Milano | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 25 Jun 2024 13:45:43 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Milano | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Alla Iulm il primo corso sul turpiloquio in Italia https://www.parolacce.org/2024/02/15/universita-corso-sulle-parolacce/ https://www.parolacce.org/2024/02/15/universita-corso-sulle-parolacce/#respond Thu, 15 Feb 2024 12:44:10 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20279 La prossima settimana, per la prima volta in Italia, terrò un ciclo di 6 lezioni (12 ore di insegnamento) in università su un aspetto controverso, ma allo stesso tempo poco studiato, del linguaggio: le parolacce. Il workshop di Ateneo, che… Continue Reading

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L’edificio principale dell’Università Iulm a Milano.

La prossima settimana, per la prima volta in Italia, terrò un ciclo di 6 lezioni (12 ore di insegnamento) in università su un aspetto controverso, ma allo stesso tempo poco studiato, del linguaggio: le parolacce. Il workshop di Ateneo, che inizia il prossimo 20 febbraio, è riservato agli studenti iscritti alle 3 facoltà della Iulm di Milano: Interpretariato e Traduzione, Comunicazione, Arti e Turismo. Consentirà, a chi lo frequenterà per intero, di ottenere un “badge of honour” che potrà valere fino a un punto in più sul voto di laurea. I badge sono pensati come occasioni per «aprire nuovi orizzonti di interesse e partecipazione alla vita intellettuale e civile».
Il workshop, intitolato “Comunicazione e parolacce” ha avuto un boom di richieste da tutte le facoltà, a fronte di 30 posti disponibili. All’estero il turpiloquio è studiato nelle Università: negli Usa , in Francia e nel Regno Unito ci sono da tempo corsi sull’argomento. In passato avevo tenuto conferenze sul turpiloquio nelle Università di Chambéry (Francia) e Caxias do Sul (Brasile), ma è la prima volta in cui lo faccio in un ateneo italiano. Ed è un’iniziativa del tutto inedita per il nostro Paese per il suo livello di approfondimento.

Competenza linguistica

Non andrò a insegnare le parolacce agli studenti: vista l’età, è molto più probabile che siano loro a saperne più di me. L’obiettivo del corso è un altro: fornire ai giovani gli strumenti per comprendere correttamente queste espressioni. L’idea di questo corso mi è venuta vedendo quante volte, troppo spesso le parolacce siano fraintese, e a volte strumentalizzate sui giornali e in tv. Il turpiloquio è il linguaggio delle emozioni e fa parte a pieno titolo della competenza linguistica: chiunque, per poter correttamente parlare e capire una lingua, deve sapere anche che cosa significano queste parole. Perciò non ha senso fingere che queste espressioni non esistano. Al tempo stesso, però, bisogna imparare a riconoscerne il ruolo, e questo è possibile solo studiandone la loro lunga stratificazione culturale e antropologica. Metterò a disposizione degli studenti i miei 18 anni di studi e pubblicazioni sull’argomento.

Casi di studio, traduzioni e arte

Gli studenti delle facoltà di interpretariato e traduzione sono fra i destinatari del workshop. Tradurre le parolacce, in un Paese che ha una grande tradizione cinematografica, è un problema all’ordine del giorno quando si deve doppiare in italiano un film o una trasmissione televisiva che arriva dall’estero. Ma per farlo occorre conoscere i livelli di offensività delle parolacce in diverse lingue, oltre ai loro significati metaforici e ai modi di dire. E occorre sapere quali sono le espressioni più diffuse. E’ un compito molto impegnativo, per il quale darò alcuni strumenti utili e alcune linee guida. Evidenziando gli errori più comuni in cui si incorre.

E c’è molto materiale anche per gli studenti di comunicazione: «Analizzeremo insieme alcuni casi venuti alla ribalta nelle cronache anche recenti, da Morgan a Sgarbi e Trump. L’uso delle parolacce in politica (spesso un boomerang) o nelle campagne sociali o di marketing. Presenterò le statistiche sul turpiloquio, smontando con la forza dei numeri molti falsi miti (ad esempio che le parolacce abbiano solo effetti negativi). Racconterò le scoperte della scienza in questo campo, che sono affascinanti: le parolacce sono radicate in precise aree cerebrali e suscitano effetti fisici oltre che psicologici. Le parolacce riescono a spostare i conflitti da un piano fisico a uno simbolico: alcune scimmie, negli Usa, a cui fu insegnato il linguaggio dei gesti, impararono spontaneamente a creare espressioni insultanti.

Il workshop si rivolge anche agli studenti di arti e turismo: racconterò la millenaria storia delle parolacce, nella letteratura, nell’arte e nel cinema, ricordando che il primo testo in italiano volgare conteneva una parolaccia. Raramente i giovani sono accompagnati a una riflessione non banale su questo tema delicato. Le parolacce offrono una prospettiva straordinaria per comprendere i valori e disvalori, la creatività e le fobie, di un’epoca. Cancellarle è impossibile: impariamo almeno a conoscerle nella loro complessità. Negli ultimi anni diverse università italiane hanno affrontato il tema del turpiloquio durante altri corsi o nelle tesi di laurea, ma il rettore dello Iulm, professor Gianni Canova, ha previsto un intero ciclo di incontri: una scelta inedita e al passo con i tempi. Viste le adesioni, si è rivelata azzeccata. Oggi viviamo in un’epoca di inflazione delle parolacce, eppure le conosciamo poco e male.
Quindi si diranno parolacce in aula? Certo, ma solo in quanto oggetti di studio. Basta farlo in maniera pertinente, non insultante e senza sciatteria. Come si dovrebbe fare nella vita di tutti i giorni.

La notizia del workshop è stata rilanciata dall’agenzia AdnKronos, Il Giorno, Corriere della sera, Milano Today, RadioNumber One, Radio 101Leggo, Donna ModernaSkuolaNet, La svoltaCommenti memorabili, Italy24 Press News e Italian Post (in english), Italy24 Press News (en français), JerryOgConrad (norvegese), 52hrtt  e 0039yidali.com (cinese), Virgilio Sapere scuola, San Marino radio tvStudentville, GreenMe, La città news, Milano events, Quotidiano Canavese, Qui Cosenza, Trash italiano, Università.it, NasceCresceIgnora, mitomorrow, Radio Roma “Kiss & Go” , IdeaWeb tv
Il “Venerdì di Repubblica” ha dedicato una pagina, Gente ne ha dedicate due. Il quotidiano “Il Giorno” ha pubblicato una lunga intervista di Simona Ballatore. Il quotidiano “Libero” mi ha dedicato un lungo articolo di Alessandro Dell’Orto.

Il comico Saverio Raimondo mi ha intervistato a proposito del corso durante la trasmissione “In altre parole” condotta da Massimo Gramellini su La7 il 20 aprile:

Qui sotto la video-intervista di Alessandro Boldrini dell’agenzia AlaNews:

La trasmissione Night call di Radio Deejay con Chicco Giuliani mi ha intervistato in diretta il 19 marzo. Qui sotto l’audio:

 

La trasmissione We-Jay di Radio Deejay mi ha intervistato in diretta il 24 febbraio. Qui sotto l’audio:

La trasmissione “Le mattine – I miracolati” di Radio Capital mi ha intervistato il 4 aprile in diretta. Qui sotto l’audio:

La trasmissione “Breakfast Club di Radio Capital ne ha parlato nella puntata del 20 febbraio, qui sotto l’audio del momento:

La trasmissione “Rock & talk” (con Dr. Feelgood, Massimo Cotto e Antonello Piroso) su Virgin Radio ne ha parlato nella puntata del 5 marzo, qui sotto l’audio:

La radio M2O ne ha parlato in trasmissione con Albertino:

Il quiz “L’eredità” (Rai1) ha dedicato una domanda al mio corso durante la puntata del 16 marzo.  Qui lo spezzone:

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Storia (linguistica) del fallo, da divinità a nullità https://www.parolacce.org/2023/05/18/fallocentrismo-nella-lingua/ https://www.parolacce.org/2023/05/18/fallocentrismo-nella-lingua/#respond Thu, 18 May 2023 07:48:34 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19838 Oggi lo usiamo per indicare oggetti  di scarso valore (“del cazzo”), affermazioni inconsistenti (“cazzate”) o addirittura il nulla (“un cazzo”). Eppure, nell’antichità il membro virile aveva un valore così grande da esser considerato sacro, e dotato del potere di favorire… Continue Reading

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L’obelisco di Buenos Aires con un profilattico in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids nel 2005. Più fallico di così.

Oggi lo usiamo per indicare oggetti  di scarso valore (“del cazzo”), affermazioni inconsistenti (“cazzate”) o addirittura il nulla (“un cazzo”). Eppure, nell’antichità il membro virile aveva un valore così grande da esser considerato sacro, e dotato del potere di favorire non solo la fecondità, ma anche l’abbondanza dei raccolti agricoli o di allontanare gli influssi nefasti. Il mondo antico era infatti fallocentrico: metteva il pene (e chi ne era provvisto) al vertice della vita sociale e religiosa.

In questo articolo parlerò di quest’epoca che ha lasciato tracce non solo nel linguaggio, ma anche in alcuni gesti e tradizioni. I termini fallo, fallimento, falso, priapismo, uccello, testicoli/testimoni, “sto cazzo”, “cazzuto”, fascino, derivano da questa mentalità, così come i monumenti a forma fallica (obelischi, dolmen, torri), le processioni dei ceri e dei gigli, il gesto scaramantico di toccarsi gli attributi, il cornetto portafortuna napoletano, la Befana a cavallo della scopa, la nascita della commedia e dei sacramenti. Altro che cazzate.

I culti fallici, il dio del piffero e le processioni

Pompei, dipinto che raffigura Priapo mentre pesa il suo membro su una bilancia: vale tanto oro quanto pesa.

Cominciamo dal termine “fallo”. Deriva dal greco φαλλός-phallós, a sua volta derivato dal sanscrito phalati (= germogliare, fruttificare) o alla radice della lingua  protoindoeuropea bʰel-phal (= gonfiare, gonfiarsi). Dunque, il fallo è visto come un germoglio: nella mentalità antica (sopravvissuta a lungo) si pensava che il seme maschile fosse il solo responsabile della vita, mentre la donna ne fosse un mero ricettacolo passivo. Aristotele sosteneva che il principio generativo risiedesse esclusivamente nell’uomo. Le donne erano secondo lui sterili, accoglievano il seme maschile ma non partecipavano alla fecondazione. Per inciso, “fallo” in senso di errore (da cui fallimento e falso) deriva da un ulteriore sfumatura di significato di fallere, ovvero “fottere”, nel senso di ingannare. 

Dunque, il fallo era considerato l’origine della vita, un organo con il misterioso potere di fecondare. Di qui la sua sacralità, che era personificata in Priapo, dio greco della fertilità il cui simbolo è un grande fallo eretto. Priapo era figlio di Afrodite (venere) e Zeus (Giove). Hera, moglie di Zeus, per punizione gli conferì un pene enorme (dal dio Priapo deriva il termine “priapismo“, che indica un’erezione dolorosa e persistente).
Il suo animale era l’asino, sia perché dotato di un membro smisurato, sia per un mito: si narra che Priapo insidiasse la ninfa Lotide dormiente, ma il ragliare di un asino svegliò la ninfa impedendo l’accoppiamento. e il Dio, per vendetta, pretendesse il sacrificio annuale di un asino.
Il suo culto, fiorente in Italia intorno al III secolo a.C., era associato al mondo agricolo e alla protezione delle greggi, dei pesci, delle api, degli orti. 

Processione fallica a Komachi (Giappone).

In primavera, il culto di Priapo – sia in Grecia che poi in Italia, presso i Romani – si celebrava con le falloforie, processioni in cui si trasportavano enormi falli di legno per propiziare la fertilità dei campi: ancora oggi a Tyrnavos (Grecia), il Lunedì grasso è ancor oggi celebrato con un festival fallico, il “Bourani” (nome anche di una zuppa di spinaci), con lancio di palloncini fallici e cortei. Lo stesso accade in Giappone con i festival (matsuri) a Kawasaki, Kishiwada e Komaki, dove sfila un fallo in legno di cipresso lungo 2,5 metri e pesante 280 kg. Per gli antropologi, la Sagra dei gigli a Nola, la Corsa dei ceri a Gubbio sono processioni falliche travestite.

La Sagra dei gigli (a sinistra) e la Corsa dei ceri (a destra).

Tornando alla Grecia antica, i rituali terminavano con una pioggia d’acqua mista a miele e succo d’uva, indirizzata verso i terreni, per favorire così l’abbondanza dei raccolti agricoli.
In onore di Priapo furono composti i “Carmina Priapea”, i canti in suo onore; ne riproduco qui sotto alcune strofe:

«Quando tu, un Dio, bandito ogni pudore, ti mostri coi coglioni di fuori, allora posso ben chiamare “fica” la fica e “minchia” la minchia». 

«Mi domandi perché abbia le parti oscene scoperte? E io ti chiedo: perché gli altri Dei non coprono le loro armi? Il signore del mondo tiene in mano il fulmine, apertamente; né si vede il dio del mare coprire il tridente.[…] Chi vide te, Amore, con la fiaccola nascosta? Non mi si incolpi quindi se tengo la minchia sempre di fuori: se mi si abbassa l’arma, sono spacciato!»

Insomma, versi molto salaci che secondo Aristotele furono le prime forme da cui si originò la commedia. Secondo molti  studiosi, inoltre, i monumenti che si stagliano dal terreno sarebbero tutti monumenti fallici: gli obelischi in Egitto, i monoliti in Francia, i dolmen in Gran Bretagna e in Sardegna, i cippi agricoli in Puglia, Grecia e Albania. 

I giuramenti: che Dio mi fulmini… proprio lì

Il servo giura mettendo la mano sulla coscia (in realtà i genitali) di Abramo.

C’è però anche un altro aspetto, nella mentalità antica, che esprime la sacralità dei genitali maschili: i sacrifici e i giuramenti. Nei sacrifici rituali, alle divinità si offrivano gli organi interni, le viscere (gli “exta”: fegato, vescicola biliare, cuore, polmoni e peritoneo) considerate più pregiate, mentre il resto era spartito fra i partecipanti al rito; tra le frattaglie c’erano anche i testicoli della vittima (polimina, polimenta): erano mangiati dai partecipanti per impossessarsi della sua forza vitale e generativa, oppure erano donati alla divinità per ingraziarsela (se era una divinità maschile). 

Ancor più interessante l’uso di giurare tenendo fra le mani i testicoli: si giurava, insomma, sul patrimonio più caro, che veniva messo a conferma e garanzia del patto. Come a dire: “Che Dio mi castri se mento”. Dunque, giurare sui “gioielli di famiglia” rende solenne il patto, perché la posta in gioco (la perdita della capacità generativa) era considerata la più alta possibile: nessuno avrebbe osato giurare il falso con la prospettiva di rimanere castrato.

E questa abitudine era propria non solo del mondo greco e romano, ma anche degli ebrei: nella Genesi (24:2-4) Abramo fa giurare il suo fidato servo che avrebbe trovato una moglie per Isacco nel suo paese d’origine. Il testo biblico dice “Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore”. Qui “coscia” sta per i genitali: per gli Ebrei “il contatto con gli organi da cui ha origine la vita rende infrangibile l’impegno assunto”. Per questo la parola “testicoli” significa letteralmente “piccoli testimoni” del giuramento (e anche degli amplessi, ma questo significato si è aggiunto poi). I giuramenti solenni, fatti in questo modo, erano per i Romani un atto sacro (“sacramentum”) di impegno con la divinità: il cristianesimo prenderà proprio da questi riti l’idea dei “sacramenti”, l’insieme dei segni e dei gesti sacri che mettono  il fedele in comunione mistica con Cristo.

Amuleto contro il malocchio

Pompei, bassorilievo con un fallo alato. Proteggeva una fornace.

Nella mentalità antica, dunque, il fallo era considerato sacro in quanto portatore di vita. Ma questa concezione, in una mentalità magica – convinta cioè che il pensiero potesse influire sulla realtà – ha assegnato al membro virile un ulteriore potere: quello apotropaico di scacciare le forze negative. Gli antichi Romani, in particolare, erano molto superstiziosi: ogni giorno adottavano varie strategie (gesti, riti, sacrifici) per scongiurare la mala sorte. 

Un fallo eiacula su un occhio: un modo per neutralizzare il malocchio (Leptis Magna).

Il loro timore più grande era rappresentato dall’oculus malignus, il malocchio: lo sguardo cattivo, invidioso, che rischiava di trasmettere la cattiva sorte su chi lo riceveva. Credevano infatti che esistessero persone, dotate di occhi deformi o incantatori, capaci di lanciare malefici solo guardando un altro. Capaci, insomma, di esercitare un certo “fascino” sulle altre persone: in latino “fascinus” (dal greco báskanos ‘iettatore, ammaliatore’ a sua volta da básko ‘maledico’). Se io ti affascino, ti faccio il malocchio. E il fallo, con la sua potenza vitale, era considerato l’amuleto perfetto per contrastare il malocchio: aveva il potere non solo di evocare la forza generativa, ma anche di spaventare o di distrarre lo iettatore, allontanando così il suo sguardo nefasto. Tanto che in latino “fascinus” indica sia il malocchio che il talismano (fallico) usato per contrastarlo. 

Due tintinnabula: alato e con donna a cavalcioni.

Ecco perché i Romani collocavano sculture o bassorilievi fallici all’ingresso delle abitazioni e delle botteghe, persino sul pavimento stradale, come sa chi abbia visitato le rovine di Pompei: spesso il fallo era incorniciato in una struttura rettangolare che gli conferiva un’aura sacra.

C’è un bassorilievo del II secolo dopo Cristo rinvenuto a Leptis Magna (l’odierna Libia) che rappresenta un organo maschile dotato di gambe mentre eiacula sopra un “oculus malignus” per neutralizzare i suoi effetti malefici (v. foto).
I Romani usavano le sculture falliche anche come 
tintinnabula, sonagli azionati dal vento che appendevano alle porte d’ingresso (sempre per distrarre gli iettatori). E i falli erano rappresentati in monili da indossare: uomini, donne, bambini (indossavano la “bulla”, un marsupio rotondo contenente amuleti protettivi da portare come collana) e persino i cavalli  portavano amuleti a forma di piccoli peni eretti – generalmente di bronzo, ma anche d’oro, argento, corallo, osso – appesi a dei braccialetti, o più di rado al collo.

Tipico cornetto portafortuna napoletano.

Alcuni di questi amuleti rappresentavano falli con le gambe o alati: forse da questa usanza deriva l’uso del termine “uccello” per designare l’organo maschile. Le ali e le gambe alludevano simbolicamente alla forza, alla grande vitalità del fallo, equiparato a un cavallo alato. Potevano anche avere  zampe e coda di leone (i cosiddetti “falli leonini”) e potevano essere addirittura cavalcati dalle figure più svariate.
A volte il fallo era cavalcato da una figura femminile: il medievista David Williams ha scritto che questa simbologia è all’origine della ben più nota immagine della strega (o Befana) a cavallo della scopa. Ed è proprio dagli amuleti fallici dei Romani che ha origine il cornetto rosso portafortuna diffuso ancora oggi a Napoli.

Il rito di ruotare il tallone sui testicoli del toro della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano: il mosaico si consuma ciclicamente.

In ogni caso, più gli amuleti erano strani e bizzarri, più erano ritenuti potenti, dal momento che erano considerati capaci di distrarre più a lungo gli iettatori. E quando ci si trovava in situazioni di pericolo o di sventura, li si toccava per scaramanzia: e proprio da questa abitudine nasce il gesto di toccarsi gli attributi per allontanare la malasorte. Un gesto che sopravvive ancora oggi, e si manifesta anche in modi creativi, come la tradizione di fare 3 giri, con il tallone del piede destro, sui genitali del toro ritratto nel mosaico del pavimento della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano (1877).

Berlusconi in un gesto scaramantico durante la parata del 2 giugno 2004.

Il toro rappresenta la città di Torino: in origine il gesto era una forma di scherno verso la città rivale, e poi è rimasto come rito scaramantico e propiziatorio (si pensa allontani la malasorte e favorisca le gravidanze).
Dunque, tutti questi amuleti e sculture non avevano un significato erotico ma apotropaico, cioè protettivo. L’energia sessuale del fallo era considerata sia protettiva che aggressiva: era scudo e arma, amuleto e icona di fertilità

Il cristianesimo e la caduta… in fallo

Come si è passati dalla visione del fallo divino e onnipotente alla concezione moderna, secondo cui il membro maschile è sinonimo di “cosa da nulla”? La responsabilità è del cristianesimo, per il quale tutto ciò che riguardava la carne e i sensi era peccato. Un’eredità dell’orfismo e del pensiero platonico, per i quali l’anima è immateriale e immortale, mentre il corpo è svilito perché mortale e ingannevole: per queste filosofie, il corpo (“soma” in greco) era la prigione (“sema“) dell’anima. Questa concezione è stata assorbita dal cristianesimo: il corpo può generare piaceri che distolgono l’anima dall’aspirazione alla salvezza, e a maggior ragione il fallo, che da divinità diventa demone: il pene, per Anselmo d’Aosta è la “verga del diavolo“. Nessun organo, diceva sant’Agostino, è più corrotto del pene. 

Scena del “Giudizio universale” di Michelangelo coi genitali coperti da braghe.

Non stupisce quindi che nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento, papa Paolo IV decise di coprire i nudi “scandalosi” del Giudizio Universale nella Cappella Sistina dipinta da Michelangelo. Fu un suo collaboratore, Daniele da Volterra, a coprire un anno dopo la sua morte la nudità delle figure con le famose “braghe”, cosicché da allora è stato soprannominato il Braghettone (anche se non è stato l’unico a mettere le mutande ai santi, e la censura è continuata anche nei secoli successivi). E proprio nella stessa epoca è cambiato anche il significato di “fascino”: da influsso malefico esercitato dall’invidioso diventa un semplice richiamo, un’attrattiva, un mero potere di seduzione.  

Oggi “cazzo” resta comunque la parolaccia più pronunciata in italiano: una su 4 (vedi la classifica qui; l’etimologia di questa parola l’ho raccontata qui). Se si aggiunge che “minchia” è al 4° posto, le parolacce fallocentriche rappresentano quasi un terzo degli epiteti pronunciati dagli italiani. Probabilmente non è un caso.
E forse un’altra eco della sua antica potenza sta nelle espressioni “Che cazzo vuoi?” (dove ha una funzione rafforzativa), “sto cazzo” (se usata come espressione di stupore e di ammirazione) e “cazzuto” (nel senso di “persona coraggiosa e capace”). Piccoli frammenti di un passato glorioso.

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La faccia delle parolacce https://www.parolacce.org/2016/05/18/mostra-blogger-datrino/ https://www.parolacce.org/2016/05/18/mostra-blogger-datrino/#respond Tue, 17 May 2016 22:17:33 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10114 Mi hanno chiamato “faccia da culo”, “faccia da pirla”, “faccia di tolla”… Ma è la prima volta che qualcuno mi ha definito “faccia da blogger“. L’ha fatto Elena Datrino, fotografa milanese specializzata in arte, moda e immagini istituzionali: lo scorso… Continue Reading

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Schermata-2016-05-10-alle-07.41.01Mi hanno chiamato “faccia da culo”, “faccia da pirla”, “faccia di tolla”… Ma è la prima volta che qualcuno mi ha definito “faccia da blogger“. L’ha fatto Elena Datrino, fotografa milanese specializzata in arte, moda e immagini istituzionali: lo scorso febbraio mi ha contattato con l’insolita richiesta di farmi un servizio fotografico.
Nel 2013, infatti, Elena aveva avuto un’idea originale: il progetto “Facce da blogger“, ovvero una galleria di ritratti dei principali blogger italiani, per mostrare le persone che li hanno creati. “Mi affascina” spiega Elena Datrino “chi utilizza un mezzo così privato come la scrittura per rivolgersi al mondo intero. E che con personalissima libertà costruisce una propria posizione con un pubblico che sceglie il suo punto di vista per informarsi, divertirsi e identificarsi”.

In questi 3 anni, Elena ha ritratto oltre 90 blogger digitali per la prima volta in carne e ossa: foto che raccontano in uno scatto gli autori e il loro mondo. Immagini di uomini e donne fotografati con un collier d’insalata (Alessandro Gerbino, ovvero chezuppa), un cappello da Indiana Jones (Andrea Pompele, adventurelifeprojectafrica) o una schiera di mouse (Salvatore Aranzulla, ora aranzulla)… I loro ritratti sono stati esposti in mostra a Roma e a Milano.
E ora tocca anche a me, inserito nella versione 2.0 della mostra che sarà inaugurata questo sabato, il 21 maggio, a Rivarolo Canavese (To) presso la galleria Areacreativa42. Nella mostra saranno esposti, insieme a quelle degli altri blogger (l’elenco completo è qui: Facce da Blogger 2.0), 2 scatti: una foto in studio, e una in esterno.
Per non bruciare la sorpresa, non pubblico le foto che saranno esposte a Rivarolo. Ma come abbiamo illustrato l’impalpabile tema delle parolacce?
Ritrarmi mentre faccio un gestaccio sarebbe stata un’idea forse spiritosa ma scontata. E anche inadeguata: non avrei espresso la distanza che occorre per studiare un argomento così ricco e delicato… Ma già dalla prima chiacchierata, l’idea ci è venuta all’unisono: posare davanti a L.O.V.E., la celebre scultura di Maurizio Cattelan, come si vede nella foto qui sotto.
A_8584333Un luogo-simbolo unico al mondo, per chi si occupa di parolacce: dove altro c’è un dito medio, alto 4 metri e 60, in marmo di Carrara, sormontato da un basamento che lo fa svettare a 11 metri d’altezza, come un palazzo di 4 piani? Un’opera irriverente di un artista provocatore e teatrale. E per di più posta davanti a un luogo altrettanto simbolico, conosciuto in tutto il mondo: la sede della Borsa di Milano, in piazza Affari.
Insomma, non potevo mancare a un appuntamento così denso di significati.

La giornata si è rivelata insolita (fotomodello a ore 😆 ) e divertente, come si può vedere nel filmatino qui sotto: cliccando, si vedono alcuni momenti del “backstage“, ambientato fra lo studio di Elena Datrino e piazza Affari, dove si è formato un crocicchio di curiosi durante gli scatti (“Ma lei chi è? Un allenatore di calcio?” “Sì, dell’Empoli”…).
Per chi è curioso di vedere com’è questa seconda sfornata di blogger, vi aspettiamo a Rivarolo (e spargete la voce)! La mostra rimane aperta fino al prossimo 26 giugno.

La mostra è stata citata da “D di Repubblica“.

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Il potere della vulva https://www.parolacce.org/2014/07/13/il-potere-della-vulva/ https://www.parolacce.org/2014/07/13/il-potere-della-vulva/#respond Sun, 13 Jul 2014 09:21:40 +0000 https://www.parolacce.org/?p=5274 C’è un gesto che ha cambiato la storia dell’emancipazione femminile. Il gesto della vulva. Alle attiviste degli anni ’70 è bastato unire le punte del pollice e dell’indice, formando un triangolo sopra la testa, per esprimere in modo provocatorio l’orgoglio… Continue Reading

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La copertina del libro "Il gesto femminista".

La copertina del libro “Il gesto femminista”.

C’è un gesto che ha cambiato la storia dell’emancipazione femminile. Il gesto della vulva. Alle attiviste degli anni ’70 è bastato unire le punte del pollice e dell’indice, formando un triangolo sopra la testa, per esprimere in modo provocatorio l’orgoglio per la propria identità, per secoli schiacciata ed emarginata. Migliaia di donne di tutto il mondo occidentale hanno sfilato per le strade esibendo quel simbolo, rivendicando il diritto di vivere una sessualità libera (“io sono mia”, “l’utero è mio e lo gestisco io”): anche se questa consapevolezza era anche merito degli anticoncezionali (la pillola!), che avevano permesso per la prima volta alle donne di controllare la gravidanza.

A questo gesto semplice e immediato – nel quale il significante e il significato quasi coincidono – è dedicato un libro appena pubblicato da Derive Approdi: “Il gesto femminista” (a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna). E’ l’occasione per raccontare la storia di questo gesto: oggi è ben poco usato, ma ci rivela significati simbolici insospettabili.

Dalla Francia al resto del mondo

La rivista francese "Le torchon brûle".

La rivista francese “Le torchon brûle”.

Partiamo dalla storia. Il gesto della vulva non è nato in America, come molti pensano, ma in Francia, ed è stato portato alla ribalta mondiale da un’italiana, Giovanna Pala, che nel 1972 era andata a Parigi per partecipare a un convegno sui crimini contro le donne: “A Parigi vidi una rivista, Le torchon brûle (Il cattivo sangue), pubblicata da un movimento di liberazione femminista. In copertina c’era quel segno: ne rimasi colpita per l’immediatezza del messaggio che poteva comunicare la forma della vagina”. Così, quando al termine del convegno alcuni ragazzi alzarono verso il palco il classico simbolo marxista del pugno chiuso, istintivamente mi venne di congiungere le mani a creare il simbolo della vagina. Mi pareva con quel gesto di prendere le distanze dalla politica maschile e di affermare la mia diversità”.

L’affermazione è importante: il pugno chiuso è un evidente segno fallico, e non è l’unico. Il gesto dell’ombrello, il dito medio, il saluto nazista sono solo alcuni dei numerosi esempi di gesti che riproducono l’erezione. Mancava un gesto che evocasse la vulva: ora era nato. Così, quando Giovanna Pala tornò a Roma, portò il gesto nelle manifestazioni di piazza e fu un successo mondiale. “Ostentare in pubblico un segno che in maniera esplicita richiamava la vagina era un elemento di rottura davvero sovversivo” scrive Laura Corradi nel libro. “Da tabù, elemento non nominabile, luogo invisibile della vergogna e del peccato, la vagina diventò materia politica. (…) Rappresentava una sfida alle istituzioni dello Stato, al moralismo bigotto della Chiesa, a un patriarcato opprimente”.

I “poteri magici” della vulva

La scultura di porta a Milano.

La scultura di Porta Tosa a Milano.

Eppure nella storia non era la prima volta che la vulva era ostentata in modo plateale. Anzi, in passato ha avuto un’importanza capitale in ambito del folklore e della religione.

Si è creduto, per secoli, che i genitali femminili avessero poteri magici: una donna che esponeva deliberatamente la propria vulva nuda aveva il potere di prevenire le sventure, tenere lontani gli spiriti maligni o gli eventi atmosferici, terrorizzare le belve feroci o i nemici, e perfino le divinità.

Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) scrive nella “Naturalis historia” che alla vista di una donna nuda la grandine, le trombe d’aria e i fulmini cessano di imperversare. In uno scritto sulle virtù delle donne (Mulierum virtutes), Plutarco (II secolo d.C.) narra di un gruppo di donne che sollevando tutte insieme le loro vesti cambiarono gli esiti di una guerra.

Prima ancora, nelle feste contadine, l’esibizione dei genitali femminili favoriva la fertilità, stimolando la crescita delle piante. Nell’antico Egitto, le donne mostravano il pube davanti ai loro campi, per scacciare gli spiriti maligni e rendere più abbondante il raccolto. Lo testimonia lo storico greco Erodoto (5° secolo a.C.) descrivendo le feste in onore della dea gatta Bubasti: le donne stanno in piedi sulla barca e si sollevano le vesti esponendo i loro genitali e gridando scherniscono le donne delle altre città. Lo stesso avveniva nelle antiche feste di fertilità in onore di Demetra, la madre terra.

A Milano, c’è una statua medievale che era stata posta su Porta Tosa (una porta medievale che fu abbattuta nel 1700): raffigura una donna in piedi, con sguardo fiero, che si solleva una gonna mostrando la vulva; in una mano tiene un pugnale che regge sopra il pube. Si pensa che il suo ruolo, visto che era su un importante ingresso della città, fosse quello di proteggerla dagli influssi malvagi.

Il diavolo di Papefiguiere, incisione di Charles Eisen per i racconti di Jean de la Fontaine.

Il diavolo di Papefiguiere, incisione di Charles Eisen per i racconti di Jean de la Fontaine.

In un’incisione del 1700 di Charles Eisen per un’edizione delle “Favole” di Jean de la Fontaine c’è una donna in piedi, sicura di sé, che solleva la gonna e mostra la vulva a un diavolo, che si spaventa: in questo modo, narra la storia, sconfisse il diavolo e salvò il proprio villaggio.

Il gesto di alzare la gonna  e mostrare i genitali a scopo apotropaico (per allontanare gli spiriti maligni) ha un nome: anasyrma. Ma come si spiega questo ruolo magico assegnato ai genitali femminili? Ecco la spiegazione di Catherine Blackledge, autrice di “Storia di V”. “Essi sono la fonte di ogni nuova vita, sono l‘origine simbolica del mondo. La vagina è il luogo da cui tutti proveniamo. Ma contengono anche un avvertimento: è importante non dimenticare da dove si viene, Oltraggiare, profanare o violare la vagina significa rivolgersi contro la vita stessa. E da questo non può venire niente di buono,solo distruzione della terra e della sua generosità”.

In quel gesto, la vulva diventa l’essenza della donna: la sessualità diventava la parte più importante dell’identità femminile. Ma oggi l’equazione vulva= donna “di questi tempi sovverte ben poco”, nota la Corradi. Oggi si è perso il mistero, il timore reverenziale verso la vulva, che è tornata a essere un tabù.  Tanto che i due gruppi femministi che hanno conquistato la maggiore visibilità mediatica ne fanno un uso indiretto: le “Pussy Riot” solo nel nome (pussy significa vagina) e le “Femen” esibiscono un carattere sessuale secondario, ovvero il seno nudo. Anzi, oggi assistiamo a un paradosso: chi fa l’equazione vulva=donna, invece di rivendicare l’orgoglio femminile (come negli anni ’70) rischia di essere tacciato di sessismo.

Forse anche questo è un segno che viviamo in un mondo al contrario.

Le Pussy Riot in un'esibizione.

Le Pussy Riot in un’esibizione.

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