figata | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Sat, 05 Oct 2024 15:37:11 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png figata | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Le pubblicità più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/10/02/slogan-con-parolacce/#respond Wed, 02 Oct 2024 10:13:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20858 A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso… Continue Reading

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Educazione universitaria e maleducazione: l’università di Macerata strizza l’occhio ai giovani ma perde autorevolezza.

A volte sono allusive, altre becere. Possono essere simpatiche o urtanti. Ma nessuna passa inosservata: le pubblicità con slogan volgari restano impresse nella memoria. Ma sono aumentate negli ultimi tempi? E funzionano, fanno vendere di più? Dopo aver raccontato l’uso delle parolacce nelle campagne sociali delle “Pubblicità Progresso”, ora è il turno delle pubblicità di prodotti e servizi

In Rete esistono varie raccolte di campagne volgari, ma sono parziali. E non indicano un dato importante: ovvero, se siano state censurate o no dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente che regolamenta il settore. Lo IAP, infatti, è l’ente che riunisce i pubblicitari, le aziende e i media, e vigila affinché l’informazione commerciale affinché sia onesta, veritiera e corretta. C’è un articolo del Codice di autodisciplina, il numero 9, che vieta espressamente l’uso di “affermazioni o rappresentazioni indecenti, volgari o ripugnanti” oltre che quelle di violenza fisica o morale.

Alla fine sono riuscito a raccogliere 33 campagne in un arco temporale che va dal 1977 al 2024, cioè 47 anni, e ho verificato quante fossero state esaminate dal Giurì dello IAP. Le trovate tutte più sotto, seguite da un‘analisi linguistica e sociale. Un dato appare subito evidente: le pubblicità che contengono termini scurrili sono un’eccezione. Hanno una media inferiore ad una all’anno, anche se – come vedremo – sono in netto aumento negli ultimi tempi.

IMMAGINI E ALLUSIONI

Campagna censurata: per il doppiosenso e il sessismo.

In ogni caso, gran parte degli spot utilizza, invece delle parole, le immagini: corpi nudi, o in pose provocanti, di donne (soprattutto) e uomini. Oppure allusioni verbali, come nel recente jingle di Elio e le storie tese per Conto Arancio: “hai l’interesse senza fare un tasso / Metti i soldi quando vuoi, li togli quando vuoi / Fai quel che tasso vuoi”, dove il termine “tasso” è un evidente sostituto di “cazzo”.
Ma non sempre le allusioni pagano. Ne sa qualcosa una pubblicità censurata nel 2012 pur non contenendo un lessico scurrile: la parola contestata, infatti, è “chissacchè“.  Basta vedere il manifesto qui a lato per capire il motivo della censura: l’operatore telefonico ItaliaCom ha usato lo slogan “Non vi prendiamo per il chissacché” affiancandolo alla foto di una modella in tanga, con il sedere bene in vista. In questo modo, senza possibilità di equivoci, il vero significato della frase è: “non vi prendiamo per il culo“. Lo Iap ha bocciato la campagna per «la gratuita ed inaccettabile mercificazione del corpo femminile e l’assoluta gratuità della scelta comunicazionale».

Le 33 pubblicità più volgari

Ecco le 33 campagne più scurrili della storia (basta cliccare per espandere le finestre): quelle nei riquadri rossi sono state bocciate dallo IAP o da altre autorità, quelle verdi sono state approvate, quelle nere non risultano essere state censurate.
E tu, ne conosci altre
(con parolacce!) che mi sono sfuggite? Puoi segnalarle nei commenti. Ma attenzione: solo le campagne che utilizzano termini, parole volgari, ovvero un lessico scurrile (escludendo, quindi, le pubblicità che si basano solo su immagini scabrose). 

2021-oggi

2011-2020

2001-2010

1991-2000

1971-1980
 

Il metodo e i risultati

Campagna Netflix con cibi che evocano la vulva.

Dal 1970 al 2023, lo IAP ha emesso 7.017 pronunce. Di queste, solo il 3,3% (230) erano contestate per possibili infrazioni all’articolo 9. Dunque una percentuale molto bassa: la parte del leone, nelle sentenze del Giurì, è rappresentato dalle pubblicità ingannevoli. In più, l’articolo 9 punisce non solo il linguaggio volgare, ma anche le immagini (indecenti o ripugnanti) e le violenze (fisiche o verbali): escludendo dalla ricerca queste ultime due motivazioni (tutt’altro che marginali), la percentuale di campagne esaminate per il linguaggio scurrile si riduce ulteriormente. In ogni caso, passare al vaglio 230 casi andava oltre le mie possibilità di tempo. Così per rintracciare le campagne scurrili, ho usato due metodi: una comune ricerca su Google (concentrando la ricerca sulle pubblicità che usavano termini scurrili, di varia intensità offensiva, escludendo nudi e pose oscene), affiancata dall’interrogazione dell’archivio IAP: sia su questi casi, che inserendo come parole chiave di ricerca le parolacce d’uso più frequente. Con il primo metodo, ho rilevato i casi balzati all’attenzione di giornali nazionali e locali, a cui si sono aggiunti – con il secondo metodo – casi meno noti ma altrettanto significativi.
Su 33 campagne da me censite, 20 sono finite sul tavolo dello IAP: rapportate alle 7.017 pronunce, sono lo 0,3% del totale. Non sono tutte (sicuramente me ne saranno sfuggite diverse), ma danno un’idea concreta del loro scarso peso statistico. «
Rispetto ai social e a Internet, il linguaggio pubblicitario è più abbottonato» spiega  il segretario dello IAP Vincenzo Guggino. «Essendo una comunicazione pervasiva, che arriva a tutti, la pubblicità si contiene di più».

Alcune campagne censurate, invece, non le ho inserite nella raccolta per l’impossibilità a trovarne l’immagine: come una di Diffusion post del 1975 che aveva come slogan Fattela anche tu… la sedia del regista”: la frase era stampata sopra la fotografia di una ragazza nuda a cavalcioni della sedia.

SEMPRE PIU' USATE
 

Il decennio con il maggior numero di casi è quello appena concluso (2011-2020). Ed è intuibile il motivo: le parolacce si sono inflazionate, diffondendosi in politica, sui giornali, oltre che su Internet, radio e tv. «C’è stato uno spostamento di sensibilità nel corso del tempo, che ha reso più digeribili alcune parole», conferma Guggino.  «Il turpiloquio è una materia che dipende dal sentire sociale. Oggi c’è una maggior sensibilità verso le forme di discriminazione e di non inclusione, piuttosto che verso la volgarità in quanto tale».
Insomma, siamo più abituati alle parolacce e questo spiega sia la loro crescita nella comunicazione commerciale, sia (in alcuni casi) la mancata censura da parte dello IAP. Che, occorre precisare, non può intervenire in ogni situazione: «Il Codice di autodisciplina è stato sottoscritto da tutte le grandi imprese, dai pubblicitari, dalle società d’affissione, dai giornali, dalla tv e in buona parte anche da Internet. Ma quando una campagna è locale, territoriale, su scala cittadina, i protagonisti sono piccole società e imprese che non hanno sottoscritto il Codice, e in questi casi non abbiamo giurisdizione per intervenire». In effetti, aggiunge, le campagne più becere di questa raccolta risultano non sanzionate principalmente per questo motivo.

I contenuti: la fantasia scarseggia

Vediamo più da vicino le campagne scurrili. Partendo dagli ingredienti lessicali.
Le 33 pubblicità usano
15 termini, per un totale di 34 occorrenze (in una campagna ne sono presenti due). Ecco quali sono:

termine frequenza
culo* 6
darla 5
palle 3
patata/patatina 3
fanculo*   3
puttana 2
farsi 2
venire 2
figata 2
troia 1
stronzetta 1
pompa 1
passera 1
pacco 1
cagare 1

*Inclusi i gesti

Una campagna sessista contestata in Friuli Venezia Giulia.

La tabella mette in luce diversi elementi. Innanzitutto, la scarsa fantasia: i primi 5 termini coprono quasi ⅔ delle pubblicità. I 15 termini rientrano quasi tutti nell’area semantica sessuale (11 oscenità riguardanti atti sessuali o parti anatomiche), seguita da 2 insulti (troia e puttana), una maledizione (fanculo) e un termine escrementizio (cagare). Gran parte dei termini (8) sono di registro volgare, seguito da 6 termini colloquiali e gergali (darla, farsi, venire, passera, pacco, figata) e 1 familiare/infantile (patata).
Culo” è il termine più usato, in modi di dire ricorrenti (“che culo”, “Fare un culo”), seguito da “darla”. Il primo termine è stato usato in abbinamento a immagini di glutei femminili, e il secondo è stato affiancato a modelle femminili. I produttori e venditori di patatine non si sono astenuti dalla tentazione di usare il tubero come sinonimo malizioso della vulva (“patata”) in vari e prevedibili giochi di parole. Dunque, i termini più usati nelle campagne scurrili sono stati al servizio di uno sfruttamento sessista dell’immagine femminile. Ci sono anche un paio di esempi di sessismo al maschile: la campagna con un fotomodello ammiccante e la scritta: “Fidati… te lo do” (l’occhiale).  E lo slogan “Il vostro pacco in buone mani” abbinato al primo piano di un pube maschile. 

In alcuni casi l’aspetto scurrile della campagna è stato rappresentato attraverso i gesti: il dito medio, l’ombrello, il sedere.

Nell’elenco, oltre a termini popolari, colloquiali e infantili (patata, poppe, passera) figurano anche espressioni pesanti: troia, puttana, pompa, stronzetta, venire. La palma dello slogan più becero va a una stazione di rifornimento di Troia (Foggia): “che Troia sarebbe senza una pompa?”.  Insomma, in molti casi la parolaccia è usata come scorciatoia per attirare l’attenzione: uno stratagemma usato non solo da piccole (e spesso inesperte) concessionarie locali di periferia, ma anche (per la maggioranza) da grandi aziende nazionali: 20 su 33 casi, di fatto sono i casi su cui lo IAP si è pronunciato. 

Un annuncio fuorviante, fatto solo per attirare l’attenzione

«Sono tutti elementi che esprimono carenza di creatività», conferma Guggino. La parolaccia, insomma, è usata per lo più come “effetto speciale”, come facile scorciatoia per attirare l’attenzione e fare clamore. Ma, come dicono le ricerche scientifiche, chi usa una parolaccia è percepito come più sincero, confidente e amichevole, ma al tempo stesso perde autorevolezza. Ne sa qualcosa l’università di Macerata (vedi nei riquadri sotto), che è stata contestata per la campagna a base di gestacci che aveva come slogan “La buona educazione”. Poche le eccezioni fantasiose e ironiche. Fra queste, lo slogan “Fun. Cool” che, pronunciato in italiano, assume un significato volgare. E, con la sensibilità (ridotta) di oggi, forse, lo slogan “Antifurto con le palle” potrebbe risultare accettabile. Le parolacce, se dette in modo leggero, ironico e creativo, possono rendere più frizzante uno slogan: ma troppo spesso, nelle campagne esaminate, l’ironia è interpretata in modo grossolano.

FUOCHI DI PAGLIA
Ma, in generale, funzionano le pubblicità scurrili? «Ho sentito dire spesso dagli esperti di marketing che non si costruisce così il rapporto di fedeltà fra un cliente e una marca» commenta Guggino. «Usando questo approccio hai un momento di gloria all’inizio, ma esaurito il clamore, censurata la campagna, il prodotto ritorna nel buio».

Lo spot di Amica Chips che mescola sacro e profano.

Un esempio? La campagna Amica Chips di quest’anno: un gruppo di novizie è a Messa e al momento della comunione quando la prima della fila chiude la bocca dopo aver ricevuto l’Eucaristia si ode uno scrocchio. Sguardi di sorpresa di suore e sacerdote: nella pisside, infatti, anziché le ostie ci sono le patatine. L’inquadratura successiva svela il mistero: è stata la suora più anziana che sta sgranocchiando un sacchetto di chips ad avercele messe avendo in precedenza trovato la pisside vuota. Lo slogan finale, mentre in sottofondo suonano le note dell’Ave Maria di Schubert, è: «Amica chips, il divino quotidiano».
«Quello spot» ricorda Guggino «è stato, comprensibilmente, contestato dai cattolici ed è finito su tutti i giornali per una settimana. Poi, una volta ritirato, l’interesse è svanito nel nulla
Un fuoco di paglia comunicazionale che, a quanto risulta, non ha ottenuto particolare successo commerciale». 
A detta del titolare dell’azienda, un altro spot di Amica Chips che aveva avuto come testimonial Rocco Siffredi (con i prevedibili apprezzamenti verso la “patata”) pare invece che abbia funzionato. Ed è stata vincente un’altra idea ironica, la campagna delle mutande Roberta che tengono sollevati i glutei: lo slogan “Culo basso? Bye bye” oltre a essere una delle pochissime eccezioni in cui lo IAP non ha censurato il termine triviale, ha fatto raddoppiare le vendite dell’indumento. «Anche perché» sottolinea Guggino «quel termine era strettamente collegato al prodotto: non era una parolaccia inserita solo per attirare l’attenzione». 

Ho parlato di questa ricerca a radio Deejay, nella trasmissione “Chiacchericcio” con Ciccio Lancia e Chiara Galeazzi il 4 ottobre come ospite in studio.
Qui sotto l’audio degli interventi:

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Il contrasto (apparente) tra “figata” e “cazzata” https://www.parolacce.org/2021/10/25/spregiativi-sessuali-femminili/ https://www.parolacce.org/2021/10/25/spregiativi-sessuali-femminili/#respond Mon, 25 Oct 2021 13:02:31 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18906 Il contrasto è sotto gli occhi di tutti. Mentre “cazzata” significa “sciocchezza, stupidata, cosa da nulla, inezia”, “figata” sta al suo estremo opposto, perché significa “eccezionale, bello, piacevole, ammirevole”. Dunque, mentre il sesso maschile è sinonimo di disvalore, quello femminile… Continue Reading

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“Che figata”, ristorante italiano a Naperville, Illinois (Usa).

Il contrasto è sotto gli occhi di tutti. Mentre “cazzata” significa “sciocchezza, stupidata, cosa da nulla, inezia”, “figata” sta al suo estremo opposto, perché significa “eccezionale, bello, piacevole, ammirevole”. Dunque, mentre il sesso maschile è sinonimo di disvalore, quello femminile indica il contrario, cioè qualcosa di valore. Un fatto notevole: pur nascendo da una cultura tradizionalista e maschilista, questi termini sembrano ribaltare la scala dei valori, attribuendo al femminile un ruolo superiore. Com’è potuto accadere? In realtà le cose sono più complicate. Perché in italiano esistono anche termini che usano il sesso femminile come sinonimo di “cosa da nulla”. Ma andiamo con ordine…

Cazzata” (con i termini dialettali equivalenti: minchiata, pirlata, belinata) è un termine spregiativo: come molti altri termini, considera il sesso un aspetto animalesco, e quindi inferiore e disprezzabile. Ma perché lo stesso disprezzo non è applicato a “figata”? Com’è che il sesso femminile è visto invece come qualcosa di positivo, anzi di entusiasmante?
A ben vedere, anche questo uso potrebbe essere espressione di maschilismo: dal punto di vista maschile, il sesso femminile è un valore. Ma la realtà è più complessa. Secondo il premio Nobel Dario Fo, “Nel nord e nel centro Italia, prima che arrivassero i Romani, le primordiali divinità celtico-insubri erano quasi esclusivamente di sesso femminile”, scrive nel libro “L’osceno è sacro” (Guanda, 2010). Basti ricordare Cerere, dea madre presso i Romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca (come la Sicilia). 

“Levati di mezzo, ricco coglione!”: titolo di “Libération” contro l’imprenditore Bernard Arnault che aveva chiesto la cittadinanza belga.

In francese, invece, è il sesso femminile ad avere un significato negativo: “con” (vulva”) significa “imbecille”. Lo stesso accade in inglese, con i termini “twat” e “cunt”, che designano sia la vulva che le persone stupide. In spagnolo, invece, la vulva (coño) è usata non come insulto ma come imprecazione e rafforzativo (que coño haces? Che cazzo fai?). Occorre ricordare che “cunt” e “coño” hanno la stessa origine: derivano dal latino “cuneus” a sua volta riconducibile al greco kusòs, buco (da cui deriva cunicolo): il “cuneo” è l’attrezzo appuntito che produce un  buco. 

Perché accade tutto questo? La contraddizione è solo apparente. In generale i termini sessuali, poiché rimandano al nostro lato animalesco, sono connotati dal disprezzo, perché ci consideriamo superiori alle bestie. L’uso di metafore sessuali, maschili e femminili, è al servizio di questo sguardo sul mondo e può usare indifferentemente sia metafore sessuali maschili che femminili. Tant’è che anche in italiano esistono – anche in dialetto – 4 termini che utilizzano una metafora sessuale femminile per esprimere disprezzo: fesseria, fregnaccia, monada e patacca.

 

Fesso, fesseria e “a fess e soreta”

“Totò d’Arabia”, film del 1965.

“Fesseria” deriva da “fessa”, vulva in napoletano: il termine significa infatti letteralmente “spaccatura”. Dunque, fessa = cosa da nulla, fesseria = stupidaggine, sciocchezza, sbaglio;  e fesso = sciocco, tonto. Il sesso femminile è utilizzato anche come maledizione (augurare il male): va fa int’ a’ fessa  ‘e mammeta /soreta, ovvero “vai a fottere dentro la vulva di tua madre/sorella”. Un modo, insomma, di costringere un’altra persona a fare un pensiero sgradevole, ovvero ad augurargli l’incesto.

 

Fregnacce e fregnoni

Sagra della fregnaccia a Montasola (Rieti).

Lo stesso ragionamento è all’origine di “fregnaccia”, termine romano che deriva da “fregna”, vulva. Il termine ha un’origine incerta: potrebbe derivare dal latino fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre “rompere”. Il termine fregna è usato anche come sinonimo di stupidaggine, fandonia, come anche fregnaccia, fregno (persona o cosa di scarsa importanza), fregnone (sciocco, minchione, babbeo). “Avere le fregne” significa essere preoccupato di pessimo umore: l’espressione si collega agli sbalzi d’umore legati alle mestruazioni.
Tra l’altro, “fregnaccia” è anche l’appellativo di una frittella romana:
si fa una pastella con acqua, farina e sale; se ne prende una cucchiaiata che si mette a cuocere in padella, con olio bollentissimo, rigirando di quando in quando. Si ottiene così una frittella che viene cosparsa di zucchero oppure pecorino; poi, la frittella si piega congiungendo un punto del cerchio al centro, e poi piegando di nuovo. Le fregnacce, consumate fredde, sono una prelibatezza ma, vista la povertà degli ingredienti e la facilità della preparazione, sono, appunto, fregnacce.

 

Patacca  e pataccari

Una t-shirt beneaugurante.

La “patacca” era una moneta grossa ma di basso valore (perché conteneva poco argento), messa in circolazione dagli spagnoli nel 1500.  Il termine è diventato o sinonimo di “cosa di nessun valore”, ma anche di grossa  macchia di sporco. “Pataccaro” è chi vende monete false, ovvero uno sbruffone, un truffatore.  Nel dialetto romagnolo il termine prende anche a indicare il sesso femminile: i peli pubici formano una macchia scura, una patacca per l’appunto.   

 

Mona e monada

Cartello contro gli incivili a Salgareda (Treviso).

In veneto, “mona” indica la vulva. Deriva dall’arabo maimunscimmia’. Forse un parallelismo fra il corpo peloso della scimmia e i peli pubici. “Mona” indica anche una persona sciocca, balordo,cretino (da cui anche il termine monello). Com’è avvenuto il passaggio? Probabilmente è un’espressione  di  maschilismo: “essere un mona” significa essere una femmina, considerata in passato un essere inferiore. Tanto che “andare in mona” può significare sia “compiere un  atto sessuale” sia andare al diavolo, andare male (“ma va in mona!”).

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Perché i genitali sono diventati insulti? https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/ https://www.parolacce.org/2016/02/17/offese-metafore-sessuali/#respond Wed, 17 Feb 2016 14:07:43 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9415 “Cazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene,… Continue Reading

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deadpoolCOLCazzone, cazzuto, incazzato“: non passa inosservato il sottotitolo di “Deadpool“, un film su un supereroe per adulti, stravagante, comico e politicamente scorretto. Il film, al cinema in questi giorni, è l’occasione per parlare dei genitali usati come insulti: perché i nomi che designano pene, vulva, glutei sono usati anche per offendere le persone (coglione, testa di cazzo, faccia da culo, rincoglionito)?
Non è strano che gli organi sessuali (nei quali ho inserito anche i glutei, in quanto richiami erotici) siano usati per descrivere le caratteristiche psicologiche o i modi di fare delle persone, e per di più in modo negativo?
La questione è intrigante. Indagando ho scoperto che queste metafore sessuali sembrano indicarci una rotta morale, additando i peggiori difetti umani, sia intellettivi che comportamentali. E lo fanno con una lucidità sorprendente: sembrano aver attinto da un trattato di psichiatria. I difetti che queste espressioni mettono alla berlina, infatti, sono così universali che caratterizzano molti celebri personaggi cinematografici: non solo Deadpool, ma tutte le macchiette rappresentate nei film di Carlo Verdone… e non solo.

Prima di svelare la mappa semantica degli insulti derivati dai genitali, affrontiamo subito la questione di fondo: cosa c’entrano gli organi sessuali con i difetti morali? Perché i nomi del sesso sono usati per esprimere offesa, disistima, disprezzo?
Innanzitutto perché i nomi osceni, evocando il sesso, sono emotivamente carichi, sono parole impregnate di passioni. Ma questa carica non è solo positiva (eros, piacere, seduzione, forza vitale, eccitazione, fecondità…). Il sesso ha anche un risvolto negativo: ci ricorda la nostra natura animalesca, da cui cerchiamo sempre di prendere le distanze. Ecco perché il sesso è usato per “abbassare” il valore di una persona: se dico a qualcuno che è una “testa di cazzo”, metto la sua intelligenza sullo stesso piano della pulsione sessuale, irrazionale e incontrollata. Quella persona, invece di ragionare col cervello, si lascia guidare dal pube. La “torre di controllo” si è spostata dall’alto al basso

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Iniziativa di un gruppo di creativi free lance: non vogliono essere sotto pagati, cioè trattati da coglioni.

Questa visione svilente della sessualità è stata rafforzata, nella cultura occidentale, dall’orfismo, un movimento religioso nato in Grecia nel VI secolo a.C.: gli orfici disprezzavano il corpo, mortale e limitato, perché lo consideravano inferiore all’anima, pura e immortale. Nei secoli successivi questo contrasto fra mente e corpo è stato rafforzato anche dal cristianesimo, per il quale la vita terrena vale solo in funzione di quella ultraterrena.

Ecco perché, in moltissime lingue, i nomi che designano i genitali sono usati come insulti, anche se con molte variazioni da un Paese all’altro: alcuni Paesi utilizzano più le metafore derivate da pene e testicoli, altri quelle dalla vulva, altri ancora quelle che rimandano ai glutei.
Per esempio, tornando al film  “Deadpool”,  la tripletta inglese che lo descrive, significa letteralmente: tosto, saccente, grandioso, ed è giocata sulle varianti di “ass”, culo. In Italia, anche se culo è una parola dai molti significati (ne avevo parlato qui), preferiamo usare come metafora i genitali maschili: il “lato A” invece del “lato B”. Ecco perché nella versione italiana i traduttori hanno puntato sugli aggettivi derivati dal pene: cazzone, cazzuto, incazzato. Infatti, cazzuto è la traduzione corretta di bad ass,; smart ass è reso con cazzone, mentre sarebbe stato più corretto definirlo cazzaro (fanfarone, spaccone). Per il terzo aggettivo, great ass, non esiste un corrispettivo derivato dai genitali maschili: sarebbe stato corretto tradurlo come figone. E infatti in italiano le metafore derivate dal sesso femminile esprimono per lo più concetti positivi: figa (bella donna), figo (bell’uomo, alla moda, attraente, elegante), figata (cosa bella, piacevole, ben riuscita)… L’unica eccezione è fighetto, inteso come elegante, vanesio, affettato. Ma d’altronde non bisogna dimenticare che fesso (= sciocco, scemo) deriva da fessa (fessura, vulva), e fregnone (= sciocco, stupido) da fregna (vulva).

im_with_dickhead_shirt

T-shirt: sono con un testa di…

Qualcuno ha ipotizzato che forse la nostra cultura è fissata alla fase fallica (la fase dello sviluppo infantile che concentra la libido sul pene) mentre quella anglosassone a quella anale, ma è una lettura troppo semplicista: anche in italiano abbiamo molti riferimenti al deretano (faccia da culo) e agli escrementi (faccia di merda) nei nostri insulti. Forse, il contrasto fra pene-spregiativo e vulva-elogiativa è uno dei tanti sintomi del maschilismo della nostra cultura: i maschi disprezzano il proprio sesso, apprezzando quello opposto. C’è del vero, ma come spiegare, allora, gli spregiativi derivati dal sesso femminile?
E’ più probabile che questa opposizione nasca da un altro aspetto: mentre la vulva è nascosta e misteriosa, il pene è un organo evidente, appeso e penzolante, quindi in balìa dei movimenti del corpo: come tale si presta a diventare il simbolo di un essere passivo e inanimato.
In ogni caso, è impossibile generalizzare: in francese, per esempio, il termine che designa la vulva, con, è usato come insulto: equivale al nostro coglione. Lo stesso avviene anche in inglese, dove il termine twat (vulva) è un’offesa pesante che significa coglione, stronzo, pezzo di merda. I nomi del sesso, insomma, sono veri jolly linguistici che possono esprimere tutto e il contrario di tutto, come già raccontavo in questo post.

Ed è proprio questa ricchezza espressiva a rendere difficile studiare questi appellativi, e tradurli da una lingua a un’altra: che cosa vogliamo dire quando affermiamo che una persona è “un coglione“? E’ questa la prima difficoltà con cui ci si scontra se si vuole fare una mappa semantica degli insulti tratti dal lessico sessuale, traducendo le parolacce in termini neutri o almeno non volgari. Così facendo, ho potuto distinguere gli insulti genitali in due grandi famiglie: quelli contro l’intelligenza e quelli contro il comportamento. E mentre compilavo questo elenco (nel quale ho inserito, in blu, alcuni corrispettivi in inglese) mi sono venuti in mente diversi personaggi cinematografici che incarnassero quei difetti. Tipi umani presenti a ogni epoca e latitudine.

insultiGenitali1Gli insulti contro l’intelligenza si possono dividere in 2 sottocategorie: quelli che condannano l’incapacità di intendere, ovvero il ritardo mentale in varie forme; e quelli che puntano l’indice contro l’ottusità, l’ostinazione, ovvero la demenza e i deficit di attenzione. Mentre i primi sono difetti permanenti, i secondi possono essere transitori: perché si è presa una botta in testa, perché si è invecchiati, perché si è stanchi. Questi insulti, insomma, evidenziano – per contrasto – l‘importanza dell’intelligenza, della prontezza di riflessi, della capacità di discernere e agire di conseguenza.
Chi è privo di queste doti, è emarginato e disprezzato. Ma al tempo stesso fa ridere: se guardate i personaggi che incarnano questi difetti, sono tutti personaggi comici: da Checco Zalone a Mr Bean, fino al tontolone Leo, portato in scena da Carlo Verdone in “Un sacco bello”.

insultiGenitali2Discorso altrettanto interessante si può fare per gli insulti che stigmatizzano determinati comportamenti. Mettendoli tutti insieme, mi sono accorto che coincidono in modo impressionante con i disturbi di personalità, cioè le malattie mentali che compromettono l’equilibrio psicologico e relazionale di una persona. Sono tutte forme di disadattamento: chi ne è affetto risponde in modo inadeguato ai problemi della vita, compromettendo i rapporti con gli altri. Sono persone aggressive, false, esibizioniste, moleste, vittimiste, incapaci di empatia con gli altri, insensibili, cattive. E proprio per questo sono il bersaglio di molti e pesanti insulti, come potete vedere dal grafico qui a lato. Nei loro confronti, è difficile usare una chiave comica: soprattutto verso i sociopatici, che non a caso hanno ispirato schiere di “cattivi” nei film.

Dunque, riunendo tutti gli insulti derivati dai genitali, emerge un quadro sorprendente: additano le peggiori caratteristiche di una persona, che diventa così meritevole di disprezzo e di dileggio. Ma queste parolacce non sono soltanto offese. Indirettamente indicano (per contrasto) i valori più importanti che ognuno di noi dovrebbe perseguire se vuole ottenere la stima e la benevolenza altrui: l’intelligenza, l’acume, la ragionevolezza, l’altruismo, l’empatia, la dolcezza, il rispetto… Insomma, a ben guardare, gli insulti genitali non sono cazzate.

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Lo sdoganamento del “fico” https://www.parolacce.org/2014/03/27/fico-aggettivo-inflazionato/ https://www.parolacce.org/2014/03/27/fico-aggettivo-inflazionato/#respond Thu, 27 Mar 2014 11:23:24 +0000 https://www.parolacce.org/?p=1611 Pochi se ne sono accorti, ma nel campo delle parolacce sta avvenendo una piccola rivoluzione: lo sdoganamento della parola “fico” (o “figo”). Un tempo considerata una parola volgare, usata solo nel gergo giovanile, oggi sta diventando una parola colorita e… Continue Reading

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Pubblicità dell’Aquafan di Riccione (2019).

Pochi se ne sono accorti, ma nel campo delle parolacce sta avvenendo una piccola rivoluzione: lo sdoganamento della parola “fico” (o “figo”). Un tempo considerata una parola volgare, usata solo nel gergo giovanile, oggi sta diventando una parola colorita e colloquiale, senza grandi connotazioni scandalose.
Nulla di insolito, per carità: tutte le parole sono vive, e come tali possono morire, risorgere, assumere nuove sfumature, perderle, o rinascere sotto nuove forme. Il che vale ancor più per le parolacce, che possono assumere o perdere connotazioni, ovvero sfumature emotive.

Ma nel caso di “figo” tutto ciò è avvenuto in un modo particolare: per esigenze di traduzione. Il cambio di significato (semantic shift) non è infatti colpa o merito dei politici, una volta tanto. E’ vero che l’ex premier Enrico Letta ha usato l’espressione in più occasioni (“Ero da 48 ore ministro, mi sentivo un gran figo”; oppure, rivolto al Pd: basta fare i fighetti”), ma in realtà lo sdoganamento è stato deciso da altri, in un campo insospettabile: l’intrattenimento per bambini.

I “fuchi fichi” di “Bee movie” (2007).

Me ne sono accorto guardando con mio figlio i cartoni animati degli ultimi 10 anni: in diversi film d’animazione i personaggi esclamano “fiiico!” per manifestare entusiasmo verso qualcosa di sorprendente, di eccezionale. Pur non essendo un bacchettone, la scelta mi ha colpito: i vecchi cartoni della Walt Disney o della Warner Bros non si sarebbero mai spinti a tanto, almeno fino agli anni ’80 e ’90. Che cosa è accaduto?
E’ accaduto che i traduttori italiani hanno scelto la parola “figo” per rendere in italiano l’aggettivo inglese “cool”. Il significato originario di questa parola è “fresco”: rivolto a una persona significa quindi “distaccato”. Dagli anni ’50, l’aggettivo è stato usato anche per indicare le persone disinvolte, di tendenza, in gamba, anticonformiste, interessanti, eccitanti, alla moda, belle: “fighe”, per l’appunto.

La copertina del brano “Che fico!” di Pippo Franco (1982).

E così, per doppiare i film senza aumentare la quantità di sillabe, i traduttori hanno usato la parola “fico”. Portando a compimento un processo di de-volgarizzazione che in realtà ha radici lontane: ricordate il brano “Che fico” di Pippo Franco? Fu usato persino come sigla del Festival di Sanremo nel 1982, ma il tentativo rimase isolato. Oggi siamo arrivati al punto che “fico” è usato persino come nome di alcuni personaggi in un cartoon: in “Bee movie”, i “pollen jock” (atleti del polline) sono stati tradotti nella versione italiana come “fuchi-fichi”.

Il problema, però, è l’evidente origine sessuale del termine: nato per indicare l’organo genitale femminile, che somiglia a un frutto aperto, è poi passato a indicare (per sineddoche) l’intera persona femminile, diventando anche sinonimo di bellezza e attrattività, usato indistintamente per uomini e donne. Non è certo un caso unico: l’aggettivo “fesso” (scemo, tonto) deriva da “fessa” (fessura), anch’essa una metafora – stavolta con connotazione negativa – per riferirsi ai genitali femminili, proprio come avviene per la parola “con” in francese.
Dunque, i traduttori dei cartoon si sono presi una responsabilità linguistica: sdoganando il termine “fico”, considerandolo adatto alle delicate orecchie dei bambini, l’hanno di fatto inflazionato e depotenziato. Sarebbe stato meglio che lo traducessero con la parola “ganzo” o “forte”?
Forse sì: già ci sono tante parolacce che si stanno inflazionando, e in un’epoca di scarsa attenzione al peso delle parole un po’ più di oculatezza sarebbe raccomandabile, se non vogliamo impoverirci anche nel linguaggio. Non sarebbe molto fico.

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