imprecare | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Sat, 18 Mar 2023 15:25:24 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png imprecare | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Perché imprechiamo come camionisti, turchi, camalli? https://www.parolacce.org/2023/03/14/modi-di-dire-bestemmiare-come-turco/ https://www.parolacce.org/2023/03/14/modi-di-dire-bestemmiare-come-turco/#comments Tue, 14 Mar 2023 11:55:45 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19719 Per indicare una persona che usa un linguaggio sboccato, esistono diversi modi di dire: bestemmia (o impreca) “come un turco, un camallo, un carrettiere”… E, più in generale, le scurrilità sono definite come un linguaggio “da osteria, da postribolo, da… Continue Reading

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Un camallo impreca mentre trasporta un peso (disegno da Gephras)

Per indicare una persona che usa un linguaggio sboccato, esistono diversi modi di dire: bestemmia (o impreca) “come un turco, un camallo, un carrettiere”… E, più in generale, le scurrilità sono definite come un linguaggio “da osteria, da postribolo, da caserma”…
Quali sono queste espressioni, e perché facciamo questi paragoni? Molti hanno una lunga storia, sono spesso frutto di pregiudizi e sarebbero decisamente da aggiornare. E non sono un’esclusiva dell’italiano: esistono espressioni equivalenti anche in inglese, francese, spagnolo e molte altre lingue: oltre a turchi e carrettieri, sono citati anche calzolai, birrai, pescivendoli, stagnini e molti altri mestieri… Ma andiamo con ordine, partendo dai modi di dire italiani.

Bestemmiare (o imprecare) come…

Un turco arrabbiato in una caricatura

♦ un luterano: il paragone è nato dopo la Riforma luterana (1517)  che spaccò i cristiani; era, evidentemente, una propaganda per dipingere i luterani come miscredenti ed eretici, come facevano nell’antichità con i pagani

♦ un turco: anche questo paragone è molto antico e cavalca il timore verso i turchi – di fede islamica – che iniziarono a invadere l’Italia già alla fine del 1400

♦ un porco: sebbene sia un animale molto intelligente, nella cultura occidentale il maiale è diventato il simbolo dello sporco, del vizio e della volgarità, come raccontavo in questo articolo; quanto di più terreno e quindi di lontano da Dio

♦ un carrettiere: prima dell’avvento delle automobili, le merci si trasportavano con un carretto trainato da un cavallo o un asino; forse i conducenti imprecavano nel traffico (oggi, del resto, diciamo “parla come un camionista”, vedi più sotto)

♦ un marinaio: il detto trae origine dall’abitudine (vera o presunta) degli uomini di mare a un linguaggio rude

♦ un camallo, uno scaricatore di porto, un facchino: i tre termini sono sinonimi, e si riferiscono al linguaggio scurrile adoperato dagli uomini di fatica per sfogare il dolore

Parlare come…

Un camionista senza filtro

♦ un camionista: gli autotrasportatori sono considerati, nell’immaginario collettivo, come particolarmente scurrili

♦ un cafone, un villano, un bifolco, un burino: da quando nel Medioevo si sono formate le città, gli agricoltori sono stati sempre considerati rozzi e ignoranti

♦ un pecoraio: vedi sopra 

♦ uno stalliere: vedi sopra

♦ un tamarro: il termine in origine designava un venditore di datteri, disprezzato per i suoi modi rozzi

♦ un pescivendolo: professione considerata volgare perché svolta per strada; in più il pesce è un simbolo fallico (e questo è un elemento che contribuisce a svilire il mestiere)

♦ un coatto/ un avanzo di galera: il primo termine indicava chi era recluso (a domicilio o in carcere); in generale, i detenuti sono stati sempre considerati scurrili

♦ una vaiassa: il termine, napoletano, indica una donna popolana, spesso una serva, dai modi sguaiati e volgari

Usare un linguaggio da…

Il sergente maggiore Hartmann

♦ caserma: i soldati usano un linguaggio pesante come nella celebre scena del sergente Hartmann nel film “Full metal jacket” (1987) di Stanley Kubrick:

«Io sono il sergente maggiore Hartmann, vostro capo istruttore. Da questo momento potrete parlare soltanto quando vi sarà richiesto, e la prima e ultima parola che uscirà dalle vostre fogne sarà “signore”. Se voi signorine supererete questo corso, sarete un’arma, sarete dispensatori di morte e pregherete per combattere, ma sino a quel giorno siete uno sputo, la più bassa forma di vita che ci sia nel globo, non siete neanche fottuti esseri umani, sarete solo pezzi informi di materia organica anfibia comunemente detta merda. Dato che sono un duro non mi aspetto di piacervi, ma più mi odierete più imparerete. Io sono un duro, però sono giusto. Qui non si fanno distinzioni razziali, qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani e messicani. Qui vige l’uguaglianza, non conta un cazzo nessuno. I miei ordini sono di scremare tutti quelli che non hanno le palle per servire nel mio beneamato corpo. Capito bene, luridissimi vermi?!».

♦ strada: è il linguaggio urbano, da periferia, dei giovani, degli sbandati o dei diseredati, rozzo e senza filtro

♦ bordello/postribolo: le prostitute, per lavoro, devono parlare di sesso in modo diretto

♦ taverna/osteria/bettola: il riferimento è a locali di infimo rango, frequentati da gente incolta e poco raccomandabile

Nelle altre lingue? Dal muratore al boscaiolo

Il linguista Stan Carey ha collezionato le varianti di questi modi di dire in diverse lingue, dopo aver lanciato un appello su Mastodon: i paragoni più diffusi sono con il marinaio, il carrettiere e lo scaricatore di porto. In definitiva, tutti lavori manuali. Ci sono diverse corrispondenze con l’italiano ma anche diverse espressioni legate alla specifica cultura del luogo, dal boscaiolo al fabbricante di scope.

Imprecare come un… lingue
marinaio 
  • danese (sømand)
  • finlandese (kiroilla kuin merimies)
  • tedesco (Seemann)
  • portoghese brasiliano (xinga mais que um marinheiro / fala mais palavrão que um marinheiro)
  • svedese  (sjöman)
  • inglese (sailor)
carrettiere, cocchiere
  • francese  (jurer comme un charretier)
  • tedesco (Kutscher)
  • ungherese  (kocsis)
  • russo (ругаться как извозчик)
  • spagnolo messicano (hablar como carretonero)
portuale, scaricatore di porto
  • danese (havnearbejder)
  • olandese  (vloeken als een dokwerker/bootwerker)
  • norvegese (banne som en bryggesjauer)
  • portoghese brasiliano (fala como um estivador)
soldato 
  • olandese (dragonder, soldato a cavallo)
  • portoghese (sargento de cavalaria, letteralmente sergente di cavalleria)
  • inglese (trooper)
camionista 
  • greco  (βρίζω σαν νταλικέρης)
  • spagnolo messicano (camionero)
  • inglese (trucker)
stagnino
  • olandese  (ketellapper)
  • tedesco (Kesselflicker)
pescivendolo/a
  • olandese (viswijf, letteralmente “moglie del pescivendolo”),
  • francese (une poissonnière)
eretico, pagano, infedele
  • olandese (ketter)
  • francese (païen)
fabbricante di scope
  • tedesco (Bürstenbinder)
  • svedese (svär som en borstbindare)
calzolaio
  • polacco (kląć jak szewc)
  • russo  (материться как сапожник)
turco finlandese (turkkilainen)
boscaiolo finlandese (tukkijätkä)
birraio tedesco (fluchen wie ein Bierkutscher)
bracciante, contadino tedesco (Landsknecht)
tassista tedesco (Droschkenkutscher)
migliarino di palude (uccello) tedesco (schimpfen wie ein Rohrspatz)
muratore spagnolo messicano (Eres tan vulgar que harías sonrojar a un albañil: sei così volgare che faresti arrossire un muratore)
diavolo irlandese (mallachtú ar nós an diabhail)
turco danese (at bande som en tyrk)
ortolano, fruttivendolo/a spagnolo (tener boca de verdulera, hablar como una verdulera)

L’origine? Stereotipi e classismo

Meme sul giornalista veneto Germano Mosconi, noto per le sue bestemmie

Leggendo tutti questi modi di dire, salta subito all’occhio che sono stereotipi, ovvero pregiudizi, etichette applicate a un intero gruppo sociale. Per lo più quello rappresentato dalle persone di classi socio-economiche inferiori, dedite a lavori di fatica: un modo, insomma, per rimarcare la loro inferiorità sociale giudicandoli anche maleducati, ignoranti e scurrili. Ovviamente, gran parte di questi modi di dire sono stati coniati da persone delle classi superiori, istruite (ma non necessariamente meno volgari). Da sempre infatti i lavori manuali sono considerati umili e appannaggio di persone ignoranti e rozze, come già avevo raccontato in questo articolo sui termini che disprezzano vari mestieri. Del resto, la stessa parola “volgare” deriva da “vulgus”, “popolo” inteso in senso spregiativo e classista. I rozzi, i volgari, insomma, sono sempre gli altri.
Va aggiunto, peraltro, che le parolacce aiutano effettivamente a sfogare il dolore, come hanno dimostrato molte ricerche: e per chi svolge un mestiere fisicamente faticoso, possono essere un’abitudine più diffusa che in altre professioni.
Non è l’unico pregiudizio veicolato da queste espressioni, che sono pure sessiste. Tutti questi modi di dire (con l’eccezione della vaiassa e del riferimento alle prostitute) si riferiscono infatti a maschi, nella convinzione che il “sesso forte” sia anche più incline (o legittimato) a dire più parolacce. Anche questa differenza si sta molto riducendo, visto quanto è diffuso il turpiloquio anche fra le donne, come avevo raccontato in questo articolo.

Francobollo ucraino con un “vaffa” a una corazzata russa.

Occorre aggiungere, tuttavia, che in alcuni casi i paragoni hanno un fondo di verità. Ad esempio, quando si parla di militari (“linguaggio da caserma”): la guerra, infatti, scatena emozioni negative (rabbia, dolore, aggressività, paura) che spesso si sfogano con le parolacce. Perché il contatto con la violenza e la morte, la lotta per la sopravvivenza è fatta anche di imprecazioni e di insulti contro il nemico: sta avvenendo anche nel conflitto in Ucraina, come avevo raccontato in questo articolo. Senza contare che fra commilitoni si usa un linguaggio direttorude, che serve a rimarcare l’appartenenza al gruppo, la propria virilità o le crudeli gerarchie fra commilitoni.
Analoghe considerazioni valgono per il linguaggio da strada e da bordello, due contesti che, per motivi diversi, sono caratterizzati da un linguaggio senza filtro, informale e diretto.
Ma che senso ha oggi dire “bestemmia come un turco” o come un carrettiere? Questi paragoni sono ormai superati e inadatti a descrivere la realtà attuale. Esistono categorie di persone che dicono più parolacce di altre? Potremmo aggiornare le espressioni dicendo che Tizio impreca come un rapper o un tronista? Se avete proposte, scrivetele nei commenti.

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In quale lingua imprecano i bilingui? https://www.parolacce.org/2017/04/30/parolacce-e-bilinguismo/ https://www.parolacce.org/2017/04/30/parolacce-e-bilinguismo/#comments Sun, 30 Apr 2017 10:15:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=12188 Daniela è un’italiana che vive a Madrid da 5 anni. “Parlo in spagnolo e sogno in spagnolo. Ma quando mi arrabbio è più forte di me: comincio a imprecare in italiano. E’ qualcosa di viscerale e quindi uso la mia… Continue Reading

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(elaborazione foto Shutterstock)

Daniela è un’italiana che vive a Madrid da 5 anni. “Parlo in spagnolo e sogno in spagnolo. Ma quando mi arrabbio è più forte di me: comincio a imprecare in italiano. E’ qualcosa di viscerale e quindi uso la mia lingua. Per quanto si sappia bene un’altra lingua, è molto difficile che si riescano a usare correttamente le sue parolacce. Come ho letto in un libro: ‘Le parole sono quelle, ma manca la musica…’”.
Il racconto di Daniela pone una questione intrigante: come usano il turpiloquio le persone bilingui? E perché anche chi padroneggia un nuovo idioma continua a imprecare nella lingua madre?
Il fenomeno non è isolato, tanto che diversi studi scientifici – che vi racconto in questo articolo – ne hanno approfondito le ragioni con alcuni esperimenti. Ed è un tema d’attualità, visto che solo nel 2015 (ultimi dati Istat)  oltre 147mila italiani sono emigrati all’estero, per lo più in Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia.
Dedico questo articolo a loro, tanto più che fra le centinaia di migliaia di navigatori di questo sito, il 28% risiede all’estero: soprattutto negli Usa, in Russia, Germania, Francia, Cina, Ucraina, Regno Unito, Svizzera, Brasile, Spagna, Paesi Bassi, Canada.

Quando si va a vivere in un nuovo Paese, spesso le parolacce sono una delle prime curiosità: come ci si manda affanculo in spagnolo? (Risposta: va a la mierda). Come si dice “culona” in inglese? (Fat ass). E così via.

Poster sulle parolacce italiane e inglesi (clic per ingrandire).

Queste domande, infatti, soddisfano una fantasia profonda: imparare le parole di un’altra lingua significa immergersi in una cultura diversa. Si può guardare il mondo da un altro punto di vista, e questo apre la mente a nuove prospettive, facendoci capire che il nostro sistema di valori non è l’unico possibile. Anche con le parole scurrili.
E oltre a stimolare la fantasia, conoscere il turpiloquio in un’altra lingua è utile. Anzi: è fondamentale.
Per vivere in un altro Paese, infatti, non basta saper chiedere un biglietto del treno in stazione o sapere se bisogna lasciare una mancia al bar. E’ altrettanto importante saper riconoscere gli insulti, per capire se qualcuno ci sta offendendo o prendendo in giro, come racconto nel mio
libro.
Dunque, anche se nessun testo scolastico le insegna, le espressioni volgari sono parte integrante della competenza linguistica, ovvero del saper parlare e capire un altro idioma.
Sfoggiare una parolaccia durante una chiacchierata con nuovi amici stranieri fa guadagnare punti e simpatia: si dà l’impressione di padroneggiare la nuova lingua, e di essere pienamente integrati. Ma è anche un azzardo: dire una parolaccia al momento sbagliato o alla persona sbagliata, fa fare pessime figure. L’abbiamo visto, per esempio, quando ho raccontato i gesti da non fare all’estero.

E lo stesso avviene quando si usano espressioni gergali. Ne sa qualcosa Emanuela, una milanese che vive a Dallas (Usa) dal 2006. Ecco che cosa le è successo durante un party estivo.

GAFFE
“Dopo un bel bicchiere di bianco a stomaco vuoto, ho detto a mr Johnson, il giapponese: “You’re a bad ass!”. Mr. Johnson mi ha guardato con aria interrogativa. Fra i presenti è calato il gelo. La mia amica mi ha dato una gomitata. Quell’espressione voleva dire “sei un gran figlio di puttana”; in realtà volevo dirgli che era un furbacchione (smart ass).
In totale imbarazzo ho cercato di giustificarmi: “Ma non è una brutta parola, vero? L’ho sentita usare tante volte…”.
La mia amica con lo sguardo severo mi ha detto: “Cara, non direi mai quell’espressione se sono fra persone educate”.

(elaborazione foto Shutterstock)

Ma non è tutta colpa mia! L’inglese è pieno di espressioni con ass (culo): asshole (stronzo), damn ass (coglione), asswipe (stronzo), pain in the ass (cagacazzi), sweat your ass off (farsi il culo), make an ass of yourself (fare la parte del cretino), kiss my ass (baciami il culo), ass head (testa di cazzo), ecc. E orientarsi è difficile: in un’altra lingua occorre tempo per distinguere un’espressione colorita e divertente da una considerata volgare e offensiva. Per questo si finisce a volte per usare espressioni che non si direbbero mai nella propria. E c’è un ulteriore problema: la stessa parola, se si vuole usare uno stile confidenziale e informale, detta da un madrelingua e da uno straniero può acquistare significati molto diversi, anche se è pronunciata correttamente”. 

Le parolacce, infatti, sono parole emotivamente cariche: e come è difficile tradurre le emozioni a parole, così è difficile tradurre tutte le sfumature di una parola volgare da una lingua all’altra (ne parlavo qui a proposito delle traduzioni, spesso inaccurate, dei film).
Dunque, padroneggiare le parolacce in un’altra lingua è davvero difficile, perché sono parole ricche di sfumature di significato, le connotazioni. E’ per questo, allora, che quando sono infuriati, gli emigrati imprecano nella loro lingua madre? Un esperimento ha dimostrato che non è tanto una questione di conoscenza linguistica: è soprattutto una questione emotiva.
Gli scienziati l’hanno accertato con un esperimento interessante: sono riusciti infatti a quantificare la carica emotiva delle parolacce nelle persone bilingui. In che modo? Misurando la loro… carica elettrica.
Le parolacce, infatti, oltre ad essere controllate dalle aree del cervello che elaborano le emozioni (vedi il mio articolo sull’anatomia del turpiloquio) hanno anche un effetto fisico: quando le si ascolta, nel giro di 1 secondo fanno aumentare la sudorazione della pelle, facendo salire per 2-6 secondi la sua conduttività elettrica, che si può misurare con alcuni elettrodi applicati alle dita della mano. Leggere o dire una parolaccia, infatti, significa rompere un tabù e questo è uno stress per il nostro corpo, oltre che per la nostra mente.

Un esperimento elettrico

Apparecchio per misurare la conduttanza della pelle.

Così due ricercatrici inglesi, Tina Eilola e Jelena Havelka, psicologa dell’università di Leeds (Uk) hanno deciso di sfruttare questo effetto per misurare, nei bilingui, le risposte emotive alle parolacce nella lingua madre (L1) e nella seconda lingua appresa (L2)Per fare questo studio hanno reclutato 72 volontari: 39 madre lingua inglese e 33 bilingui (greco e inglese).
A tutti hanno applicato alcuni elettrodi a due dita delle mano (v. foto): servivano a misurare la risposta galvanica (Galvanic skin response, la conduttività elettrica) della pelle mentre leggevano liste di parole (neutre, positive, negative e parolacce) in ambo le lingue. Queste parole erano stampate in diversi colori: i volontari, guardandole, dovevano dire ad alta voce il loro colore.
In  una riga, per esempio, poteva essere scritta una sequenza del genere:

ciao     merda     miele     incidente     auto

Il test sfruttava l’effetto Stroop, noto da decenni in psicologia: quando svolgono un compito del genere, le persone hanno un momento di esitazione (tempo di latenza), soprattutto se il colore di una parola è diverso dal suo significato (per esempio, se la parola blu è scritta in un altro colore, per esempio in rosso).

Questa esitazione avviene anche quando bisogna indicare il colore di parole forti, che fanno aumentare la conduttività della pelle.
Il risultato dell’esperimento è stato inequivocabile: sia i parlanti monolingua che i bilingui avevano le esitazioni più lunghe e i picchi più alti di corrente quando dovevano leggere parole negative o scurrili.
Nei bilingui, però, i valori elettrici erano più alti con le parolacce scritte nella lingua madre (L1) invece che in quella appresa poi (L2): segno inequivocabile che la seconda lingua è emotivamente meno carica.

Perché avviene questo? Secondo una ricerca di Jean-Marc Dewaele, linguista dell’Università di Londra, molto dipende dall’età e dal contesto in cui si impara una lingua: se la si apprende da bambini (entro i 12 anni di età), si assorbono anche i colori emotivi associati alle espressioni.

Uno dei pochi dizionari di parolacce in inglese.

Tanto più se si impara una lingua nei contesti naturali, attraverso le interazioni con altre persone: i significati di una parola non sono trasmessi solo da dizionari e regole grammaticali, ma soprattutto dai toni di voce e dalle espressioni facciali di chi le pronuncia. Uno psicologo statunitense, Albert Mehrabian, ha scoperto infatti che solo il 7% della comunicazione è espressa dalle parole; la maggior parte dei contenuti passano soprattutto attraverso i movimenti del corpo e la mimica facciale (55%) e da volume, tono, ritmo e di voce (38%). La comunicazione non-verbale trasmette più informazioni di quella verbale.
Ecco perché, in caso di tempesta emotiva, chi diventa bilingue in età adulta impreca nella propria lingua d’origine.
Ma questa differenza emotiva non è solo uno svantaggio: chi vive all’estero spesso racconta che nella nuova lingua – inglese, spagnolo o francese che sia – riesce a parlare meglio di argomenti spinosi o a prendere decisioni difficili. Una lingua meno “calda”, quindi, aiuta a guardare le cose con più distacco e lucidità.
Insomma, come diceva re Carlo V D’Asburgo e di Spagna (1500-1558) “parlo in spagnolo a Dio, in italiano alle donne, in francese agli uomini, e in tedesco al mio cavallo.”

TESTIMONIANZE

Avviene così anche per voi, se vivete fuori dall’Italia? E i vostri figli come dicono le parolacce? Nella lingua del Paese in cui vivete, o in italiano? E se avete un marito/moglie straniero, vostro figlio in quale lingua impreca?
Raccontate le vostre esperienze nei commenti a questo post. E’ un campo tutto da indagare.
Tra l’altro, proprio in questi giorni la Stampa ha parlato del successo di Gabriele Benni, un bolognese trapiantato in Cile. Ha un grande successo come comico perché usa con nonchalance un sacco di parolacce che – se fossero dette da un cileno – farebbero scandalo; lui invece, da straniero, le dice con innocente e incosciente leggerezza, anche se conosce benissimo il loro significato: e questo genera un effetto ridicolo irresistibile….

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La grammatica delle parolacce/2 https://www.parolacce.org/2011/09/14/la-grammatica-delle-parolacce2/ https://www.parolacce.org/2011/09/14/la-grammatica-delle-parolacce2/#comments Wed, 14 Sep 2011 09:05:44 +0000 https://www.parolacce.org/?p=376 Oltre a enfatizzare e descrivere (funzioni di cui ho parlato in questo articolo), le parolacce hanno altre 3 funzioni più antiche e più complesse. Eccole. 3) IMPRECARE Cazzo! Merda! Porca puttana! Mortacci tua! Sti cazzi! Anche se rispettano alcune elementari… Continue Reading

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Copertina di un album degli Zen Circus (2009), gruppo indie rock.

Oltre a enfatizzare e descrivere (funzioni di cui ho parlato in questo articolo), le parolacce hanno altre 3 funzioni più antiche e più complesse. Eccole.

3) IMPRECARE

Cazzo! Merda! Porca puttana! Mortacci tua! Sti cazzi!

Anche se rispettano alcune elementari regole grammaticali, come le concordanze di genere (maschile/femminile) e di numero (singolare/plurale) fra le parole, queste espressioni, secondo alcuni, non avrebbero significato letterale. Non servono a denotare (indicare) qualcosa perché sono desemantizzate, svuotate di significato. Equivalgono a ohi! Ahi! Ovvero sono, dal punto di vista grammaticale, interiezioni: sono parole o frasi cristallizzate che servono a esprimere una forte emozione (gioia, dolore, rabbia, sorpresa, paura, minaccia, disappunto, impazienza, disprezzo…).
Ma questa interpretazione si scontra con la storia. Le imprecazioni in origine avevano sì un significato: erano giuramenti. “Per Giove” significava  “che Giove mi fulmini se mento”. Perché avveniva questo? Perché non c’erano leggi che prevedessero punizioni per chi non rispettava la parola. “Oggi garantiamo le promesse con contratti che, a non rispettarli, prevedono una penalità: ipotecando la nostra casa, autorizziamo la banca a prenderne possesso se non paghiamo il mutuo. Ma quando non si poteva contare su strumenti commerciali e legali per imporre il rispetto dei contratti, ci si doveva mettere in posizione di svantaggio da soli”, sottolinea lo psicologo Steven Pinker dell’università di Harvard.

Il giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David (1785).

In che modo? Costringendo se stessi a un pensiero sgradevole: immaginare di essere puniti da Dio se non si avesse mantenuto il giuramento.
Ma questi giuramenti non potevano essere inflazionati: se ogni volta che qualcuno trasgrediva un impegno solenne non gli capitava nulla, questo “avrebbe suscitato dubbi sull’esistenza di quest’ultimo, sulla sua potenza, o per lo meno sulla sua soglia di attenzione. E i rappresentanti terreni di Dio desideravano invece che si continuasse fermamente a credere che egli ascoltasse e intervenisse nelle questioni importanti. Che la gente appannasse il marchio invocando Dio come il forzuto a difesa dei loro affari spiccioli, quindi, non doveva piacere loro per niente. Da qui i divieti di servirsi del nome di Dio invano”.
Dunque, le imprecazioni (letteralmente: pregare contro) servivano in origine a segnalare una distinzione fra promesse quotidiane di poco conto e solenni impegni su questioni importanti.
Poi, il comandamento biblico “non nominare il nome di Dio invano” si è trasferito su concetti più terreni (sesso, morte, malattie) ma mantenendo la medesima funzione: evocare qualcosa di sgradevole, repellente o angosciante. Il sesso, in particolare, ha preso il posto delle divinità per due motivi: sia perché in origine era anch’esso sacro (per esempio, nell’antica Grecia si facevano processioni con grandi statue di falli, le falloforie, per propiziare la fecondità dei campi), sia perché anche il sesso è fonte di cautele, ansie e pensieri negativi.
Del resto, la parola testicoli, “piccoli testimoni”, rivela che anticamente si giurava su di essi per sancire la solennità di quanto si pronunciava. 

Processione fallica a Kawasaki (Giappone).

Tornando alle imprecazioni, dal punto di vista grammaticale sono interiezioni improprie (sostantivi o aggettivi usati con funzioni esclamative) o locuzioni interiettive (se formate da gruppi di parole).
Come tipo di frasi, le imprecazioni rientrano nelle frasi esclamative.
Il sociologo Ervin Goffman diceva che le imprecazioni (dette anche “versi reattivi”) servono non solo a sfogare le emozioni, ma anche a segnalare a un pubblico (vero o presunto) la nostra comprensione degli eventi. Una persona che rovescia un bicchiere potrebbe essere un maldestro, ma se dice “Cazzo!” ci segnala che quanto è successo non era nelle sue intenzioni e se ne rammarica.
Come scrive lo psicologo Stephen Pinker: “A seconda della scelta del termine e del tono con cui è pronunciato, uno sfogo può invocare aiuto, intimidire un avversario, o avvertire un attore incurante del danno che sta inavvertitamente causando”.

4) MALEDIRE

Le parolacce di questa categoria sono tutte frasi volitive: possono esprimere, a seconda dei casi, un comando (frasi imperative: vattene a fanculo), un desiderio (frasi desiderative: ti venisse un cancro), un’esortazione (frasi esortative: che vadano a cagare!).
Hanno la stessa origine delle imprecazioni, con la differenza che mentre queste ultime sono una minaccia a se stessi, le maledizioni sono una minaccia rivolta ad altri.
Sono un sortilegio, vicino alla magia nera a cui storicamente si ricollegano: si basano sulla credenza che il malaugurio possa davvero realizzarsi (“che Dio ti fulmini”). E questo in parte è vero: perché costringono anche per un attimo il destinatario a immaginarsi in quella sgradevole prospettiva.

5) INSULTARE

Gli insulti sono tutti aggettivi qualificativi. In molti casi sono metafore (usano una parola in senso figurato): sei uno stronzo = sei ripugnante come un escremento. Oppure: sei una sega = sei un atto sessuale che non vale nulla = non vali nulla.
In altri casi per insultare usano la connotazione (cioè le sfumature emotive, in questo caso negative, di una parola di per sé neutra o descrittiva): extracomunitario = persona proveniente da Paesi non europei = povero, ignorante, delinquente.
In altri ancora sono metonimie (sostituzione di un termine con un altro, con cui è in rapporto di vicinanza): baldracca da Baldacca, nome alterato di Bagdad, città dissoluta e nome di una contrada di Firenze dove abitavano le prostitute.
Oppure iperboli: sei una palla di lardo per dire “sei grasso”.
Anche l’insulto costringe a un pensiero negativo: costringe chi lo riceve a sentirsi sminuito e rifiutato, abbassando così la propria autostima. E anche questa è, a suo modo, una magia.
Il duo comico “I soliti idioti” fa largo uso di parolacce svilenti:

Quali conclusioni trarre da queste osservazioni?
Molti benpensanti affermano che le parolacce impoveriscono il linguaggio. Semmai, è vero il contrario: basti pensare alla gran mole di termini per indicare il sesso, che ho censito per la prima volta su questo blog.
Dunque, parolacce sono una tavolozza di colori emotivi che arricchiscono il nostro linguaggio, al servizio delle più svariate esigenze espressive. E lo fanno in un modo che alle altre parole è precluso: hanno una carica energetica, espressiva, dirompente, scandalizzante, immaginifica, provocatoria, liberatoria, catartica, che le altre parole non possiedono. A patto di non abusarne, perché questo ne inflazionerebbe l’efficacia.
E sono anche parole magiche, perché si attribuisce loro il potere di influenzare la realtà, profetizzando sventure, a sè o agli altri. Del resto le parolacce rientrano, a loro modo, nella stessa sfera del sacro: il comandamento “Non nominare il nome di Dio invano” vale anche per tutti i concetti a cui le parolacce si riferiscono. Ovvero la vita, la morte, le malattie.

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