Friedrich Nietzsche | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 08 Mar 2022 12:24:08 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Friedrich Nietzsche | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 “Povero”, “pezzente” e altri insulti economici https://www.parolacce.org/2022/02/26/spregiativi-poverta/ https://www.parolacce.org/2022/02/26/spregiativi-poverta/#comments Sat, 26 Feb 2022 09:42:53 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19096 C’è una forma di razzismo di cui non si parla: quello verso i poveri. Non ci credete? Partiamo da un numero: in italiano gli insulti basati su questo razzismo economico in italiano sono 45, da accattone a straccione, fino a… Continue Reading

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Svizzera, campagna contro i mendicanti: il povero è dipinto come ingannatore e criminale.

C’è una forma di razzismo di cui non si parla: quello verso i poveri. Non ci credete? Partiamo da un numero: in italiano gli insulti basati su questo razzismo economico in italiano sono 45, da accattone a straccione, fino a miserabile e così via. Del resto, il “parente povero” è quello di cui ci si vergogna. Ma perché disprezzare chi non ha abbastanza per vivere? Perché questa mancanza di empatia verso persone in difficoltà?
Ci dipingiamo come una società basata sulla solidarietà, ma la realtà è un’altra: disprezziamo i poveri e adoriamo i ricchi. I nuovi eroi sono Steve Jobs o Jeff Bezos, dipinti come santi per il loro innegabile talento, ma pochi mettono in evidenza che hanno costruito le loro fortune sullo sfruttamento massiccio di manodopera sottopagata e una concorrenza spietata. Chi invece non riesce ad accumulare denaro è implicitamente considerato un fallito

Ci siamo spinti, insomma, ben oltre il capitalismo. Persino il padre del liberismo economico, Adam Smith, nel suo libro “La teoria dei sentimenti morali” diceva che «la corruzione del carattere consiste nell’ammirare i ricchi e disprezzare i poveri, invece di ammirare i saggi e le buone persone e disprezzare gli stupidi. Questa è la corruzione di una società: quando una società disprezza quelli che hanno fallito nella vita, quelli che hanno avuto cattiva sorte, è patologico».

Film di Oren Moverman (2014): Richard Gere nei panni di un vagabondo.

In questo articolo parlerò di questa invisibile malattia: la “aporofobia” (da aporos, indigente, e fobia, paura), termine creato dalla filosofa spagnola Adela Cortina Orts. Una malattia molto più diffusa di quanto crediamo: non solo perché la crisi economica sta ingrossando le file dei poveri, ma anche perché è l’aporafobia il vero motore dell’intolleranza verso gli immigrati: non li temiamo perché provengono da altre culture, ma perché non hanno soldi. Tant’è vero che per ottenere il permesso di soggiorno in un Paese ricco, non occorre una fedina penale pulita o un titolo di studio: basta il denaro, bisogna dimostrare di avere un lavoro retribuito. Alcuni Paesi offrono direttamente la cittadinanza a chi dispone di somme cospicue: ad esempio, chi investe 250mila euro in immobili o 50mila euro in una società in Lettonia, ottiene direttamente un passaporto europeo.

I poveri sono stati sempre emarginati nella Storia. Verso di loro nutriamo un sentimento ambivalente: il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche diceva che «ai mendicanti è seccante dare qualcosa, ed è seccante non darlo». I poveri suscitano la nostra compassione, ma anche un senso di sospetto se non di disprezzo: perché sono diventati poveri? Per colpa, per scelta, per disgrazia? O sono invece parassiti che vivono sulle spalle degli altri, se non addirittura malviventi? La nostra civiltà non è stata in grado di risolvere questi dilemmi, oscillando fra assistenzialismo, controllo sociale ed emarginazione. Perché pensare ai poveri è, sempre e comunque, un pensiero scomodo.


Questo articolo è anche l’occasione per ricordare i 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini (1922-1975), che dedicò ai poveri il suo primo film,”Accattone” (1961). 

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I POVERI NELLA STORIA
 

La figura del povero nasce nelle città: nelle società primitive o agricole i poveri non esistono, perché tutti riescono a soddisfare i propri bisogni primari. Gli antichi Romani, invece, avevano una società fatta di vari strati sociali, in cui gli schiavi e i liberti non erano necessariamente i più poveri, grazie alle elargizioni dei ricchi. Questi ultimi donavano soldi, cibo, vestiti agli indigenti perché, in quanto “cittadini romani” erano considerati membri del tessuto cittadino di cui i ricchi sentivano il dovere di prendersi cura. Anche perché in questo modo esercitavano un controllo sociale, impedendo che la povertà degenerasse in rivolte e saccheggi. 

San Francesco rinuncia ai beni terreni: dipinto di Giotto, 1292-1296.

Ma questo dovere civico era visto in modo ambivalente. Nei suoi scritti Cicerone associa i bisognosi con i criminali, considera la povertà quasi «un crimine» e i ricchi come coloro «le cui fortune sono state accresciute e procurate dal favore degli dèi», mentre «la plebe miserabile e affamata succhia il sangue alle casse dello Stato». Restavano esclusi da questo scenario gli abitanti delle campagne, che quando l’Impero si disgregò iniziarono a riversarsi nelle città. E qui avvenne il primo cambio di rotta, come sottolinea lo storico Peter Brown nel saggio “Povertà e leadership nel tardo impero romano”: per la prima volta i “poveri” diventarono una categoria generale della società, e non solo i cittadini romani.
«Le città si riempirono di persone che erano tangibilmente “povere”. Esse non potevano essere trattate come “cittadini”, ma nemmeno potevano essere ignorate,la predicazione cristiana sull’amore verso i poveri forniva parole nuove con cui parlare di una nuova, meno differenziata, società post-classica. Furono i vescovi cristiani ad aver inventato i poveri: ascesero a posizioni di potere nella società tardo-romana focalizzando sempre più l’attenzione sui poveri e presentavano le loro azioni come una risposta alle necessità di un’intera categoria di persone (i poveri) che sostenevano di rappresentare». Il potere dei vescovi, dunque, si consolidò grazie al fatto che si fecero carico di un’intera categoria di persone disagiate. Perché uno dei messaggi chiave del cristianesimo era la povertà come sistema di vita: «
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» dice il Vangelo di Marco (10, 25). Questo cambiava radicalmente prospettiva. il povero non era tale perché malvoluto dagli dèi o un parassita, ma era, anzi, più vicino a Dio. Quindi andava aiutato:  in ogni povero c’era la sofferenza di Cristo. Ma l’attenzione ai poveri non è un’esclusiva del cristianesimo:  tutte le religioni prevedono, fra i loro precetti, il dovere di fare l’elemosina, un modo efficace di allargare lo sguardo trascendendo l’egoismo e il materialismo. Vedendo come funzionano le società a ogni latitudine, non c’è precetto più disatteso. 

I poveri sui gradini del convento di Ara Coeli (Federico Zandomeneghi, 1872)

Ma torniamo alla Storia. Nel Medioevo le città iniziarono a riempirsi di schiere di poveri. E col passare del tempo le istituzioni furono costrette a farci i conti: innanzitutto perché le masse di accattoni che potevano divenire un serio pericolo di rivolte ogniqualvolta vi fosse una carestia o un aumento dei prezzi dei beni alimentari. In più, fra i poveri si celavano anche alcuni opportunisti che campavano di elemosine pur di non lavorare, così l’unico modo di distinguere un povero “vero” era la malattia (peste, vaiolo, lebbra). Fra il 1500 e il 1600, le istituzioni cominciarono a emanare leggi contro i falsi mendicanti: alcuni libri sostenevano che i poveri fossero parte di organizzazioni criminali dedite alla truffa. L’intolleranza verso i poveri si diffuse soprattutto nell’Europa del Nord, dove la mentalità calvinista e luterana assegnavano al lavoro un posto centrale. Nessuno sa chi è “eletto” da Dio, chi sarà salvato: solo chi fa un duro lavoro può riscattare la propria anima. In questa prospettiva, i poveri erano considerati esseri antisociali e parassiti. E così, per esercitare un controllo sociale sui poveri, l’ospedale diviene una casa di correzione, molto simile a un carcere, dove relegare i marginali. La massima espressione di questo tentativo di controllo fu in Inghilterra, dove nel 1834 fu emanato il Poor law reform act, una legge che aveva come obiettivo quello di  ridurre le tasse dei contribuenti, facendo lavorare i disoccupati. Invece di dar loro dei sussidi, venivano accolti nelle case-lavoro: avevano un tetto se accettavano di fare i lavori che venivano loro offerti. I poveri “meritevoli”, che avevano diritto a ricevere aiuti economici erano solo vedove con figli, anziani, invalidi; tutti gli altri dovevano essere internati. E chi risiedeva in una casa-lavoro perdeva i diritti civili, come quello di voto. Ma il sistema non funzionò: non consentì di ridurre le tasse e non risollevò molte persone da una vita di stenti. Ma è rimasto, nella cultura occidentale, il sospetto che il povero sia, sotto sotto, un fannullone o un criminale.

Un poster che descrive com’erano trattati i poveri nelle case-lavoro inglesi.

Durante le dittature i poveri sono stati oggetto di controlli e persecuzioni: i regimi autoritari non tollerano le persone improduttive e che sfuggono ai controlli. «Col fascismo i poveri persero persino l’effimero diritto di lamentarsi della propria condizione. Si configurò, infatti, una repressione simile a una vera e propria criminalizzazione sociale della povertà. Coloro che soffrivano situazioni di disagio estreme continuavano ad essere considerati alla stregua di “rifiuti sociali” (mendicanti e accattoni), a cui le prestazioni degli Enti di assistenza erano generalmente negate» ricorda lo storico Luciano Villani dell’Università di Torino. La sbandierata assistenza sociale si tradusse in un controllo di polizia, con «sussidi molto bassi e tutele alquanto limitate», come la “Befana fascista” e il “Natale del duce”, durante i quali si distribuivano pacchi dono ai bambini delle famiglie povere. Del resto, le dittature hanno un’economia cristallizzata, nella quale solo gli imprenditori vicini al regime sono tutelati dal potere, e non c’è mobilità fra le classi: chi nasce povero rimane tale. In Italia il reato di accattonaggio  introdotto dal fascismo è stato abolito solo nel 1999.

I POVERI OGGI
 

Copertina di “Panorama” che mostra i poveri come segno di degrado urbano.

E oggi? L’economia è diventata sempre più dipendente da speculazioni finanziarie. Che negli ultimi hanno prodotto uno scenario di grandi disuguaglianze, sia nel mondo che in Italia. Nel mondo, dicono le statistiche di World Inequality Report, un adulto guadagna in media 16.700 euro l’anno, ma con ampie disparità fra un Paese e l’altro (e anche all’interno dello stesso Paese). Il 10% più ricco della popolazione mondiale guadagna il 52% del reddito globale, mentre la metà più povera della popolazione ne guadagna solo l’8,5%.
In media, un individuo che fa parte del 10% più ricco guadagna 87.200 € all’anno, mentre un individuo della metà più povera ne guadagna 2.800 € all’anno. Questo perché c’è una grande sproporzione: la metà più povera della popolazione mondiale possiede solo il 2% della ricchezza totale. Al contrario, il 10% più ricco della popolazione mondiale possiede il 76% di tutta la ricchezza. In media, la metà più povera della popolazione possiede 2.900 € per adulto, e il 10% più ricco possiede in media 550.900 €.

La distribuzione della ricchezza nel mondo secondo World inequality Report (clic per ingrandire)

Ne sappiamo qualcosa anche in Italia. Oggi il salario medio in Italia è di 29mila euro annui, ma la ricchezza è distribuita in modo molto diseguale: metà degli italiani guadagna infatti 12.100 € mentre per il 10% più ricco il guadagno medio schizza a 93.900. Il 10% di italiani più ricchi possiede da solo quasi la metà (47,7%) di tutte le ricchezze. Un processo iniziato negli anni ‘80 e tuttora in corso: la crisi finanziaria del 2008 ha quasi cancellato la classe media, creando una forbice sempre più marcata fra chi è straricco e che fatica ad arrivare a fine mese.

Campagna dei francescani per aiutare gli indigenti.

Secondo gli ultimi dati Istat, in Italia ci sono oltre 5,6 milioni di persone in povertà assoluta: il 9,4% degli italiani. “Povertà assoluta” significa che non possiedono un reddito sufficiente a coprire le spese minime per sopravvivere, calcolate in base a età e luogo di residenza: per una persona fino a 59 anni d’età, si va dai 569 euro/mese per chi vive in un piccolo Comune del Sud agli 839 euro/mese per chi vive in una metropoli del Nord. I senzatetto sono poco più di mezzo milione, dice sempre l’Istat. In questi numeri, sempre più in crescita a causa di crisi economica e Covid, gli stranieri sono la maggioranza. E nel concetto di povertà occorre comprendere anche quanti non hanno le competenze culturali (conoscenza delle leggi, degli strumenti tecnologici e di Internet) per vivere nella società di oggi. Dunque, i poveri sono sempre più numerosi, e fanno paura. “Povero” è ancora sinonimo di malavitoso: se sei povero rubi. Eppure le cronache quotidiane sono piene di ricchi avidi che mettono in ginocchio l’economia con speculazioni senza scrupoli.

«Il muro del Messico, le frontiere dell’Europa, il successo di Le Pen e di Orban  – sottolinea la filosofa Adela Cortina Orts – hanno a che vedere più con l’aporofobia che con il controllo dell’immigrazione clandestina o la xenofobia, la paura dello straniero.  Tutto quello che si fa   lo si fa per escludere i poveri. Perché gli immigrati sono poveri e vengono per complicare la vita. Il povero viene a rompere la comodità. Se sta bene e arriva un altro, bisogna muoversi. Perché hanno bisogno di lavoro e di sicurezza sociale».

“Combatti la povertà, non il povero”: campagna di attivisti negli Usa.

Nei secoli, il disprezzo verso i poveri si è sedimentato nel nostro linguaggio, come vedrete nei box qui sotto, dove ho raccolto tutti i termini spregiativi per indicare i poveri: sono 45, un ventaglio impressionante. Tutti accomunati da un aberrante punto di vista: il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione.  Un pregiudizio che serve a soffocare la nostra empatia verso i poveri, per non farci pensare al rischio – sempre presente, in realtà – di finire sul lastrico anche noi. Voltarci dall’altra parte, dipingere i poveri come scarti umani che hanno meritato la loro cattiva sorte ci rassicura di non finire risucchiati anche noi fra gli indigenti. E ci dà l’illusoria sensazione di sentirci ancora più privilegiati, premiati per i nostri meriti: più aumentano gli esclusi, più una ristretta élite può continuare a prosperare.

ASPETTO FISICO
  • barbone
  • clochard (dal francese clocher, zoppicare) 
  • mendicante (da mendicum, malato, con un difetto fisico, quindi povero)

VESTITI
  • sciattone (dal latino exaptum, non adatto) 
  • straccione

COMPORTAMENTO
  • Film del 1961: segnò l’esordio di Pasolini alla regia.

    accattone (da accattare, chiedere l’elemosina)

  • birbante/birbone (dal francese bribe tozzo di pane)
  • bighellone (girovago) 
  • gaglioffo (dallo spagnolo “gallofa”, pane dei pellegrini)
  • morto di fame
  • nullafacente
  • pezzente (dal latino, persona che chiede) 
  • pitocco (dal greco ptokòs, mendicante)
  • questuante (da quaerere, cercare: chi chiede l’elemosina) 
  • sfaccendato
  • vagabondo 

CONDIZIONE ECONOMICA
  • fallito 
  • micragnoso (privo di denaro, la parola deriva da “emicrania”: la povertà fa venire il mal di testa) 
  • miserabile 
  • nullatenente 
  • plebeo
  • povero, poveraccio 
  • senzatetto 
  • servo della gleba
  • spiantato (sradicato, rovinato) 
  • squattrinato

CONDIZIONE SOCIALE
  • “I miserabili”, romanzo di Victor Hugo del 1862

    bifolco (chi guida i buoi) 

  • bovaro/boaro 
  • burino (da burra, parte dell’aratro) 
  • buzzurro (venditore di castagne) 
  • cafone (dal latino cavare “scavare; rivoltare la terra’’)
  • derelitto (abbandonato) 
  • disoccupato 
  • facchino (ambulante, uomo di fatica) 
  • malnato (nato male, cioè di umili origini) 
  • mascalzone (da maniscalco, garzone) 
  • paria (individui appartenenti alle classi sociali più basse dell’India, detti anche intoccabili)
  • proletario 
  • rustico (campagnolo) 
  • servo 
  • sguattero (dal longobardo wahtari “guardiano”, inserviente umile)
  • tamarro (venditore di datteri) 
  • villano/villico  (abitante della villa, cioè della campagna) 
  • zappaterra/zappatore 
  • zotico (da  lat. tardo idiotĭcus «ignorante, incolto»)   

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Orecchie (autoironiche) da asino in vendita sul Web.

I suoi nomi sono 4: asino, somaro, ciuccio (o ciuco) e mulo. Ma nessuno ha un significato positivo, a parte indicare l’Equus africanus asinus, il mammifero che tutti conosciamo. Quei 4 appellativi, se indirizzati agli uomini, indicano infatti gli zotici, rozzi, maleducati; oppure gli ignoranti, ottusi, incapaci, svogliati nell’apprendere; o, ancora, chi è cocciuto, ostinato, testardo. Insomma, l’asino è diventato un insulto.
Eppure, chi conosce gli asini sa bene che queste caratteristiche negative non gli appartengono: in realtà è un animale intelligente, affettuoso e soprattutto gran lavoratore.
Come si spiega, allora, la sua pessima fama? Perché si è deciso di attribuire all’asino una scarsa intelligenza e comportamenti tanto riprovevoli?

In tutte le epoche. E in tutte le lingue

“Asini”, film di Antonello Grimaldi (1999).

L’usanza è antichissima: il termine “asino” era usato già come insulto non solo da Dante (Convivio: “Chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitive, non vive uomo, ma vive bestia… “Asino vive”), e Boccaccio (Decameron: “Asino fastidioso ed ebraico che tu dèi essere!”), ma anche dal latino Marco Tullio Cicerone, che insultò Lucio Calpurnio Pisone dicendogli: “Perché ora, asino, dovrei insegnarti la letteratura?”.
La parola “mulo”, poi, significa anche incrocio, bastardo: il termine “mulatto” deriva proprio dal mulo, generato dall’accoppiamento fra una cavalla e un asino. Un razzismo sottile: si paragona l’incrocio fra un nero e un bianco a quello fra due animali di specie diverse.
Il frutto dell’incrocio fra un cavallo e un’asina, invece, si chiama bardotto: ma solo il mulo è diventato un insulto, forse per un implicito disprezzo maschilista verso la cavalla che si è “abbassata” a congiungersi con un mulo.

Pinocchio si trasforma in somaro.

Collodi, in “Pinocchio”, ha eletto il somaro a simbolo dell’ignoranza: dopo aver passato 5 mesi a giocare invece di andare a scuola, Pinocchio si trasforma in asino perché “tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giuochi e in divertimenti, debbono finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari”.
Eppure, chi ha visto un vero asino, sa bene che sono in realtà infaticabili lavoratori. Del resto, “somaro” deriva da “soma”, peso; e “muletto” indica anche un carrello a motore per sollevare carichi pesanti.

Ma non è tutto. La pessima nomea di questo animale ha contagiato infatti non solo l’italiano, ma anche  molte altre lingue: “somaro” è un insulto anche in inglese (donkey, jackass), tedesco (esel), spagnolo e portoghese (asno, burro), francese (âne)  e russo (osel).

Il logo dei democratici Usa.

Ma a volte l’asino può diventare un simbolo positivo. E’ il caso dei democratici negli Usa, rappresentati proprio da un asino. L’usanza ha quasi 2 secoli: risale ad Andrew Jackson, che nella campagna elettorale del 1828 usò come simbolo l’asino. Un gesto d’orgoglio verso gli avversari che lo avevano soprannominato, storpiandogli il cognome, “Jackass” (somaro, ignorante): Jackson, per tutta risposta, scelse proprio l’asino come simbolo del partito, per rappresentare il popolo che lavora e soffre ma non si arrende.

Dunque, la domanda si impone in modo ancora più forte: “Come ha fatto a resistere così a lungo il cliché della stupidità, pur essendo palesemente falso?”, si chiede Jutta Person nel libro “L’asino” (Marsilio).
Ho deciso di indagare. Per capire come mai l’asino è diventato un somaro. E conoscere meglio un animale che merita rispetto, come ho già fatto con altri animali linguisticamente disprezzati: il cane, il maiale, il topo (e altri animali, vedi i link in fondo a questo articolo). Ovvero i più vicini compagni della nostra vita quotidiana.

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UNA MACCHINA PERFETTA

Per capire com’è davvero l’asino, basta ricordare la sua storia e la sua etologia. L’asino è stato addomesticato per la prima volta fra 5 e 7mila anni fa nell’Africa nord-orientale (Eritrea, Somalia, Egitto). Fu allevato con cura perché resisteva alla fatica, era forte, e costava poco mantenerlo: mangia meno di un cavallo. Insomma, una macchina perfetta, capace di resistere alle fatiche e agli ambienti più ostili.
Per capire il suo comportamento, bisogna ricordare da dove viene: le regioni aride, montuose e sassose ai margini del deserto. Così riesce a muoversi in modo agile nelle zone più impervie. Tanto che in caso di pericolo, mentre un cavallo tende a fuggire, l’asino rimane immobile e non si sposta nemmeno se trascinato o picchiato. E fa bene, perché correre su un suolo roccioso significherebbe azzopparsi. Negli zoccoli, tra l’altro, l’asino ha un’alta sensibilità tattile, per riconoscere le asperità del terreno.
Ma il suo atteggiamento guardingo è stato frainteso come indecisione: da qui la leggenda dell’asino di Buridano (indeciso fra due mucchi di paglia posti a uguale distanza, non riesce a decidersi e muore di fame).
Gli asini originari vivevano in piccoli gruppi. L’udito acuto e la vocalizzazione potente gli servono per ascoltare i pericoli e avvisare gli altri. La sua lentezza e i suoi sensi sviluppati lo portano ad affrontare un evento inatteso non con la fuga, ma cercando di capire come affrontarlo.
Le orecchie dell’asino sono particolarmente lunghe perché adatte a disperdere calore in un clima desertico. La pelle d’asino è usata come tamburo: è coriacea, ed è dotata di un tessuto adiposo (su collo, dorso e groppa) che funziona da riserva idrica, come per i cammelli.
Le sue labbra sono grosse e molto pronunciate: sono molto sensibili per la ricerca del cibo. Anche l’olfatto è molto sviluppato: pare sia uno degli erbivori capaci di riconoscere il maggior numero di aromi.
Gli occhi hanno un campo visivo molto ampio e con buona vista notturna.
Che dire della sua intelligenza (ammesso che sia corretto attribuire un canone umano a un animale)? Di certo ha una memoria eccellente: quello che ha sperimentato una volta, non lo dimentica più. Ed è curioso, esplora l’ambiente anche da solo. Ed è generoso nell’approcciarsi con chi si avvicina a lui nel modo giusto. Non è pauroso, è indipendente. Ecco perché nell’antichità, l’asino era considerato una ricchezza.

Un “mostro” mite, superdotato e schiavizzato

Dunque, un animale con doti eccezionali. Da dove salta fuori, allora, la sua pessima fama? Da 4 sue caratteristiche che hanno gettato un’ombra sulla sua immagine:

  1. L’uomo-asino in una delle tavole di Giambattista Della Porta.

    IL SUO ASPETTO FISICO: nell’antichità, gli animali erano stati visti come modelli di determinate caratteristiche umane. Leoni, pantere, cinghiali erano utilizzati come simboli per definire il carattere (coraggioso, codardo, sfacciato…) degli uomini, nella convinzione che ci fosse un collegamento fra la forma del corpo e l’anima. Nel 300 a.C., infatti, lo Pseudo Aristotele scrisse la “Physiognomonica”, un trattato nel quale diversi animali rappresentavano  determinati tipi di uomini: l’asino, in particolare, rappresenta l’ottusità, la stupidità e l’indolenza. Colpa dei suoi occhi sporgenti (segno di stupidità), della fronte curva (ottusità), delle labbra grosse (scarsa intelligenza) e delle orecchie grandi (timorosità). E questi stereotipi sono sopravvissuti per secoli: erano ancora ben presenti nella “De humana physiognomonia” di Giambattista Della Porta (1586).

  2. LA SUA SESSUALITA’: l’asino è un superdotato, essendo dotato di un pene enorme. In più ha rapporti più frequenti e aggressivi rispetto ai cavalli. Ecco perché in due racconti latini, le “Metamorfosi” di Apuleio (2° secolo d.C.) e “Lucio o l’asino” dello Pseudo-Luciano, il protagonista si trasforma in asino, e ha rapporti con una donna che ne apprezza le doti. Ma l’aspetto erotico dell’asino ha suscitato, soprattutto dal Medioevo, un’ondata di repulsione e diffidenza, facendo catalogare l’asino fra gli esseri mostruosi e demoniaci, o comunque da censurare. E in realtà potrebbe aver giocato, in questo disprezzo, anche una “invidia del pene” (termine preso a prestito dalla psicanalisi) nei confronti delle sue doti erotiche.
  3. LA SUA VOCE, SGRADEVOLE E SPAVENTOSA: come abbiamo visto sopra, con il suo verso l’asino riesce a segnalare i pericolo al proprio gruppo, anche se è lontano. Ma il raglio dell’asino è molto sgradevole per le orecchie umane, tanto che è diventato l’emblema di chi è ignorante: “raglio d’asino non sale al cielo”, dice il proverbio. Ovvero, chi è intelligente non dà ascolto alle chiacchiere delle persone sciocche.
  4. I SUOI OCCHI: pur avendo un’ottima vista l’asino non riesce a guardare in alto: questo fatto potrebbe aver indotto, nel Medioevo, a considerare l’asino un animale rivolto alla terra piuttosto che al cielo e alla spiritualità.
  5. LA SUA MITEZZA: l’asino è molto servizievole. Dato che si lascia fare di tutto, viene sfruttato e deriso come passivo e indeciso. Gli erbivori più miti sono stati sempre considerati imbecilli: il filosofo Friedrich Nietzsche lo disprezza come bestia da soma che si carica di ogni peso, dice sempre di sì e tiene gli occhi bassi.
  6. LA SUA IMMOBILITA’: dato che in alcune circostanze (soprattutto di pericolo, vero o presunto) l’asino rimane immobile questo è stato interpretato come testardaggine e ostinazione (“sei un mulo”) e stupidità, incapacità di imparare, ottusità.

Un amico forte e pacifico

Dunque, un animale dal valore simbolico molto ricco. E non solo in negativo: nell’Antico Testamento, era considerato una ricchezza (nei 10 comandamenti l’asino è incluso fra “la roba d’altri” con moglie, schiavi e buoi). E nel racconto biblico dedicato all’indovino Balaam (Numeri, 22, 28-31), fu un’asina ad accorgersi della presenza di un angelo, avvisandolo.

Gesù a Gerusalemme su un asino (Hippolyte Flandrin, 1848).

E anche nel Nuovo Testamento l’asino ha un ruolo di primo piano: era nella grotta della natività insieme al bue, fu usato da Giuseppe e Maria per la fuga in Egitto, e soprattutto per l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Una scelta simbolica molto forte, per caratterizzare il Messia come un re umile, che non ha bisogno di un destriero da battaglia. Gesù, insomma, somiglia al quadrupede che cavalca: umile e servizievole, mite, pacifico, si lascia picchiare senza opporre resistenza, pur essendo forte. Un racconto così suggestivo che fino a tutto il Medioevo, si celebravano messe in cui il sacerdote entrava in chiesa a dorso d’asino, mentre l’assemblea ragliava.
Poi c’è Sancho Panza che va in giro con l’asino, l’asino d’oro dei fratelli Grimm (al suono della parola magica lascia cadere monete d’oro dietro di sè). Nella “Fattoria degli animali” George Orwell crea il personaggio di Benjamin Beniamino, un asino scettico e intelligente, assai più sveglio della maggior parte dei suoi compagni. L’ultimo asino della fantasia è Ciuchino, che dal 2001 appare nei cartoni animati di Shrek: è un gran chiacchierone, ama cantare e ballare, ed è molto intelligente , anche se piuttosto fifone.

Uno status symbol (in negativo)

Un editore controcorrente, Edizioni dell’asino: dà attenzione alle minoranze.

Dunque, l’asino è in realtà un animale ambivalente, su cui l’uomo ha proiettato lodi e offese. Questo animale è visto benefico o demoniaco, potente o umile, sapiente o ignorante. Anche se, alla fine, ha prevalso l’immagine negativa. Perché? Nel libro “Asino caro” (Bompiani) Roberto Finzi dice che la ragione è socio-economica: il somaro è disprezzato perché simbolo delle persone povere e contadine, che non possono permettersi mezzi di trasporto più prestigiosi (dal cavallo in su).
Tant’è vero che per dire che una persona è scesa nella scala sociale, oltre al detto “dalle stelle alle stalle” c’è anche “ab equis ad asinos”, dai cavalli agli asini. Insomma, alla fine l’asino come insulto è il riflesso del disprezzo sociale per chi è povero e umile.

 

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