daniele sono una miniera straordinaria per un linguista. Non solo per l’uso del napoletano, che lui ha saputo portare ad alte vette poetiche ed espressive. Ma anche per lo studio delle parolacce. Me ne sono accorto il 5 gennaio,… Continue Reading

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Pino Daniele - Scio (Front)

La copertina del live di Daniele: “sciò”, nel doppio senso di “show” e di scongiuro.

I testi di Pino Daniele sono una miniera straordinaria per un linguista. Non solo per l’uso del napoletano, che lui ha saputo portare ad alte vette poetiche ed espressive. Ma anche per lo studio delle parolacceMe ne sono accorto il 5 gennaio, quando ho appreso la notizia della sua scomparsa. Una strana sensazione, tanto più che in quel momento – casi della vita – ero alla stazione di Napoli, la città di Daniele.
Salito sul treno, con famelica nostalgia ho ripercorso via Internet tutta la sua carriera musicale. Volevo ricordarlo, e mi sono chiesto se potevo farlo anche attraverso le sue parolacce, come avevo fatto con altri artisti che ho amato: Lucio DallaEnzo Jannacci e Franco CalifanoNegli anni ’80, infatti, quando avevo sentito per la prima volta le canzoni di Pino Daniele, mi avevano colpito anche per la loro carica trasgressiva. Ricordavo alcune parolacce, ma erano casi isolati o qualcosa di più? Ho deciso di indagare, andando a rileggere tutti i testi delle sue canzoni qui.
La prima sorpresa è stata la quantità:  su un totale di circa 260 canzoni in 24 album (ho escluso le raccolte e i live, che contengono canzoni già pubblicate), le parolacce sono presenti in 31 canzoni, quasi l’11%. Ovvero: dato che ogni album contiene in media 10 canzoni, almeno una canzone ad album diceva  volgarità.

PinoStatOK

Il grafico della cronologia delle canzoni di Daniele con parolacce. In rosso è tratteggiata la linea di tendenza.

Ma in realtà, la concentrazione del turpiloquio è molto cambiata nel corso degli anni. Gli album che contengono parolacce sono 14 su 24 (il 58%). E più della metà risale agli anni ’80. E’ vero che gli anni ’80 sono stati il periodo più creativo (e per me il migliore) di Pino Daniele. Ma in quegli anni la concentrazione di parolacce ha toccato il picco più alto, soprattutto in “Nero a metà”. Poi le parolacce sono calate. Come lui stesso diceva nel 1993, con autoironia:

Sono un cantante di blues 
e mi vesto male 
mi piace il vino, la birra 
ma adesso bevo acqua minerale 

Ma oltre alla quantità, è stato più rivelatore osservarne la qualità. Ovvero: che tipo di parolacce erano, a che gli servivano, visto che molti suoi pezzi celebri sono testi romantici? In realtà, le due anime non sono contraddittorie: convivono. Perché la misura espressiva di Pino Daniele era l’agrodolce, la contaminazione, l’unità degli opposti. Daniele era popolare e intimista al tempo stesso, con grande coerenza di stile. Musicalmente mescolava melodia, blues, jazz. E la sua musica si sposava coi testi in napoletano, reso straordinariamente moderno dalla fusione con l’inglese. Era un modo di portare in musica l’espressiva Babele di Napoli, un porto di mare dove si incontrano culture diverse, che possono comunicare per lo più attraverso l’inglese (ma in alcuni testi Daniele infila il francese, il portoghese, l’arabo). Una scelta che mostra l’apertura e la curiosità di Daniele, la sua continua ricerca del nuovo: musicalmente, è sconfinato anche nei ritmi latini, nel rap, e in un’intervista ha detto che si divertiva a suonare anche i madrigali del 1500. Ricerca e sperimentazione.

Con quella musica, e con quella lingua, Daniele raccontava storie popolari e metropolitane, viscerali e romantiche. Con sincera passione. Lui stesso si era definito “mascalzone latino”, e in una canzone (“A me me piace o blues”) aveva detto: sono volgare e so che nella vita suonerò, pe chi tene ‘e complessi e nun ‘e vò. Proprio per questo nei suoi testi non potevano mancare le parolacce. Così ha descritto le notti di Napoli, popolate di transessuali (“Chill è nu buono guaglione, peccato ca è nu poco ricchione”) quasi 20 anni prima di Fabrizio De Andrè (“Prinçesa”).

Nelle sue canzoni, Daniele ha usato in tutto 39 diverse parolacce (vedi torta qui sotto): solo il 16% sono in italiano (scemo, culo, cazzo, fica), mentre l’84% sono in napoletano. Vale la pena di sottolineare che Daniele, oltre ad alcune parolacce lievi (cacà, scemo, fesso) ha osato inserire nelle canzoni anche 2 parolacce particolarmente forti e tabù: fica e bucchino. Eppure nessuno si è particolarmente scandalizzato, né lui è passato alla storia come un autore triviale. Perché Daniele diceva parolacce con spontaneità, arricchita dalla grazia, dalla musicalità del napoletano: sono note di colore, espressioni colloquiali per esprimere con schiettezza i propri sentimenti: “Je so’ pazzo, je so’ pazzo, nun ce scassate ‘o cazzo!” (1979). E vista la sua contaminazione linguistica, non potevano mancare parolacce come l’inglese bitch e l’ironico inglese maccheronico strunzation. Creatività, anche nella lingua.

PinoStatOK2

I 39 lemmi volgari usati da Pino Daniele. Ho tenuto conto delle occorrenze (le volte in cui un termine appare) nelle diverse canzoni, ma non ho tenuto conto di quante volte il termine si ripete all’interno della stessa canzone.

La parolaccia più frequente è fottere (c’è una canzone, “Che te ne fotte”, 1981, che la inserisce direttamente nel titolo): rappresenta da sola ¼ (23%) di tutte le parolacce da lui usate.

Segue il verbo ‘ncazzà (21%), in varie coniugazioni: e non è un caso, perché Daniele era molto viscerale. In molte canzoni dava sfogo alla rabbia per le ingiustizie, sia sociali che personali, o alle proprie insofferenze. Come nella feroce satira antipapale di Tarumbò (1982): “sta capa e mellone, a me me fa ‘ncazzà”. Era un attacco alla figura del pontefice percepito come lontano dai problemi della gente: “stu bacone nun se ne fotte ‘e niente, ccà ascimmo pazzi si prejammo sempe” (questo inetto non se ne fotte di niente, qui diventiamo pazzi se preghiamo sempre).


E far da contrappunto alle molte sue canzoni romantiche (“Resta cu’ mmè” e “Dubbi non ho” sono fra le mie preferite) ci sono ballate di rabbia e odio come “T’aggia vedè morta”, una canzone che augura la morte lenta a una donna che l’aveva lasciato. Quando era incazzato Daniele non lo mandava a dire. Senza guardare in faccia a nessuno.
Un esempio? A lui, uno sperimentatore con le radici saldamente piantate nella cultura di Napoli, il separatismo propugnato dalla Lega Nord non era mai piaciuto. E non l’ha mai nascosto: tanto che nel 2001, a margine del Festival di Sanremo, Daniele aveva detto ai giornalisti: «Umberto Bossi che canta Maruzzella a Napoli? Mi fa schifo, è un uomo di m***». Il senatur lo denunciò chiedendo un risarcimento di 500mila euro; poi trovarono un accordo, ma non si è mai saputo in quali termini.

Insomma, le parolacce ci fanno conoscere un Pino Daniele viscerale, schietto, passionale. E resta da scoprire ancora molto altro, com’è per i mondi ricchissimi dei grandi artisti. Qui sotto, per chi vuole ricordare le parolacce di Pino Daniele, ho raccolto quelle che sono riuscito a trovare (se ne ho dimenticate altre, scrivete).

Dedico questo post al mio amato zio Antonio Tartamella, morto lo stesso giorno di Pino Daniele. Anche lui, un cuore grande che con pazienza e coraggio ha lottato per anni con una difficile malattia. RIP

Strofa con parolacce Canzone (album)
Si ll’ancappo? Si ll’ancappo
Saje che succede
Nce faccio ‘o mazzo tanto!
Maronna mia
(Terra mia, 1977)
eppure so’ cuntento
‘o ssaje m’hanno fottuto
e viaggi e l’autostrada
tutto chello c’aggio passato
E cerca e me capì
(Pino Daniele, 1979)
viento viento
viento nce resta pe’nce ‘ncazzà’
Viento
(Pino Daniele 1979)
chillo è nu buono guaglione
ma che peccato ca è nu poco ricchione
Chillo è nu buono guaglione
(Pino Daniele, 1979)
Je so’ pazzo, je so’ pazzo
nun ce scassate ‘o cazzo!
Je so’ pazzo
(Pino Daniele 1979)
A che serve stà’ accussì
sempre ‘ncazzati ma po’ pe chi
Nun me scoccià
(Nero a metà, 1980)
Ed ho visto morire bambini
nati sotto un accento sbagliato
ieri mi sono incazzato
ed oggi sono vero
Voglio di più
(Nero a metà, 1980)
Puozze passà’ nu guaio
p’o mmale ca me faje
pecchè me faje fesso
e nun pozzo campà’
Puozze passà’ nu guaio
(Nero a metà, 1980)
e poi mi levi vino
pecchè si’ nu figlio ‘e bucchino
Musica musica
(Nero a metà, 1980)
I say i sto cca’
ogni tanto s adda fa’
pe tutto sto burdello ca ce sta
I say i sto cca’
(Nero a metà, 1980)
nun ce sta piacere
nemmeno a ghi a fà’ ‘nculo pe’ ‘na sera
Nun ce sta piacere
(Vai mo’, 1981)
Yes I know my way
mo’ nun me futte cchiù
mo’ nun me futte cchiù
Yes I know my way
(Vai mo’, 1981)
Guagliò ma che te ne fotte
si parla quaccheduno
allucca cchiù forte
Chi t’ha ditto ca nun può scassà
tutto chello ca te fà ‘ncazzà’
Guagliò ma che te ne fotte

‘a vita è sulo culo rutto
e niente cchiù
Che te ne fotte
(Vai mo’, 1981)
Mo basta
pecchè si troppo strunzo pè parlà
Mo’ basta
(Bella ‘mbriana, 1982)
e stu bacone nun se ne fotte ‘e niente
ccà ascimmo pazzi si prejammo sempe
(…) sta capa ‘e mellone
a mme me fà ‘ncazzà
Tarumbò
(Bella ‘mbriana, 1982)
t’aggio visto chiagnere e jastemmà
t’aggio visto fottere e scannà
Bella ‘mbriana
(Bella ‘mbriana, 1982)
si te ‘ncazze è tragica
e nisciuno ce vo’ penzà
Tutta ‘nata storia
(Musicante, 1984)
Si fossimo fottute
nce avessama rassignà’
Disperazione
(Musicante, 1984)
E a trent’anni nun può capì’
‘e canzone te fanno fesso
Keep on movin
(Musicante, 1984)
I say one, and soreta bitch
capisce mo’
(…)
One, dint’a stu burdello
‘o ssaje ‘o nonno mio
One
(Ferryboat, 1985)
l’aria è strana e po’ che mazzo
si ‘ncuntrassemo a Gesù
A rrobba mia
(Ferryboat, 1985)
Tu si’ tutto scemo
cride ancora ‘o sissantotto
Baccalà
(Bonne soirèe, 1987)
Tell me now now now
si sì bbouno o si sì fesso
Tell me now now now

si sta vita è na strunzation
me so’ fottuto cantanno

e quando poi sei cresciuto che hai bisogno
Tell me now
(Schizzechea With Love, 1988)
Pecchè c’adda piglià’ sta gelusia
ce basta sulo ‘o munno a ce ‘ncazzà’
Ammore scumbinato
(Mascalzone latino, 1989)
pecchè ‘o munno è d’e pazze
e so’ pazz’ ‘a cacà’
pecchè ‘o munno è d’e pazz’

e so’ pazz’ futtut’ 
so’ tutti mafius’
Faccia gialla
(Mascalzone latino, 1989)
sai la casa non ha senso senza te
nessuno mi fa più incazzare 
Solo
(Un uomo in blues, 1991)
noi vogliamo
solamente
un’altra cosa che il mondo
non diventi come un grande cesso 
con questa filosofia
cca’ nisciuno è fesso 
Fatte ‘na pizza
(Che Dio ti benedica, 1993)
Dammi solo un’ora baby
che Dio ti benedica
che fica 
Che Dio ti benedica
(Che Dio ti benedica, 1993)
tu e chella granda cessa ‘e
tua zia
T’aggia vedè morta
(Che Dio ti benedica, 1993)
Lavorerò
pensando forte
perchè non voglio essere come
te che non fai un cazzo, no!
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(Il Mio Nome E’ Pino Daniele E Vivo Qui, 2007)
c’è un solo modo per scoprire
se sei o no
una persona gentile
o mi prendi per il culo
Anime che girano
(Electric jam, 2009)

 

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Lo sdoganamento del “fico” https://www.parolacce.org/2014/03/27/fico-aggettivo-inflazionato/ https://www.parolacce.org/2014/03/27/fico-aggettivo-inflazionato/#respond Thu, 27 Mar 2014 11:23:24 +0000 https://www.parolacce.org/?p=1611 Pochi se ne sono accorti, ma nel campo delle parolacce sta avvenendo una piccola rivoluzione: lo sdoganamento della parola “fico” (o “figo”). Un tempo considerata una parola volgare, usata solo nel gergo giovanile, oggi sta diventando una parola colorita e… Continue Reading

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Pubblicità dell’Aquafan di Riccione (2019).

Pochi se ne sono accorti, ma nel campo delle parolacce sta avvenendo una piccola rivoluzione: lo sdoganamento della parola “fico” (o “figo”). Un tempo considerata una parola volgare, usata solo nel gergo giovanile, oggi sta diventando una parola colorita e colloquiale, senza grandi connotazioni scandalose.
Nulla di insolito, per carità: tutte le parole sono vive, e come tali possono morire, risorgere, assumere nuove sfumature, perderle, o rinascere sotto nuove forme. Il che vale ancor più per le parolacce, che possono assumere o perdere connotazioni, ovvero sfumature emotive.

Ma nel caso di “figo” tutto ciò è avvenuto in un modo particolare: per esigenze di traduzione. Il cambio di significato (semantic shift) non è infatti colpa o merito dei politici, una volta tanto. E’ vero che l’ex premier Enrico Letta ha usato l’espressione in più occasioni (“Ero da 48 ore ministro, mi sentivo un gran figo”; oppure, rivolto al Pd: basta fare i fighetti”), ma in realtà lo sdoganamento è stato deciso da altri, in un campo insospettabile: l’intrattenimento per bambini.

I “fuchi fichi” di “Bee movie” (2007).

Me ne sono accorto guardando con mio figlio i cartoni animati degli ultimi 10 anni: in diversi film d’animazione i personaggi esclamano “fiiico!” per manifestare entusiasmo verso qualcosa di sorprendente, di eccezionale. Pur non essendo un bacchettone, la scelta mi ha colpito: i vecchi cartoni della Walt Disney o della Warner Bros non si sarebbero mai spinti a tanto, almeno fino agli anni ’80 e ’90. Che cosa è accaduto?
E’ accaduto che i traduttori italiani hanno scelto la parola “figo” per rendere in italiano l’aggettivo inglese “cool”. Il significato originario di questa parola è “fresco”: rivolto a una persona significa quindi “distaccato”. Dagli anni ’50, l’aggettivo è stato usato anche per indicare le persone disinvolte, di tendenza, in gamba, anticonformiste, interessanti, eccitanti, alla moda, belle: “fighe”, per l’appunto.

La copertina del brano “Che fico!” di Pippo Franco (1982).

E così, per doppiare i film senza aumentare la quantità di sillabe, i traduttori hanno usato la parola “fico”. Portando a compimento un processo di de-volgarizzazione che in realtà ha radici lontane: ricordate il brano “Che fico” di Pippo Franco? Fu usato persino come sigla del Festival di Sanremo nel 1982, ma il tentativo rimase isolato. Oggi siamo arrivati al punto che “fico” è usato persino come nome di alcuni personaggi in un cartoon: in “Bee movie”, i “pollen jock” (atleti del polline) sono stati tradotti nella versione italiana come “fuchi-fichi”.

Il problema, però, è l’evidente origine sessuale del termine: nato per indicare l’organo genitale femminile, che somiglia a un frutto aperto, è poi passato a indicare (per sineddoche) l’intera persona femminile, diventando anche sinonimo di bellezza e attrattività, usato indistintamente per uomini e donne. Non è certo un caso unico: l’aggettivo “fesso” (scemo, tonto) deriva da “fessa” (fessura), anch’essa una metafora – stavolta con connotazione negativa – per riferirsi ai genitali femminili, proprio come avviene per la parola “con” in francese.
Dunque, i traduttori dei cartoon si sono presi una responsabilità linguistica: sdoganando il termine “fico”, considerandolo adatto alle delicate orecchie dei bambini, l’hanno di fatto inflazionato e depotenziato. Sarebbe stato meglio che lo traducessero con la parola “ganzo” o “forte”?
Forse sì: già ci sono tante parolacce che si stanno inflazionando, e in un’epoca di scarsa attenzione al peso delle parole un po’ più di oculatezza sarebbe raccomandabile, se non vogliamo impoverirci anche nel linguaggio. Non sarebbe molto fico.

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