Papa | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Sun, 22 Dec 2019 15:59:15 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png Papa | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Benedetto XIV, il papa che amava le parolacce https://www.parolacce.org/2019/07/09/papa-lambertini-volgare/ https://www.parolacce.org/2019/07/09/papa-lambertini-volgare/#comments Tue, 09 Jul 2019 08:50:26 +0000 https://www.parolacce.org/?p=15822 Diceva spesso espressioni scurrili. Non solo in privato, ma anche nelle udienze ufficiali. E a chi gli raccomandava di controllarsi, rispondeva che avrebbe concesso l’indulgenza plenaria a chi esclamava “cazzo!” almeno 10 volte al giorno. Fra i 266 papi che… Continue Reading

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Nel fotomontaggio, papa Benedetto XIV ritratto da Pierre Subleyras.

Diceva spesso espressioni scurrili. Non solo in privato, ma anche nelle udienze ufficiali. E a chi gli raccomandava di controllarsi, rispondeva che avrebbe concesso l’indulgenza plenaria a chi esclamava “cazzo!” almeno 10 volte al giorno. Fra i 266 papi che hanno guidato la Chiesa, ce n’è stato uno che non aveva peli sulla lingua: Benedetto XIV (1675-1758). Fu uno dei 9 pontefici del 1700, ma non è stato un papa corrotto, rozzo o spregiudicato. Era, semplicemente, un uomo schietto e passionale. E non è stato un papa di cui la Chiesa si vergogna: anzi, è stato uno dei pontefici più stimati della storia, e fu sepolto con tutti gli onori nella Basilica di San Pietro, dove ancora oggi si può vedere il suo maestoso monumento funebre realizzato dallo scultore Pietro Bracci.
In questo articolo vi racconterò la sua storia affascinante e originale. E lancio una proposta: che papa Benedetto – che non fu dichiarato né santobeato, nonostante una vita esemplare – diventi il patrono del turpiloquio.

Il papa in un francobollo commemorativo (Shutterstock).

Ho scoperto la sua storia straordinaria grazie a un libro, “Vite efferate di papi” (Quodlibet edizioni): uno studio monumentale scritto da un un filologo toscano, Dino Baldi. In oltre 500 pagine, Baldi traccia i ritratti, documentatissimi, di diversi pontefici. Un gruppo nel quale figurano persone di ogni genere: santi e crudeli, ignoranti o raffinati. Del resto, il trono di Pietro è stato per secoli anche una carica di potere, e il potere può corrompere.
Ma Benedetto XIV, in realtà, non era affatto attratto dal potere. Baldi racconta quattro episodi che svelano quali parolacce diceva (li ho evidenziati con il colore marrone): certamente non furono gli unici, ma sono molto significativi. Anche perché in nessuno di questi casi Benedetto XIV insultò qualcuno: usava le volgarità per schiettezza e per sfogarsi, ma non per offendere altre persone. «Non ho notizia di insulti veri e propri» conferma Baldi. «Era una persona amabile, e anche quando si arrabbiava (e capitava abbastanza spesso) se trascendeva recuperava sempre in fretta. La parolaccia, che non era mai greve, gli serviva più per sdrammatizzare o rafforzare un concetto, che non per aggredire».

Faccia bonaria, occhi vivissimi, battute salaci

Un altro ritratto del papa Benedetto XIV di Subleyras.

Benedetto XIV si chiamava Prospero Lorenzo Lambertini, e veniva da una famiglia nobile di Bologna. Corpulento, faccia bonaria, occhi vivissimi, fu eletto papa nel 1740, dopo un conclave durato 6 mesi e 255 scrutini. E accettò l’incarico, disse, non perché avesse desiderato una «tanto eccelsa vanità», quanto per far finire un’adunanza scandalosamente lunga. Durante il conclave che poi lo elesse, pare abbia detto, scherzando: «Se volete un papa santo, scegliete il cardinale Golti, se volete un politico il cardinale Aldrovandi, se volete un minchione, votate per me” (altre fonti dicono: “se volete un asino“).
Baldi racconta che quando si affacciò per la prima volta su piazza San Pietro gremita di folla, il nuovo rimase un attimo a guardare e mormorò fra sé: «Quanta gente… quanta gente…». Poi, rivolto al cardinal Marini che gli stava accanto: «Ma come fa a campare tutta questa gente?». E lui, che conosceva lo spirito del nuovo papa gli disse: «Eh, se lo mettono nel didietro l’uno con l’altro». «Già – disse il papa impartendo la benedizione –, e poi ci siamo noi che lo mettiamo in culo a tutti».
Tanto per far capire che tipo era. Un tipo, in realtà, equilibrato e moderno, oltre che sboccato. Nato nel 1675, dimostrò fin da ragazzino una grande intelligenza, diventando un esperto di diritto canonico apprezzato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Moneta commemorativa dedicata a Benedetto XIV.

A 56 anni fu nominato arcivescovo di Bologna per le sue doti diplomatiche: era un brillante ed elegante parlatore. Ma era, soprattutto, un progressista: amava le arti e le scienze, e fece in modo che una delle prime donne laureate della storia, Laura Bassi, potesse insegnare all’università di Bologna. Un atto non da poco, visto che all’epoca il maschilismo, in ambito accademico, era molto più pesante di oggi. Insomma, un approccio egualitario, che mantenne anche quando divenne papa. Durante i 18 anni del suo pontificato rimase infatti un uomo di buon senso e alla mano, allergico ai cerimoniali di corte, e vicino al popolo: spesso camminava nei quartieri popolari di Roma incontrando la gente.
Ma era anche un vero uomo di cultura. Diversamente dai suoi predecessori, riconobbe il valore della scienza: protesse l’Accademia dei Lincei, che promuoveva gli scambi fra gli scienziati, e avviò un rapporto epistolare con Voltaire, l’intellettuale illuminista più celebre (e laico) della sua epoca.

Un papa saggio. E fuori dagli schemi

Il film su Lambertini con Gino Cervi (1954).

Da papa fu più attento alle questioni spirituali che al potere. Ma fece diversi atti rivoluzionari: rimise a posto le finanze pontificie; concesse ai contadini poveri di prendere frutti dai campi pontifici; condannò lo schiavismo nelle Americhe e la massoneria. E cancellò alcune opere di Galileo dall’Indice dei libri proibiti. L’unico, pesante neo del suo pontificato fu che non pose fine alle persecuzioni contro gli ebrei, avviate peraltro dai suoi predecessori.
In ogni caso, è rimasto un papa apprezzato anche a distanza di secoli. Nel 1905 Alfredo Testoni gli dedicò una commedia teatrale, “Il cardinale Lambertini“, che raccontava i suoi anni da cardinale di Bologna. Da quest’opera sono state ricavate due versioni cinematografiche (nel 1934 e nel 1954, con Gino Cervi) e poi uno sceneggiato con Gianrico Tedeschi nel 1983.
Per dire quanto fosse pragmatico e fuori dagli schemi, Baldi ricorda un episodio divertente. Una notte si era precipitato da lui un monsignore. Erano passate le 23 e il papa era a letto da più di un’ora. Ai camerieri che cercavano di trattenerlo disse che doveva comunicare «una cosa gravissima al papa, ne va delle sorti della Chiesa stessa».
Quando svegliarono il papa, il monsignore parlava con frasi spezzate e concitate. Finché, invitato dal papa ad arrivare al dunque, gli disse: «Santità, nel monastero tal dei tali è stata trovata una monaca incinta». «Cazzo! – risposte il papa – Da come la facevate lunga pensavo fosse incinta un frate! Ma dico, voi mi svegliate per questo? Non se ne può parlare domani? Anche se sono il papa non ho mica la virtù di cambiare lo stato di una donna gravida! Lasciate dormire questo povero vecchio, va là». E tornò a letto.

La monaca truffatrice

In esclusiva per parolacce.org, Baldi racconta anche un episodio inedito su Lambertini, prima che diventasse papa.

La tomba di papa Benedetto XIV in San Pietro (Wikipedia).

Quando era ancora un giovane avvocato, si sparse la voce di un miracolo: una monaca romana, già in fama di santità, aveva portato a tale estremo le pratiche del digiuno che non mangiava più, e nonostante questo era in buona salute. Il popolo ci credeva, i medici discutevano del prodigio, e anche nella curia molti propendevano per dare credito alla cosa. Alla fine del 1600, l’allora papa Innocenzo XII ordinò un’inchiesta sulla monaca: ad essa partecipò anche Lambertini, a cui chiese, però, che durante l’interrogatorio della religiosa non aprisse bocca, sapendo quanto gli piacesse scherzare.
Dopo che il monsignore incaricato ebbe rivolto alla vecchia alcune domande rispettosissime, ottenendo risposte che confermavano il miracolo, Lambertini chiese di poter fare un’unica domanda. Una sola, semplicissima: «Reverenda madre» disse con voce umile e dolce «vorrei farle una domanda, solo così, per formalità. Come va lei di corpo?». «Benissimo», rispose la monaca senza pensarci. «Oh un cazzo! Chi non mangia non va di corpo!».  E in questo modo si scoprì in effetti che era tutto un trucco architettato dalle monache per dar fama, e quindi denari, al monastero.

L’indulgenza del c…

Ritratto di Giuseppe Maria Crespi: Benedetto XIV nel suo studio.

Diventato papa, Lambertini non rinunciò alla sanguigna passionalità delle espressioni salaci. Si lasciava spesso andare a espressioni scurrili e in particolare non riusciva a liberarsi dell’intercalare «cazzo». Dato che molti gli rimproveravano di essere un po’ troppo sboccato per un pontefice, aveva incaricato il suo affezionatissimo maestro di camera monsignor Boccapaduli di tirargli la tonaca ogni volta che gli fosse sfuggita quella parola di bocca.
Una mattina presto si presentarono i camerieri segreti a riferire come al solito sugli avvenimenti cittadini. C’era stato, dissero, un incendio nel rione Monti. «Cazzo! Ci sono morti?», chiese il papa. Subito Boccapaduli dette una strattonata alla tonaca, e il papa sottovoce: «Avi rason (ha ragione, ndr)…». Continuando il racconto dei fatti di Roma, ogni volta il papa li commentava con un «Cazzo!», e ogni volta il servitore dava uno strappo. Alla fine, stanco di tutto quel tirare, gli urlò contro: «Hai rotto i coglioni Boccapaduli! Cazzo cazzo cazzo! La voglio santificare questa parola! Voglio dare l’indulgenza plenaria a chi la pronunci almeno dieci volte al giorno!». E da allora, nessuno ebbe più da ridire sul suo modo di parlare.
Ma quale impatto ebbe il turpiloquio papale sui suoi contemporanei? «All’interno della corte un po’ di scandalo lo fece, ma nulla di particolarmente grave» risponde Baldi. «Era criticato molto più per i suoi rapporti con gli illuministi francesi o per l’arrendevolezza nei confronti dei principi europei che per le parolacce. Che, anzi, facevano parte del suo “personaggio”, molto amato dal popolo per la sua schiettezza e il senso dell’umorismo». Insomma, questo papa era davvero simpatico, oltre a essere stato una persona aperta e di intelletto fine. Ecco perché lo considero il “patrono” delle parolacce, da festeggiare il 31 marzo, giorno della sua nascita. L’anno prossimo sarà il 345° anniversario.

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The post Parolacce: la “top ten” del 2016 first appeared on Parolacce.]]> Quali sono state le parolacce “top” del 2016? Anche l’anno appena trascorso ci ha regalato molte chicche, sia in Italia che nel resto del mondo. E così, per il 9° anno consecutivo, ho preparato la classifica dei 10 casi più emblematici e divertenti di turpiloquio. Raccolti sia per il loro valore simbolico che per i loro effetti.
Prima di raccontarli, però, svelo subito il personaggio dell’anno: è il presidente delle Filippine, Felipe Duterte. E’ il primo capo di Stato ad aver insultato senza filtro le più importanti autorità del pianeta: dal papaBan Ki Moon, fino all’Unione europea e all’ambasciatore degli Usa, come raccontavo in questo post. Al suo confronto, Donald Trump è un dilettante. Incontinenza verbale? No: una strategia politica per stare sotto i riflettori, ribadire l’autonomia delle Filippine, strizzare l’occhio alla Cina e distrarre gli oppositori da altri problemi interni.
Lo scorso ottobre Duterte (nella foto a lato, fa il dito medio all’Unione europea) ha annunciato un cambio di rotta: «Non dirò più parolacce». Il motivo? L’ha spiegato ai giornalisti al ritorno da un viaggio in Giappone: «Mentre ero in volo e guadavo fuori dal finestrino, ho sentito una voce che mi diceva di smettere con il turpiloquio, altrimenti l’aereo si sarebbe disintegrato in aria. Ho chiesto: “Chi parla?”. Poi ho capito: era Lui. Così ho promesso di smettere. E una promessa a Dio – ha concluso Duterte – è un promessa al popolo filippino». 
Insomma, un ennesimo colpo di teatro: per mascherare, in realtà, il rischio di isolamento internazionale a cui sarebbe andato incontro se avesse proseguito a insultare tutti.  

Ed ecco la Top ten del 2016:  chi è il vincitore assoluto secondo voi? Scrivetelo nei commenti, se volete. Intanto, buon anno a tutti i lettori di parolacce.org.

POLITICA

(dal minuto 1:44)

«Roberto Speranza, hai la faccia come il culo. Avete la faccia come il culo».

Roberto Giachetti, assemblea del Pd, Roma, 18 dicembre

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IL FATTO

L’indignazione di Giachetti – parlamentare del Pd e vicepresidente della Camera – nei confronti del collega di partito Speranza viene da lontano. Durante il governo Letta (2013/14) Giachetti aveva firmato una mozione sottoscritta da un centinaio di parlamentari Pd per il ritorno al Mattarellum (sistema elettorale al 75% maggioritario e al 25% proporzionale).
La mozione fu bocciata in Aula con il parere contrario del Pd (Speranza era capogruppo) e del governo. Per protesta, Giachetti fece 2 scioperi della fame (uno da 170 giorni, l’altro da 73 giorni), ma senza risultati. Di recente, però, Speranza ha affermato che “Il Mattarellum è assolutamente positivo” e ha rivendicato di averlo proposto alla Camera come primo firmatario.
Di qui la rabbia di Giachetti, che all’assemblea Pd ha commentato: «Rimango leggermente allibito…Ho cercato lungamente quali fossero le parole ortodosse per rappresentare cosa io penso. Ma mi dovete scusare ma l’unica cosa che io penso è che: Roberto Speranza, hai la faccia come il culo. Avete la faccia come il culo: quando avevamo la possibilità di votare il Mattarellum eri capogruppo, c’erano i vostri ministri nel governo Letta … ». A quel punto la platea ha iniziato a rumoreggiare. Sul palco, Debora Serracchiani scoppia a ridere, il premier Paolo Gentiloni abbassa lo sguardo e trattiene il riso, Matteo Renzi si mette le mani nei capelli, Matteo Orfini lo richiama: «Quand’eri vicepresidente della Camera non avresti mai consentito una cosa del genere… vediamo di rientrare su toni civili». E Giachetti ha concluso: «Ragazzi la parola culo è sdoganata in tutto il mondo, adesso soltanto nell’assemblea del Pd che è così affettuosa non si può dire… Chiedo scusa. Diciamo che avete una faccia di bronzo, va bene così?». Il suo intervento così spontaneo ha fatto breccia, anche perché il Pd, da quando è diventato un partito governativo, rifugge il lessico volgare. Ma, come spesso accade in politica, l’intervento di Giachetti ha fatto discutere più sulla forma (l’uso della parolaccia) che sulla sostanza (il cambio di rotta sul sistema elettorale). E il Pd ha perso un’occasione preziosa per fare chiarezza sulla propria strategia. 

IN CAMPO

Koke: «Ricchione!».
Ronaldo: «Sì ma ricco, cornuto!».

Madrid, derby fra Atletico Madrid e Real Madrid. 21 novembre 2016

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IL FATTO

Derby fra Atletico Madrid e Real Madrid. Dopo un duro contrasto in area di rigore, Jorge Resurrección Merodio detto Koke (Atletico) e Cristiano Ronaldo (Real) si urlano le frasi a distanza ravvicinata, testa contro testa. E’ stato lo stesso Ronaldo a raccontare il contenuto del diverbio: “Koke mi ha dato del frocio (maricòn) e io gli ho risposto: “Sì, ma pieno di soldi, cornuto! (Sì, ma con pasta, cabròn)”. In effetti Ronaldo, uno dei più grandi calciatori esistenti, è anche uno dei più pagati nella storia del calcio: nel 2009 fu acquistato dal Manchester per la cifra record di 94 milioni di euro. E da tempo si rincorrono voci sulla sua presunta omosessualità: ma lui, dall’alto del suo talento (e dei suoi ingaggi profumati) se ne infischia…
La partita è stata vinta dal Real per 3-0 proprio grazie a una tripletta di Ronaldo. Ed entrambi i giocatori si sono meritati il cartellino giallo dall’arbitro.

A TUTTA PAGINA

“Il braccio destro del papa fa visita ai fedeli di Sega”.

Titolo su “L’Arena”, 31 agosto 2016

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IL FATTO

Sembra uno degli strilli di “Lercio”, il giornale satirico. E invece il titolo è proprio vero: è uscito  sull’Arena, quotidiano di Verona. L’articolo parla di monsignor Marcello Semeraro, “strettissimo collaboratore del pontefice”, che avrebbe fatto visita alla comunità parrocchiale di Sega, frazione di Cavaion Veronese. Ma, raccontata così, la visita assume un risvolto involontariamente comico. Su questa pagina trovate altri 13 titoli esilaranti di giornali.

PUBBLICITARIA

 

“Questo è l’uccello”.

Campagna pubblicitaria iPhone 7, Hong Kong, 9 settembre 2016

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IL FATTO

Non sempre uno slogan azzeccato funziona a ogni latitudine. Ne sa qualcosa la Apple: lo scorso settembre ha lanciato il nuovo iPhone7 con una campagna globale, con lo slogan “Questo è il 7”. Peccato però che in cantonese, la lingua che si parla a Hong Kong, “sette” (柒) si pronuncia “tsat”, che ha lo stesso suono di un termine gergale che significa “uccello” (nel senso di “pene”). L’assonanza ha suscitato parecchia ilarità nel Paese (soprattutto su Facebook), come hanno riferito il Daily Mail e Quartz. Anche Samsung era cascata nell’equivoco quando aveva lanciato il “Note 7”: in cantonese suona “bastone del cazzo”.  

ANTI OMOFOBA

“Frocio?”.

Campagna di reclutamento dei Jozi Cats, Johannesburg (Sud Africa), 8 giugno

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IL FATTO

Nel mondo sportivo, molto maschilista, non è facile essere gay. Ricordate lo scandalo suscitato da Maurizio Sarri, che diede del “frocio” a Roberto Mancini (ct dell’Inter), beccandosi 2 giorni di sospensione e 20mila € di multa?
In Sud Africa una squadra di rugby, i Jozi Cats, ha deciso di dare un calcio ai pregiudizi. Sono una squadra formata da giocatori dichiaratamente gay, e hanno lanciato una campagna di reclutamento coraggiosa, esplicita e ironica: hanno posato in divisa, col pallone da rugby e i muscoli in bella vista, sotto gli epiteti più usati (in inglese) contro i gay, seguiti da un punto interrogativo: queen (letteralmente: regina), pillow biter (mordi cuscino), flamer (lanciafiamme), pansy (violetta), fudge packer (impacchettatore di caramelle), fairy (fata). Per mostrare che si può essere virili anche con un diverso orientamento sessuale. La campagna ha fatto il giro del mondo: ha scacciato l’omofobia con un sorriso.

MUSICALE

“Guarda il ca* che me ne frega”.

Fabio Rovazzi, Youtube, 2 dicembre

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IL FATTO

La scorsa estate il suo tormentone “Andiamo a comandare” aveva guadagnato 4 dischi di platino, e 107 milioni di visualizzazioni su YouTube, facendo breccia anche fra i bambini.
Così, quando a dicembre Rovazzi ha lanciato il nuovo singolo “Tutto molto interessante”, si è preoccupato del suo pubblico di minori. E nel ritornello ha sostituito la parolaccia “cazzo” con l’eufemismo “ca*” (se volete sapere qualcosa in più sugli eufemismi, ne ho parlato qui). Anche se nella canzone rimangono due parolacce “in chiaro”:  “sfiga” e “palle”. Il brano, in realtà, non è per bambini: è una satira sociale, una presa in giro delle persone ossessionate dai social network, dal narcisismo, dalla schiavitù dell’apparire fra selfie, Instagram e palestra. Tutte cose che a Rovazzi “non fregano”. Il brano ha bissato il successo precedente: è già disco d’oro e ha superato i 42 milioni di visualizzazioni. Anche questa canzone piace ai bambini: che – ben prima di Rovazzi – sanno benissimo cosa vuol dire ca*.

MILITANTE

“Maledetti bastardi, sono ancora vivo!”.

Roberto Saviano, 17 ottobre, su “Repubblica” (foto Shutterstock).

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IL FATTO

Lo scrittore napoletano Roberto Saviano è diventato celebre fin dal suo primo libro, “Gomorra” (2006) un viaggio nel mondo affaristico e criminale della camorra. Il libro, che ha venduto oltre 2,5 milioni di copie, ha sollevato il velo sui business dell’organizzazione criminale. E lo ha messo nel mirino del clan dei casalesi, che lo hanno minacciato di morte. Da allora lo scrittore, 37 anni, vive sotto scorta. In occasione del decennale dell’uscita del romanzo (e della sua vita blindata) Saviano ha rievocato la sua storia su Repubblica: «Dieci anni fa ricevetti una telefonata dall’allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: “Ma per quanto?”. E un maresciallo rispose: “Credo pochi giorni “. Sono passati dieci anni….». Una vita difficile, nell’isolamento più totale. Ma che non gli ha fatto cambiare rotta: «Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche se più volte mi sono spezzato. Ma se c’è una cosa che insegna questa lotta che ho intrapreso con l’arma più fragile e potente che esista, la parola, è che proprio quest’ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato in frantumi». E conclude  lanciando un insulto beffardo ai camorristi che lo hanno minacciato: «Maledetti bastardi, sono ancora vivo!». 

OLIMPICA

“Abbiamo giocato contro un branco di codarde”.

Hope Amelia Solo, portiere della Nazionale Usa alle Olimpiadi di Rio, 12 agosto (foto Wikipedia)

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IL FATTO

Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, la squadra femminile di calcio degli Usa è stata battuta ai quarti di finale dalla Svezia (che poi è arrivata 2° dopo la Germania). La partita si è conclusa ai rigori, dopo un impenetrabile catenaccio delle svedesi, che hanno vinto per 4-3. Intervistata da “Sports illustrated”, la portiera statunitense Hope Solo, 35 anni – atleta brava, bella e sanguigna – ha criticato la tattica difensiva della avversarie, definendole “codarde”. Il suo commento è rimbalzato su tutti i giornali: non è esattamente nello spirito olimpico. Ma il Comitato olimpico non ha preso provvedimenti nei suoi confronti: ha qualificato la sua affermazione come “deludente” ribadendo che, comunque, c’è libertà di espressione. Non l’ha pensata così la Federcalcio Usa, che le ha inflitto 6 mesi di sospensione: una punizione esemplare, motivata dal fatto che quei giudizi sono “inaccettabili e non corrispondenti a ciò che ci aspettiamo dalle giocatrici che vestono la maglia della nostra nazionale”. La Solo ha replicato che questa punizione così severa sarebbe in realtà una ritorsione contro il suo impegno nel perseguire la parità di stipendi con i calciatori uomini.

TELEVISIVA

“Vorrei la minchia nera”.

Amadeus a “Mezzogiorno in famiglia”, Rai2, 7 maggio

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IL FATTO

E’ finita la puntata del contenitore mattutino di Rai 2 “Mezzogiorno in famiglia”. Il conduttore principale, Amadeus, durante la sigla finale canta “La pelle nera” insieme al resto del cast. Finiti i titoli di coda, pensando che il collegamento fosse ormai terminato, si sente Amadeus dire, scherzando, “Vorrei la minchia nera”. La gaffe non è sfuggita, tanto che è stata presa in giro da “Striscia la notizia” su Canale 5. Finendo così su tutti i giornali: Amadeus si è scusato, e ha ricevuto il “Tapiro d’oro”. Il segretario della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi ha annunciato un’interrogazione parlamentare. Dopo la tempesta, a fine mese Amadeus ha annunciato che avrebbe lasciato il programma dopo 7 anni, spiegando però di averlo fatto per altri impegni professionali e non per la gaffe. 

GESTACCIO

Dona le sue scarpe e offende gli egiziani

Lionel Messi, Barcellona, alla tv egiziana MBC Masr, 30 marzo

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IL FATTO

Lionel Messi aveva donato – per un’asta a scopo benefico – un paio delle sue scarpe davanti alle telecamere della tv egiziana MBC Masr. Ma il suo gesto ha scatenato il finimondo. Il campione non sapeva infatti che in Egitto (e in tutto il mondo arabo) mostrare le scarpe, e in particolare la suola, è un atto di grande disprezzo. Le suole, infatti, sono a contatto con la terra e quindi evocano la sporcizia. «Quelle scarpe rappresentano un’umiliazione», ha commentato il presentatore tv e deputato Said Hasasin. E il portavoce della Federcalcio egiziana Azmy Megahedha ha rincarato la dose: «Avrebbe fatto meglio a darsi gli scarpini in testa e a darli in testa ai suoi tifosi. Non abbiamo bisogno delle sue scarpe né della beneficenza di ebrei o israeliani. Dia le scarpe al suo Paese, l’Argentina è piena di poveracci».
Mostrare le scarpe non è l’unico gesto che diventa offensivo passando da un Paese all’altro. In questo articolo racconto gli altri 10 da evitare quando siete all’estero (se non volete fare figuracce).

Vi è piaciuta la “top ten” del 2015? Su questo sito trovate le classifiche degli anni passati: il 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010,  2009 e 2008.

Hanno parlato di questo post AdnKronos,  Italia seraIl Secolo d’Italia, Italia informazioniSicilia informazioni, StraNotizie, Attualità.com.

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Abbiamo diritto di insultare il presidente? https://www.parolacce.org/2014/11/09/vilipendio-sentenze-democrazia/ https://www.parolacce.org/2014/11/09/vilipendio-sentenze-democrazia/#comments Sun, 09 Nov 2014 13:40:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6687 Il telefono dell’avvocato Alessandro Micucci squilla in continuazione. Lo chiamano da tutta Italia perché è riuscito a far assolvere una donna di Rovigo che, su Facebook, aveva definito “testa di c***o” il presidente Giorgio Napolitano. L’avvocato è stato il primo, e… Continue Reading

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Foto(9)Il telefono dell’avvocato Alessandro Micucci squilla in continuazione. Lo chiamano da tutta Italia perché è riuscito a far assolvere una donna di Rovigo che, su Facebook, aveva definito “testa di c***o” il presidente Giorgio Napolitano. L’avvocato è stato il primo, e forse l’unico in Italia ad accorgersi che, secondo la Corte europea per i diritti dell’uomo, abbiamo diritto di criticare, anche aspramente, i politici: tanto che i giudici di Strasburgo hanno assolto un francese che aveva dato del “coglione” (con, in francese) all’allora presidente Nicholas Sarkozy. Per i giudici europei, infatti, il vilipendio al Capo dello Stato è un reato che non ha ragion d’essere nelle democrazie moderne: occorre garantire l’uguaglianza e la libertà d’espressione dei cittadini, anche nei confronti della più alta carica dello Stato. E il Tribunale di Rovigo è d’accordo.

Di questo cambio di prospettiva, però, non sembrano essersi accorti i nostri politici. Proprio in questi giorni, infatti, alla commissione Giustizia del Senato si sta discutendo una proposta di legge per abolire il reato di vilipendio, ma questa non tiene conto né della sentenza europea, né di quella di Rovigo. Oltre che dai princìpi democratici, i senatori sono motivati dalla volontà di salvare alcuni colleghi politici che rischiano da 1 a 5 anni di carcere per aver offeso Napolitano: Umberto Bossi (Lega), Francesco Storace (La Destra) e Giorgio Sorial (M5S). Non a caso, la proposta in discussione al Senato è stata presentata dai senatori Lello Ciampolillo (M5S) e Maurizio Gasparri (Forza Italia): destra e M5S spingono per l’abolizione del reato di vilipendio, mentre il Pd pare più intenzionato a mitigarne le pene. La proposta, però, è bloccata in attesa del parere della Commissione affari costituzionali; nel frattempo, il 21 novembre Storace è stato condannato  a 6 mesi di reclusione (pena sospesa).
Ma perché una sentenza che potrebbe “fare giurisprudenza” è passata inosservata sui grandi giornali italiani? Forse perché è stata emessa da un Tribunale di provincia? La notizia circola per lo più nei blog e su Facebook, come se fosse una leggenda metropolitana o un caso bizzarro. Ho indagato e posso dire che non lo è: anzi, solleva riflessioni di grande attualità.

Ma prima di parlare della storica assoluzione del Tribunale di Rovigo, bisogna ricordare in che consiste il reato di vilipendio, descritto dall’articolo 278 del Codice Penale: “Chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica è punito con la reclusione da 1 a 5 anni”. Sembra una norma semplice, ma in realtà – come spiega il Trattato di diritto penale (vol. I, delitti contro la personalità dello Stato, Utet) ha una potenza pervasiva senza limiti: è vietato insultare il Capo dello Stato come persona, ma anche come per i suoi atti politici. Non lo si può offendere neppure per quello che ha fatto prima che diventasse presidente. E non si possono neppure distruggere o rovinare le foto o le statue che lo ritraggano, o disegnare vignette offensive. Lo si può criticare per il suo operato, ma solo se non si usano espressioni ingiuriose, che minino il suo prestigio, lo mettano in ridicolo o lo facciano apparire inidoneo a rivestire la carica. Insomma, il presidente della Repubblica è di fatto intoccabile da ogni punto di vista. Perché?

sabina-guzzanti-vilipendio-tour

Dopo essere stata denunciata per vilipendio, la comica Sabina Guzzanti ha intitolato così il suo tour del 2009.

Beppe Grillo – dopo che 22 simpatizzanti del suo movimento sono finiti indagati per vilipendio – ha scritto tempo fa che questo reato è un retaggio del fascismo: in effetti, come raccontavo qui, circa 5mila italiani furono denunciati per il semplice fatto di aver imprecato o fatto battute contro Mussolini. Le dittature mal sopportano di essere messe in discussione e tanto meno in ridicolo.
Ma in realtà le radici del vilipendio sono molto più antiche: il Codice Toscano del 1853, rimasto in vigore anche dopo l’Unità d’Italia, all’art. 109 prevedeva che “chiunque fa offesa alla riverenza dovuta al Granduca, è punito con la carcere”. E ancora più esplicito l’art. 471 del Codice sardo-italiano del 1859 (che 30 anni dopo fu inglobato nel Codice penale italiano): ogni pubblico discorso che ecciti lo sprezzo e il malcontento contro la Sacra Persona del Re sarà punito col carcere. Qui sta il punto: il vilipendio non è altro che il delitto di lesa maestà applicato però al presidente della Repubblica.
E anche al papa, se le offese a lui dirette si consumano sul suolo italiano e davanti al pubblico, come ha scoperto a proprie spese Sabina Guzzanti. Che finì indagata per vilipendio al papa quando nel 2008, contestando le ingerenze politiche del Vaticano, disse che “fra 20 anni Ratzinger sarà morto e starà dove deve stare: all’inferno, tormentato da  diavoloni frocioni attivissimi”. Non se ne fece nulla perché l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, decise di non procedere contro di lei. L’apertura di un processo per vilipendio, infatti, deve essere autorizzata dal ministro della Giustizia, anzi: è più appropriato chiamarlo Guardasigilli, visto che parliamo di lesa maestà. Nel corso del 2013, il ministero ha esaminato 18 casi di vilipendio.

Ma qui iniziano i problemi: l’intoccabilità del presidente come si concilia con i princìpi democratici dell’uguaglianza e della libertà d’espressione? Se siamo tutti uguali e liberi di esprimerci, perché se critico il presidente io rischio la galera e se lo fa lui no?
La norma sembra contrastare con le garanzie democratiche della Costituzione: eppure la Corte Costituzionale – che si è già pronunciata in merito – l’ha difesa più volte. Nel 1969 e nel 1978 la Corte ha stabilito che il vilipendio non contraddice l’uguaglianza dei cittadini. Il presidente della Repubblica, ha stabilito la Corte, gode di tutele speciali non perché la sua persona abbia un valore superiore a quello degli altri, bensì perché egli incarna l’istituzione repubblicana: un bene di “eccezionale rilevanza” che va difeso sopra ogni cosa. Dunque, il nostro ordinamento, pur di difendere se stesso, accetta che l’onore non sia uguale per tutti: chi rappresenta lo Stato vale di più. Tant’è vero che chi offende il presidente (o anche un pubblico ufficiale, vedi il reato di oltraggio) è punito più severamente rispetto a chi offende un “semplice” cittadino.
Nel 1996, poi, la Corte ha stabilito anche che le pene previste per il reato di vilipendio non sono eccessive: anzi, sono giustificate perché “scolpiscono (…) il particolare disvalore che assume per l’intera collettività l’offesa all’onore e al prestigio della più alta magistratura dello Stato”.
Infine, nel 2004, la Corte di Cassazione ha pure aggiunto che la difesa della figura del presidente da qualunque forma di critica che lo possa far apparire inadatto a rivestire la carica, si giustifica non solo come principio astratto, ma anche per garantire il sereno svolgimento delle funzioni presidenziali.

Ma è proprio questo il punto che è stato scardinato dalle leggi europee. In particolare dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu): “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Un principio non nuovo: la Convenzione risale al 1950 ed è stata accolta dall’Italia nel 1955. E allora perché proprio oggi rischia di scardinare il reato di vilipendio?

Perché l’anno scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha assolto, in base a questa legge, un attivista francese, Hervé Eon: nel 2008, in occasione di una visita del presidente Nicholas Sarkozy a Laval, Eon aveva brandito un cartello con la scritta “Casse toi pov’con”, ovvero: “Sparisci, povero coglione”. Eon aveva utilizzato una frase detta dallo stesso Sarkozy, in quello stesso anno, a un agricoltore. Questi aveva rifiutato la stretta di mano di Sarkozy (“Non mi toccare, mi sporchi”) e il presidente aveva replicato: “Eh bien casse-toi alors, pauv’con” (Ah beh, allora sparisci, povero coglione).

La reazione di Sarkozy aveva suscitato grandissima indignazione in Francia: il presidente era stato contestato non solo per l’aggressione a un comune cittadino, ma anche per la sua incapacità di mantenere, persino nelle occasioni ufficiali, un contegno idoneo alla sua carica. Tanto che molti avevano riutilizzato quella frase contro lo stesso Sarkozy. Un caso clamoroso. Eppure, proprio per quella frase il signor Eon era stato denunciato e poi condannato in due gradi di giudizio, seppure alla mite pena di 30 euro di ammenda. Così si è rivolto alla Corte europea per i diritti dell’uomo.
La Corte lo ha assolto, considerando quell’insulto come una critica politica fatta con il linguaggio della satira. Secondo la Corte, anche i termini forti devono essere tollerati dai politici: quando si entra in politica, ci si espone inevitabilmente e consapevolmente a un attento controllo del proprio operato dai parte dei cittadini. Dunque, il diritto di criticare un politico prevale sulla difesa della sua onorabilità, perché altrimenti si limiterebbe la libertà di critica dei cittadini, ovvero la stessa democrazia.

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L’articolo uscito su “La voce di Rovigo” a firma di Ketty Areddia.

Questi princìpi sono applicabili in Italia? Sì, secondo il giudice Pietro Mondaini di Rovigo, autore della sentenza di assoluzione che parolacce.org pubblica in esclusiva qui: Sentenza 157 2014 TRIBUNALE DI ROVIGO
Vediamo perché. Il caso risale al 2012: Napolitano, durante un incontro con gli amministratori pubblici di Bologna, aveva esortato tutti al sacrificio per uscire dalla crisi economica. La donna di Rovigo, su Facebook, aveva commentato: “noi i sacrifici li stiamo già facendo perché non abbiamo scelta, capito testa di c***o?”.
“Era lo sfogo di una donna disperata: disoccupata e in stato di gravidanza” racconta il suo difensore, l’avvocato Micucci. “Anche se dopo aveva inviato una lettera di scuse a Napolitano (lettera rimasta peraltro senza risposta), il pm aveva chiesto per lei la pena di 10 mesi di reclusione. Uno sproposito”.
Il giudice, alla luce della sentenza della Corte europea, ha assolto la donna, affermando la necessità di distinguere le critiche gratuitamente offensive, immotivate o eversive, dalle critiche – anche aspre – di natura politica: “La possibilità di esprimere il proprio pensiero politico” scrive il giudice “non è solo un diritto ma anche l’essenza stessa di uno Stato che, in difetto, non può dirsi democratico”.

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Una vignetta di “Libero” (2011) denunciata per vilipendio: ritrae anche Napolitano.

Bisogna aggiungere però, come nota acutamente la penalista Irene Gittardi, alcune grosse differenze fra le legge anti vilipendio francese e quella italiana: in Francia si puniscono solo le offese scritte o dette a voce, mentre in Italia si puniscono le offese in qualunque forma (anche gesti, pernacchie, manomissioni di foto, vignette satiriche); in Francia si puniscono solo le offese dette in pubblico, mentre in Italia questo aspetto è irrilevante; infine, in Francia la pena prevista è solo pecuniaria (ammenda fino a 45mila euro), mentre in Italia è solo detentiva. Ma, quel che più conta, in Francia il presidente della Repubblica è anche il capo del governo: fermare le critiche nei suoi confronti significherebbe limitare il dibattito politico. In Italia, invece, il presidente ha un ruolo soprattutto simbolico: è il capo dello Stato, rappresenta l’unità nazionale ed ha alcuni poteri di indirizzo politico.
Ecco perché, in Italia, il contrasto fra vilipendio e libertà di espressione può essere risolto solo riformando il Codice penale, come lo stesso Napolitano ha auspicato già nel 2013, non nascondendo, però, le sue preoccupazioni per i possibili abusi: la libertà di critica, ha detto, non deve prevedere “grossolane, ingiuriose falsificazioni dei fatti e delle opinioni”. Un equilibrio difficile: che cosa accadrebbe se tutti fossero liberi di insultare il presidente? Calunnie, ingiurie e diffamazioni sono punite da diverse leggi, ma la carica più alta dello Stato ha bisogno di un rispetto e di tutele maggiori? D’altra parte, se un presidente – parlo in astratto – si comportasse in modo scorretto, come lo si potrebbe criticare senza il timore di cadere nel reato di vilipendio?

Probabilmente, la soluzione che si adotterà in Italia sarà sul versante delle pene: non più il carcere, ma pene pecuniarie. Vedremo come andrà a finire: nel frattempo, qui sotto ho riassunto i casi di vilipendio che hanno innescato il dibattito al Senato. A voi giudicare se se i 3 imputati “eccellenti” meritino una condanna o no:

Protagonista

Frase incriminata

Umberto Bossi. L’episodio risale al 2011. E’ stato condannato a un anno e 15 giorni di reclusione in Cassazione (12 settembre 2018) Durante un raduno della Lega ad Albino, Bossi disse: “Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica [ fa il gesto delle corna ]. D’altra parte, nomen omen, Uno che si chiama Napolitano, Napolitano … non sapevo che l’era un terùn…”. Fonte e video qui
Francesco Storace. L’episodio risale al 2007. Storace è stato condannato a 6 mesi (pena sospesa). Napolitano aveva definito “indegno” chi attaccava i senatori a vita, e in particolare Rita Levi Montalcini. Allora Storace scrisse «non so se devo temere l’arrivo dei corazzieri a  difesa di villa Arzilla, ma una cosa è certa; Giorgio Napolitano non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare, per evidente faziosità istituzionale, è indegno di una carica usurpata a maggioranza». La fonte qui
Giorgio Sorial. L’episodio risale al 2014. E’ stato rinviato a giudizio nel 2016, si ignora l’esito L’esponente grillino ha accusato il presidente di non garantire le opposizioni nelle discussioni delle leggi: “il termine ‘tagliola’ riporta in mente che ci sia una violenza verso le opposizioni. Il boia Napolitano sta avallando una serie di azioni contro le opposizioni per cucire loro le bocche, anzi per tagliarci quasi la testa ed evitare che possiamo riportare i lavori di queste aule per il bene dei cittadini”. Fonte e video qui. Sorial risulta rinviato a giudizio nel 2016 (fonte qui), e non si conosce l’esito del procedimento.
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La cerimonia di insediamento di Napolitano.

Nel suo blog, Beppe Grillo l’ha definito un “retaggio del fascismo, quando si tutelava dal delitto di lesa maestà la figura del re e di Mussolini”. Si riferisce al reato di vilipendio al presidente della Repubblica, per il quale sono previsti fino a 5 anni di galera.
La sua critica non è disinteressata, visto che 22 grillini sono finiti sotto inchiesta per aver scritto pesanti commenti su Giorgio Napolitano, tanto che Grillo li ha cancellati. Ma solleva una questione reale, tanto profonda quanto affascinante. Una contraddizione delle democrazie moderne (e non solo d’Italia): se tutti siamo uguali e abbiamo libertà di espressione, perché chi offende il presidente della Repubblica è punito con più severità?
Come ho raccontato nel mio libro, in Italia abbiamo 3 leggi che puniscono duramente gli insulti a un’autorità:
– l’articolo 278 del Codice Penale, che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chi offende l’onore o il prestigio del presidente della Repubblica;
– l’articolo 343 prevede la stessa pena per chi offenda un giudice in udienza;
– dal 2009, come ho raccontato su queste pagine rischia fino a 3 anni di carcere anche chi insulta un pubblico ufficiale (articolo 341 bis). L’azione è la stessa in tutti i casi: offendere un rappresentante dello Stato. Ma questo stesso reato assume nomi diversi: il primo, quello fatto al presidente, si chiama “vilipendio” (= considerare vile); gli altri 2 reati sono chiamati “oltraggio” (= andare oltre).

Ma perché queste speciali tutele? Perché stiamo parlando di chi, a vario titolo, rappresenta lo Stato. E il presidente della Repubblica, in particolare, lo incarna in maniera pregnante: è “il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (Costituzione, art. 87). Dunque, come dice il giurista Vincenzo Manzini, il reato di vilipendio nasce dall’esigenza politica di mantenere “alto e inviolato il rispetto dovuto al suo Capo, allo scopo di impedire il pericolo derivante dall’eventuale discredito dell’Organo Istituzionale che rappresenta il Paese nella sua unità”. In pratica, le offese al presidente sono una minaccia al cuore dello Stato: nessun Potere può funzionare se qualcuno tenta di svilirlo, di accorciare le distanze, di buttarlo giù dal piedistallo.
Checché ne dica Grillo, però, questa speciale tutela non fu inventata da Mussolini. Il precedente più antico della nostra storia recente risale al 1815, con il “Codice dei delitti e delle gravi trasgressioni politiche pel Regno Lombardo-Veneto”. L’articolo 58 puniva con il carcere duro fino a 5 anni (coincidenza, la stessa pena di oggi) “le contumelie (= le offese) pronunciate in società o pubblicamente verso la persona del Principe (Francesco I d’Asburgo, ndr) e dalle quali possa risultare una manifesta avversione e così pure gli scritti e le pitture dirette ad eccitare disprezzo contro la persona dello stesso Principe”. In modo cristallino questo delitto era definito ” di perturbazione dell’interna tranquillità dello Stato”. E fu fatto proprio anche dalle leggi dei Savoia, che Mussolini  inasprì, come ho raccontato qui. Anzi, il duce estese la stessa tutela al Papa, nei Patti Lateranensi (art. 8).

Il re è nudo! La favola di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore” esprime la dialettica fra potere e critica.

Questo accadde perché all’epoca lo Stato era considerato un’anima, un’idea, una missione, e quindi considerato sacro e inviolabile. Ma questo avveniva anche molto prima: gli imperatori romani (e non solo), si consideravano considerati discendenti diretti delle divinità, perciò offenderli equivaleva a bestemmiare. Per gli antichi Romani, la lesa maestà era un atto sacrilego, punito con l’esilio. Ma tornando a oggi, che senso ha il reato di vilipendio in uno Stato laico e democratico, che si fonda sull’uguaglianza e sul diritto di espressione e di critica?
La discussione non è nata in questi giorni. Già 39 anni fa si era espressa in merito la Corte costituzionale (sentenza n. 20 del 30 Gennaio 1974): il vilipendio è un limite alla libertà di espressione perché questo è il prezzo per difendere altri beni, parimenti garantiti dalla Costituzione, “fra cui è da annoverare il prestigio del Governo, dell’Ordine Giudiziario e delle Forze Armate in vista dell’essenzialità dei compiti loro assegnati”. Sarà. Ma al di là del rispetto esteriore, non è più importante quello sostanziale, cioè l’effettivo funzionamento delle istituzioni? Anzi, c’è un’obiezione molto più incisiva che ha fatto di recente il presidente del Comitato mondiale per la libertà di stampa (World Press Freedom Committee, WPFC) Kevin Goldberg: in realtà chi ricopre una carica pubblica dovrebbe avere minori, non maggiori protezioni contro gli insulti rispetto ai comuni cittadini, perché ha più potere e più privilegi rispetto a loro. “In uno Stato democratico, le leggi contro le critiche ai politici non dovrebbero aver posto”, dice.

Napoleone sul trono imperiale: dipinto di Ingres (1806). Esprime la solennità e l’intoccabilità del Potere.

L’obiezione di Goldberg, peraltro, non si riferiva all’Italia ma alla Spagna. Perché in realtà leggi che tutelano i politici esistono dappertutto: in Spagna chi insulta il Re, un antenato  o un membro della famiglia reale rischia da 6 mesi a 2 anni di carcere. In Francia, chi offende il presidente rischia una multa di 45mila euro. E in Germania, gli insulti sono genericamente puniti col carcere fino a un anno; ma chi volutamente infanga l’onorabilità di un politico per demolirne il ruolo, rischia da da 3 mesi a 5 anni di carcere.
Che fare? La posizione di Goldberg è condivisibile ma forse utopica. Probabilmente, una via attuabile è quella di chiarire i confini tra critica e insulto: la prima anche aspra, vivace e sconveniente va garantita a tutti nei confronti di chiunque perché è un pilastro della democrazia; il secondo, se si riduce a un’offesa volgare, ingiuriosa, gratuita, va punito. Come ha chiarito la Corte di Cassazione nella pronuncia del 17 Ottobre 1977: “la critica è un giudizio meditato su fatti, persone o cose espresso nei limiti di un civile dibattito in forma seria, senza trascendere in espressioni di contumelia e di disprezzo che non sono manifestazioni di esercizio delle libertà democratiche nella misura in cui rivelano uno spirito totalitario diretto a negare qualsiasi valore a beni giuridici protetti”. Magari con pene meno severe, ma dubito che uno Stato dia punizioni blande a chi manifesti scarso rispetto e obbedienza, dando il cattivo esempio…
Vedremo allora, come andrà a finire l’inchiesta  sui grillini. Intanto, si è chiuso un caso simile per Umberto Bossi: è stato condannato a 12 mesi (inizialmente a 18, ma poi la pena è stata ridotta) per aver definito il presidente Napolitano un “terùn” (terrone) durante la festa della lega Nord ad Albino il 29 dicembre 2011. Gli avvocati di Bossi avevano obiettato che la frase non è condannabile perché rientra nelle sue prerogative di parlamentare: l’articolo 68 della Costituzione garantisce ai politici l’insindacabilità (la non contestabilità) delle opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. Ma l’epiteto “terrone” non può essere qualificato come opinione. Nel dicembre 2019 il presidente Sergio Mattarella ha firmato la grazia, cancellandogli la pena.
Ecco il video integrale del comizio:

Per chi vuole approfondire, ecco le fonti che ho consultato per scrivere questo articolo (oltre al mio libro):
Tesi di Giovanni Mazzitelli sui delitti di opinione contro personalità dello Stato, università di Parma 2007/8
La voce “lesa maestà” su Wikipedia
La voce “diffamazione” su Wikipedia
Due report del Wpcf su come le leggi mondiali contro gli insulti minano la libertà di stampa

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