moda | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 29 Nov 2024 12:22:04 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png moda | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Le 20 T-shirt più irriverenti della storia https://www.parolacce.org/2019/09/19/moda-magliette-parolacce/ https://www.parolacce.org/2019/09/19/moda-magliette-parolacce/#respond Thu, 19 Sep 2019 10:26:13 +0000 https://www.parolacce.org/?p=16136 L’ultima T-shirt ha fatto infuriare i leghisti: ritrae Matteo Salvini mentre si scatta un selfie su un piedistallo. Indossa lo stesso diadema a 7 raggi della Statua della Libertà. Ma il titolo è ben diverso: “The statue of idiocy“, la… Continue Reading

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La T-shirt che contesta Salvini.

L’ultima T-shirt ha fatto infuriare i leghisti: ritrae Matteo Salvini mentre si scatta un selfie su un piedistallo. Indossa lo stesso diadema a 7 raggi della Statua della Libertà. Ma il titolo è ben diverso: “The statue of idiocy“, la statua dell’idiozia. Beffa nella beffa, il ricavato delle sue vendite è devoluto alla nave della Ong “Sea Watch”. Chi di felpe ferisce…
Le T-shirt, infatti, hanno aperto la strada a un insolito matrimonio: quello fra la moda e le parolacce. E non da oggi: negli ultimi 50 anni, infatti, le magliette sono state usate non solo per promuovere marchi, celebrare rockstar o veicolare slogan ideologici. Sono diventate una lavagna espressiva con cui esprimere la propria identità, sfogare emozioni forti, polemizzare, dire battute: così hanno diffuso il turpiloquio nel prêt-à-porter, rendendolo spiritoso, provocatorio, perfino blasfemo. Un fenomeno isolato, tipico dell’abbigliamento goliardico da strada?

Chiara Ferragni e la T-shirt di Vetements.

Tutt’altro. Da qualche tempo, le T-shirt scandalose sono entrate anche nella moda ufficiale: diverse firme hanno lanciato singoli capi o intere linee con scritte volgari. La prima stilista che le ha lanciate è stata l’anarchica Vivienne Westwood già negli anni ’70, ma era ancora una cultura underground. Ma negli ultimi anni ha contagiato anche gli stilisti più noti: la T-shirt griffata “Vetements” con la scritta  “You fuckin’ asshole” (tu, stronzo del cazzo) ha sfilato a Parigi ed è venduta a quasi mille dollari. L’ha indossata anche la trend setter Chiara Ferragni. Altri marchi famosi, come “Supreme“, hanno lanciato modelli volgari.
Le parolacce, infatti, “spaccano”: attirano l’attenzione, fanno scandalo, rompono gli schemi, esprimono schiettezza, humor o ribellione. Nel mondo della moda, sempre affamato di originalità e visibilità, sono una scorciatoia efficace per finire sotto i riflettori e accreditarsi come ribelli schietti e fuori dal coro. Col rischio, però, di perdere quell’aura di raffinatezza che dovrebbe circondare i capi di moda.
Il fenomeno è planetario. In Italia esistono diversi brand dai nomi scurrili: da “Figa power” a “F**K“, fino a “Vaffanculo“. Su 60 marchi volgari registrati all’Ufficio marchi italiano, infatti, il 35% è usato proprio per denotare capi d’abbigliamento. E’ vera creatività o solo espedienti effimeri per far parlare di sè?

Qui sotto potete ammirare le 20 magliette scurrili che hanno segnato la moda e il costume negli ultimi 50 anni. Compreso l’ultimo, che ha appena sfilato – facendo scandalo – sulle passerelle della Settimana della moda a Londra. Se ne avessi dimenticata qualcuna di meritevole, segnalatela nei commenti

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LA PIONIERA? UNA DONNA

Il fenomeno è iniziato come forma di marketing negli anni ‘70, quando le grandi marche dei prodotti di consumo americani (come la Coca-Cola) hanno creato T-shirt promozionali coi propri loghi. Ma, gradualmente, i singoli si sono appropriati di quegli spazi espressivi, per rivendicare la propria identità sessuale, etnica o politica. Insomma, come manifesti ideologici. Uno dei primi esempi fu la T-shirt con la scritta “Il futuro è donna” lanciata negli anni ‘70 dalla prima libreria femminista di New York, la Labyris Book. Nel 1977, Patti Smith si esibì al club CBGB di New York indossando una T-shirt con la scritta “Fuck the clock“, ovvero “Fanculo l’orologio” (oppure “fotti l’orologio”).

Le magliette “attiviste” di Katharine Hamnett

Ma l’episodio più clamoroso risale al 1984, quando la stilista britannica Katharine Hamnett fu invitata a Downing Street insieme ad altri stilisti dal primo ministro britannico Margaret Thatcher per la Settimana della moda. «Tutti i giovani stilisti la odiavano e non volevano andarci», racconta. «Ma io ho pensato che fosse un’occasione unica». Così, prese una T-shirt bianca e ci fece stampare la scritta “Il 58% non vuole i missili parshing”, il risultato di un sondaggio che contestava la sua corsa agli armamenti. La Hamnett la indossò, coprendola con un impermeabile. Quando ebbe davanti la Thatcher, se lo tolse, lasciando in bella mostra lo slogan. I fotografi scattarono flash all’impazzata (potete vedere la storica foto qui), la Tatcher fece un balzo, emise uno squittìo stridulo e scappò via.
E nel frattempo, complici i progressi nella serigrafia personalizzata delle magliette, le T-shirt erano diventate una forma di autoespressione, non solo politica: accanto alle magliette che riproducevano le star del rock o i loro album (Bob Marley, Pink Floyd, Rolling Stoness) o dei fumetti (Topolino, Batman), le località turistiche (I love NY), gli stati d’animo (il sorriso), sono apparse quelle con scritte goliardiche con parolacce.
E, negli ultimi tempi, anche la moda “ufficiale” ha prodotto T-shirt volgari. Sia perché ha inglobato le tendenze della moda da marciapiede, ma anche perché le sfilate sono diventate sempre meno vetrine e sempre più eventi. Eventi teatrali, per far parlare di sè.
E cosa di meglio delle parolacce in passerella? Attirano l’attenzione, fanno scandalo, rompono gli schemi, divertono, fanno pensare. Insomma, sono diventate una scorciatoia – una delle tante – per far parlare di sè. Ma gli slogan impegnati o polemici sono anche una sorta di penitenza, di pegno da pagare per i marchi del lusso: attraverso questi messaggi, più o meno volgari, cercano di mostrare un volto impegnato, schietto e più accettabile. «Ma oggi» ha detto di recente la Hamnett, che produce ancora T-shirt “attiviste” «le magliette di protesta tendono a essere un po’ pacchiane, lanciano messaggi annacquati. E comunque, per cambiare davvero le cose una T-shirt non basta: bisogna agire, far capire ai politici che non li voteremo più se non cambiano rotta».

1) Il dito medio

Una mano in primo piano che brandisce un enorme dito medio: non occorrono scritte esplicative per questa T-shirt che è diventata un classico. Soprattutto la versione a lato, in cui lo stile vintage attenua in parte il significato volgare del gesto. Che è stato riprodotto in infinite varianti e brandito da vari personaggi: da Johnny Cash ai Simpson, fino alla mano fotografata ai raggi X.

 

2) Scopami e dimmi…

La scritta è lunghissima, quasi un romanzo: “Beat Me, Bite Me, Whip Me, Fuck Me Like The Dirty Pig That I Am, Cum All Over My Tits And Tell Me That You Love Me.Then Get The Fuck Out”. Significa: “Picchiami, mordimi, frusta, fottimi come lo sporco maiale che sono, sborrami sulle tette e dimmi che mi ami. Quindi vattene fuori dal cazzo”. La maglietta risale al 1977 ed è una creazione di Malcolm McLaren e della britannica Vivienne Westwood, la stilista del movimento punk sempre sopra le righe e provocatrice.  In questa foto la T-shirt è indossata dalla cantante Joan Jett.

3) Sbattitene i coglioni

Questa maglietta riproduce la copertina dell’omonimo album pubblicato dai Sex Pistols nel 1977: “Never Mind The Bollocks, here’s the Sex Pistols”. Ovvero: sbattitene i coglioni, ecco i Sex Pistols. Un inno senza filtro alla ribellione anarchica incarnata dal celebre gruppo punk inglese. 

 

 4) Il marchio “vaffanculo”

Uno dei pionieri, in Italia, dell’abbigliamento scurrile è stato il marchio “vaffanculo”, lanciato nel 1997. L’idea è di uno psichiatra napoletano, Claudio Ciaravolo, che ha lanciato, sul sito vaffanculo.com, un’intera linea di vestiario (magliette, ma anche scarpe, cintura, borsa, cravatte, anelli, orecchini, ombrello, mutande, orologio e zaino) griffata “vaffa” in tutte le possibili varianti: dito medio, VFFNCL, vaffanculo, fuck off, VFK, da sole o abbinate al dito medio. «L’idea è nata per provocazione culturale» dice. «Le marche non sono altro che nomi vuoti che spesso coprono vestiti di scarso valore, ormai uno vale l’altro. E allora? Vaffanculo!».  

5) Sono con uno stupido

Questa è più di una T-shirt: è una performance. Se chi la indossa si avvicina a un’altra persona, riesce a insultarla senza aprire bocca. Un effetto davvero comico, che ha decretato il successo planetario di questo capo d’abbigliamento.

 

6) Keep calm un cazzo…

Lo slogan “Keep Calm and Carry On” fu coniato dal governo britannico nel 1939 agli albori della seconda guerra mondiale: serviva a invogliare la popolazione a mantenere l’ottimismo e non farsi prendere dal panico in caso di invasione nemica. Ma rimase poco conosciuto fino a quando una copia del poster fu riscoperta nel 2000 da Barter Books , una libreria di Alnwick, nel Regno Unito. Da allora è stato  utilizzato come tema decorativo per una gamma di prodotti, ma in Italia ha preso una piega decisamente goliardica, con decine di varianti.

7) Fanculo al cancro

Negli Stati Uniti è stata fondata un’associazione che affronta un tema delicatissimo senza andare per il sottile: “Fuck cancer”, ovvero: Fanculo al cancro (oppure: fotti il cancro). L’associazione è stata fondata nel 2005 da un malato che voleva aiutare altri malati di tumore ad affrontare la lotta contro questa durissima malattia con uno slogan diretto. Un approccio fuori dagli schemi e inaudito. Ma, come dice il sito, “Tu avrai pure un problema con la parola “fuck”, ma noi abbiamo un problema con la parola ‘cancro'”.

8) F**K, che costumi!

Particolare la storia di un marchio di abbigliamento da spiaggia italiano: si chiama F**K (fuck). In origine, la ditta – con sede ad Andria – si chiamava Giorgio Srl, perché l’aveva fondata nel 1985 l’imprenditore Franco Giorgio. Quando nel 2011 l’azienda andò in crisi, invece di chiudere decise di resistere, lanciando un nuovo marchio. Come chiamarlo? Una collaboratrice aveva sulla scrivania un disegno con quella scritta, che fu adottata “per esprimere la forza e lo spirito combattivo dell’azienda: non arrendersi mai”.

9) Vada a bordo, cazzo!

La frase (e la T-shirt) è ispirata al tragico naufragio della Costa Concordia avvenuto nel 2012. La frase era stata pronunciata dal comandante Gregorio De Falco della Capitaneria di porto, che al telefono aveva esortato il comandante Francesco Schettino a tornare sulla nave che aveva abbandonato. La frase, riportata dai giornali con tanto di audio, ha fatto il giro del mondo.

10) Turismo da figli di Troja

Come promuovere il turismo nella città di Troia (provincia di Foggia)? L’associazione A.c.t.! Monti Dauni, impegnata nella tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico, ambientale della città, nel 2013 lanciò una T-shirt che aveva il seguente slogan: “Figlio di Troja”, con l’ulteriore scritta “di patria ma non di madre”. Sul retro, invece, campeggiava il più pudico slogan “Figlio di Puglia”. Non si sa quanti abbiano avuto il coraggio di indossarla.

11) Stronzo Bestiale for president

Una delle T-shirt che ha fatto il giro del mondo è ispirata da questo sito: reca le scritte “Stronzo Bestiale for president” e “I’m friends with Stronzo Bestiale” (sono amico di Stronzo Bestiale). L’appellativo era stato scelto da un fisico come firma beffarda in una serissima ricerca pubblicata da una rivista scientifica. Ho raccontato la sua storia nel 2014, e ha fatto il giro del mondo (potete leggerla qui).

12) Il brand “Figa power”

Nel 2015 la ditta d’abbigliamento Tes.Med. di Barletta ha lanciato un nuovo brand chiamandolo con un nome che non passa inosservato: “Figa power”. Come spiega il suo sito, “uno strumento ironico di autocelebrazione ed emancipazione femminili”. Ma quante donne avrebbero il coraggio di indossare una maglietta con “FIGA” a caratteri cubitali?

13) Fottitene di quello che ascolti

Nel 2016 la Supreme, marchio hip hop giovanile, lancia la T-shirt “Fuck what you heard” (Fottitene di quello che ascolti). Messa “a panino” sul logo del produttore, la scritta diventa “Fuck what Supreme you heard” (fottitene di quello che di supremo hai sentito).

 

 

14) Un “vaffa” da scoprire

Nel 2016 il marchio Alyx (fondato dallo stilista americano Matthew Williams) lancia una T-shirt con una scritta incomprensibile. Che diventa intellegibile quando si piega in due la maglietta, rivelando la scritta “Fuck you” (vaffanculo). Un virtuosismo sartoriale all’insegna della goliardia.

15) “Stronzo del cazzo” in passerella

Questa T-shirt è stata creata nel 2016 dallo stilista georgiano Demna Gvasalia, fondatore del marchio “Vetements”. Gvasalia è uno degli stilisti che attinge alla moda da strada e la trasforma in abiti di lusso: la t-shirt becera è venduta a 980 dollari.  La maglietta ha sfilato a Parigi ed ha avuto un ulteriore momento di gloria quando è stata indossata dalla trend-setter Chiara Ferragni. Che un paio d’anni dopo ha messo in vendita sul suo sito una maglietta con la scritta “Italian as fuck”, italiano come fottere.

16) Fanculo, paparazzi

Sempre nel 2016 Nick Knight, titolare del sito di moda Showstudio, ha escogitato una maglietta volgare anti-paparazzi. All’apparenza sembra una comune T-shirt nera; ma quando viene illuminata dalla luce di un flash, appare la scritta “Fuck you cunt” (vaffanculo testa di cazzo) scritta in caratteri riflettenti. “L’idea mi è venuta quando ho visto la mia amica Kate Moss (super modella, nella foto) assediata da 20 paparazzi all’aeroporto di Los Angeles. E’ arrivata al punto di doversi nascondere sotto la sua valigia. Ora, con questa maglietta potrà difendersi. Ed esprimersi”. 

17) Anche stasera si tromba domani

E’ una delle numerose e creative T-shirt goliardiche che si possono trovare in vendita in varie località turistiche e non. La maglietta attenua il senso volgare della frase usando un rebus. Un escamotage usato anche da una maglietta che ritrae un’oca fra le lettere “ST” e “ZZO” per comporre la scritta “Sto cazzo”.

 

18) Bastardo, anzi peggio

Vivienne Westwood colpisce ancora. Nel 2017, a 76 anni d’età, ha presentato alle sfilate della Settimana della moda di Londra un modello di T-shirt con la scritta “Mother fucker” (letteralmente: uno che si scopa la madre), ovvero “bastardo, figlio di puttana”. La stilista non si è limitata a disegnare la maglietta, ma l’ha indossata stando a cavalcioni su un modello che sfilava in passerella.

19) Fatti i cazzi tuoi

Questa T-shirt è un messaggio per chi la vede. E anche un modo spiritoso di valorizzare un modo di dire italiano, tanto che – sotto la scritta – campeggia un altrettanto ironico “italian style”. Sono numerose le magliette dedicate ai modi volgari di dire, anche dialettali: da “sti cazzi” a “suca”.

 

20) Uno straccio di scandalo

La maglietta ha fatto scalpore alla settimana della moda di Londra pochi giorni fa. Era una T-shirt da baseball bianca e rossa, e recava la scritta, vergata con un pennarello: “My Other T-Shirts A Cum Rag”, ovvero: “Le mie altre magliette sono stracci per la sborra”. A completare il quadro, era indossata da un modello con le occhiaie enfatizzate dal trucco. L’ha realizzata un giovane stilista, Gareth Wrighton, ed è diventata virale sul Web: che poi abbia successo anche nei negozi (ammesso che sarà messa in commercio) è tutto da vedere.

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QUANDO LA MODA CAMBIA LE LEGGI

Negli ultimi tempi, alcuni stilisti hanno usato le T-shirt volgari anche per scopi personali: si sono fatti ritrarre indossando magliette scurrili, per esprimere uno stato d’animo aggressivo, di protesta o scherzoso, senza bisogno di spiegazioni: la russa Lotta ha posato con una t-shirt “Barbie is a slut” (Barbie è una troia). E la stilista Giovanna Battaglia Engelbert ha postato un proprio ritratto con una maglietta fuxia e lo slogan “Pink as fuck” (rosa come fottere).

Una delle T-shirt volgari che circolano in Cina.

Ma le T-shirt irriverenti sono anche un mezzo per cambiare le leggi: è accaduto negli Usa, dove quest’anno, dopo 8 anni di battaglie legali, lo stilista Erik Brunetti è riuscito in un’impresa difficile negli Usa: registrare il marchio FUCT, un acronimo che sta per “Friends u can’t trust” (amici di cui non puoi fidarti), ma che ha un’evidente assonanza con “fuck”, fottere. Il registro dei marchi l’aveva rifiutato perché “Inneggia all’oscenità e comunica connotazioni sessuali negative”. «Di questo passo» ha replicato Brunetti, «dovremmo censurare l’intera industria dell’intrattenimento: cinema, tv e videogames». E così è arrivato fino alla Corte Suprema, che a giugno ha abolito il divieto di registrare marchi scandalosi. In nome della libertà di  espressione.
A volte, però, le T-shirt scurrili creano situazioni imbarazzanti: un paio d’anni fa aveva fatto scandalo la diffusione, in Cina e altri Paesi asiatici, di magliette con scritte irriferibili in inglese (da “I am a whore”; sono una puttana, a “Too drunk to fuck”, troppo ubriaco per scopare). La maggior parte di quelli che le indossavano ne ignoravano il significato: probabilmente una beffa giocata da alcuni distributori internazionali di T-shirt? Il mistero è ancora aperto.

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Campagna pubblicitaria della “Birra minchia“.

Si sono diffuse nei libri, nei film, nelle canzoni. Hanno rivoluzionato la politica. E ora le parolacce sbarcano nel mondo del marketing: fra le centinaia di migliaia di loghi registrati all’Ufficio Brevetti e marchi (emanazione del ministero dello Sviluppo economico) ne ho scoperti 60 che contengono parole volgari.
E’ la prima lista dei loghi scurrili depositati negli ultimi 36 anni (la trovate in fondo a questa pagina): dalla “
Birra Minchia” all’abbigliamento “Culo & camicia”, dall’Osteria del porco di Ischia fino alla Festa del cornuto di Rocca Canterano (Roma). Perché le parolacce sono usate non solo come insegna per vestiti, alimenti o gadget, ma anche per attività culturali.
L’ultimo marchio registrato, del resto, ricade proprio in quest’ultimo settore. Riguarda infatti un’onlus di cui avevo parlato in un post tempo fa: l’associazione ambientalista di Rimini “Basta merda in mare”. Ricordate? E’ nata nel 2000 per lottare contro l’inadeguatezza degli impianti fognari di Rimini, che, in caso di maltempo e di affollamento di turisti, scaricavano i liquami nell’Adriatico.
Pochi giorni fa l’Ufficio marchi del ministero ha autorizzato la registrazione del suo nome: se nessuno ne reclamerà il possesso (ipotesi improbabile), il nome brutale dell’associazione godrà delle stesse tutele giuridiche di Google o della Ferrari. Nessuno lo potrà usare senza il loro consenso.

MARCHIO DI M…

La registrazione di “Basta merda in mare” all’Ufficio brevetti e marchi.

Ma arrivare a questo risultato non è stato facile: in prima battuta, infatti, la richiesta di registrazione era stata respinta “perché il segno è contrario al buon costume”. Al buon costume… Ma non è più scandaloso – più di questa parolaccia – che, in Italia, oltre il 20% delle acque fognarie (vedi pag. 4 di questo rapporto) non è depurato, e questi liquami finiscono nel Mediterraneo?
Alla fine, con pazienza e tenacia, i volontari dell’associazione hanno raccontato ai funzionari del ministero le loro lotte ecologiche, fugando i dubbi dei dirigenti grazie alle lettere degli assessori del Comune e della Provincia di Rimini, che testimoniavano l’impegno reale dell’associazione. Che, ricordano i fondatori, ha scelto un nome così ingombrante “per reagire all’indifferenza con cui le istituzioni e la società civile avevano sempre negato il problema” racconta il portavoce dell’associazione, Simone Mariotti. Insomma, se si fossero chiamati “Mare pulito” avrebbero avuto lo stesso programma ma sarebbero rimasti in ombra.
Quel nome, infatti, si è rivelato vincente: i lavori di potenziamento del sistema fognario (154 milioni di €) sono già iniziati: nel 2020 ci saranno zero scarichi a mare. «Ora, grazie alla registrazione del nome, potremo concedere il nostro logo ad altri gruppi di pressione che si stanno formando: abbiamo già filiali in Marche, Puglia, Abruzzo, e abbiamo avviato contatti in Sicilia e in Calabria».
Insomma, come cantava Roberto Benignicon la merda si può fare la rivoluzione” (“L’inno del corpo sciolto”).  

GLI ALTRI LOGHI DI M…

Il sito originario dei “surfisti di merda”: oggi ne usano un altro che ha mantenuto la sigla ISDM.

Ispirato da questa storia, mi sono messo a curiosare nel database dell’Ufficio brevetti e marchi. Pensavo che un marchio così “trashnon avesse precedenti nella storia. E invece mi sbagliavo. Di precedenti, la parolaccia scatologica ne aveva altri 4: “merda” (con la R rovesciata, capirai che pudore) era una marca di abbigliamento, come “De merda veste l’artista”. In Sardegna, inoltre, un gruppo di sportivi goliardi ha depositato il proprio logo, “Surfisti di merda”, e ne ha fatto una linea di abbigliamento, oggi camuffata dalla sigla ISDM: ma se digitate “surfisti di merda” su Google, atterrate sia sul nuovo sito più “fashion” che su quello originario, più esplicito.
Quarto caso, una linea di ombrelli griffata “Tempo di merda”. Geniale. Riassumendo: moda, goliardia, provocazione… non è il ritratto dell’Italia? Il lato trash del “made in Italy“.

QUALCHE STATISTICA

La pubblicità del formaggio “Gran cornuto”.

Sono andato avanti a cercare, digitando parolaccia dopo parolaccia. E di marchi volgari ne ho trovati 60: uno depositato negli anni ‘80, 7 negli anni ‘90, e il resto negli ultimi 16 anni: 32 (il 53,3%) dal 2000 al 2009, e 20 (33,3%) dal 2010 all’anno scorso. Dunque, un fenomeno esploso di recente: ma pur sempre un’eccezione.
Ogni anno, infatti, almeno nell’ultimo lustro, in media vengono depositati 54.000 marchi. Messi insieme, i 60 loghi volgari che ho trovato negli ultimi 36 anni rappresentano quindi un millesimo di quelli registrati in un solo anno.
Dunque, sono
una goccia in un oceano, della quale non sono in grado di quantificare il giro d’affari.
Ma è pur sempre una presenza 
significativa. Del resto, le parolacce che diciamo ogni giorno (lo raccontavo qui) non sono molte: sono 8 ogni mille parole. Ma lasciano il segno: come nella vita quotidiana, anche nel marketing le parolacce sono scorciatoie molto efficaci per attirare l’attenzione. E rispetto ai marchi commerciali, le parolacce non hanno bisogno di campagne martellanti per inciderle nella memoria degli acquirenti: le conosciamo già. E non c’è bisogno di associarle a un testimonial, a un evento, a un spot perché sono già impregnate di emozioni: anzi, sono parole emotive per eccellenza. Sono il linguaggio della trasgressione, della provocazione  e della schiettezza. Ma, occorre ricordarlo, sono parole legate per lo più a emozioni negative: rabbia, disgusto, disprezzo. Perciò se le scurrilità sono usate senza ironia, possono diventare un boomerang: fanno perdere prestigio a chi le dice.

La T-shirt “Figa power” del gruppo Tesmed.

I depositari di questi marchi, tuttavia, non si limitano al sottobosco delle sagre di paese o dei bancarellari di gadget popolari. Nell’elenco ci sono anche 2 multinazionali, l’agenzia matrimoniale francese Adoptaguy che ha registrato il logo “Adotta un figo”, e la società di scommesse inglese Stanley international betting che ha depositato il marchio “Vaffa un goal”. Probabile che anche all’estero esistano loghi scurrili o colloquiali.
Da segnalare anche la presenza di 2 opere artistiche, ovvero uno show tv (“Vecchi bastardi“, condotto da Paolo Ruffini su Italia 1) e un film per il cinema, ancora in lavorazione (“Nonni bastardi“, regia di Carlo Vanzina). Il primo perché è un format tv, il secondo perché potrebbe anche diventare una linea di gadget (T-shirt, adesivi, etc).
E, già che ci siamo, sfatiamo un sospetto che forse vi è passato in mente: le espressioni oscene, ovvero di origine sessuale NON sono la maggioranza. Certo, sono un modo facile e immediato per farsi notare e fare scandalo (come gli spot che fanno leva sul’erotismo), ma nei marchi le oscenità sono la seconda categoria più diffusa (al 21,7%, e ci sono tutte: minchia, cazzo, culo, tette, figa).
La prima, invece, sono gli insulti: 2 loghi su 3 (il 66,7%) sono offese: bastardo, terrone, porco e cornuto. Sembra incredibile che siano nomi di prodotti, vero?

GRIFFE IMPRONUNCIABILI

Porco chi scrive, porco chi legge“: premio per racconti, immagini e video erotici.

Prima di spiegare perché, diciamo di quale tipo di prodotti parliamo: in 1 caso su 3 (il 35%) è abbigliamento, seguito da slogan e titoli (20%), alimenti (16,7%), bevande alcoliche (vini e birre: 13,3%) e oggettistica (8,3%). Le insegne di negozi sono il 5% e le associazioni come “Basta merda in mare”, l’1,7%. Fra queste ho trovato un’onlus di Mariano  Comense, “Porco cane”: una battuta poco riuscita per definire gli “amici del randagio”.
Dicevamo gli insulti. Un logo, registrato nel 2007, è la sagoma di un uomo con un cane al guinzaglio vicino a un escremento: sopra, la scritta “Cane e… bastardo, con preghiera di diffusione”. Sono gli elementi di un adesivo da vendere a chi è stanco delle cacche di cani lasciate dai loro padroni incivili. Ma è un’eccezione: gran parte dei marchi non nascono per offendere qualcuno, quanto per strizzare l’occhio ai clienti (proprio come fanno oggi molti politici).
Non a caso, infatti, l’Ufficio brevetti e marchi ha bocciato i tentativi di registrare lo slogan “Coinquilino di merda” (avrebbero venduto molti adesivi, visto il tasso di litigiosità dei nostri palazzi), la maglia per motocicllisti “Cazzo guardi?”, la “Stronzo beer” (che peraltro esiste in Danimarca, come dicevo qui), l’insegna di ristorante “Al vecchio porco” e il comunque celebre “Vino del cazzo” (ne ho parlato qui: i produttori di vini usano spesso etichette provocatorie).
Parte degli insulti sono stati registrati con scopo culturale, oltre che commerciale. Come il “Festival del teatro bastardo” (Palermo), o il premio letterario (per racconti erotici) “Porco chi scrive, porco chi legge”: in passato ha avuto fra i giurati Milo Manara. Ma in molti casi sono battute goliardiche e autoironiche: la sagra “Weekend con il porco”, la “Festa del cornuto”, i mangimi per suini “Porco mio”.

La birra artigianale “Terrona” di Lecce.

E un fenomeno interessante sono i loghi basati su insulti autoironici: i loghi “Terrone 100%”, “Il dolce del terrone”, “Il terrone fuori sede” sono stati depositati da imprenditori del sud. O il gioco radiofonico “Bastardo quiz”, la griffe “Bbb bastardo dentro”, “Uomo bastardo”, “Tvb Ti voglio bastardo”, “Osteria del porco” (sottotitolo: “I piaceri della carne”). “Porco”, detto per inciso, è la parolaccia più depositata. Spero che anche il concorso di bellezza maschile “Mister figo” sia da catalogare fra gli insulti autoironici.
E in questo scenario poteva mancare l’intramontabile, onnipresente, classico “vaffanculo”? In realtà manca: c’è solo in modo indiretto con l’espressione “Vaffa” per una linea di gioielli e abbigliamento . I tentativi di registrare un’intera linea di abbigliamento, oggettistica e alimentari sono falliti due volte, nel 2002 e nel 2007, a cui si aggiunge l’ultimo tentativo, nel 2015, di registrare l’espressione “Fan culo” (mentre l’assonanza inglese “Fun cool” è stata approvata).

E’ l’ora del… “vaffanculo“.

Ciò non ha impedito a uno psichiatra napoletano, Claudio Ciaravolo, di aprire il sito vaffanculo.com e di lanciare una serie infinita di gadget, oltre alle prevedibili T-shirt: scarpe, cintura, borsa, cravatte, anelli, orecchini, ombrello, mutande, orologio e zaino. Tutti griffati “vaffanculo”.
«L’idea è nata per provocazione culturale» dice. «Le marche non sono altro che nomi vuoti che spesso coprono vestiti di scarso valore, ormai uno vale l’altro. E allora? Vaffanculo!». 
Ciaravolo conta di farne un business internazionale: «All’estero conoscono 3 parole in italiano: ciao, pizza, vaffanculo. Quindi c’è mercato». Ma se il “vaffa” è una parola così famosa ed espressiva, non è meglio che resti un patrimonio di tutti? Vedremo come andrà a finire.

Intanto, prima di presentarvi la lista dei loghi scurrili, uno sguardo al futuro: fra i marchi richiesti l’anno scorso, e in attesa di decisioni, ci sono la grappa trentina “Merda dell’orso”, la scritta “Merda” su quadrifoglio, la linea di abbigliamento (per donne ferite) “Il mio ex ragazzo è un bastardo” e la linea di oggettistica (rigorosamente in legno) “Figa di legno”. «Da intendersi in tono faceto e non offensivo» precisa il richiedente, un milanese.

Qui sotto, la lista dei 60 loghi volgari d’Italia: basta cliccare sul “+” per aprire la finestra e scoprire tutti i dettagli. Buon divertimento.

INSULTI

BASTARDO

Bastardo quiz”: gioco di una radio romagnola (1999)
Bastardo”: linea di vini frizzanti (2002). Ci sono anche: bianco, nerello, chiaro e rosso del bastardo
tvb ti voglio bastardo”: abbigliamento (2003)
bbb bastardo dentro”: vari prodotti (2004)
uomo bastardo“: abbigliamento, 2005
pure bastardo”: borse (2006)
Cane e. . . bastardo con preghiera di diffusione”: adesivo. Sotto la scritta, la sagoma di un uomo con un cane al guinzaglio ed un escremento (2007)
il bastardone”: vini (2007)
Bastardo di vacca burlina”: carni (2008)
Osteria del bastardo” (2009)
Spirito bastardo”: vini (2009)
Tb festival teatro bastardo”: Palermo (2015)
Bastardi”: occhiali, orologi, abbigliamento, scarpe (1997)
Bastardi & pignoli”: abbigliamento, scarpe, cappelleria (2003)
Bastardi e basta!”: abbigliamento, scarpe, giochi, adesivi (2009)
Piccoli bastardi”,con l’illustrazione di un teschio stilizzato con cresta stilizzata e ossa incrociate: abbigliamento, cartoleria (2011)
Vecchi bastardi”: show tv  (Endemol Italia, 2014)
Nonni bastardi”: film (in produzione per Filmauro con regia di Carlo Vanzina, 2016)

CORNUTO

Festa del cornuto”: corne fuoriuscenti da una torre sormontata da scritta stilizzata festa del cornuto alla base scritta Rocca Canterano (Roma, 1997)
Gran cornuto”: formaggio di capra da tavola (Roma, 2001)
Cornuto”: alimentari in genere (2006)


TERRONE

Terrone 100%“: T-shirt (Otranto, 2006)
Terrone”: bevande alcoliche (Barletta, 2008)
Dolce del terrone”: pasticceria e gelateria (Lecce, 2010)
Il terrone fuori sede”, con cartina del sud Italia (2014)
malarazza 100% terrone”: abbigliamento (Sicilia, 2015)
gnostro – 100% terrone”: abbigliamento, gioielli (Avellino, 2016)
grappa terrona Caffo” (Calabria, 2005)
Birra terrona” (Lecce 2013)
salsiccia terrona” (Lecce, 2014)


PORCO

Porco cane”: accessori per cani (1989)
porco cane”: onlus, amici del randagio Mariano Comense (CO), 2007
porco chi scrive porco chi legge” con un’immagine raffigurante un satiro con penna d’oca in mano che, seduto, scrive ed una giovane donna in piedi che legge quanto lo stesso satiro sta scrivendo: libri, premio letterario per racconti erotici (1992)
weekend col porco”: sagra (Padova, 1993)
porco mio”: mangimi per animali (2005)
porco mundi”, con immagine stilizzata di un maialino dai colori rosa nero rosso bianco e verde che sorregge con le mani un piatto di colore bianco bordato di nero sul quale si trova del cibo rosso nero e bianco ed un bicchiere a calice di colore nero celeste e rosa: ristorazione, 2009
porco mio di Calabria”: carne (2008)
porco brado”: carni (Toscana, 2012)
osteria del porco”, sottotitolo: “i piaceri della carne. Ristorazione ( Ischia, 2013)
porco pollo” braceria tipica salentina (2014)

 

OSCENITA'

MINCHIA

birra minchia” (Sicilia, 2015). Dal 2016 c’è anche una nuova, “futtitinni” (fottitene)

 

CAZZO

cazzetti”: pasta (Napoli, 2007): ne avevo parlato qui

 

CULO

Culo & camicia”:  insegna di un negozio di Roma, ma anche linea di  abbigliamento a Napoli (1995)
Faccia di culo”, con un disegno di regina ammiccante con corona: abbigliamento (2004)
coscia e culo”: abbigliamento (2007)

 

FIGA

Figa power”:  linea di abbigliamento del gruppo Tesmed (2014)
Birra della fighetta” (Bra, 2007)
mister Figo”: concorso di bellezza maschile (Caserta, 2001)
Figo”, abbigliamento (2004)
adotta un figo”: agenzie matrimoniali (2012)
figo”: gioielli (2012)

 

TETTE

Tette per un tetto”: abbigliamento (2009)
monsieur tette”: il marchio consiste nella figura composta da un cilindro che sovrasta due seni ed un paio di baffi (2015)

 

SCATOLOGIA (ESCREMENTI)

MERDA

dicitura ” merda ” di fantasia ove la lettera ” r ” appare rovesciata: abbigliamento (2010)
Tempo di merda”: linea di ombrelli (2009)
Surfisti di merda”: abbigliamento (Sardegna, 2009)
De merda Veste l’artista”: abbigliamento (2011)

 

MALEDIZIONI

VAFFANCULO

vaffa un goal”: concorsi pronostici ed elaborazione della relativa sistemistica (1999)
vaffa”: gioielli, cuoio, abbigliamento (depositario: la società: Vaffanculo SRrl, Napoli 2007)
fun cool”: abbigliamento (2006)


Di questo articolo hanno parlato AdnKronos, MeteoWebIl secolo d’Italia.

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MilianOggi parliamo di due parolacce nuove: stocazzare e webete. E’ ancora presto per dire se entreranno nei vocabolari, ma è interessante parlarne per due ragioni: primo, perché si sono diffusi attraverso i social network, diventando in poco tempo fenomeni di massa. Secondo, perché hanno una storia curiosa e divertente. E scopriremo che, tra l’altro, non sono termini così nuovi…
Partiamo dal primo termine: che cosa vuol dire “stocazzare”? Significa fare uno scherzo goliardico. Facciamo un esempio. Vedo Roberto, e gli dico una frase-trabocchetto che stuzzichi la sua curiosità: «Sai chi ho incontrato oggi?».
Probabilmente Roberto chiederà: «No, chi?».  E qui gli arriva la risposta a bruciapelo: «Sto cazzo!». Roberto è stato “stocazzato”. Come spesso faceva Tomas Milian (nel fotomontaggio qui sopra) nei film trash.

Il meccanismo è lo stesso delle barzellette: fanno ridere perché hanno un finale a sorpresa. Ma in questo scherzo c’è qualcosa in più: la volontà di umiliare o squalificare l’altra persona. Che viene costretta a dedicare l’attenzione a una risposta senza senso, sprecando tempo ed energie. Insomma, lo stesso meccanismo di quando si suona un citofono per poi scappare o quando si fa una telefonata («Pronto, casa Rossi?», «Sì?») e si risponde con una pernacchia.
Ma che cosa c’entra l’organo sessuale maschile? Come tradurre questa espressione in parole neutre? Per rispondere, bisogna fare una piccola retromarcia. Tempo fa avevo raccontato (da questa paginala differenza fra due modi di dire in romanesco, “Sti cazzi” e “Me cojoni”. “Sti cazzi” vuol dire “Chi se ne frega”, mentre “Me cojoni” significa “Accidenti, incredibile!”. In “Sti cazzi”, l’organo sessuale maschile è sinonimo di “cosa da nulla”. E al singolare?

T-ShirtStocaAnche, ma con sfumature diverse. «Sai chi ho incontrato?». «Sto cazzo!» (= nessuno). Ma in questo caso c’è un’aggiunta: qui, cazzo significa appendice corporea inanimata, priva di intelligenza. Quindi non è propriamente “nessuno”, bensì è uno pseudo-essere: qualcosa che sembra avere vita, ma in realtà non ce l’ha. In questo senso, “‘sto cazzo” si avvicina al significato di cazzone (chi ragiona col pene invece che col cervello). “Sto cazzo” è sinonimo anche di “cosa di nessun valore”: «‘Sto cazzo di telefono che non funziona mai» (= che telefono del cazzo).
Ma non è tutto. L’espressione “‘’Sto cazzo” sposta il fulcro del discorso da un piano razionale a uno sessuale, animalesco. Evoca in particolare la “dominanza fallica”, ovvero l’affermazione di sè come leader in un gruppo: anche le scimmie, per esprimere la propria leadership nei confronti delle altre  mimano un amplesso o mostrano un’erezione («sono superiore a te: infatti potrei montarti»). Come scriveva lo zoologo Desmond Morris, «lo scopo degli insulti osceni è usare il segno più sporco, più tabù possibile come forma simbolica di attacco; invece di colpire l’avversario, lo si insulta con un gesto sessuale». E questo a prescindere dal fatto di essere maschi o femmine, e da situazioni a sfondo erotico.

Dunque, “Sto cazzo”, soprattutto se accompagnato dal gesto di indicare i genitali coi palmi delle mani aperte, si avvicina anche al significato di cazzuto: «Questo (= il pene) è ciò che mi piacerebbe darti». Spostare il discorso su questo piano sessuale-animalesco è anche un modo per scandalizzare, rompere gli schemi. Significa disappunto, contrarietà, ribellione: come nella canzone “Nessuno” degli Articolo 31 (1998), che in una strofa dice: «Ognuno si sente il diritto di dirci chi siamo, che facciamo, quando e come sbagliamo. Tante voci che mi sembra di uscire pazzo. Volete che mi tolga di qui? ‘Sto cazzo».
Se “Sto cazzo” è usato per fare uno scherzo: beh, non è un fenomeno nuovo. Una delle prime testimonianze appare già in una commedia satirica del 1977, “I nuovi mostri” (di Ettore Scola e altri registi), che fu candidata all’Oscar come miglior film straniero nel 1979.  Nell’episodio “L’elogio funebre” Alberto Sordi racconta come stocazzava al telefono:

Stocazz1Ma negli scherzi oggi in voga sui social network c’è un elemento in più: il bersaglio sono i cosiddetti vip, i personaggi pubblici. Si fa a gara, su Twitter, a chi riesce a farli cadere in trappola, esibendo la loro figuraccia come trofeo: è un modo per farli scendere dal piedistallo. Una vendetta da parte di chi non è famoso: tutti ti adulano, tutti ti mettono al centro dell’attenzione e tu ti sei montato la testa? Bene: allora ora ti costringo a darmi attenzione, e quando me la dai ti faccio uno sberleffo, lasciandoti di sasso.
Ne hanno fatte le spese Maurizio Gasparri, Roberto Bolle, Antonella Clerici, Lorella Cuccarini, Federica Panicucci, Paola Perego (che si è arrabbiata, vedi immagine), Rita Dalla Chiesa, Gerry Scotti
L’unico che ne è uscito a testa alta, con una risposta disarmante, è stato Stefano Gabbana, stilista gay dichiarato: allo “Sto cazzoooo” di una follower, ha risposto “Li adorooooo!”.

Gabbana“Stocazzare” è proprio questo. Una moda che sta crescendo negli ultimi 4 anni. Tuttavia, la prima apparizione di stocazzare l’ho trovata già in un forum del 2005, dove “sweet girl60” scriveva, parlando di una showgirl: «carina ma tutta stocazzata, cioè appariscente a bestia e sempre tutta aggiustatissima». In questo caso, però, l’aggettivo ha un altro significato: “si sente ‘sto cazzo”, ovvero “Si crede d’essere chissà chi” (significato ricollegabile a cazzuto), e invece non è niente di che (“non è un cazzo”).

WebeteDunque, “stocazzare” è in realtà un verbo che ha almeno 11 anni. Ma da qui a entrare nei dizionari ce ne passa: digitando il verbo su Google, si hanno poco meno di 800 risultati. Davvero pochini, soprattutto se paragonati alle 394mila pagine che si ottengono scrivendo “webete”, la parola lanciata solo pochi giorni fa (il 28 agosto) dal giornalista Enrico Mentana su Facebook.
Mentana ha usato il termine per rispondere a uno dei tanti che lanciavano visioni complottiste sul terremoto di Amatrice (gli immigrati che stanno negli hotel di lusso mentre i terremotati dormono in tendopoli). Mentana gli ha risposto dicendo: “Lei è un webete”, ovvero un ebete (ottuso) del Web.
L’insulto ironico ha fatto il giro di Internet. Ed è persino stata lanciata una petizione per chiedere all’Accademia della Crusca di inserire la parola nei vocabolari (potere che l’Accademia non ha).
In realtà, però, il termine esiste già dal 1993, ha scoperto Massimo Manca, docente di lingua e letteratura latina all’Università di Torino: era stato inserito nel dizionarietto dei termini gergali del Web curato da Maurizio Codogno. All’epoca il termine significava “utente che considera Internet composta solamente dalla www”, ignorando quindi l’esistenza dell’email o di altri servizi.
Ora, però, il termine assume un nuovo significato: l’ignorante, intollerante e becero, che usa Internet per diffondere odio e pregiudizi. E’ presto per dire se la parola entrerà nei dizionari, ma i personaggi che la incarnano continueranno sicuramente ad esistere. Nei secoli dei secoli.

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I libri e la moda dei titoli volgari: funzionano? https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/ https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/#comments Thu, 11 Aug 2016 08:36:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10583 Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo… Continue Reading

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Libri4Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo per andare di corpo“.
Mi hanno colpito perché, solo qualche anno fa, volumi con titoli del genere sarebbero rimasti confinati e un po’ nascosti nel settore “umorismo” o “erotismo”. E magari li avremmo comprati con un po’ di imbarazzo. Oggi, invece, evidentemente sono considerati un fatto normale.
Ma è un fenomeno nuovo? E’ in crescita? Quanti sono, ogni anno, i titoli volgari che vengono pubblicati in Italia? E, soprattutto: hanno successo?
Ho deciso di approfondire. Anche perché, a modo loro, tutti questi libri sono imparentati con “Parolacce”, di cui è appena uscita la nuova edizione in ebook.

Cazzaria

“La cazzaria” (1531), il più antico libro con titolo volgare.

Innanzitutto, smentisco subito un pregiudizio diffuso: il fenomeno non è affatto nuovo. Come potrete leggere in fondo a questo articolo, in realtà i primi titoli scandalosi risalgono già al 1500.
Ma torniamo per ora ai giorni nostri. Per fare una statistica attendibile ho consultato il database più completo di cui disponiamo: il catalogo del Servizio bibliotecario nazionale, ovvero tutti i libri posseduti dalla rete delle biblioteche italiane.
Nella maschera di ricerca, ho digitato le 10 parolacce più usate (al maschile e al femminile, al singolare e al plurale), circoscrivendo la ricerca dal 1960 a oggi, sui testi a stampa in italiano. La ricerca avanzata restituisce i risultati ordinando i libri per anno di pubblicazione.
Ho scartato dal conteggio le edizioni successive del medesimo titolo, ma non posso garantire una precisione assoluta (che, come vedremo, per i numeri in gioco non avrebbe senso).
Ecco il – prevedibile – risultato: l’uso di parolacce nei titoli è stato un crescendo esponenziale. Negli anni  ’70 e ’80 si è quadruplicata, per poi esplodere negli anni ’90 e 2000, come emerge dal grafico qui sotto (clicca per ingrandire):

Quanti sono?

GraficiLibri1Rispetto agli anni ’60, i libri con un titolo volgare sono aumentati di 13 volte negli anni ’90 e di 29 volte negli anni 2000. Se la tendenza resterà costante, entro la fine di questo decennio saranno aumentati di 36 volte. C’è di che inquietarsi? Direi di no: perché i numeri in gioco sono davvero piccoli rispetto al totale dei libri pubblicati.
Prendiamo il decennio record 2000-2009, per il quale abbiamo dati definitivi dell’Aie (Associazione italiana editori) e dell’Istat. In quegli anni, in media, sono stati pubblicati in Italia 56mila libri all’anno, per un totale di 560mila dal 2000 al 2009: i 231 volumi con un titolo volgare usciti in quel decennio rappresentano un misero 0,04% del totale. Vuol dire 4 ogni 10mila libri, una ventina l’anno: una piccola minoranza, anche se fa rumore. Piccola curiosità: l’editore che ha pubblicato il maggior numero di titoli osè risulta Mondadori (65), seguito da Piemme (sempre del gruppo Mondadori, 24) e Zelig (16).

Perché questo boom?

Perché questa diffusione crescente? Innanzitutto perché, dagli anni ’70 il linguaggio è cambiato: il vento della rivoluzione giovanile del 1968 ha portato il linguaggio informale e colloquiale anche sui media (radio, film, tv, giornali e, ovviamente, libri), come raccontavo in questo articolo. Ma per i titoli dei libri vanno considerati anche altri aspetti. Primo, il peso sempre più crescente della satira, della comicità e della letteratura popolare. Non a caso, una delle apparizioni più osè è un titolo del 1970: “Le poesie d’amore: dar core ar cazzo er passo è breve“. Il libro è la traduzione, in dialetto romanesco, delle poesie di Catullo da parte di Massimo Catalucci. Insomma, la stessa operazione di “Il culo non esiste solo per andar di corpo” di Alvaro Rissa (2015), che è un’antologia di classici greci e latini.
LibriMa la vera svolta, come rivelano i numeri qui sopra, è maturata negli anni ’90, quando è iniziata un’esplosione di titoli che dura ancora. Se volessimo identificare un punto di inizio in un libro di successo, forse potremmo trovarlo nel 1997 con “Che stronzo! Il libro-verità sul fidanzato italiano” di Silvio Lenares. Un libro umoristico, nel quale il sedicente Ettore Bengavis, emerito dottore in Stronzologia, descrive le tipologie del fidanzato italiano, consigliando come sfuggire al maschio italiano.
Nel 2002 Luciana Littizzetto pubblica un altro titolo dirompente: “Ti amo bastardo“. Seguito da un best seller che ha rotto gli schemi della saggistica, per il tono colloquiale dei titoli: “Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita” di Giulio Cesare Giacobbe (2003), poi replicato con “Come diventare bella, ricca e stronza: istruzioni per l’uso degli uomini” (2006) e “Il fascino discreto degli stronzi” (2009). La via era tracciata: l’uso di parolacce nei titoli è passato dalla letteratura satirica e umoristica alla saggistica.
Un approccio che ha avuto un successo notevole: non solo perché la parolaccia attira l’attenzione e quindi è un potente strumento di marketing (l’abbiamo visto a proposito di vini con etichetta sboccata), ma anche perché la parolaccia è il linguaggio della schiettezza, della sincerità, del “pane al pane vino al vino”. Dunque, chi scrive un saggio (che sia di auto-aiuto, di psicologia o di denuncia politica e sociale) se ricorre al linguaggio colloquiale dà subito l’idea di essere alla portata di tutti. Come dimostrano i saggi, serissimi, “Stronzate: un saggio filosofico” (2005) di Harry Frankfurt, “Il culo e lo stivale: i peggiori anni della nostra vita” di Oliviero Beha (2012) o “Siamo tutti puttane: contro la dittatura del politicamente corretto” di Annalisa Chirico (2014). E infatti, fra i titoli che ho esaminato in questa indagine, gran parte rientra nel genere humor, seguito proprio da psicologia (ed erotismo, ma meno di quanto ci si aspetterebbe).
Insomma, l’uso della parolaccia nei titoli dei libri è il sintomo di un’epoca che gioca a contaminare gli stili e i registri, che sono diventati permeabili fra loro: formale e colloquiale, serio e comico si mischiano fra loro. Fino agli anni ’80, se qualcuno avesse pubblicato un saggio (serio) con un titolo volgare, avrebbe perso in prestigio e credibilità. Oggi, invece risulta simpatico e schietto.
Da un altro punto di vista, poi, significa che la cultura “ufficiale” ha legittimato, oltre al linguaggio, anche la cultura comica e quella popolare in generale. Gli ha dato dignità letteraria. E questo è senz’altro un bene.

Quali parolacce si usano? Hanno successo?

GraficiLibri2Ma quali sono le parolacce più usate nei titoli dei libri italiani? In classifica svetta “bastardo” (257 titoli), seguito da “puttana” (109) e “culo” (60). In questo decennio si assiste a un’impennata di “stronzo“, che ha già superato “culo” e tallona “puttana“. Trovate i dati in dettaglio nella tabella qui a destra.
Se i libri sono lo specchio di un’epoca, allora viviamo in un tempo di bastardi e di puttane? L’ipotesi è suggestiva e ha un fondo di verità; ma in realtà, bastardi e puttane sono presenze costanti in tutta la storia, perché sono le due facce della medesima miseria umana…
A parte questo: è una strategia vincente pubblicare libri con titoli volgari? Dipende. Un titolo con una parolaccia senz’altro attira l’attenzione dei lettori fra i numerosi volumi pubblicati ogni anno in Italia (oggi ci avviciniamo ai 60mila). Ma la medaglia ha il suo rovescio: i libri con un titolo spudorato hanno meno possibilità di essere recensiti da tv, radio, giornali. Dove, almeno in alcuni casi, si sta attenti al linguaggio, e certi titoli sarebbero impronunciabili. Insomma, un libro come “Il metodo antistronzi“, più che una recensione su un giornale prestigioso dovrà la sua fama al passaparola, ai social network o anche come regalo goliardico. D’altronde, se le parolacce sono il registro colloquiale e popolare per eccellenza, è giusto che si diffondano in quello stesso canale comunicativo.
E comunque, ovviamente, una parola forte non basta a decretarne il successo: sui 594 libri con titoli volgari che ho preso in esame per questa statistica, i best seller non mi sono sembrati più di una ventina. Insomma, alla fine vince pur sempre il contenuto (com’è giusto che sia).

Quando sono stati pubblicati i primi libri con titoli volgari?

Resta un’ultima curiosità: a quali anni risale l’esordio di queste parolacce nei titoli librari? Ecco quanto sono riuscito a ricostruire nella tabella qui sotto. Come potete vedere, non è affatto una tendenza moderna, visto che 7 termini su 10 sono precedenti a prima del 1900; e risalgono al 1500, dopo poco più di un secolo dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455). Solo vaffanculo, tette e fica sono stati “sdoganati” negli ultimi 40 anni. Anche in questo caso, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i libri erotici sono una minoranza (20%); la maggioranza (70%) sono scritti a sfondo umoristico o satirico. Già nell’antichità, le parolacce si usavano soprattutto per far ridere. E se vi capitasse di leggere qualcuno di questi libri, vi accorgerete che non sono affatto libri commerciali: hanno uno spessore culturale che oggi non ci sogniamo lontanamente. Perché sono stati scritti dai (pochi, veri) intellettuali dell’epoca. Le parolacce, scritte da uomini di cultura, acquistano un altro sapore.

Parolaccia Anno Titolo Autore Genere
Cazzo 1531 La cazzaria Antonio Vignali Satirico
Puttana 1532 La puttana errante Lorenzo Venier Umoristico
Coglione 1569 Historia della vita, et fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Coglione Pietro Spino Satirico
Bastardo 1594 Trattato delle ragioni sopra il regno di Cipro, appartenti alla serenissima casa di Sauoia. Con narratione d’historia del violento spoglio, commesso dal bastardo Giacomo Lusignano.  Storico. (Il termine, pur con sfumatura spregiativa, non significa “cattivo, spregevole, spietato” bensì “figlio illegittimo”).
Merda
Stronzo  
1629 La merdeide, stanze in lode delli stronzi della gran villa di Madrid, del sign. D. Nicolò Bobadillo. Tommaso Stigliani Satirico
Culo 1842 La culeide in antitesi al moderno costume dei culi finti Gabriele Rossetti Cantone Umoristico
Vaffanculo 1977 La Traviata Norma, ovvero: vaffanculo… ebbene sì. Collettivo teatrale “Nostra signora dei fiori” Umoristico
Tette 1979 Lord tette M.H. Englen. Erotico
Fica 1994 La fica di Irene Louis Aragon Erotico

Questo articolo è stato ripreso da AdnKronos, Il Giornale, Prima Comunicazione, Il MessaggeroBooksBlogAgora Magazine, Donna Charme, Reportage online, Italy journal.

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