parolacce | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 29 Nov 2024 12:18:46 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png parolacce | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Italo Calvino e le parolacce https://www.parolacce.org/2024/03/12/parolacce-italo-calvino/ https://www.parolacce.org/2024/03/12/parolacce-italo-calvino/#respond Tue, 12 Mar 2024 14:51:16 +0000 https://www.parolacce.org/?p=20356 Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha… Continue Reading

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Italo Calvino ( 1923-1985).

Ha raccontato mondi immaginari fatti di cavalieri inesistenti, città invisibili e visconti dimezzati. Ma Italo Calvino è stato anche uno scrittore realista e un attento osservatore del mondo. Parolacce comprese. Non solo le ha inserite in diversi romanzi, ma ha dedicato loro un’acuta analisi che è attuale ancora oggi, anche se sono passati più di 40 anni. Forse può sorprendere che un autore così raffinato si sia dedicato al turpiloquio, ma in realtà è in ottima compagnia, come ho avuto modo di raccontare a proposito di Umberto Eco e molti altri che trovate nel mio libro. Perché le parolacce, come diceva Calvino, possono servire a dare un “effetto speciale” nella partitura del discorso.

Le 117 volgarità ne “Il sentiero dei nidi di ragno”

Per entrare nel mondo di Calvino, parto con l’analisi del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”: pur essendo stato pubblicato nel 1947, epoca di censure e perbenismo, presenta numerosi termini volgari o offensivi. Non è un caso: la storia, infatti, è ambientata in Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della Resistenza partigiana sotto dominio nazifascista. In guerra è più rude anche il linguaggio, e un romanzo realista ne deve tener conto.
Calvino utilizza in tutto 31 espressioni triviali per un totale di 117 volte, includendo anche termini forti come puttana, fottuto, bastardo, cornuto e terrone: mica male! E lo fa inglobando anche alcune espressioni colloquiali e dialettali, tranne il celebre “belin”: scelta insolita per un romanzo ambientato in Liguria. 

La scelta stilistica di Calvino è ancor più interessante perché il protagonista del libro è un ragazzo ribelle di 10 anni, Pin, bambino orfano di madre e abbandonato dal padre. Privo di punti di riferimento, il bambino vive con la sorella, la Nera di Carrugio Lungo, una prostituta che s’intrattiene con i militari tedeschi. Dietro lo sguardo spaesato di Pin c’è la vicenda biografica di Italo Calvino che, da giovane, aveva lasciato gli studi universitari ed era entrato nella Resistenza, in clandestinità, a contatto con persone di umili origini.

Il romanzo conduce il lettore fin dalle prime righe nei vicoli di un paese ligure, proprio grazie alla spontaneità delle parolacce:

Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone, a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. – Pin! Già a quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella! 

 Già nell’incipit troviamo 3 insulti (muso di macaco, rubagalline, materasso, inteso come “grassona”) e una maledizione (ti si seccasse la voce in gola). Ma è Pin l’autore dell’espressione più pesante del romanzo, una sequenza di insulti che avrebbe voluto urlare in faccia ad alcuni clienti dell’osteria a cui stava nascondendo di avere in tasca una pistola: Vorrebbe piangere, invece scoppia in uno strillo in i che schioda i timpani e finisce in uno scatenio d’improperi: – Bastardi, figli di quella cagna impestata di vostra madre vacca sporca lurida puttana!

Una sequenza di alto impatto, costruita con una escalation di insulti in decasillabi quasi perfetti.

Nel ventaglio di espressioni scelte da Calvino per questo romanzo, prevalgono i termini colloquiali e gli insulti: Calvino si tiene alla larga dal lessico osceno, nonostante la sorella di Pin faccia la prostituta. Da segnalare l’assenza di espressioni molto diffuse come “cazzo”, “stronzo”, “coglioni” e “vaffanculo”. Ecco la lista completa delle parolacce presenti nel romanzo:

 [ per approfondire, apri la finestra cliccando sul + qui sotto ] 

TUTTE LE PAROLACCE
 

Imprecazioni (3)

  frequenza brano
mondoboia 25 Mondoboia, proprio come pensavo io.
mondo cane 2 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane,
merda! 1 – Merda! – gli fa Zena e gli volta le spalle.

Maledizioni (2)

Ti venisse un cancro 2 Ti venisse un cancro all’anima
Ti si seccasse la voce in gola 1  

Insulti (20)

scemo 9  mio marito è un po’ scemo ma è il miglior marito del mondo
bastardo 8 tutti questi bastardi fascisti che mi hanno fatto del male la pagano uno per uno.
carogna 8 mi dicevo: dove sarà andato a sbattere quella vecchia carogna,
cagna 6 Il capitano di sua sorella cagna e spia.
ruffiano 4 Il ruffiano lo andate a fare voi se ne avete voglia
cornuto 4 il tuo distaccamento… il distaccamento dei cornuti!
vacca 4 Quella vacca della tua bisnonna
porco 4 Egoista porco!
macacco / muso di macacco 3 Questa poi me la paghi, muso di macacco
puttana 3 Domando io se è il modo di mandare a puttane il mulo
scimmia 3 mia sorella, quella scimmia,
stupido 2  però il piantone è uno stupido e gli dà ai nervi
brutto muso 2 Brutto muso, – gli fa Giraffa, amichevole.
terrone 2 quei quattro cognati «terroni» combattono per non essere più dei «terroni», poveri emigrati, guardati come estranei.
fottuto 1 Sei un fenomeno, Lupo Rosso, mondo cane, – fa Pin, – però sei anche un fottuto a lasciarmi lì mentre m’avevi dato la parola d’onore.
rubagalline 1 tu e quel rubagalline del tuo padrone!
materasso 1 Tu e quel materasso di tua sorella!
mangiasapone 1 Garibaldi ci ha portato il sapone e i tuoi paesani se lo son mangiato. Mangiasapone
cretino 1 E le toccai il nasino – e lei disse brutto cretino
sbirro 1 quel carabiniere combatte per non sentirsi più carabiniere, sbirro alle costole dei suoi simili. 

Termini escrementizi (2)

piscia/pisciare 9 Nelle vene non mi scorre più del sangue, ma del piscio giallo
cacca/cacare 4 sporco sulle spalle di cacca di falchetto,

Termini colloquiali (4)

bordello 1 senti gli sputafuoco che bordello?
balle 2 le cose sono sicure o sono «balle», non ci sono zone ambigue ed oscure per loro
culo 1 Io vi spacchi i corni, io vi sfondi i culi…

 

strafottere 1 Me ne strafotto di tutte le vostre armi!

 

Le parolacce come musica

Avendo utilizzato a piene mani il turpiloquio nella sua prima opera, Calvino non ha mai avuto un atteggiamento snob o moralista verso le parolacce. Anzi, ne ha fatto oggetto anche di una riflessione molto acuta in un articolo del 1978 (uscito in origine sul “Corriere della sera”, poi raccolto nel saggio “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società”). Nonostante siano passati 46 anni, è un’analisi ancora attuale. Calvino afferma che le espressioni triviali hanno un “insostituibile valore” per tre motivi.

Primo: hanno una forza espressiva ineguagliabile, dovuta alle loro connotazioni negative. Le parolacce sono «una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso, parlato o scritto», e la loro espressività è data proprio dal fatto che sono «regressive, fallocentriche o misogine». Inutile tentare di addolcirle, come ricordo spesso: le parolacce nascono come colpi sotto la cintura ed è ingenuo pensare di attenuarle.
Il disprezzo per il sesso che molte espressioni sottendono «ha un senso marcatamente conservatore d’affermazione di superiorità su un mondo inferiore. Prova ne è che il turpiloquio non ha mai liberato nessuno. Direi che, spesso, è vero il contrario».

Ma, per avere questi effetti espressivi, le parole oscene «vanno usate al momento giusto» perché «sono esposte più delle altre a un’usura espressiva e semantica, e in questo senso credo ci si debba preoccupare di difenderle: difenderle dall’uso pigro, svogliato, indifferente. Naturalmente, senza tenerle sotto una campana di vetro, o in un “Parco Nazionale”, come preziosi stambecchi verbali: bisogna che vivano e circolino in un “habitat” congeniale. La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce “cazzo” merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti. Anche nelle altre lingue europee mi pare che le voci equivalenti siano tutte più pallide. Va dunque rispettata, facendone un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra».

Insomma, il turpiloquio è un ventaglio di espressioni a cui dobbiamo ricorrere in quanto «riserva di creatività, non in quanto repertorio di voci infiacchite. La grande civiltà dell’ingiuria, dell’aggressione verbale oggi si è ridotta a ripetizione di stereotipi mediocri. Giustamente ha osservato un linguista che dire “inintelligente” è molto più offensivo che dire “stronzo”». L’osservazione vale a maggior ragione oggi, epoca di grande inflazione delle parolacce in diversi contesti: non solo cinema, radio, giornali e tv, ma anche (e soprattutto) Internet. Anche quando si vuole attaccare una persona o un’idea, si utilizzano le solite espressioni logore, senza fantasia.

Secondo: i termini osceni sono le migliori espressioni se si vuole avere un effetto “denotativo diretto”. Per designare quell’organo o quell’atto meglio usare la parola più semplice, quando si intende parlare davvero di quell’organo o di quell’atto. Le parolacce, insomma, servono a chiamare le cose con il loro nome, sono il linguaggio più diretto. Ma con un’avvertenza, purtroppo non approfondita da Calvino: «la trasparenza semantica di una parola è inversamente proporzionale alla sua connotazione espressiva». Tradotto, significa: se una parola è molto ricca di sfumature emotive di significato, diventa una parola oscura. Un esempio? La parola “cazzo” che, quando non designa l’organo sessuale maschile è usata come sinonimo di nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Finisce così per significare tutto e il contrario di tutto.

Terzo valore delle parolacce: sono una forma di posizionamento sociale. «L’uso di parole oscene in un discorso pubblico (per esempio politico) sta a indicare che non si accetta una divisione di linguaggio privato e linguaggio pubblico. Per quanto comprenda e anche condivida queste intenzioni, mi sembra che il risultato di solito sia un adeguamento allo sbracamento generale, e non un approfondimento e uno svelamento di verità. Credo poco alle virtù del “parlare francamente”: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. È solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose diffidando dalle espressioni correnti che si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio».

Il che è ancor più valido nella nostra epoca in cui i politici di ogni schieramento, da Bossi in poi, hanno fatto del turpiloquio uno degli aspetti costanti della comunicazione: tutti fanno a gara per apparire informali nel linguaggio e nell’abbigliamento, mentre i contenuti politici passano in ombra.

Le guerre e i traduttori di insulti

Calvino torna sulle parolacce anche in una sua opera matura, uno dei suoi capolavori: “Il cavaliere inesistente” (1959). Il romanzo è ambientato all’epoca di Carlo Magno, immaginato a scontrarsi con i Mori, ossia gli islamici. Nel primo scontro fra i due eserciti, Calvino scrive che, nelle prime fasi, quando i nemici entrano in contatto fra loro per la prima volta, vi sia un’armata di interpreti che traducono gli insulti pronunciati in arabo, spagnolo e francese.

Cominciavano i duelli, ma già il suolo essendo ingombro di carcasse e cadaveri, ci si muoveva a fatica, e dove non potevano arrivarsi, si sfogavano a insulti. Lì era decisivo il grado e l’intensità dell’insulto, perché a seconda se era offesa mortale, sanguinosa, insostenibile, media o leggera, si esigevano diverse riparazioni o anche odî implacabili che venivano tramandati ai discendenti. Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario. 

– Khar as-Sus! – Escremento di verme! 

– Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! Zabalkan! Merde! 

Questi interpreti, da una parte e dall’altra s’era tacitamente convenuto che non bisognava ammazzarli. Del resto filavano via veloci e in quella confusione se non era facile ammazzare un pesante guerriero montato su di un grosso cavallo che a mala pena poteva spostar le zampe tanto le aveva imbracate di corazze, figuriamoci questi saltapicchi. Ma si sa: la guerra è guerra, e ogni tanto qualcuno ci restava. E loro del resto, con la scusa che sapevano dire «figlio di puttana» in un paio di lingue, il loro tornaconto a rischiare ce lo dovevano avere. 

Una gustosa trovata narrativa, che ci ricorda un aspetto a cui di solito non pensiamo: gli insulti hanno effetto solo nella misura in cui c’è qualcuno che li riceve, li comprende e dà loro un peso. Altrimenti, sono solo fiato sprecato.

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La classifica dei giornali più volgari d’Italia https://www.parolacce.org/2023/04/14/parolacce-sui-giornali/ https://www.parolacce.org/2023/04/14/parolacce-sui-giornali/#respond Fri, 14 Apr 2023 08:11:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19763 Fino agli anni ’90, certe espressioni si leggevano solo sui giornali satirici, come “Cuore“, il “Vernacoliere” o “Il Male“. Ma negli ultimi anni le parolacce si sono diffuse anche su testate di altri generi: prima sui giornali politici d’opposizione, come… Continue Reading

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Prima pagina di Libero (2017): il titolo è giocato con un doppio senso volgare.

Fino agli anni ’90, certe espressioni si leggevano solo sui giornali satirici, come “Cuore“, il “Vernacoliere” o “Il Male“. Ma negli ultimi anni le parolacce si sono diffuse anche su testate di altri generi: prima sui giornali politici d’opposizione, come “La Padania“, “Il Giornale“, “Libero“. E oggi le parolacce si leggono quasi su ogni quotidiano, comprese le testate generaliste considerate più autorevoli, come il Corriere della sera, La Repubblica o Il Foglio. Eufemismi, asterischi, puntini di sospensione hanno ceduto il passo a un crudo realismo. Perché siamo arrivati fin qui? Quali sono i giornali italiani che pubblicano più parolacce nei loro articoli? E quali sono le espressioni volgari più usate?

Una società che monitora i media nazionali, Volocom, ha fatto un’interessante ricerca per rispondere a queste domande. Al netto delle imprecisioni linguistiche, lo studio – che parolacce.org ha ottenuto in versione integrale – offre interessanti spunti di riflessione. Segno dei tempi, dato che le espressioni scurrili sono sempre più usate soprattutto nella vita quotidiana, di cui – ricordiamolo – i giornali sono lo specchio. Basti ricordare che dal 2016 (governo Renzi) le ingiurie sono state depenalizzate. Un atto che ha sancito quanto il turpiloquio sia ormai considerato accettabile quasi ovunque: in una mia precedente ricerca ho scoperto che, rispetto agli anni ’90, oggi diciamo 2/3 in più di volgarità e 3 volte più spesso. Con il rischio che stiamo inflazionando il loro potere espressivo.

Il Web è più volgare della carta

Prima pagina del “Fatto quotidiano” con una parolaccia in apertura.

Per la ricerca, Volocom ha censito 38 espressioni scurrili. In ordine alfabetico sono le seguenti: bagascia, bastardo, battona, bocchino, cacasotto, cagacazzo, cagata, cazzo, cesso, checca, chiavata, coglione, cretino, culattone, deficiente, figa, frocio, imbecille, leccaculo, merda, mezzasega, mignotta, minchia, pippa, pirla, pompino, puttana, ricchione, rompipalle, scopata, sfigato, stronzata, stronzo, stupido, succhiacazzi, trombata, vaffanculo, zoccola. E’ un discreto campione, ma presenta alcuni limiti di cui parlerò più avanti. 

Nel 2022 queste 38 parole sono apparse 63.919 volte, con un aumento del 16% rispetto al 2021. Ciò significa che, sugli organi di stampa, le parolacce appaiono oltre 175 volte al giorno sulle principali testate italiane. Rispetto al 2021, il turpiloquio è aumentato del 10% sulla carta stampata e del 20% sul Web.

Un altro dato importante: le parolacce sono usate maggiormente sui giornali online (60,9%) rispetto a quelli di carta (39,1%). Per diversi motivi: innanzitutto, perché il Web è considerato un medium più colloquiale e diretto, che strizza l’occhio a un pubblico giovane e moderno (e per lo più maschile, dato che gli uomini dicono più volgarità delle donne). I giornali, per farsi leggere in un’epoca di generale sfiducia verso le istituzioni (“i giornaloni”) hanno iniziato a somigliare ai social media anche nel linguaggio informale.
Per converso, la carta stampata è considerata ancora un mezzo più autorevole o quantomeno più vincolato a regole formali.

Del resto, siamo abituati al fatto che sui social si dicono più parolacce rispetto a quante si pronunciano di persona: è l’effetto della CMC, computer mediated communication. Quando siamo nascosti da uno schermo ci sentiamo meno esposti direttamente, quindi più liberi di dire parolacce senza rischiare la faccia. 

Prima pagina de “La verità”: attacca la Annunziata per una parolaccia, ma usa una parolaccia (“balle”) in un titolo vicino (i cerchi sono miei).

Ma c’è anche un altro, e più determinante fattore che spinge a usare le parolacce: il fatto che funzionano come “acchiappa clic”. Le scurrilità fanno sempre audience, perché attirano l’attenzione, soprattutto dei navigatori in cerca di notizie piccanti. E più pubblico significa più introiti pubblicitari.

Gli analisti di Volocom sottolineano questa tendenza con un caso emblematico: «il “Corriere della Sera” nel 2022 ha pubblicato sul cartaceo 20 articoli dove compare la parola “cazzo”, mentre sul suo sito web le citazioni sono più del doppio. Stesso discorso per “Il Giornale”, che sul suo sito riporta la parola 89 volte contro le 38 dell’edizione cartacea».
In ambo i casi, comunque, gioca anche un’esigenza di realismo: oggi che siamo più abituati al linguaggio rude (presente al cinema, alla radio, in tv), possiamo permetterci di leggere una frase senza censure. Ulteriore segnale che le parolacce si stanno inflazionando. Al punto che spesso si crea un corto circuito mediatico altamente contraddittorio: la medesima testata può ospitare un editoriale perbenista sulla volgarità dilagante, e il giorno dopo sparare una scurrilità su un titolo a tutta pagina, in nome dell’audience

Le testate più sboccate: il buongiorno si vede dal… Mattino

Qual è la testata che pubblica più parolacce? Sorpresa: non è né “Libero” né “Il Giornale”, bensì “Il Mattino” edizione di Benevento: nel 2022 ne ha pubblicate 1.242, pari al 2% del totale. Spalmate su tutto l’anno, sono una media di oltre 3 al giorno.

Seguono “Il fatto quotidiano” con 560 parolacce, e a pari merito al terzo posto “Il foglio” e, per l’appunto, “Libero” entrambi con 488 espressioni. Dunque, a parte un quotidiano di cronaca, sono soprattutto le testate con un forte orientamento politico a utilizzare un linguaggio sboccato: “Il fatto quotidiano” è vicino al Movimento 5 stelle, mentre “Il foglio” e “Libero” sono più vicini al centro-destra. “La Repubblica”, vicina al centro-sinistra, con 352 espressioni manca il podio e si classifica al quarto posto. Una tendenza che avevo già rilevato in una mia precedente indagine storica. Non bisogna dimenticare infatti che – da Umberto Bossi a Beppe Grillo – i politici hanno imparato che le parolacce sono utili ad attirare l’attenzione, ad apparire più schietti e diretti.

Meno sorprese sulle testate Web: vince a mani basse “Dagospia” con 2.398 espressioni (più di 6 al giorno), seguito da Liberoquotidiano.it (616) e corriere.it (551). Dagospia, infatti, dedica molto spazio a notizie di gossip e di spettacolo, usando un linguaggio volutamente popolare e immagini piccanti. Sorprende invece la presenza sul podio di un quotidiano blasonato e conservatore come il “Corriere della sera”: sul Web non censura le espressioni più forti, probabilmente per attrarre più pubblico e apparire al passo coi tempi. Basti dire che per scurrilità nel 2022 il “Corriere” ha superato “FanPage” e ilgiornale.it, entrambi con 518 parolacce. 

Le parolacce più usate

La ricerca ha identificato, nella lista dei 38 lemmi, quali sono i più usati: i primi 10 in classifica coprono quasi il 70% delle espressioni censite.

parolaccia % sul totale testata cartacea che la usa di più testata online che la usa di più
stupido 21,5% Libero Informazione.it
merda 14% Il fatto quotidiano Dagospia
cazzo 11,6% Il fatto quotidiano Dagospia
cretino 6,6% Il foglio Informazione.it
cesso 6,5% Quotidiano del Sud (Cosenza) Informazione.it
bastardo 5,3% Corriere dell’Umbria Informazione.it
imbecille 4,3% Libero Informazione.it
puttana 4,3% La Repubblica Informazione.it
stronzo 3,1% Il fatto quotidiano Dagospia
sfigato 2,8% Il Mattino della domenica Informazione.it

Dunque, “stupido” è l’insulto più usato, in un caso su 5. Non è uno dei più pesanti: nei primi 10 posti appaiono epiteti come “puttana” e “stronzo”, che in una mia precedente indagine (il volgarometro)  sono risultate fra le parole più offensive in italiano. Significativo che siano state usate di più da due quotidiani a diffusione nazionale come La Repubblica e Il fatto quotidiano.  

Da notare che “cazzo” – la parolaccia più usata nell’italiano parlato (come avevo riscontrato in una mia recente indagine) – sui giornali risulta invece al 3° posto, superata da “stupido” e “merda”.

Sui giornali, quindi, si usano espressioni diverse rispetto al parlato: nelle prime 10 posizioni figurano espressioni che nell’italiano parlato si usano meno, come cretino (22° nel parlato), cesso (19°), bastardo (15°), imbecille (26°), puttana (20°). 

Per quanto riguarda i termini più grevi, salta all’occhio che siano stati usati da testate autorevoli: bocchino (più usato da “Il foglio”), cagacazzo (“Alto Adige”), figa (“Il fatto quotidiano”), vaffanculo (“Il fatto quotidiano”), stronzo (“Il fatto quotidiano”), coglione (“Il fatto quotidiano”), scopata (“Il fatto quotidiano”), succhiacazzi (“Il fatto quotidiano”), culattone (“La stampa”). Dunque, “Il fatto quotidiano” risulta essere il giornale cartaceo che usa il turpiloquio con maggior disinvoltura, almeno per quanto riguarda le espressioni più forti.

Da segnalare, infine, che la categoria degli insulti generici (coglione, stronzo, bastardo, imbecille, deficiente, cretino, rompipalle, stupido…) è quella più rappresentata: quasi una parolaccia su 3 rientra in questa categoria.

I contesti delle parolacce

Prima pagina de “Il Giornale” con un epiteto volgare e sessista sull’ex cancelliera Merkel.

L’analisi di Volocom non ha rilevato in quale senso siano state usate le parolacce censite: l’analisi si è limitata a censire le espressioni scurrili senza approfondire in quale contesto e in quale significato fossero usate. Un indizio sul loro uso arriva però dalla sezione dei giornali in cui sono apparse: quasi sempre sulle pagine della cultura e degli spettacoli: quelle in cui si raccontano le cronache della tv, dei libri, del cinema, tutti contesti dove le volgarità sono presenti in modo rilevante. Per raccontare la cronaca di una rissa in tv, ad esempio, si devono riferire fra virgolette gli improperi utilizzati dai protagonisti.

Fanno però eccezione gli insulti generici: appaiono di più, oltre che nelle pagine degli spettacoli, in quelle della politica. Perché come ben sappiamo i nostri politici si combattono più a suon di insulti che di argomentazioni razionali. D’altronde, come raccontavo in questo articolo, varie ricerche hanno mostrato che l’uso del turpiloquio in politica per lo più paga.

I limiti della ricerca

La ricerca, pur molto interessante, presenta alcuni limiti che è doveroso segnalare.

  1. la scelta dei lemmi scurrili: lo studio non indica con quali criteri siano stati scelti i 38 della lista. Sarebbe stato più sensato censire i termini scurrili più frequenti nell’italiano parlato (vedi qui), Ad esempio l’indagine ha trascurato termini molto utilizzati come culo,  porco, cagare (ci sono però cagata, cagasotto e cagacazzo), incazzare,  troia, fottere, figata, tette, sega, baldracca, terrone, cornuto, negroE ancor più completo sarebbe stato inserire le oltre 300 parolacce del nostro vocabolario elencate nel mio libro.
  2. la categorizzazione delle parole scurrili: è stata fatta in modo linguisticamente scorretto.  Gli analisti di Volocom hanno utilizzato un criterio etimologico, non sempre corretto, fra l’altro: ad esempio, “mezzasega” è classificato come insulto generico mentre invece è un insulto sessista. Poco senso ha scorporare in una categoria a parte le espressioni dialettali (pirla, minchia, pippa) che sono usate in realtà come insulti. E “succhiacazzi” catalogato come insulto omofobo, può essere usato anche come insulto sessista. Insomma, avrebbe avuto più senso utilizzare un criterio semantico e funzionale: le parolacce andavano catalogate a seconda del significato che avevano all’interno delle frasi. Solo così si può capire se la parola “cazzo” – dal punto di vista etimologico, un’oscenità sessuale – sia stata usata come insulto (“testa di cazzo”), come imprecazione (“Cazzo!”) o come enfasi (“Che cazzo vuoi?”). Senza dubbio questa impostazione avrebbe comportato uno sforzo di analisi ben maggiore.
  3. non è specificata la consistenza del campione: quante testate cartacee sono state censite? Quante testate online? Qual è il totale degli articoli esaminati? E il totale delle parole censite? La risposta a quest’ultima domanda sarebbe stata molto interessante perché avrebbe permesso di calcolare la frequenza d’uso delle volgarità.
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70 anni di censure del…. biiip! https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/ https://www.parolacce.org/2022/09/13/beep-radio-tv/#respond Tue, 13 Sep 2022 11:00:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19392 E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita.… Continue Reading

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E’ la foglia di fico (sonora) che copre gli insulti più pesanti, salvando da multe salate le trasmissioni radio e tv. Si chiama “bleep censor” (bip censorio) e – in varie forme – ha già quasi 70 anni di vita. Ha ancora senso questo sistema di censura? Negli Stati Uniti sembra destinato a finire in soffitta, mentre in Italia è un sistema ancora molto usato da trasmissioni come “Striscia la notizia” o “Le iene”.
Durante la sua lunga storia, che qui vi racconto, da strumento di repressione delle parolacce sta oggi diventando un loro involontario amplificatore. Una parabola che i suoi inventori, negli Stati Uniti, non avrebbero mai potuto immaginare.

La nascita: le radio americane

Studio radiofonico statunitense in una foto d’epoca

La censura nasce insieme alle prime radio private, subito dopo la prima guerra mondiale.  Il Congresso aveva posto fine al monopolio che la Marina aveva sulle trasmissioni radio. Ma il governo manteneva comunque un controllo severo sui programmi: mandare in onda contenuti offensivi poteva costare la revoca della licenza. Così quando radio WOR di New York, nel 1924, ospitò l’attrice e cantante Olga Petrova – nota per le sue posizioni a favore del controllo delle nascite – i tecnici della radio erano pronti a spegnere il microfono al primo sentore di contenuti scottanti. E così fecero: mentre l’attrice parlava, la luce rossa della messa in onda si spense. Al suo posto, la regia  mandò in onda per qualche minuto un brano musicale.
Decenni dopo fu inventato un sistema di censura più raffinato. Nel 1952 l’emittente radio WKAP di Allentown, in Pennsylvania, decise di avviare un programma “Open mic” (microfono aperto), mandando in onda le telefonate degli ascoltatori. Ma le leggi dell’epoca vietavano di trasmettere conversazioni telefoniche in diretta. Così un ingegnere della radio, Frank Cordaro, inventò un sistema per aggirare il divieto e al tempo stesso non rischiare di trasmettere contenuti inaccettabili: l’uso di due registratori a nastro distanziati di 3 metri l’uno dall’altro. Il primo registrava la trasmissione in onda, il secondo la riproduceva su una bobina di riavvolgimento: in questo modo si avevano 7 secondi di ritardo sulla diretta, sufficienti per cancellare eventuali frasi offensive.
Un sistema simile fu usato da Long John Nebel che nel 1954 conduceva “Party line”, un programma notturno su radio WOR: parlava di ufo, fantasmi, complotti e altri argomenti controversi interagendo con gli ascoltatori al telefono. Il sistema della doppia bobina gli permetteva di stoppare le chiamate offensive o di cancellare le parole inopportune.
Dopo qualche tempo i tecnici radiofonici
iniziarono a utilizzare un oscillatore, un’apparecchiatura del banco regia che genera suoni di prova ad alta frequenza (1000 Hz). Un fischio insopportabile. Un modo per coprire una frase offensiva senza lasciare muto il canale. Una censura, insomma: l’equivalente sonoro di una fascia nera su un’immagine o dei segni tipografici (@#§) negli scritti (e ci sono anche i pittogrammi dei fumetti, di cui ho parlato qui). 

L’arrivo in tv (e le invettive di Sgarbi)

Eventide BD600: dispositivo digitale capace di ritardare una trasmissione di qualche secondo

Oggi lo stesso risultato si riesce a fare con strumenti digitali, come quello nella foto a lato, capace di ritardare di alcuni secondi una diretta per consentire ai tecnici radiofonici di inserire i “beep” quando occorra. E non è l’unico ritrovato in questo campo: Apple, ad esempio, sta lavorando da diverso tempo a una nuova tecnologia in grado di eliminare automaticamente parole e frasi volgari da tutte le canzoni presenti sui propri dispositivi.
Lo stratagemma è poi approdato in tv: nel 1966 un’emittente di Los Angeles trasmise, nello show “Therapy”, le sedute di psicoterapia di gruppo con adolescenti, infarcite di parolacce (bippate).
In Italia, uno dei primi esempi dell’uso di bip censorio in tv fu “Sgarbi quotidiani” su Canale 5: nel 1993, volendo contestare la riforma dell’immunità parlamentare, Vittorio Sgarbi attaccò l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; ma, per non incorrere nel reato di vilipendio alla massima carica dello Stato, le sue invettive furono censurate (col suo accordo) con 7 secondi di “biip”.

L’esordio nella pubblicità e nella comicità

Con il passare del tempo, il “biip” ha assunto nuove funzioni, oltre a quella di censurare. E’ stato usato in alcune pubblicità per dare un effetto realistico e simpatico, come lo spot della salsa piccante Red Hot di Frank, con lo slogan “Metto quella merda (biip) su tutto”. in questo spot, la frase è pronunciata da una cameriera alla (finta) regina d’Inghilterra:

D’altronde, si sa: proibire (o nascondere) qualcosa significa renderlo ancora più significativo. E così i censori spesso rischiano, con i beep, di rendere ancor più evidenti le trasgressioni linguistiche: tutti possono facilmente immaginare quali espressioni sono coperte dai segnali acustici. Tanto che i Monty Python, gruppo comico britannico, già nel 1987 hanno scritto una canzone intitolata “I Bet You They Won’t Play This Song On The Radio” (“Scommetto che non trasmetteranno questa canzone alla radio”): il testo è pieno di allusioni volgari, coperte da vari suoni (fischi, campanelli, trombette, clacson, urla, pernacchie), con un effetto molto divertente. Qui sotto riporto il testo con traduzione e il video:

I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they won’t play this new ### song.

It’s not that it’s ### or ### controversial

just that the ### words are awfully strong.

You can’t say ### on the radio,

or ### or ### or ###

You can’t even say I’d like to ### you someday

unless you’re a doctor with a very large. ###

So I bet you they won’t play this song on the radio.

I bet you they damn ### wellprogram it.

I bet you ### their program directors who think it’s a load of horse ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che non suoneranno questa nuova canzone di ###.

Non è che ###  o ###  sia controverso

solo che quelle ###  di parole sono terribilmente forti.

Non si può dire ### alla radio,

O ### O ### O ###

Non puoi nemmeno dire che un giorno mi piacerebbe ### te

a meno che tu non sia un medico con un grande ###.

Scommetto che non suoneranno questa canzone alla radio.

Scommetto che lo programmeranno alla ###.

Scommetto che i loro ###  di direttori di programma pensano che sia un gran carico di ###  di cavallo.

Le contraddizioni del bip

Il conduttore radiofonico Howard Stern

Ed è la comicità di questa canzone a far comprendere la contraddittorietà del beep, che, proprio mentre tenta di eliminare un contenuto scabroso, lo rende ancora più evidente. Non è l’unica contraddizione. Come tutte le censure, il biip limita la libertà di espressione garantita da tutte le democrazie occidentali. Nel 2002 lo scrittore Stephen King, parlando delle trasmissioni radiofoniche molto provocatorie di Howard Stern, disse: “Se dice cose che non ti piacciono, che ti offendono, allunghi la mano e spegni la radio. Non hai bisogno di un politico nel tuo soggiorno per dire che devi mettere un cerotto sulla bocca di quel ragazzo”. Stern, per inciso, durante la sua carriera ha collezionato ammende per un totale di 2.5 milioni di dollari per oscenità e volgarità, un record.

Ma nessun Paese si affida alla sola libertà degli ascoltatori. Perché le parolacce sono materiale esplosivo: parlano di argomenti delicati (sesso, differenze etniche, malattie, potere economico, religione) in modo offensivo e svilente. Soprattutto se arrivano alle orecchie dei bambini, che devono ancora formarsi una coscienza critica. Anche se, bisogna ricordarlo, ci sono parolacce e parolacce (e diversi modi di dirle) e non tutte sono necessariamente dannose: sulla questione ho già scritto un approfondimento qui.

Le pene: multe fino a 600mila euro e sospensioni

Già dal 1927 negli Usa le trasmissioni radio (e poi quelle televisive) erano controllate dalla Federal radio commission – oggi Federal Communication Commission – che comminava sanzioni pesanti a chi metteva in onda oscenità. E questo succede anche in Italia.
La norma oggi in vigore è
il decreto legislativo 208 (testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi) del 2021. Prevede che  nelle fasce d’ascolto riservate ai minori (in particolare dalle ore 16 alle ore 19) non si trasmettano contenuti “nocivi allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori, e, in  particolare,  i programmi che presentano scene di violenza  gratuita  o  insistita  o efferata ovvero scene pornografiche”. Le trasmissioni non devono evocare “discriminazioni di  razza, sesso e nazionalità” né offendere “convinzioni religiose o ideali”. E i film vietati ai minori di 14 anni non possono essere trasmessi prima delle ore 23 e dopo le ore 7. Le pene sono pesanti: multe da  30mila a 600mila euro, e, nei casi più gravi, la sospensione dell’efficacia della concessione o dell’autorizzazione a trasmettere programmi per un periodo da 7 a 180 giorni. Queste sanzioni spiegano perché i responsabili dei canali si prendano la briga di usare il bip censorio.

I conduttori dello “Zoo di 105”

Ne sa qualcosa Radio 105, che nel 2021 ha ricevuto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni una sanzione di 62.500 euro per “continue allusioni sessuali marcate dal morboso, offese al sentimento religioso, ricorso gratuito a volgarità e turpiloquio, utilizzo di epiteti, con accezione dispregiativa e denigratoria, per designare le persone omosessuali”. E questo per sole due puntate di “Lo zoo di 105” trasmesse il 26 ottobre e 11 dicembre 2020 dalle ore 14 alle ore 16, in piena fascia protetta. Se avessero usato il bip, avrebbero evitato la multa. Ma probabilmente il programma sarebbe stato un fischio unico, intervallato da poche frasi.

Insomma, il biip censorio mette a nudo il difficile equilibrio fra lecito e illecito, libertà e censura. “Il segnale acustico” dice la scrittrice americana Maria Bustillos, “rivela una verità nascosta: il Super-Io, la coscienza morale che soffoca un impulso indegno. Una lotta che si svolge costantemente sotto la superficie in apparenza tranquilla della vita quotidiana. Il biip richiama l’attenzione su una divergenza di opinioni riguardante l’offensività di una frase. Prima era un fatto inconsapevole, ora lo è. Il “biip” è il rumore di una comunità impegnata nel processo di definizione dei valori, e che lotta per capire se stessa”.

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Ucraina, quando la guerra si fa a parole https://www.parolacce.org/2022/03/19/parolacce-resistenza-ucraina/ https://www.parolacce.org/2022/03/19/parolacce-resistenza-ucraina/#respond Sat, 19 Mar 2022 10:05:49 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19178 Non solo bombe e proiettili. Nel conflitto con i russi, gli ucraini hanno sfoderato un’arma in più: gli insulti. Dai francobolli alle molotov, fino ai cartelli stradali e alle manifestazioni di protesta, la resistenza si è affidata alle parolacce, nella… Continue Reading

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Francobollo proposto alle Poste ucraine per celebrare la resistenza anti russa.

Non solo bombe e proiettili. Nel conflitto con i russi, gli ucraini hanno sfoderato un’arma in più: gli insulti. Dai francobolli alle molotov, fino ai cartelli stradali e alle manifestazioni di protesta, la resistenza si è affidata alle parolacce, nella convinzione che “la lingua uccide più della spada”.
Insultare un nemico, infatti, è un modo per manifestare disprezzo, senso di superiorità, coraggio. Ed è una valvola di sfogo della rabbia, della paura e della frustrazione. E così anche in Ucraina  le parolacce sono entrate nelle manifestazioni di protesta, negli atti di resistenza, nella propaganda.

“Fanculo la leva”: manifesto anti guerra in Vietnam di Kiyoshi Kuromiya (1968)

Uno scenario che ricorda la Guerra in Vietnam, dove per la prima volta le parole scurrili fecero irruzione nelle manifestazioni di protesta dei giovani alla fine degli anni ‘60: anche i pacifisti, insomma, impararono a usare le parole più bellicose per esprimere la loro totale avversione alla guerra.

La guerra, infatti, è da sempre teatro di violenze anche verbali, come racconto nel mio libro. Ed è anche il linguaggio della sincerità: i conflitti mettono a nudo la cruda verità della violenza e della lotta per la sopravvivenza. C’è una parola russa che accomuna gli sfoghi degli ucraini e dei russi: “pizdets”. Originariamente significa “vulva”, ma oggi indica una situazione difficile, caotica, senza via d’uscita: può essere tradotta come “un gran casino”, “un troiaio”, “essere nella merda”. E’ l’espressione più usata al fronte per descrivere la terribile situazione in Ucraina oggi. Ed esprime, paradossalmente, la vicinanza linguistica e di destino fra i due popoli che si affrontano.

Ho raccolto alcuni di questi episodi raccontati dalle cronache, nella convinzione che una guerra combattuta con le parole è meglio (o meno peggio) di quella a colpi di kalashnikov: orrenda e sbagliata per tutti, sempre e comunque. Se le controversie fra le nazioni potessero risolversi con un duello a colpi di insulti, invece che di mortai – come fanno i rapper con le battaglie freestyle, il “battle rap” – il mondo sarebbe un posto migliore.

FRANCOBOLLI

Uno dei francobolli proposti: “Nave russa, vai a farti fottere!” dice la scritta. E sotto: Isola Zmiinyi, gloria agli eroi

Dopo che la Russia ha invaso il Paese, all’inizio di marzo le Poste ucraine (Ukrposhta) ha indetto un concorso per disegnare un francobollo che illustrasse “la determinazione degli ucraini a difendere la loro terra”. Le Poste hanno ricevuto 500 disegni, tra i quali hanno selezionato 20 finalisti: gran parte di questi ha riprodotto un episodio accaduto il 24 febbraio, quando una nave da guerra russa ha minacciato 13 guardie di frontiera ucraine che proteggevano l’Isola dei serpenti (Zmiinyi), nel Mar Nero, nella regione di Odessa. La nave, via radio, ha intimato per due volte ai soldati ucraini di arrendersi: «Siamo una nave da guerra russa. Propongo di deporre le armi e di arrendersi per evitare spargimenti di sangue e vittime ingiustificate. Altrimenti sarete bombardati». Ma la risposta dei militari ucraini è stata sorprendente: «Nave da guerra russa, vai a farti fottere». Qui l’audio dello scambio:

“Nave militare russa, vai a farti fottere”

Alla fine, ovviamente, le guardie hanno avuto la peggio e sono state catturate (inizialmente si pensava fossero morte).  Le Poste sono soddisfatte: «il nostro concorso è diventato una forma di arte terapia. E ora cercheremo di stampare questi nuovi francobolli».

CARTELLI

Il ministero dell’Interno ucraino ha chiesto ai residenti di rimuovere i segnali stradali per confondere le truppe russe in arrivo. Gli enti amministrativi delle strade hanno confezionato un cartello stradale di divieto barrato, con la faccia del presidente russo Putin, e l’hanno installato sulle principali arterie di collegamento.

In una delle strade principali di Kiev un cartello dice: “Soldati russi, andate affanculo” (nella foto).

MOLOTOV

Le birre con l’effigie di Putin (sotto, l’etichetta) usate come molotov

La fabbrica di birra Pravda, con sede a Lviv, in Ucraina, ha sospeso le sue operazioni di produzione della birra: ora sta preparando bottiglie molotov per i residenti da usare contro le forze russe. E a questo scopo utilizzano una particolare birra prodotta dal 2016, la “Putin huilo”, che significa “Putin testa di cazzo”: l’etichetta raffigura il presidente Putin nudo, che tiene sulle ginocchia Dmitrij Medvedev (all’epoca primo ministro), con riferimenti ai rapporti tra Russia e Ucraina, alla Crisi della Crimea del 2014 e lo sfruttamento petrolifero.
L’iniziativa ricalca – in modo più rudimentale – la tradizione, iniziata nella seconda guerra mondiale, di apporre col gesso delle scritte sulle bombe prima di lanciarle sugli obiettivi:
 i piloti di caccia americani scrivevano messaggi come “Happy Xmas Adolph” (Buon natale, Adolf) sui lati degli ordigni.

 

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Mozart e le parolacce musicali https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/ https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/#comments Thu, 27 Jan 2022 09:33:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19027 L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante… Continue Reading

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Celebre ritratto (postumo) di Mozart: fu dipinto nel 1819.

L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante della sua personalità. Ne parlo qui in occasione del 266° anniversario della sua nascita a Salisburgo il 27 gennaio 1756.

Questo aspetto scabroso del compositore austriaco è noto da relativamente pochi anni: per secoli, le parolacce di Mozart sono state un segreto sussurrato fra gli studiosi, che non volevano rovinare la sua memoria con la macchia dell’oscenità. Le sue lettere alla cugina Anna Maria Thekla, ai parenti e agli amici sono zeppe infatti di espressioni scurrili: «Stronzo! – – merda! – – cacca! – o dolce parola! – cacca! – pappa! – anche bello! – cacca, pappa! – cacca, lecca – o charmante! – cacca, lecca! – mi piace! – cacca, pappa, lecca! – pappacacca, e leccacacca!»,  scriveva alla cugina nel 1778.

Ma l’epistolario di Mozart non è l’unico documento della sua propensione al linguaggio volgare. Accanto al “Flauto magico o al “Requiem” Mozart compose infatti anche alcuni canti licenziosi. Partirò da questi ultimi perché offrono una chiave più diretta per entrare nella sua mentalità.

“Leccami nel culo” e lo scherzo al baritono

Nell’immenso catalogo delle sue composizioni, infatti, figurano anche 4 canoni licenziosi composti fra il 1782 e il 1788, quando Mozart aveva fra 26 e 32 anni. I canoni sono composizioni per sole voci (a cappella) basate sul contrappunto, una combinazione di più linee melodiche. Il canone era considerato la più erudita delle tecniche compositive: come ha osservato lo storico Michael Quinn, «Mozart chiaramente si divertiva dell’incongruenza risultante dai versi scurrili all’interno di un canone». Dunque, un’operazione culturale goliardica: nulla a che vedere con la coprolalia, che nella sindrome di Tourette è invece un tic incontrollabile.

Un cd che raccoglie i canoni licenziosi di Mozart

Il primo di questi canoni si intitola Leck mich im Arsch (K. 231), in si bemolle maggiore, per sei voci. Il titolo è stato tradotto con “Leccami il culo”, ma è una traduzione imprecisa. Letteralmente l’espressione significa “Leccami nel culo”: è un beffardo modo di dire tedesco che ha lo stesso significato irridente di “suca” (me ne infischio di te, non vali nulla).
La moglie di Mozart, Constanze, inviò i manoscritti dei canoni alla casa editrice Breitkopf & Härtel nel 1799 per pubblicarli. Ma l’editore censurò il titolo, cambiandolo in Lasst froh uns sein (Gioiamo), sulla falsariga del tradizionale canto natalizio tedesco Lasst uns froh und munter sein.
La versione originale, senza censura, fu scoperta nel 1991 nella biblioteca di musica dell’università di Harvard. Ecco il testo: «Leccami nel culo Gioiamo! Brontolare è inutile! Ringhiare, ronzare è inutile è la vera disgrazia della vita, Ronzare è inutile, Ringhiare, ronzare è inutile! Perciò siamo felici e contenti, felici!».

Il secondo canone umoristico è Difficile lectu (K 559), brano in fa maggiore per 3 voci. Il testo è in latino, anche se non ha alcun senso compiuto: Difficile lectu mihi mars et jonicu difficileQuesto canone era nato per fare uno scherzo al baritono Johann Nepomuk Peyerl (1761-1800), che aveva un forte accento bavarese: cantato da lui, il verso lectu mihi mars, sarebbe sembrato leck du mich im Arsch, ossia leccami nel culo. La parola jonicu, invece, ripetuta all’infinito, avrebbe dato il suono cujoni, ovvero coglioni. Potete sentirlo distintamente nel video qui sotto, che riproduce l’esecuzione (molto divertente) del brano, ascoltare per credere, dal 30” in poi:  

I documenti dell’epoca riportano che Mozart fece eseguire il canone a Peyerl, che non si accorse del trabocchetto. Così, alla fine dell’esibizione Mozart e altri amici intonarono un terzo canone, il K. 560a, scritto sul retro dello spartito: O du eselhafter Peierl (Oh, asinesco d’un Peierl!). «Oh asino d’un Peierl! Oh Peierlesco asino! Sei pigro come un cavallo, senza muso né garretti. Con te non c’è rimedio; ti vedo già penzolar dalla forca. Stupido cavallo, sei un pigrone, stupido Peierl, sei pigro come un cavallo.Oh caro amico, ti prego oh baciami nel culo, svelto! Ah, caro amico, perdonami, però ti sigillo il culo. Peierl! Nepomuk! Perdonami!».

Il quarto canone licenzioso è Bona nox (K. 561), in la maggiore, per quattro voci. Ecco il testo, che in tedesco è tutto in rima: «Bona nox! Sei proprio un vero bue; Buona notte, cara Lotte; Bonne nuit, pfui, pfui; Good night, good night, abbiamo ancora molta strada da fare domani; gute Nacht, gute Nacht, caga nel letto, [fa’] che scoppi; Buona notte, dormi bene e porgi il culo alla bocca». Il testo, opportunamente ammorbidito nel finale (“dormi, mia cara, dolcemente, dormi in pace, Buona notte! dormite bene, finché non si farà giorno!”) è entrato nel repertorio dei canti tradizionali tedeschi.

Le lettere alla cugina

La copertina della corrispondenza di Mozart con la cugina Maria Anna.

Come ricordavo nell’introduzione, le lettere scritte da Mozart ebbero lo stesso destino dei canoni: furono censurate. Vennero a galla timidamente all’inizio del secolo scorso, quando  lo scrittore Stefan Zweig mandò in via del tutto riservata a Sigmund Freud le lettere che Mozart aveva scritto alla cugina Maria Anna Thekla, ai parenti e agli amici. 

L’epistolario di Mozart è infarcito di espressioni volgari e Zweig voleva sapere che cosa ne pensasse il fondatore della psicoanalisi. Così, dopo aver notato la grande profusione di termini escrementizi, concluse che Mozart era affetto da “immaturità psichica”, rimasta ancorata alla sfera anale. Prendiamo un brano di una lettera scritta il 28 febbraio 1778:

«Ero certo che non poteva resistermi più a lungo. Sì, sì, del fatto mio sono sicuro, dovessi ancor oggi fare uno stronzo duro, pur se tra due settimane sarò a Parigi, glielo giuro. Se dunque lei mi vuole dar risposta dalla città di Augusta con la posta, presto allora mi scriva, così la lettera arriva, ché altrimenti se sono già partito invece della lettera ricevo uno stronzo rinsecchito»..

Eppure, nonostante le apparenze, l’interpretazione di Freud, per quanto suggestiva, non coglie le motivazioni più determinanti del turpiloquio del musicista, come ha mostrato – nel 1991 – il sociologo Norbert Elias nel libro “Mozart, sociologia di un genio”.
I passi scabrosi nelle lettere del genio austriaco avevano in realtà un altro scopo: fare uno sberleffo al linguaggio formale e perbenista di corte. «Allocuzioni, fraseologia di circostanza, formule di saluto, arie d’opera, alessandrini – ogni lettera di Mozart alla cugina traspone puntualmente in parodia l’intero guardaroba del decoro di corte. Mozart critica i fossili linguistici dell’ancien régime, abbandonando impietosamente i loro vuoti meccanismi allo scherno» osserva Juliane Vogel, docente di letteratura tedesca all’Università di Costanza nel commento alle lettere pubblicate da Feltrinelli. «Nella scatologia (il gusto per le battute escrementizie) poté compiersi una socializzazione borghese rivolta contro le forme feudali» aggiunge.

Saluti e peti

L’operazione è evidente soprattutto nelle formule di saluto, riprese e variate fino alla nausea per far affiorare l’automatismo insito nel loro uso, il formalismo che le caratterizza:

  «e allora» scrive Mozart «le porgerò io stesso i miei complimenti di persona, le chiuderò il culo con della cera buona, le sue mani bacerò, con lo schioppo didietro sparerò, l’abbraccerò, un clistere davanti e dietro le farò, ciò di cui posso esserle debitore fino all’ultimo pagherò, un peto gagliardo risuonare farò, forse qualcos’altro cadere lascerò».

Lo spirito goliardico ravviva anche le frasi in cui Mozart racconta il suo presente, arricchite da rime e giochi di paroli assurdi:

«il martedì grasso l’ha festeggiato proprio bene. per farla breve, c’era, a circa 4 ore da qui, non ricordo più il luogo – – be’, un paese o qualcosa del genere; ecco, era una roba come Tribsterillo dove la merda in mare fa zampillo, oppure Burmesquica dove i buchi del culo storti vanno in gita; insomma, per farla corta, era un posto qualunque».

Wolfgang Codadisuino e lo spirito carnevalesco

Nelle lettere, il musicista prende giocosamente in giro anche se stesso:

«Ora devo raccontarle una triste storia che è accaduta in questo momento. Mentre sono tutto intento a scrivere la lettera, sento qualcosa fuori in strada. Smetto di scrivere – – mi alzo, vado alla finestra – – e – – non sento più niente – – mi risiedo, ricomincio a scrivere – – non ho scritto neanche 10 parole che sento di nuovo qualcosa – – mi rialzo – – come mi alzo sento ancora qualcosa, ma molto debole – – però c’è odor di bruciaticcio – – puzza, ovunque mi sposti. Se guardo fuori dalla finestra l’odore scompare, come guardo dentro, rieccolo – – finalmente la mamma mi dice: scommettiamo che ne hai mollato uno? – – non credo, mamma. Sì, sì, è proprio così. Faccio la prova, mi infilo il primo dito nel culo, poi annuso e – – ecce provatum est: la mamma aveva ragione. Ora mi stia bene, la bacio 10.000 volte e sono come sempre il vecchio giovane Codadisuino».

Disegno stilizzato di un angelo in una delle lettere di Mozart alla cugina (1780).

Questo nomignolo affibbiato a se stesso ci mette però su una pista importante: «”vecchio giovane Codadisuino” non è che uno dei molti nomi con cui il cosiddetto “ruolo comico” furoreggiava sulla scena del tempo, munito dei suoi lazzi e delle sue libere improvvisazioni. Egli appartiene alla schiera degli Arlecchino e degli Hanswurst, degli Scaramuccia e dei Fuchsmundi, personaggi che con i loro abiti rattoppati, i cappelli verdi e le giubbe bianche mettevano in discussione la gravità del teatro dell’epoca», osserva ancora la Vogel.

E’ questo lo spirito di Mozart: un giocherellone, un buffone pronto a mettere in ridicolo tutto e tutti, compreso se stesso. In questo, Mozart si inserisce nella tradizione popolare del carnevale, e del realismo grottesco in letteratura, nel quale «tutto è ricondotto agli organi genitali, al ventre e al deretano» scrive il critico letterario Michail Bachtin. E gli escrementi, in particolare, sono un elemento centrale perché simbolo di rinnovamento, fecondando la terra.

Le parolacce tedesche e il mistero Spunicuni

Mozart ritratto nel 1777 a Bologna: aveva 21 anni.

Pur avendo inserito nel giusto contesto storico l’epistolario di Mozart, gli studiosi rimangono perplessi su un punto: la propensione ossessiva per i temi intestinali. «Ostinatamente, a gesti o a parole, la celebrata socialità del Mezzogiorno di lingua tedesca ruota intorno al fulcro delle feci. Sia le lettere della famiglia Mozart che le testimonianze linguistiche della vita sociale del tempo documentano una preferenza, non del tutto comprensibile ai posteri, verso la tematica della digestione» dice ancora la studiosa.

A dire il vero, una ragione per spiegare questa preferenza c’è: il tedesco, pur essendo una lingua ricchissima di vocaboli, ha però un ventaglio ridotto di parolacce, basate molto più sulla sfera anale-escrementizia che su quella sessuale, come raccontavo in un precedente articolo. Non è colpa di Amadeus, insomma, se il suo repertorio scurrile era così limitato: il lessico tedesco non gli offriva molte alternative.
Dunque, il turpiloquio di Mozart è uno dei più ricchi di significati. Tanto da avere un mistero ancora aperto dopo 266 anni: che diavolo vuol dire l’espressione
spunicunifait?

Appare ad esempio in questo brano: «Apropós: come va col francese? – potrò scriverle presto una lettera tutta in francese? – da Parigi, no? – e mi dica, ha ancora lo spunicunifait? – lo credo bene». Lo Spunicunifait, è invocato tre volte nelle lettere alla cugina – scritto con le iniziali maiuscole o minuscole, unito o staccato: «la cui spiegazione è ancora da trovare. Che esso appartenga al vasto regno delle allusioni erotiche è fuori discussione».

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Quando la password non si può proprio dire https://www.parolacce.org/2021/11/22/parolacce-come-password/ https://www.parolacce.org/2021/11/22/parolacce-come-password/#comments Mon, 22 Nov 2021 18:00:18 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18927 Dite la verità: almeno una volta avete usato una parolaccia come password. Beh, siete in ottima compagnia: secondo una ricerca su 50 Paesi, fra le 200 password più usate nel mondo figurano anche 2 parolacce: fuckyou (fottiti, 56° posto, scelta… Continue Reading

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L’uso di parolacce come password è abbastanza diffuso.

Dite la verità: almeno una volta avete usato una parolaccia come password. Beh, siete in ottima compagnia: secondo una ricerca su 50 Paesi, fra le 200 password più usate nel mondo figurano anche 2 parolacce: fuckyou (fottiti, 56° posto, scelta da oltre un milione e mezzo di persone) e fuckyou1 (fottiti1, 131° posto, 853mila persone). Cosa succede in Italia? E qual è il Paese che ne usa di più?

La ricerca, fatta da NordPass, un servizio di gestione delle password,  ha esaminato oltre 275 milioni di parole d’ordine (275.699.516, per la precisione). Ed è interessante: la password è una chiave nascosta per accedere a diversi servizi su Internet. Ed è strettamente legata alla nostra identità: solo noi la conosciamo.
Guardare le password più usate è un viaggio nella fantasia (spesso scarsa: la parola d’ordine più diffusa, e la meno sicura, è 123456) e soprattutto nelle passioni nascoste delle persone: amici, familiari, amori (i nomi propri spopolano in tutte le lingue), squadre sportive (inter, juve), film (starwars, pokemon), cibi (chocolate), cantanti (eminem, onedirection), frasi fatte (ciaociao, Iloveyou) e così via.

Chi ne usa di più, chi ne usa di meno

“Dick” (cazzo) non è abbastanza duro (come parola d’ordine): campagna svedese per scoraggiare l’uso di parolacce come password.

Ma che cosa spinge a scegliere una parolaccia come password? La ricerca non lo dice, ma è facile intuirlo: è un invisibile sfogo verso l’ennesima richiesta di creare una password, un modo per ribellarsi senza troppi sforzi di fantasia. Gran parte delle espressioni usate, infatti, sono maledizioni (vaffanculo) o insulti (stronzo). Altre, invece, sembrano scelte più per una forma di trasgressione privata, usando termini escrementizi (cacca) o osceni (cazzo).  

Ma qual è la nazione che sceglie più parolacce come password? Ho fatto una ricerca, limitandomi alle 14 nazioni dove si parlano lingue che conosco: inglese (Usa, Regno Unito, Canada, Irlanda, Australia), portoghese (Portogallo, Brasile), spagnolo (Spagna, Cile, Colombia, Messico), francese (Francia, Svizzera), tedesco (Germania). Più l’Italia, ovviamente. Non è uno scenario completo (segnalazioni su altri Paesi saranno benvenute), ma tutto sommato abbastanza rilevante: e dunque, quali Paesi hanno usato più volgarità?
Iniziamo da quelli che non ne hanno utilizzata neppure una: sono Irlanda, Portogallo, Regno Unito e Francia.

La tua password è una merda: non è sicuro usarla.

Ma non è l’unica sorpresa. Il Paese dove se ne usano di più sono gli Stati Uniti, seguiti da Italia e Germania (che però ci supera per numero totale di utilizzatori). Il Canada è la nazione dove una parolaccia risulta fra le prime 25 password più scelte (fuckyou, al 23° posto assoluto).
Per quanto riguarda l’Italia, il primo dato è impressionante: oltre 213mila persone, nel campione esaminato, hanno scelto una parolaccia come password. La parolaccia più scelta è vaffanculo, seguita da una bestemmia (unico caso al mondo, per quanto ho verificato); seguono cazzo, cazzone e cacca: uno scenario diverso rispetto alla classifica delle parolacce più usate nel linguaggio parlato, dove cazzo è al primo posto e vaffanculo al 10°.
Qui sotto l’elenco completo. Con una curiosità: la parolaccia più difficile da craccare per un hacker, stando a quanto afferma NordPass, è la spagnola tuputamadre (quella troia di tua madre), il tempo stimato necessario per decifrarla è di 4 mesi. E’ seguita da vaffanculo, craccabile in 12 giorni di lavoro. Probabilmente il tempo per scoprirla è direttamente proporzionale alla lunghezza, oltre che alla complessità della parola: ci vogliono solo 10 secondi per scoprire “cazzo” o “cacca”.

La classifica delle password volgari

 

Paese (parolacce censite) parolacce posizione e utilizzatori
USA (6)
366.791 persone
fuckyou (fottiti)

fuckyou1 (fottiti1)

asshole (buco di culo, stronzo)

fuckyou2 (fottiti2)

asshole1 (buco di culo1)

pussy (fica)

30°,  178.545

81°, 118.720
127°, 78.923

152°, 66.133

196°, 51.522
197°, 51.493

ITALIA (5)
213.112 persone

vaffanculo

porcodio

cazzo

cazzone

cacca

39°, 76.981 

 98°, 42.098 

121°, 36.737

138°, 34.744

198°, 22.552

GERMANIA (4)
314.729 persone
fuckyou (fottiti)

ficken (scopare)
arschloch (buco di culo, stronzo)

fuckme1 (fottimi1)

31°, 155.125

57°,  78.106

70°,  53.566

179°, 27.932

CANADA (3)
73.673 persone
fuckyou (fottiti)

asshole (stronzo, buco di culo)
fuckoff (vaffanculo)

23°, 39.626

67°, 20.593

133°, 13.454

MESSICO (3)
13.158 persone
caca (cacca)

popo (pupù)

pendejo (stupido, vigliacco

151°, 4.575

152°, 4.509

166°, 4.074

CILE (3)
5.729 persone
chupalo (succhialo)

mierda (merda)

caca (cacca)

112°, 2.205

130°, 1.932

154°, 1.592

SPAGNA (2)
31.469 persone
mierda (merda)

tuputamadre (la puttana di tua madre)

37°, 20.402

112°, 11.067

AUSTRALIA (2)
15.169 persone
fuckyou (fottiti)

boobies (tette)

81°, 10.903

199°, 4.266

COLOMBIA (2)
3.076 persone

poop (cacca)

fuckyou (fottiti)

146°, 1.750

190°, 1.326

SVIZZERA (2)
4.111 persone
fuckyou  (fottiti)

arschloch (buco di culo, stronzo)

53°, 2.266

90°, 1.845

BRASILE (1)
9.657 persone
buceta (fica) 127°, 9.657

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Dante ha inserito espressioni scurrili nella “Divina commedia” (montaggio su ritratto di Botticelli, 1495).

Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto che nel corso dei secoli – e persino quest’anno – la sua opera è stata pesantemente criticata, da Petrarca in poi, e più volte censurata. Reazioni spropositate, da parte di chi non ha capito la sua arte: la “Divina commedia” è un poema universale, che ritrae tutte le sfumature dell’animo umano. Perciò ha mescolato volutamente diversi registri linguistici – aulici e grotteschi, intellettuali e popolareschi, celestiali e terreni. Ha saputo, insomma, mescolare “alto” e “basso” come solo i grandi poeti sanno fare. Un altro esempio di questo livello è William Shakespeare.
Le parolacce, in particolare, sono servite a Dante per descrivere le peggiori bassezze dell’animo umano, a creare effetti comici e anche a dar voce alle sue passioni religiose, politiche e morali esprimendo la sua profonda indignazione. Dante modellava la lingua a seconda dei personaggi e delle situazioni che voleva descrivere.
Nel 700° anniversario della sua morte, ho deciso quindi di approfondire il turpiloquio di Dante, che probabilmente a scuola non vi hanno raccontato. In questo articolo troverete tutte le strofe (e relative spiegazioni) che contengono parole volgari, così potrete capire le precise ragioni artistiche che lo hanno indotto a usarle: Alighieri infatti ha sempre scelto con grande cura il lessico nel suo poema. 

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PUTTANA E BORDELLO

Nella “Divina commedia” i termini che si riferiscono alle donne di facili costumi non sono solo  nel registro volgare, come nei brani successivi. Nel poema troviamo anche i più neutri meretrice, femmine da conio (cioè da moneta).

brano significato argomento canto e verso
Taide è, la puttana che rispuose 

al drudo suo quando disse “Ho io grazie 

grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”. 

Taide è la prostituta che al suo amante, quando le chiese “Ho io grandi meriti presso di te?, rispose: “Anzi, grandissimi!” .  ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 133

Il brano parla di Taide, una prostituta amante del soldato Trasone nella commedia “Eunuchus” di Terenzio. L’episodio descritto da Dante era stato citato anche da Cicerone come esempio di adulazione:  a una domanda a cui bastava rispondere con un sì, Taide risponde con una frase adulatoria esagerata.


brano significato argomento canto e verso
Di voi pastor s’accorse il Vangelista, 

quando colei che siede sopra l’acque 

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;  

Di voi (cattivi) pastori si accorse l’Evangelista (Giovanni) quando vide la meretrice che siede sopra le acque (la Chiesa) comportarsi da prostituta con i re; simoniaci (chi compra e vende cariche ecclesiastiche) – La Chiesa corrotta e il suo asservimento alla monarchia francese Inferno, 19°, 108

 

brano significato   argomento canto e verso
Sicura, quasi rocca in alto monte, 

seder sovresso una puttana sciolta 

m’apparve con le ciglia intorno pronte; 

Mi sembrò che su di esso sedesse una sfacciata prostituta, sicura come una rocca su un’alta montagna, che ruotava intorno gli occhi seduttivi La Chiesa corrotta e la sua dipendenza dalla monarchia francese  

Purgatorio, 32°, 149

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo, 

disciolse il mostro, e trassel per la selva, 

tanto che sol di lei mi fece scudo 

a la puttana e a la nova belva.     

poi, pieno di sospetto e crudele d’ira, staccò il mostro (il carro) dall’albero e lo trascinò via per la selva, tanto che fu solo quella a impedirmi di vedere la prostituta e la nuova belva (il carro).  

Purgatorio, 32°, 160

Ho unificato il commento di questi 3 diversi brani perché si riferiscono tutti allo stesso bersaglio: la Chiesa, che Dante condanna per la sua sudditanza verso la monarchia francese.

Nel Purgatorio, in particolare, la Chiesa è simboleggiata da un carro, che a un certo punto si ricoprirà tutto di penne e metterà 7 teste cornute (i 7 peccati capitali), sormontato da una volgare meretrice che raffigura la Curia papale corrotta. Dante si ispira al mostro descritto nell’Apocalisse di Giovanni. La bestia rappresenta la degenerazione della Chiesa a causa della corruzione e della simonia; la meretrice se la intende con un gigante (il re di Francia Filippo il Bello) che si preoccupa che non gli venga sottratta.


brano significato argomento canto e verso
Ahi serva Italia, di dolore ostello, 

nave sanza nocchiere in gran tempesta, 

non donna di province, ma bordello!  

Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello! L’Italia preda di divisioni interne Purgatorio, 6°, 78

Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all’Italia, simmetricamente al 6° canto dell’Inferno in cui si parlava di Firenze e al 6° del Paradiso in cui si parlerà dell’Impero. In questa invettiva traspare tutta la rabbia e la delusione di Dante, oltre che la sua passione politica.  

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MERDA

I termini che si riferiscono agli escrementi e alla sporcizia sono numerosi nella “Divina commedia”. Oltre a quelli di registro basso (che vedremo più sotto) troviamo anche letame, sterco, privadi (latrine), cloaca. Tutti termini usati per svilire qualcuno o qualcosa, per mettere in ridicolo, per esprimere disgusto.

brano significato argomento canto e verso
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 

vidi un col capo sì di merda lordo, 

che non parea s’era laico o cherco.     

E mentre scrutavo giù con lo sguardo, vidi un dannato che aveva il capo così pieno di escrementi che non si capiva se fosse chierico o laico (se avesse o meno la tonsura). ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 116

Le pareti della Bolgia sono incrostate di muffa per i miasmi che provengono dal fondo e che irritano occhi e naso. La Bolgia è talmente profonda e oscura che per vedere bene Dante e Virgilio sono costretti a salire sul punto più alto del ponte: da qui vedono gente immersa nello sterco.
Questo brano, in particolare, descrive in modo grottesco e infamante il lucchese Alessio Interminelli: si colpisce il capo e afferma di scontare le adulazioni di cui la sua lingua non fu mai abbastanza sazia.


brano significato   argomento canto e verso
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

mi disse «il viso un poco più avante, 

sì che la faccia ben con l’occhio attinghe                    

di quella sozza e scapigliata fante 

che là si graffia con l’unghie merdose

e or s’accoscia e ora è in piedi stante.       

Dopodiché la mia guida mi disse: «Fa’ in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, così che tu veda bene con l’occhio la faccia di quella donna sudicia e scapigliata che si graffia là con le unghie piene di sterco, e ora si china sulle cosce e ora è in piedi. ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 131

La disgustosa descrizione si riferisce alla prostituta Taide di cui abbiamo parlato sopra.


brano significato argomento canto e verso
Tra le gambe pendevan le minugia; 

la corata pareva e ’l tristo sacco 

che merda fa di quel che si trangugia.  

Gli pendevano le interiora tra le gambe; si vedevano gli organi interni e il ripugnante sacco (stomaco) che trasforma in escrementi ciò che si mangia.

 

seminatori di discordia Inferno, 28°, 27

Coloro che hanno seminato divisioni, nella religione e nella politica sono tagliati a pezzi; un diavolo armato di spada mozza loro parti del corpo e poi le ferite si richiudono, finché non tornano davanti a lui. In questo brano c’è la descrizione grottesca di MaomettoDante lo descrive in termini volutamente crudi e volgari, paragonandolo a una botte che ha perso il fondo e includendo macabri dettagli delle sue mutilazioni: ha un taglio che va dal mento infin dove si trulla, cioè fino all’ano dove si fanno sconci rumori; le minugia, cioè le interiora, gli pendono tra le gambe insieme alla corata, cuore e organi interni, e allo stomaco, definito “il tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia”.  Il dannato si apre il petto mostrando le sue ferite, definendo la propria pena e quella degli altri, spiegando anche la logica del contrappasso; il contesto è fortemente e violentemente comico.  Maometto è stato attaccato da Dante perché nella sua ottica aveva causato guerre e uccisioni in Europa e per l’occupazione dei luoghi santi, eventi che facevano degli Arabi un popolo invasore da cui era necessario difendersi. Una visione figlia dell’epoca in cui la Divina Commedia fu scritta. 

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FICHE

brano significato argomento canto e verso
Al fine de le sue parole il ladro 

le mani alzò con amendue le fiche

gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».    

Quand’ebbe finito di parlare, il ladro alzò entrambe le mani col pollice tra l’indice e il medio, gridando: «Prendi, Dio, poiché le rivolgo a te!» ladri Inferno, 25°, 2

Il gesto delle fiche in un dipinto anonimo del 1620 (Lucca).

Il brano descrive Vanni Fucci, ladro di Pistoia. un uomo violento e rissoso. Vanni partecipò alle lotte interne della sua città compiendo razzie e saccheggi e nel 1292 fu al servizio di Firenze contro Pisa, occasione nella quale forse Dante lo conobbe. Dante lo colloca tra i ladri della VII Bolgia  dove i dannati corrono nudi tra i serpenti e hanno le mani legate dietro la schiena da altre serpi, subendo spesso delle orribili trasformazioni. Per Dante il furto è più grave della violenza fisica, perché implica l’uso dell’intelletto a fin di male.

Dante vede Vanni alla fine del Canto 24°, quando il peccatore è morso alla nuca da un serpente e si trasforma in cenere, per poi riacquistare subito le sue sembianze umane. Virgilio gli chiede chi sia e Vanni si presenta come pistoiese, spiegando poi a Dante di scontare il furto degli arredi sacri compiuto nel duomo di Pistoia nel 1293.

Vanni profetizza a Dante le sventure dei guelfi Bianchi dopo il suo esilio, con la sconfitta di Pistoia, ultima roccaforte dei Bianchi, ad opera di Moroello Malaspina e aggiunge di averlo detto per far del male al poeta. Poi il ladro fa un gesto osceno che diventa blasfemo perché rivolto contro Dio: con ambo le mani fa il gesto delle fiche, ovvero inserisce i pollici fra indice e medio, a mimare l’atto sessuale. E’ l’equivalente osceno del gesto del dito medio: quindi, una doppia bestemmia. Subito dopo una serpe gli si avvolge attorno al collo e lo strozza, impedendogli di dire altro. Fucci è definito da Dante il dannato più superbo da lui visto all’Inferno: Dante ne rimane così disgustato da lanciarsi in una cruda invettiva contro Pistoia, città degna, secondo lui, di tali cittadini.  

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CULO

brano significato argomento canto e verso
Per l’argine sinistro volta dienno; 

ma prima avea ciascun la lingua stretta 

coi denti, verso lor duca, per cenno; 

ed elli avea del cul fatto trombetta. 

I diavoli si voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ognuno di loro aveva stretto la lingua tra i denti, voltandosi alla loro guida (Barbariccia) come a un segnale convenuto; e quello aveva emesso un peto i barattieri, cioè corrotti Inferno, 21°, 139

Il passo descrive i Malebranche, una truppa di 13 diavoli che aveva il compito di controllare che i dannati non uscissero dalla pece bollente. Essi creano con le loro grottesche figure una parentesi comica : in questo brano il loro capo Barbariccia come segnale per “avanti marsch” invece di una tromba militare usa una “trombetta” fatta col culo, ovvero un peto. Un modo efficace per svilire i diavoli mettendoli in ridicolo. 

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POPPE

brano significato argomento canto e verso
Tempo futuro m’è già nel cospetto, 

cui non sarà quest’ora molto antica,                             

nel qual sarà in pergamo interdetto 

a le sfacciate donne fiorentine 

l’andar mostrando con le poppe il petto. 

Io prevedo un tempo futuro, rispetto al quale il presente non sarà molto antico, nel quale dal pulpito sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine di andare in giro a seno scoperto. golosi Purgatorio, 23°, 12

In questo brano parla Forese Donati, che sconta le pene per il peccato di gola: il profumo dei frutti e la freschezza dell’acqua li tormentano con fame e sete. Forese racconta di trovarsi lì grazie alle preghiere della moglie Nella, l’unica donna virtuosa di Firenze. E qui apre una polemica contro le donne dissolute di Firenze, contro cui Dante si era già scagliato nell’invettiva all’Italia del Canto 6°. Forese prevede che di lì a non molto tempo dal pulpito si dovrà proibire espressamente alle donne di Firenze di andare in giro a petto nudo; e quali donne, barbare o saracene, ebbero mai bisogno di un simile divieto? Ma se le Fiorentine sapessero cosa le attende, comincerebbero già a urlare: Forese prevede che su di loro si abbatterà un terribile castigo nel giro di pochissimi anni. 

Le radici del turpiloquio: realismo e Bibbia

Dante e Virgilio guardano gli adulatori (Gustave Dore, 1885).

Dante usò la lingua del popolo, il “volgare”, ponendo le radici del lessico italiano. La sua lingua è una tavolozza espressiva multiforme, che va dai termini più bassamente popolari a quelli aulici. Dante, insomma, non si fa problemi a introdurre anche i registri bassi se sono funzionali alle sue esigenze narrative

Ma c’è un’altra radice, giustamente sottolineata dal filologo Federico Sanguineti: la Bibbia. In molti passi dell’Antico Testamento, ma anche nell’Apocalisse, infatti, i profeti non esitano a citare gli escrementi e le prostitute per esprimere la loro riprovazione nei confronti degli empi, siano essi singole persone o interi popoli. Trovate esempi in abbondanza nel mio libro, che potrà farvi compagnia quest’estate.

Non è un caso che le parolacce più usate da Dante siano proprio “puttana” e “merda”: esprimono entrambe il disprezzo verso la dissolutezza morale, il disgusto per chi ha una condotta empia, la condanna verso persone che hanno piegato la propria anima al male.

Com’era prevedibile, nessuna delle espressioni scurrili trova posto nel Paradiso, dove avrebbero contaminato i temi e gli ambienti più elevati. La maggior parte (7) sono nell’Inferno, le altre 4 nel Purgatorio. Il canto con la maggior presenza di parolacce è il 18° dell’Inferno dedicato a ruffiani e seduttori: persone che, evidentemente, suscitavano la maggiore ira in Dante. Per uno abituato a cantarle chiare – come si vede nella “Divina commedia” – è più che comprensibile.

Statistiche e censure, antiche e moderne

Andrea di Buonaiuto, discesa al Limbo nel cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1365).

In tutto il poema Dante usa 11 volte 6 diverse espressioni scurrili: puttana, bordello, merda, culo, fiche, poppe. Pochissime: dato che la Divina Commedia ha in tutto 101.698 parole, il turpiloquio rappresenta lo 0,01%: un’esigua minoranza, circa un ventesimo di quante ne diciamo oggi nel parlato quotidiano (vedi le statistiche che ho ricavato qui). Eppure sono significative: hanno attirato l’attenzione degli intellettuali dell’epoca e per molti secoli a venire.

Già Petrarca, intellettuale d’élite, precisava di non provare invidia per Dante che era apprezzato da “tintori, bettolai e lanaioli”, cioè la plebe. E un altro umanista dell’epoca, Niccolò Niccoli, sosteneva addirittura che Dante andrebbe allontanato dal circolo esclusivo degli umanisti  “per esser consegnato a farsettai, panettieri e simili  essendosi egli stesso espresso in modo tale da sembrare voler stare a proprio agio solo con un pubblico di bassa estrazione sociale e culturale”. Insomma, la scelta di inserire termini popolari e volgari  è stata un atto di coraggio in un’epoca in cui la cultura era un fatto elitario, snob, aristocratico.

Non stupisce, quindi, che quelle 11 parolacce sono state spesso censurate dai copisti che trascrivevano l’opera. Il filologo Federico Sanguineti ricorda che già nel 1300 Francesco di ser Nardo da Barberino sostituì “merda” con «feccia» (Inferno, 18°); nel codice Barberiniano latino 3975 sono anneriti gli endecasillabi in cui è denunciato il «puttaneggiar» della Chiesa (Inferno 19°). Il codice Canoniciano 115 nella bestemmia di Vanni Fucci (Inferno 25°) la parola «Dio» è sostituita da puntini sospensivi. E la censura prosegue anche oggi: quest’anno una casa editrice, Blossom Books, ha pubblicato una versione olandese della “Divina commedia” per ragazzi in cui è stato cancellato Maometto, per evitare che l’episodio risultasse «inutilmente offensivo per un pubblico di lettori che è una parte così ampia della società olandese e fiamminga». Ricordiamo infatti che Maometto è trattato come uno scismatico che ha diviso al suo interno il cristianesimo, e soprattutto è raffigurato con orrende e grottesche mutilazioni.

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Andrea Camilleri (6 settembre 1925 – 17 luglio 2019).

“Trenta picciotti di un paese vicino a Napoli avevano violentato una picciotta etiope, il paese li difendeva, la negra non solo era negra ma magari buttana”. Questo brano contiene solo 26 parole. Ma sono certo che tutti sapete chi le ha scritte: Andrea Camilleri ne “Il ladro di merendine”. L’autore dei gialli di Montalbano, infatti, si riconosce a prima vista grazie a due tratti inconfondibili: il dialetto siciliano e le parolacce, anzi: le “parolazze”. Ci avete fatto caso? Forse non molto, perché in Camilleri il turpiloquio è così integrato nello stile letterario da non destare sorpresa né scandalo.
Ma quanto sono frequenti le parolacce nei romanzi dello scrittore siciliano? Sono un orpello marginale o svolgono un ruolo importante? Da assiduo lettore di Camilleri, da siciliano e da studioso di turpiloquio, non potevo sottrarmi alla domanda. Così ho deciso di studiarle per celebrare il suo anniversario: oggi avrebbe compiuto 95 anni.

I protagonisti della serie tv su Montalbano.

Data la sua smisurata produzione letteraria, ho scelto di limitare lo studio ai soli romanzi del ciclo di Montalbano, escludendo i racconti brevi (“La paura di Montalbano”, “Un mese di Montalbano”, “Gli arancini di Montalbano”, “La prima indagine di Montalbano”): rimaneva comunque una quantità notevole di romanzi: 28, tutti editi da Sellerio, compreso “Riccardino”, uscito postumo quest’estate.
Così, “con santa pacienza” e “santiando” (imprecando) come avrebbe fatto il commissario alla vista di una pila di scartoffie da firmare sulla scrivania, mi sono messo all’opera. Glielo dovevo, dato che mi ha fatto trascorrere molte giornate di svago leggendo i suoi libri.
Prima di armarvi anche voi di pazienza per leggere i risultati (l’analisi è stata “longa e camurriusa”, cioè lunga e maledettamente complicata) vi anticipo un dato: nei suoi gialli, Camilleri ha usato 52 parolacce diverse, sia in siciliano che in italiano (e può darsi che me ne siano sfuggite altre), per 3.109 volte. Le espressioni volgari appaiono in media quasi una volta ogni 2 pagine. Dunque, il turpiloquio non svolge un ruolo marginale. Anzi, aiuta molto a capire la sua arte. Vedremo come e perché. Ma prima devo raccontarvi come ho ottenuto questi risultati.

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Il metodo della ricerca

Il primo romanzo di Montalbano. E’ quello con più parolacce.

Per studiare quale ruolo hanno le parolacce in un testo, bisogna contarle,  catalogarle e studiarle nel contesto. E per fare tutto questo, bisogna prima cercarle. Impresa non facile, se non si sa quali cercare. Così mi sono avvalso di 5 fonti:
♦ il dizionario dei termini siciliani più usati da Camilleri, compilato dai fan di vigata.org;
♦ il “Camisutra” ovvero l’antologia delle pagine più piccanti delle sue opere, sempre a cura di vigata.org;
♦ il CamillerIndex, database con il glossario di Camilleri;
♦ il mio libro sul turpiloquio;
♦ il mio studio sulle parolacce più pronunciate in italiano.

Ma questa, ahimè, era solo la base, perché strada facendo, rileggendo tutte le sue opere, ne sono emersi diversi altri, e chissà quanti me ne saranno sfuggiti: stiamo parlando di 7.367 pagine in tutto. Un compito immane, alleggerito in parte dall’uso delle versioni ebook dei libri, usando la funzione “cerca”. Da questa scrematura sono emerse 52 espressioni che troverete più avanti. Ho censito ciascun termine in tutti i generi (maschile/femminile), numeri (singolare/plurale), tempi, modi e coniugazioni (per i verbi), e varianti (composti, accrescitivi, diminutivi, peggiorativi, rafforzativi). Sia in italiano che in siciliano. Ad esempio, per il verbo “fottere” ho censito tutte le persone, i tempi e i modi, sia in italiano che in siciliano (futtiri), con le innumerevoli varianti (catafottere, stracatafottere, sfottere).
Non ho conteggiato, invece, le espressioni non usate come insulti: “porco” l’ho calcolato solo quando era usato come offesa verso una persona, ma non per denotare un suino (o il piede di porco inteso come attrezzo da scasso); la parola “Madonna” l’ho conteggiata solo quando era usata come esclamazione (“Madonna!”, “Madunnuzza beddra!”) ma non come nome proprio (“ringraziamo la Madonna”). E così via.

 I risultati: una ogni 2 pagine (ma in calo nel tempo)

I risultati dello studio (clic per ingrandire)

Il censimento, come anticipato, ha dato questo risultato: nei 28 romanzi del ciclo di Montalbano sono presenti 52 parolacce, scritte per 3.109 volte. Su un totale di 7.367 pagine, è una media di 0,42 parolacce a pagina: quasi una ogni 2 pagine. Dato che, facendo una media approssimativa, ogni pagina contiene 200 parole, le volgarità sono lo 0,2% delle parole. La stessa frequenza che avevo riscontrato nella mia ricerca sul turpiloquio nell’italiano parlato. Non è un caso, e vedremo più avanti il perché.
Nel frattempo, però, bisogna segnalare un altro dato: nel corso della sua lunga produzione letteraria durata 25 anni (per la serie di Montalbano) la quantità di volgarità si è progressivamente dimezzata: è passata dal picco delle opere iniziali, che avevano una media di 0,59 parolacce per pagina negli anni ‘90, a 0,44 nel primo decennio degli anni 2000, per concludere con una media di 0,31 negli ultimi 10 anni. Tant’è vero che il libro con la maggior densità di parolacce è “La forma dell’acqua” (1994), con 0,77 parolacce a pagina, mentre quello con la minor densità di parolacce è “La giostra degli scambi” (2015), con 0,19 volgarità a pagina.
Come spiegare questo calo?

Le statistiche libro per libro (clic per ingrandire)

A volte, nella carriera di un autore, il turpiloquio è usato per fare clamore, attirare l’attenzione suscitando scandalo. Poi, una volta che si è affermato, questa esigenza viene meno, anche per rivolgersi a un pubblico più ampio e non incorrere in censure. E’ anche il caso del nostro autore? Improbabile, visto che parolacce anche forti appaiono in tutta la sua produzione: e ne basta anche una sola per fare clamore. Tra l’altro, le espressioni veramente pesanti (pompino, fica, sticchio, chiavare) appaiono pochissime volte: in generale, infatti, gli insulti pesanti sono una minoranza, solo uno su 4. Camilleri sapeva spendere il turpiloquio con equilibrio, solo quando era necessario alla narrazione. Non usava le scurrilità un tanto al chilo, insomma.
Forse, allora, potrebbe aver giocato un fatto anagrafico: quando iniziò a scrivere il primo romanzo della serie, Camilleri aveva già 69 anni; negli ultimi 10 anni della sua produzione aveva superato gli 85 anni d’età, e forse era meno incline alle passioni a tinte forti espresse dal turpiloquio. Può darsi, ma solo in parte. Basta leggere questo passo: 

“Va bene Maria, facciamo in questo modo e poi però prometti che te ne vai. Io ti faccio un regalo, anzi il mio cazzo ti fa un ultimo regalo”.
Ad un certo punto un sorriso ebete gli si disegnò sul volto. Pensavo che la medicina avesse fatto effetto, invece nulla. Solo quel sorriso cretino che continuava ad aleggiare sulle sue labbra. Ci crede che è stato quel sorriso, commissario, a farmi liberare da lui? Ho capito mentre lo guardavo che io lo odiavo, che lo detestavo, che io sì che sarei stata capace di ucciderlo, e allora d’impulso, senza pensarci, presi il tagliacarte che aveva sul comodino e glielo infilai nel cuore. Carmelo non si mosse, non cercò di fermarmi, continuò a sorridere e io a spingere il pugnale. Poi mi sentii libera. Finalmente libera. Lo lasciai sul letto.

Montalbano e le donne: una passione costante.

Questo brano è tratto da “Il metodo Catalanotti”, pubblicato nel 2018, l’anno prima di morire. Quando aveva 93 anni. Per chi non conosce la lucidità di Camilleri, potrebbe sorprendere che un uomo di quell’età sia stato capace di immaginare, e in modo così vivido, una situazione del genere: sesso e sangue. Ma non è l’unica, dato che c’è un’altra passione costante e altrettanto carnale dei suoi racconti: quella per la cucina. Le descrizioni delle scorpacciate luculliane del commissario fra arancini, frittura di pesce, pasta al nivuro di siccia (al nero di seppia) sono memorabili. Un aggettivo quanto mai pertinente, dato che, come Camilleri ha rivelato in un’intervista, parlare di cibo è “come fare penitenza, aspra e dolorosa per chi, come me, a lungo ha gustato i piaceri della buona tavola e ora non può più per l’età e per ferreo diktat medico. Ho preferito continuare a patire nel ricordo di certi sapori, nella memoria di certi odori”.
Camilleri era non solo un attento osservatore delle persone, ma anche delle sensazioni fisiche. E con grande capacità di memoria, evocativa e rievocativa. Dunque, se nel corso della sua lunga produzione ha dimezzato la quantità di termini scurrili, credo l’abbia fatto per una consapevole scelta artistica: li ha considerati meno adatte alle storie che voleva raccontare. E in particolare al protagonista che ha voluto rappresentare: col passare degli anni, infatti, il commissario Montalbano appare sempre più rassegnato alle ingiustizie sociali, agli abusi di potere, alle inteferenze della politica nelle sue indagini. E questa rassegnazione ha spento gradualmente la sua tenacia e la sua rabbia, rendendolo più sfiduciato che “‘ncazzato” e “nirbuso“. E quindi meno incline a sfogarsi con le parolacce

La top ten delle volgarità

E ora vediamo quali sono le 10 espressioni più frequenti, che da sole rappresentano quasi 3 espressioni su 4 (il 72,1%):

PAROLACCIA % SUL TOTALE
1) minchia 17,5
2) fottere/futtere 11,5
3) culo/culu 7,8
4) cabasisi 6,6
5) stronzo/strunzu 6,4
6) buttana / puttana 5,5
7) cazzo 5,0
8) camurria 4,8
9) cornutu /cornuto 3,6
10) sbirro 3,4
TOTALE 72,1%

Questa “top 10” rivela già molte cose. Innanzitutto, un doppio realismo: molti dei termini più usati, infatti, coincidono con i 10 maggiormente pronunciati dagli italiani (minchia, cazzo, culo, stronzo sono anche nella “top 10” delle parolacce più pronunciate dagli italiani). E le espressioni siciliane come minchia (quasi una parolaccia su 5: un’amata minchia, scassare la minchia, non capire una minchia, minchia di ragionamento…), fottere (usato più nel senso di “fregare” che in senso osceno, o anche come “rovinare” nell’espressione rafforzata “catafottere”), camurria (seccatura, da “gonorrea”), cornuto sono effettivamente le più usate dai siciliani: per una serie di romanzi ambientati in Trinacria, non poteva essere altrimenti. A questo scenario abbastanza prevedibile, però, si aggiungono due espressioni inaspettate: “cabasisi” e “sbirro”.

CABASISI E SBIRRI

Una pianta di zigolo, con in vista i tubercoli.

Il primo, “cabasisi”, è in realtà un eufemismo (di cui mi sono occupato in questo articolo): è cioè un termine non volgare che allude ai testicoli. Il nome deriva dalle parole arabe habb, bacca, e haziz, dolce: i dolcichini, cioè i tubercoli del cipero (o zigolo) dolce (Cyperus esculentus) la cui forma ricorda per l’appunto le gonadi maschili. E’ una parola dotta, che in realtà non è popolare fra i siciliani: probabilmente Camilleri l’ha preferita al termine dialettale “cugghiuna” (coglioni) che è un’espressione molto pesante. Camilleri l’ha usata in tutto e per tutto come sostituto di “palle” nelle espressioni “levarsi dai cabasisi”, “rompere/scassare i cabasisi”, “firriamento (giramento) di cabasisi”, “stare supra ai cabasisi” (stare sulle palle). Tant’è vero che le espressioni corrispondenti in italiano sono una minoranza: “palle” è presente solo 11 volte (0,4%), e “coglione” 43 volte (1,4%) ma il termine è usato anche come insulto (“coglione” e “rincoglionito”). Oggi, però, proprio grazie al successo di Camilleri (oltre 100 libri e 25 milioni di copie vendute solo in Italia) “cabasisi” è diventato popolare non solo in Sicilia ma in tutta Italia.

Montalbano e Fazio, sbirri con “teste fine”.

Ancor più particolare l’uso intensivo della parola “sbirro”. Il motivo? Non solo perché i romanzi di Camilleri sono polizieschi, che hanno per protagonista un commissario, Salvo Montalbano.  La parola è uno spregiativo: deriva da birrus (rosso, colore delle divise medievali) indica i servi violenti e ciechi del potere. Ma, in Sicilia, l’appellativo ha anche il significato di spia, delatore, furbo: nel 1800 sotto i Borboni, infatti, il funzionario di polizia Salvatore Maniscalco, palermitano, per garantire l’ordine pubblico organizzò un’efficiente rete di spie e di informatori reclutandoli anche fra i criminali. Ma nella maggior parte delle pagine, questo termine non è usato dai criminali e in senso spregiativo, bensì dallo stesso Montalbano e per lo più in senso positivo, come complimento o con compiaciuto orgoglio: “Fazio era un bravissimo sbirro e ’na gran bella testa fina” (“Il cuoco dell’Alcyon”). Infatti “sbirro” è per lo più presente in espressioni come “istinto di sbirro, doveri di sbirro, testa di sbirro, bravo sbirro”. Insomma, lo sbirro è chi serve lo Stato al servizio della giustizia, usando l’intelligenza. Un “insulto di solidarietà”, come quando le persone di colore chiamano se stessi “negri” ribadendo la propria identità fregandosene del disprezzo degli altri.
Ecco due passi che mostrano questo uso: “
in questo consisteva il suo privilegio e la sua maledizione di sbirro nato: cogliere, a pelle, a vento, a naso, l’anomalia, il dettaglio macari (pure) impercettibile che non quatrava con l’insieme, lo sfaglio (differenza) minimo rispetto all’ordine consueto e prevedibile» (“Un mese con Montalbano”). Montalbano,infatti, era uno sbirro anomalo nel carattere e nel modo di fare: era umorale e istintivo, agiva sempre di testa propria. E spesso fuori dagli schemi e dalle procedure, anche organizzando messe in scena per tendere trappole (sfunnapedi) ai sospettati, per farli cadere in contraddizione: “Fare tiatro a Montalbano l’addivirtiva. Come a tutti i veri sbirri. Essiri tragediaturi era forse condizioni ‘ndispensabili per ogni ‘nvistigatori di rispetto. Sulo che abbisognava essere abbili assà (“Riccardino”). 

Sette tipi di parolacce

clic per ingrandire

Sappiamo dunque quali sono le parolacce più usate nei romanzi di Camilleri (potete vedere il file completo qui). Ma in quali modi sono usate? Un modo per capirlo è classificarle per tipologia. Le ho riunite in 7 grandi famiglie: insulti pesanti e maledizioni; espressioni enfatiche e colloquiali; espressioni scatologiche (cioè escrementizie), insulti leggeri; oscenità (termini sessuali diretti), profanità (termini religiosi usati come imprecazioni) ed eufemismi.
Ecco i risultati, riassunti nel grafico a torta qui a fianco.

[ Cliccare sulle strisce blu per visualizzare le espressioni ]

1) Enfasi

 PAROLACCE Citazioni % sul tot
minchia 545 17,5
fottere / futtere / catafottere / sfottere 357 11,5
culo /culu  /inculare / leccaculo /acculare / rinculo 242 7,8
cazzo / cazzuto / cazzate / incazzare 155 5,0
camurria 148 4,8
sbirro 107 3,4
burdellu / bordello 57 1,8
casino / casinu 49 1,6
cesso 20 0,6
vastaso (cafone) 17 0,5
palle / balle 11 0,4
fissa / fissaria /fesso / fesseria 43 1,4
TOTALE 1751 56,4

In questa categoria, come si può notare, ho inserito diversi termini di origine sessuale (cazzo, minchia, fottere, palle…) per un motivo preciso: queste espressioni, infatti, sono usate nella maggior parte dei casi come rafforzativi espressivi e non come termini osceni. Facciamo qualche esempio: «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto» disse Fazio (“Il sorriso di Angelica”).
Oppure: «Buongiorno, dottor Montalbano. Mi scuso per averla fatta viniri fino a qua e mi scuso di cchiù per averla fatta ‘nfaccialare, ma è bene che lei non sappia chi sono».
«Facciamola finita con ‘sti complimenti del cazzo» fici il commissario. «E mi dica quello che mi deve dire». (“La danza del gabbiano”).
Dunque, le espressioni colorite e colloquiali sono quelle col maggior peso (una su due, il 56,4%) nell’opera di Camilleri. E non è un caso, come vedremo più avanti. 

2) Insulti pesanti e maledizioni

 PAROLACCE citazioni % sul tot
stronzo/strunzu 198 6,4
Buttana / puttana / sputtanare 172 5,5
cornutu, curnutu /cornuto / crastu 113 3,6
porco / porcu 44 1,4
coglione /rincoglionito 43 1,4
fitusu (schifoso) 43 1,4
garruso (frocio) 34 1,1
troia 27 0,9
vaffanculo / affanculo / fanculo 16 0,5
bastardo 15 0,5
negro 6 0,2
cajorda (sozza, puttana) 3 0,1
frocio 1 0,0
zoccola 1 0,0
TOTALE 716 23,1

E’ la seconda categoria più numerosa (un caso su 4, il 23,1%). Gli insulti, infatti, servono a narrare i litigi o in generale le forti emozioni. Ecco un esempio tratto da “La luna di carta”: Ogni automobilista, appena arrinisciva a sorpassarlo, si sintiva in doviri di definirlo: garruso, secondo un camionista; stronzo, secondo un parrino; cornuto, secondo una gentile signora; be…be… be, secondo uno che era balbuziente; ma tutte quelle offise a Montalbano da una grecchia ci trasivano e dall’àutra ci niscivano. Solo una lo fece veramente arraggiare. Un tale, un sissantino distinto, l’affiancò e gli disse: “Asino!”. Asino? Ma come si pirmittiva?. Tra l’altro, questo brano è prezioso rispecchia una profonda convinzione di Camilleri: per quanto “asino” sia considerato in genere un insulto moderato, per lui invece, da uomo di cultura, rappresenta un’offesa pesante: perché significa persona incolta, ignorante.
Difficile, comunque, tracciare un confine netto fra insulti ed esclamazioni pepate: la parola buttana/puttana, la sesta più usata da Camilleri, è spesso usata come imprecazione: «Mi sembri così strano stamattina! Ti senti bene?», disse Livia. «Benissimo, mi sento! Da Dio! Buttanazza della miseriazza buttana e figlia di buttanazza porca e futtuta, quantu mi sentu beni! Benissimo mi sento!». «Non parlare in dialetto e non dire parolac…». «Parlo come mi pare, va bene?». (“La danza del gabbiano”). 

3) Eufemismi
  

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cabasisi/ scassacabasisi 204 6,6
caspita 3 0,1
pisello 2 0,1
TOTALE 206 6,7

Non amando i giri di parole, Camilleri ha fatto poco ricorso agli eufemismi, i dribbling linguistici. Ne ho trovati solo due, che però arricchiscono comunque la tavolozza espressiva dei racconti. Come questo memorabile sfogo (uno dei tanti) dello scontroso dottor Pasquano, il medico legale: «Guardi che stamatina ho i cabasisi che mi fumano» fu la cortese avvertenza iniziale del dottore. Montalbano non s’impressionò e arrispunnì a tono. Pasquano addivintava trattabile sulo se uno sapiva tenergli testa. «E i miei lo sa a cosa assimigliano ? Pricisi ‘ntifici a ‘na locomotiva a vapore». «Che càspita vuole?». Aviva ditto càspita. Non cazzo, non minchia. Il che viniva a significari che era veramenti arraggiato. (“Le ali della sfinge”).
Oppure questo brano tratto da “Un covo di vipere”. «Ma macari mentri uno sinni sta a la sò casa a mangiare lei deve viniri a polverizzarigli i cabasisi?! Ma lo sa che lei non è un essere umano ma un robot tritacoglioni? Lo sa qual è la mia più alta aspirazione? Farle l’autopsia!».
«Dottore, mi scusi, ma…».
«Non la scuso! Anzi, la maledico per l’eternità! Che minchia d’una minchia vuole?».

4) Scatologia
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
merda 55 1,8
cacare /cacarsi 39 1,3
piscia / pisciazza 32 1,0
pìrita 12 0,4
cacca 8 0,3
TOTALE 146 4,7

I termini volgari di significato escrementizio sono pochi. E sono usati più nei modi di dire (“era un omo di merda”, “siamo nella merda fino al collo”, “mi tratti come una merda”) che in senso letterale (“come mosche sulla merda”, “sono annati a ficcare nella discarrica perché nella merda pirchì ‘n mezzo alla merda godivano di più”). Il termine piscia, invece, è usato in senso letterale (“Scusami, ma devo andare a pisciare”, “si lavò con un’acqua accussì càvuda che gli parse pisciazza”).

5) Insulti leggeri
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
cretino 86 2,8
imbecille 36 1,2
asino/sceccu 3 0,1
TOTALE 125 4,0

Gli insulti leggeri hanno quasi lo stesso peso (in termini di frequenza) degli eufemismi. Anch’essi contribuiscono ad arricchire la tavolozza espressiva. Come in questo brano: Pellegrino è un cretino che si crede sperto (furbo, ndr), mentre sempre cretino resta”. Oppure: Lui s’addivirtiva a fare il cretino totale col Questore, il problema era che il Questore lo cridiva veramente un cretino totale (“La pazienza del ragno”).

6) Profanità
 

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
Gesù 39 1,3
Madonna / Madunnuzza 34 1,1
Cristo 20 0,6
TOTALE 93 3,0

Le profanità sono i termini religiosi usati in senso profano, ovvero come esclamazioni. Conoscendo bene la sensibilità religiosa degli italiani e soprattutto dei siciliani, Camilleri sapeva di muoversi in un campo minato. E infatti non ha mai ecceduto sia per quantità che per qualità (nei suoi libri non ci sono bestemmie). Si è limitato a un uso marginale e colloquiale. Come in queste battute:  «Non lo sa? Sono scomparsi». «O Madunnuzza santa! Che viene a dire scomparsi?» (“La gita a Tindari”). Oppure: «Non sto facendo nulla di pericoloso». «Non ci credo». «Ma perché, Cristo santo?». (“Il cane di terracotta”).

7) Oscenità
  

 PAROLACCE Citazioni % sul totale
scopare 17 0,5
ficcare / ficcata 16 0,5
minne 16 0,5
fica 4 0,1
minata / minarisilla 3 0,1
uccello 3 0,1
chiavare 2 0,1
pompino 2 0,1
sega / segaiolo 2 0,1
tette 2 0,1
sticchio 1 0,0
suca 1 0,0
TOTALE 69 2,2

Ancor più rari i termini osceni usati in senso letterale, cioè sessuale. In alcuni brani è stato inevitabile, non solo per per descrivere alcuni delitti a sfondo sessuale, ma anche per raccontare scene passionali o modi di dire pesantemente scandalosi. Come questo botta e risposta fra Montalbano e Gegè Gullotta, ex compagno delle elementari nonché organizzatore di un bordello all’aperto: «Pronto? Pronto? Montalbano? Salvuzzo! Io sono, Gegè sono». «L’avevo capito, càlmati. Come stai, occhiuzzi di miele e zàgara?». «Bene sto». «Hai travagliato di bocca in queste iurnate? Ti perfezioni sempre di più nel pompino?». «Salvù, non metterti a garrusiare (scherzare, ndr) al solito tuo. Io semmai, e tu lo sai, non travaglio ma faccio travagliare di bocca». «Ma tu non sei il maestro? Non sei tu che insegni alle tue variopinte buttane come devono mettere le labbra, quanto dev’essere forte la sucatina?». «Salvù, magari se fosse come dici tu, sarebbero loro a darmi lezione. A dieci anni arrivano imparate, a quindici sono tutte maestre d’opera fina». (“Il cane di terracotta”)

NOMI RIVELATORI

In questa categoria di volgarità sessuali andrebbe inserita anche la scelta del cognome del vice di Montalbano, Mimì Augello: un cognome rivelatore (nomen-omen), dato che Augello (uccello) era un Don Giovanni. Così come l’ingenuo Agatino Catarella è un naif puro (dal greco agathòs, buono, è kàtharos, puro).

Le 4 radici letterarie di Montalbano

Camilleri con Vàzquez Montalbàn.

Per comprendere le ragioni per cui Camilleri ha inserito il turpiloquio nei suoi libri, occorre inquadrare la sua produzione identificando il filone letterario a cui attinge. Non basta dire che è il “giallo”: perché i suoi polizieschi sono molto particolari, perché sono la sintesi di numerosi riferimenti letterari.
Innanzitutto i polizieschi di Leonardo Sciascia, per l’ambientazione in Sicilia e gli intrighi di mafia e corruzione (oltre che per l’affermazione che “il giallo è un genere per eccellenza trasparente, la forma letteraria più onesta”); per quanto riguarda il linguaggio, Sciascia è un autore con uno stile “alto” seppure non privo di parole volgari, ma attribuiti per lo più a criminali, come il mafioso Mariano nel “Giorno della civetta”: (l’umanità)
la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”.
Nello stesso filone, Camilleri ha come modello anche Georges Simenon, di cui sceneggiò in tv il commissario Maigret: e come Maigret Montalbano è istintivo, umorale e applica una sua personale giustizia ai casi.
Il terzo modello è ovviamente
Manuel Vázquez Montalbán: il suo investigatore Pepe Carvalho aveva, oltre alla passione per la cucina, un linguaggio sboccato almeno tanto quanto il commissario Montalbano (il cui nome è appunto un omaggio all’autore spagnolo). Nei gialli di Carvalho, tra l’altro, non mancano le riflessioni sociali e politiche dell’autore, e anche questo è un elemento in comune con Camilleri.
Non mancano le influenze (più marginali nei gialli) di Luigi Pirandello, soprattutto per i dialoghi interiori del commissario e per il contrasto fra realtà e apparenza.
Ma nessun influsso linguistico, che invece arriva, e molto, da Carlo Emilio Gadda: oltre ad aver scritto un celebre poliziesco (“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”) ha usato il dialetto, introducendo anche vari termini inventati di sana pianta (anche se inseriti in tutt’altro contesto, grottesco e multistilistico). 

UN SICILIANO REINVENTATO

Catarella, macchietta da opera dei pupi.

Ed è soprattutto nell’uso dei termini dialettali che si collocano le radici di Camilleri: nella mia analisi ne ho riscontrati 26 su 52 (la metà esatta) di cui 15 sono usati esclusivamente in siciliano, altri anche con il corrispettivo italiano (che prevale nella gran parte dei casi, tranne per i termine “buttana”). Come ha osservato lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, il siciliano di Camilleri è anche in molti casi siciliano “reinventato, una sorta di gramelot”, cioè un linguaggio a volte senza senso letterale ma usato come strumento espressivo. Basti pensare  a termini come facchisi (fax), uozap (Whatsapp), “Gli occhi gli facevano pupi pupi”, e al celebre “pirsonalmente di pirsona” dell’agente Agatino Catarella. Buttafuoco osserva che questo gramelot è “a uso di messa in scena, come nell’opera dei pupi”: osservazione acuta, dato che spesso Camilleri inventa scene comiche molto corporee, che vedono spesso come protagonista proprio Catarella che costantemente storpia i cognomi delle persone che chiamano al centralino della polizia: Peritore che diventa “Piritone” (grosso peto), Cavazzone che diventa Cacazzone e così via.
Camilleri, infatti, usa spesso alcuni “tormentoni”, cioè situazioni ricorrenti, anche attraverso l’uso di espressioni volgari: la più celebre è “la facci a culu di gaddrina di Pippo Ragonese, il commentatore televisivo che “era sempri dalle parti di chi cumannava”. Oppure “quella grannissima camurria del dottor Lattes”, l’untuoso capo di gabinetto del questore Bonetti-Alderighi.

Le 5 esigenze narrative

Ma al di là di questi riferimenti letterari, l’uso delle parolacce risponde a precise esigenze narrative di Camilleri. Ne ho identificate 5:

Duello verbale col dottor Pasquano, medico legale.

REALISMO: voleva rappresentare fedelmente l’ambientazione siciliana colloquiale, la naturalezza del parlato quotidiano. Camilleri, da abile regista televisivo e teatrale, era un maestro non solo nelle trame ricche di colpi di scena che tengono avvinto alle pagine il lettore, ma anche nei dialoghi. Sempre ritmati, verosimili, efficaci: «Quindi zoppichiava?» (chiese Montalbano). «Non è detto» (rispose Pasquano) «Ha altro da dirmi?». «Sì». «Me lo dica». «Si levi dalle palle». (“La danza del gabbiano”).
Ecco come lo stesso Camilleri racconta la cura con cui si dedicava a ottenere il realismo della lingua parlata: «Scrivo una pagina, la correggo, la rifaccio, a un certo punto la considero definitiva. In quel momento me la leggo a voce alta. Chiudo bene la porta, per evitare di essere ritenuto pazzo, e me la rileggo, ma non una volta sola: due volte, tre. Cerco di sentire – e in questo la lunga esperienza di regista teatrale evidentemente mi aiuta – soprattutto il ritmo». E in questa ricerca di realismo, il siciliano è uno strumento essenziale: non solo perché i suoi gialli sono ambientati in Sicilia, ma soprattutto perché per lui il dialetto è la lingua più immediata, viva, spontanea, senza filtro: «La parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la lingua, di quella stessa cosa, esprime il concetto». In pratica, il dialetto esprime l’essenza delle cose, la loro natura profonda senza le sovrastrutture artificiali della cultura. L’italiano, invece, è la lingua dell’astrazione, dei temi generali, ma anche della distanza dai sentimenti e dalla spontaneità.

AMBIENTAZIONE: i suoi gialli raccontano il mondo delle caserme e dei criminali. Sia nel loro gergo, che nella crudezza di alcune ambientazioni violente. «Siccome che sei stato pigliato come un fissa con tri macchine arrubbate, vali a diri in flagranza di reato, caro Macaluso, stavolta ho l’impressione che sei fottuto. Macari pirchì sei recidivo, hai due precedenti sempri per ricettazione» disse Fazio. (“Il sorriso di Angelica”).

Montalbano: un commissario umorale e passionale.

CARATTERI DEI PERSONAGGI: molti di loro sono umorali. Non solo Montalbano, ma anche la fidanzata Livia, il vice Augello, il dottor Pasquano. E il turpiloquio rappresenta fedelmente il loro nirbuso. Le parolacce sono il linguaggio delle emozioni, rappresentate in tutta la loro ricchezza: rabbia, sorpresa, frustrazione, disgusto, paura, irritazione… «Mimì, mi hai rotto i cabasisi. Dimmi subito che minchia ti capita». (La gita a Tindari) Oppure: «Lo vedi? Lo vedi?» scattò il commissario. «E dire che avevi promesso! E te ne vieni fora con una domanda a cazzo di cane! Certo che è morta, se dico aveva e viveva!». Augello non fiatò. (“La gita a Tindari”)

EROTISMO: è un tema di fondo, giocato sia nella passione carnale (le donne piacciono anche a Montalbano, non solo ad Augello), sia a volte nei delitti e nelle violenze sessuali. I termini osceni sono usati o per esprimere e indurre eccitazione, oppure per rappresentare lo squallore della violenza. “le coppie non mercenarie e cioè amanti, adùlteri, ziti, se ne andavano dal posto, smontavano («in tutti i sensi» pensò Montalbano) per lasciare largo al gregge di Gegè, buttane bionde dell’est, travestiti bulgari, nigeriane come l’ebano, viados brasiliani, marchettari marocchini e via processionando, una vera e propria Onu della minchia, del culo e della fica” (“Il cane di terracotta”).

UMORISMO: a volte servono ad allentare la tensione, spezzare il ritmo con siparietti o battute comiche. “Quando niscì da casa pronto per la partenza, c’era Gallo, l’autista ufficiale del commissariato, che gongolava. «Taliasse ccà, dottore! Guardi le tracce! Che manovra! Ho fatto firriàre la macchina su se stessa!».
«Complimenti» fece cupo Montalbano.
«Metto la sirena?» spiò Gallo nel momento che partivano.
«Sì, nel culo» rispose Montalbano tòrvolo. E chiuse gli occhi, non aveva gana di parlare. ( “La voce del violino”)

Insomma, Camilleri è come un pianista capace di passare dal jazz al rock, dal liscio alla disco music. Aveva, insomma, grande padronanza espressiva dei più diversi registri linguistici: una consapevolezza che non può prescindere dalle parolacce, come ricorda questo brano tratto da “La pensione Eva” (non appartenente al ciclo di Montalbano): «Aveva imparato che la Pensione Eva si poteva chiamare casino oppure burdellu e che le fìmmine che ci stavano dintra e che si potivano affittare erano nominate buttane. Ma burdellu e buttane erano parolazze che un picciliddru perbene non doveva dire».  Ecco perché chi lo ha conosciuto da vicino racconta che, nei momenti di rabbia (che anche a lui non mancavano, come a tutti) Camilleri si sfogava anche dicendo parolacce, che sono il linguaggio delle emozioni forti e della sincerità: e, ne siamo certi, lo faceva usando l’improperio giusto al momento giusto, con pertinenza e senso delle proporzioni. In tutte le sfumature linguistiche, dalla più aulica alla più greve.
Dunque, se qualcuno affermesse che nei gialli di Camilleri le parolacce svolgono un ruolo marginale, direbbe “una sullenne minchiata”.

Se vi è piaciuto questo post, potrebbero interessarvi anche le mie analisi linguistiche sui testi di Leonardo da Vinci e sulle parolacce nelle canzoni : ho studiato tutte quelle scritte da Fabrizio De Andrè, Elio e le storie tese, Pino Daniele, Lucio Dalla, Franco Califano, Enzo Jannacci.

Dedico questo articolo al mio amatissimo papà, Giovanni Tartamella, scomparso lo scorso 25 settembre.
Sei stato immenso, come il vuoto che sento. 

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Quanto pesa l’odio su Twitter https://www.parolacce.org/2020/08/18/hate-speech-su-twitter-italia/ https://www.parolacce.org/2020/08/18/hate-speech-su-twitter-italia/#respond Tue, 18 Aug 2020 18:48:55 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17441 Facciamo una scommessa. Secondo voi, qual è la percentuale di tweet che contengono insulti in Italia? In altre parole: quanto è diffuso l’hate speech, l’odio,  sui social network nel nostro Paese? Vi do 4 possibilità: A)  28,7%.  B)  21,6%.  C)… Continue Reading

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Il logo del canale Twitter di parolacce.org.

Facciamo una scommessa. Secondo voi, qual è la percentuale di tweet che contengono insulti in Italia? In altre parole: quanto è diffuso l’hate speech, l’odio,  sui social network nel nostro Paese?
Vi do 4 possibilità:

A)  28,7%. 

B)  21,6%. 

C) 13,2%. 

D) 3,7%.

Quale risposta avete scelto? Se è una delle prime 3, beh: siete fuori strada. Perché la risposta corretta è l’ultima: i tweet a contenuto offensivo sono meno del 4% del totale. L’ha accertato una recente ricerca sull’hate speech fatta da DataMediaHub e KPI6: le due società hanno analizzato i tweet scritti fra il 25 aprile e il 17 giugno scorso. Su un totale stimato di  oltre 18 milioni di conversazioni, solo 679mila contenevano insulti. Il 3,7% per l’appunto. E hanno generato un coinvolgimento, un seguito trascurabile: il tasso di engagement (cioè le interazioni: like, retweet, etc) è solo dello 0,26%. 

Al netto di alcune imprecisioni linguistiche, di cui parlerò più avanti, la ricerca è preziosa perché smonta un pregiudizio diffuso: che l’hate speech sia un’emergenza, un fenomeno diffuso. In realtà, è e resta un’eccezione, per quanto inquietante. Come del resto ho scritto in più occasioni, ad esempio quando ho presentato la mia ricerca sulle parolacce più pronunciate in italiano: sono soltanto lo 0,21% di tutte le parole. Dunque, su Twitter (e sui social in generale) si dicono oltre 17 volte più insulti: ma è un dato del tutto atteso, visto che con il paravento di uno schermo ci si sente meno inibiti a offendere rispetto a quanto si fa di persona. La sindrome dei “leoni da tastiera” che tutti conosciamo.

Una sindrome che colpisce soprattutto i giovani maschi, e si manifesta con un sintomo inequivocabile: la mancanza di fantasia. Gli odiatori usano infatti per lo più solo 5 insulti generici (li dico più sotto), prova che non hanno valide argomentazioni per motivare la loro rabbia. O, quanto meno, non le esprimono. Alla fine, i leoni da tastiera si comportano come gli ultras da stadio: tifano in modo acritico per la propria squadra (sia essa un partito, un personaggio, una posizione politica) e insultano quelle avversarie.

L’impostazione della ricerca

I dati demografici del campione (clic per ingrandire)

IL CAMPIONE. I tweet esaminati, come detto, sono stati circa 18,3 milioni. Quelli offensivi risultano 679mila, pari al 3,7% del totale. Li hanno digitati 148mila utenti, pari all’1,4% degli iscritti su Twitter in Italia (10,5 milioni). Come era facile immaginare, gran parte degli “odiatori” sono uomini: il 68%, più di 2 su 3. E la gran parte, il 35,9% sono giovani adulti fra i 25 e i 34 anni d’età. Se si aggiungono anche gli utenti fra i 35 e i 44 anni, emerge che il 64,5% degli insultatori ha fra 25 e 44 anni d’età.

I TERMINI CENSITI. In questa parte linguistica si annidano le uniche imprecisioni dello studio. Gli insulti sono classificati in 7 categorie: generici, sessisti, omofobici, razzisti, antisemiti, di discriminazione territoriale, ideologici, per un totale di una novantina di termini.

Il vocabolario degli odiatori: insulti al posto delle argomentazioni.

L’elenco di quelli generici è però incompleto: mancano (solo per fare i principali esempi) carogna, cornuto, infame, rompicazzo, marchettaro, cazzone; e in questa categoria figura “rotto in culo” che invece, di per sè, sarebbe dovuto rientrare in quelli omofobici. Fra gli insulti sessisti mancano gli insulti rivolti ai maschi (puttaniere, mezzasega, sfigato), come avevo argomentato in questo articolo; e in quelli omofobi mancano quelli rivolti ai transgender (travestito).
Discorso a parte l’elenco di quelli
razzisti, che non comprende termini come crucco e muso giallo; e in questa categoria più generale sarebbe stato più corretto inserire anche quelli antisemiti (giudeo) e di discriminazione territoriale (terrone e polentone) che sono solo varianti sul tema.
D’altronde, va ricordato che gli autori della ricerca non sono linguisti e qualche errore era da mettere in conto (per evitarli bastava leggere il mio
libro , dove c’è l’elenco completo degli insulti e in generale delle parolacce in italiano). Ma l’indagine resta comunque valida perché dà un polso concreto, un ordine di grandezza definito della situazione.

I risultati dell’indagine

I TERMINI PIU’ USATI. Il rapporto sull’hate speech in Italia è interessante anche per un altro aspetto: mostra che la maggior parte degli insulti, il 62,2%, sono offese del tutto generiche (coglione, stronzo…). Seguono, a distanza, le offese politiche (fascista, comunista, etc) col 25,4%, mentre gli appellativi sessisti (troia, zoccola) si fermano al 7,7%. Marginali gli insulti razzisti (negro, terrone, ebreo) , che in tutto raggiungono il 2,77% e ancor meno quelli omofobi (culattone) all’1,9%.

La tipologia di insulti più usati su Twitter (clic per ingrandire).

Non si può dire che gli “odiatori” brillino per fantasia lessicale: i 5 termini più usati (presenti nel 70,38% dei tweet, più di 2 su 3) sono:
♦ coglione: 28,06% (è anche la 12° parolaccia più pronunciata in italiano)
♦ fascista: 16,4%
♦ comunista: 11,20%
♦ stronzo: 8,27%
(8° parolaccia più pronunciata in italiano)
♦ imbecille: 6,45% (26° più pronunciata).
Accorpando questi termini per aree semantiche, gli insulti generici pesano per circa il 42,78%, mentre quelli ideologici per il 27,6%. E anch’essi, in fin dei conti, sono etichette prive di contenuto specifico. Sono giudizi sommari, un modo di liquidare gli avversari gettando addosso secchiate di fango. Senza motivare il perché. E’ vero che il format di Twitter non aiuta: ogni tweet può contenere al massimo 280 caratteri, nei quali non si possono condensare ragionamenti complessi. Ma le ricerche su altri social network (Facebook, chat, etc) danno risultati simili. Quindi, in realtà, la responsabilità dell’hate speech non è del “medium”: è dell’uomo.

PICCHI STAGIONALI. Gli insulti, rileva la ricerca, hanno avuto due picchi in occasione del 25 aprile (festa della liberazione dal fascismo) e del 2 giugno (festa della Repubblica), due date in cui si scatenano le rivalità fra destra e sinistra. L’Italia, insomma, non ha ancora fatto i conti fino in fondo con il proprio passato.

ARGOMENTI SCOTTANTI. Quali sono gli argomenti che scatenano l’aggressività su Twitter? Sono 4, dice il report. 

    1. Gli insulti più usati verso i 3 politici più citati: Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Giuseppe Conte (clic per ingrandire).

      politica: è l’argomento del 26% dei tweet. I personaggi che hanno attirato la maggior parte dei commenti astiosi sono Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Giuseppe Conte. I primi due per le posizioni sull’immigrazione, il terzo in quanto premier (e quindi incolpabile in via di principio per tutte le decisioni politiche). Sia Salvini che Conte ricevono più spesso l’insulto generico “coglione”; la Meloni quello ideologico “fascista”. Dunque, gli scontri politici si giocano a suon di insulti privi di contenuto, usati per squalificare le persone nella loro interezza più che per criticare posizioni precise con argomentazioni razionali. 

    2. intrattenimento e Vip: il 21% dei tweet ha come argomento i commenti su personaggi pubblici come David Parenzo, Fabio Fazio, Bruno Vespa, Fiorella Mannoia, Enrico Mentana e Beppe Grillo. In realtà, a ben vedere, la colorazione politica emerge anche in questo caso visto che molti di loro hanno una collocazione ideologica netta
    3. news: le notizie di vario genere accendono il 19% dei commenti. Il report non precisa nel dettaglio quale tipo di notizie smuovano la “pancia” degli italiani, probabilmente quelle su economia, crisi del lavoro, immigrazione, lavoro, sesso.
    4. sport: i diverbi fra opposte tifoserie sono al centro del 13% dei tweet offensivi, in particolare Giorgio Chiellini (capitano della Juve e della Nazionale) perché all’epoca dello studio aveva pubblicato un libro autobiografico in cui aveva lanciato delle stoccate a vari colleghi fra cui Mario Balotelli (“una persona negativa, senza rispetto per il gruppo”).
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Parolacce su Focus https://www.parolacce.org/2020/04/22/parolacce-su-focus/ https://www.parolacce.org/2020/04/22/parolacce-su-focus/#respond Wed, 22 Apr 2020 09:11:43 +0000 https://www.parolacce.org/?p=17193 Sul nuovo numero di Focus, appena pubblicato, c’è un mio lungo articolo sulle parolacce, richiamato anche sulla copertina: fra le novità, racconto come mi è venuta l’idea di dedicarmi allo studio di questo argomento così particolare (ormai da più di… Continue Reading

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Sul nuovo numero di Focus, appena pubblicato, c’è un mio lungo articolo sulle parolacce, richiamato anche sulla copertina: fra le novità, racconto come mi è venuta l’idea di dedicarmi allo studio di questo argomento così particolare (ormai da più di 14 anni). Una spiegazione che risale ai tempi della mia infanzia.
In più pubblico statistiche, aneddoti, curiosità e tante spiegazioni scientifiche su un fenomeno linguistico antico quanto l’uomo.

Naturalmente, per chi vuole approfondire ancora di più c’è sempre il mio libro in formato ebook, scaricabile da Google Play, Amazon, iTunes, insomma tutte le principali piattaforme.

Nel frattempo, ho parlato del mio articolo in varie interviste.

 

Su radio Rtl 102.5 sono stato ospite del programma “Non stop news” con  Barbara Sala, Enrico Galletti e Stefano Mannucci.
Potete ascoltare l’intervento (4 minuti) cliccando sul player qui sotto:

 

 

 

Mariella Palermo di Radio Margherita mi ha fatto un’intervista di oltre 6 minuti, che potete ascoltare cliccando sul player qui sotto:

 

 

Vicky Mangone di radio Latte & miele mi ha intervistato nel corso della sua trasmissione “A casa di Vicky”:

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