Il logo del canale Twitter di parolacce.org.
Facciamo una scommessa. Secondo voi, qual è la percentuale di tweet che contengono insulti in Italia? In altre parole: quanto è diffuso l’hate speech, l’odio, sui social network nel nostro Paese?
Vi do 4 possibilità:
A) 28,7%.
B) 21,6%.
C) 13,2%.
D) 3,7%.
Quale risposta avete scelto? Se è una delle prime 3, beh: siete fuori strada. Perché la risposta corretta è l’ultima: i tweet a contenuto offensivo sono meno del 4% del totale. L’ha accertato una recente ricerca sull’hate speech fatta da DataMediaHub e KPI6: le due società hanno analizzato i tweet scritti fra il 25 aprile e il 17 giugno scorso. Su un totale stimato di oltre 18 milioni di conversazioni, solo 679mila contenevano insulti. Il 3,7% per l’appunto. E hanno generato un coinvolgimento, un seguito trascurabile: il tasso di engagement (cioè le interazioni: like, retweet, etc) è solo dello 0,26%.
Al netto di alcune imprecisioni linguistiche, di cui parlerò più avanti, la ricerca è preziosa perché smonta un pregiudizio diffuso: che l’hate speech sia un’emergenza, un fenomeno diffuso. In realtà, è e resta un’eccezione, per quanto inquietante. Come del resto ho scritto in più occasioni, ad esempio quando ho presentato la mia ricerca sulle parolacce più pronunciate in italiano: sono soltanto lo 0,21% di tutte le parole. Dunque, su Twitter (e sui social in generale) si dicono oltre 17 volte più insulti: ma è un dato del tutto atteso, visto che con il paravento di uno schermo ci si sente meno inibiti a offendere rispetto a quanto si fa di persona. La sindrome dei “leoni da tastiera” che tutti conosciamo.
Una sindrome che colpisce soprattutto i giovani maschi, e si manifesta con un sintomo inequivocabile: la mancanza di fantasia. Gli odiatori usano infatti per lo più solo 5 insulti generici (li dico più sotto), prova che non hanno valide argomentazioni per motivare la loro rabbia. O, quanto meno, non le esprimono. Alla fine, i leoni da tastiera si comportano come gli ultras da stadio: tifano in modo acritico per la propria squadra (sia essa un partito, un personaggio, una posizione politica) e insultano quelle avversarie.
IL CAMPIONE. I tweet esaminati, come detto, sono stati circa 18,3 milioni. Quelli offensivi risultano 679mila, pari al 3,7% del totale. Li hanno digitati 148mila utenti, pari all’1,4% degli iscritti su Twitter in Italia (10,5 milioni). Come era facile immaginare, gran parte degli “odiatori” sono uomini: il 68%, più di 2 su 3. E la gran parte, il 35,9% sono giovani adulti fra i 25 e i 34 anni d’età. Se si aggiungono anche gli utenti fra i 35 e i 44 anni, emerge che il 64,5% degli insultatori ha fra 25 e 44 anni d’età.
I TERMINI CENSITI. In questa parte linguistica si annidano le uniche imprecisioni dello studio. Gli insulti sono classificati in 7 categorie: generici, sessisti, omofobici, razzisti, antisemiti, di discriminazione territoriale, ideologici, per un totale di una novantina di termini.
Il vocabolario degli odiatori: insulti al posto delle argomentazioni.
L’elenco di quelli generici è però incompleto: mancano (solo per fare i principali esempi) carogna, cornuto, infame, rompicazzo, marchettaro, cazzone; e in questa categoria figura “rotto in culo” che invece, di per sè, sarebbe dovuto rientrare in quelli omofobici. Fra gli insulti sessisti mancano gli insulti rivolti ai maschi (puttaniere, mezzasega, sfigato), come avevo argomentato in questo articolo; e in quelli omofobi mancano quelli rivolti ai transgender (travestito).
Discorso a parte l’elenco di quelli razzisti, che non comprende termini come crucco e muso giallo; e in questa categoria più generale sarebbe stato più corretto inserire anche quelli antisemiti (giudeo) e di discriminazione territoriale (terrone e polentone) che sono solo varianti sul tema.
D’altronde, va ricordato che gli autori della ricerca non sono linguisti e qualche errore era da mettere in conto (per evitarli bastava leggere il mio libro , dove c’è l’elenco completo degli insulti e in generale delle parolacce in italiano). Ma l’indagine resta comunque valida perché dà un polso concreto, un ordine di grandezza definito della situazione.
I TERMINI PIU’ USATI. Il rapporto sull’hate speech in Italia è interessante anche per un altro aspetto: mostra che la maggior parte degli insulti, il 62,2%, sono offese del tutto generiche (coglione, stronzo…). Seguono, a distanza, le offese politiche (fascista, comunista, etc) col 25,4%, mentre gli appellativi sessisti (troia, zoccola) si fermano al 7,7%. Marginali gli insulti razzisti (negro, terrone, ebreo) , che in tutto raggiungono il 2,77% e ancor meno quelli omofobi (culattone) all’1,9%.
Non si può dire che gli “odiatori” brillino per fantasia lessicale: i 5 termini più usati (presenti nel 70,38% dei tweet, più di 2 su 3) sono:
coglione: 28,06% (è anche la 12° parolaccia più pronunciata in italiano)
fascista: 16,4%
comunista: 11,20%
stronzo: 8,27% (8° parolaccia più pronunciata in italiano)
imbecille: 6,45% (26° più pronunciata).
Accorpando questi termini per aree semantiche, gli insulti generici pesano per circa il 42,78%, mentre quelli ideologici per il 27,6%. E anch’essi, in fin dei conti, sono etichette prive di contenuto specifico. Sono giudizi sommari, un modo di liquidare gli avversari gettando addosso secchiate di fango. Senza motivare il perché. E’ vero che il format di Twitter non aiuta: ogni tweet può contenere al massimo 280 caratteri, nei quali non si possono condensare ragionamenti complessi. Ma le ricerche su altri social network (Facebook, chat, etc) danno risultati simili. Quindi, in realtà, la responsabilità dell’hate speech non è del “medium”: è dell’uomo.
PICCHI STAGIONALI. Gli insulti, rileva la ricerca, hanno avuto due picchi in occasione del 25 aprile (festa della liberazione dal fascismo) e del 2 giugno (festa della Repubblica), due date in cui si scatenano le rivalità fra destra e sinistra. L’Italia, insomma, non ha ancora fatto i conti fino in fondo con il proprio passato.
ARGOMENTI SCOTTANTI. Quali sono gli argomenti che scatenano l’aggressività su Twitter? Sono 4, dice il report.
Gli insulti più usati verso i 3 politici più citati: Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Giuseppe Conte (clic per ingrandire).
politica: è l’argomento del 26% dei tweet. I personaggi che hanno attirato la maggior parte dei commenti astiosi sono Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Giuseppe Conte. I primi due per le posizioni sull’immigrazione, il terzo in quanto premier (e quindi incolpabile in via di principio per tutte le decisioni politiche). Sia Salvini che Conte ricevono più spesso l’insulto generico “coglione”; la Meloni quello ideologico “fascista”. Dunque, gli scontri politici si giocano a suon di insulti privi di contenuto, usati per squalificare le persone nella loro interezza più che per criticare posizioni precise con argomentazioni razionali.
La politica accende l’emotività sui “social” (montaggio foto Shutterstock).
Quali partiti politici attirano più insulti, in Italia e in Europa? E’ una delle domande a cui risponde un’indagine del settimanale L’Espresso. I suoi esperti hanno esaminato i profili “social” di 360 politici di 4 nazioni: Italia, Francia, Germania e Svizzera. Scoprendo che il nostro Paese è quello in cui il dibattito – almeno su Facebook e Twitter – è più avvelenato dagli insulti. E, sorpresa, non è il Movimento 5 Stelle la più forte calamita dell’odio, bensì lo schieramento di centro-destra, seguito dal Pd. Entrambi hanno le maggiori percentuali di insulti ricevuti nei commenti, e di offese verso gli avversari. I temi più bollenti? La rabbia verso la casta, il sessismo verso le donne, gli immigrati, il fascismo, l’omofobia e i vaccini.
Clic per ingrandire (foto Shutterstock e Wikipedia).
L’indagine arriva in un momento di grande incertezza e delusione, almeno in Italia. Dunque, un tema di grande attualità. E mette in luce quanto oggi la politica non sia dominata dall’analisi dei contenuti, quanto invece dall’emotività: come negli stadi, le fazioni opposte si insultano ciecamente, senza esaminare le reciproche posizioni, solo nel tentativo di prevalere l’una sull’altra.
I ricercatori hanno esaminato 40mila commenti riguardanti 360 politici: 320 rappresentanti noti, a cui hanno aggiunto 40 leader di partito, nel periodo compreso fra il 21 febbraio e il 21 marzo scorsi. Dunque, almeno per l’Italia, in piena campagna elettorale e subito dopo i risultati delle elezioni politiche del 4 marzo. I limiti dell’indagine? Il fatto che abbia escluso due Paesi come la Spagna e la Grecia, con culture e sensibilità più simili a quelle italiane (rispetto a Germania e Svizzera). Ma vediamo i risultati dell’indagine.
La prima scoperta è notevole: l’Italia è il Paese con il maggior numero di commenti sui “social” dei politici. E il vincitore assoluto, colui che più di tutti riesce a parlare alla “pancia” degli elettori è Matteo Salvini: il leader della Lega è infatti il politico che ha ricevuto più commenti in assoluto, seguito da Luigi di Maio (M5S). Seguono Matteo Renzi (Pd), Giorgia Meloni (Fdi) e Silvio Berlusconi (FI). I leader degli altri partiti europei, da Marine Le Pen ad Angela Merkel, sono ben distanziati in fondo alla classifica. Questi dati possono significare diverse cose: innanzitutto che i nostri politici sono molto attivi sui “social”: pubblicano molti interventi. E questo stimola i navigatori a commentare le loro prese di posizione. Insomma, proprio come sta avvenendo negli Usa con Donald Trump, la partecipazione politica si è spostata sulle piazze digitali. E, a giudicare dai risultati elettorali, la strategia di rivolgersi agli elettori su Facebook e Twitter funziona.
Ma quale tipo di comunicazione passa attraverso i canali digitali? La ricerca ha esaminato i contenuti dei commenti, classificandoli in 4 categorie: commenti neutrali, molto scortesi, offese esplicite e discorso d’odio. Purtroppo non sono noti i criteri con cui è stata fatta questa classificazione, di cui è responsabile “Articolo 19”, un’organizzazione impegnata nella libertà di espressione in Rete (di cui, però, non sono riuscito a trovare traccia sul Web).
In tutte le nazioni esaminate, i commenti offensivi – per quanto saltano all’occhio – sono comunque una minoranza: la punta massima è quasi il 12% ed è riservata ai leader di partito. L’Italia è il Paese in cui si offende di più in assoluto, la Germania quello in cui si offende meno. Francia e Svizzera stanno in mezzo, più o meno a pari merito (anche se la Francia ha il più alto tasso di offese ai politici comuni). In tutti i Paesi, comunque, sono soprattutto i leader di partito quelli che ricevono il maggior numero di insulti, com’era prevedibile: chi sta più in alto è più esposto, come in tutti gli ambiti della vita. Ma pesa anche l’esempio: se un capo politico basa la propria visibilità sugli insulti, i suoi sostenitori lo imiteranno; e i suoi detrattori lo ripagheranno con la stessa moneta.
Dunque, come commenta L’Espresso, «mediamente la conversazione online, sulle pagine dei politici, è abbastanza serena o moderata. Scorre quieta fra il sostegno e la chiacchiera, fra l’indifferenza e il “vergogna” di passaggio. L’aggressività non è un dato costante del rapporto fra il “popolo del web” e i propri eletti».
I picchi di maggior aggressività, infatti, risultano coagularsi su temi specifici. Quali? I soliti che ben conosciamo: lo spettro degli immigrati (in Italia ma anche in Germania), l’obbligo dei vaccini, i privilegi della casta, i rigurgiti di fascismo e l’omofobia. Una tendenza generalizzata, dovuta al fatto che mentre i partiti di sinistra sono in crisi d’identità, la destra ne riempie il vuoto con contenuti e slogan semplificati (tutti in galera, spariamo agli invasori, basta poteri forti, etc).
Poco o nulla del dibattito si concentra sulle vere cause del disagio sociale: l’economia.
Da segnalare, poi, anche un discreto tasso di sessismo: in Italia gli insulti verso le politiche donne sono il doppio rispetto a quelle verso i colleghi maschi e in Francia sono oltre il triplo. In effetti, in questi due Paesi il sessismo è un vero tasto dolente.
In Svizzera, invece, gli insulti sono ripartiti fra ambo i sessi con una perfetta “par condicio“. Mentre in Germania il fenomeno è curiosamente rovesciato: i politici uomini sono più insultati rispetto alle donne. Perché? Davvero difficile dirlo.
Infine, la ricerca ha esaminato, in Italia, quali fossero i partiti che attirano il maggior numero di insulti. Il risultato non è una sorpresa: vince a mani basse il centro-destra della triade Salvini-Berlusconi-Meloni. Quasi un commento su 10 tra quelli lasciti nei social dei politici dell'(ormai ex) centrodestra sono offensivi nei confronti di altri. Ma la sorpresa sta altrove: il secondo gradino del podio non va, come ci si aspetterebbe, al Movimento 5 Stelle bensì al Pd di Renzi & C: se è vero che il centro-destra ha saputo incarnare e cavalcare il malcontento della “pancia” degli italiani, la sinistra italiana ha imitato questo modello in cerca di visibilità. Il centro-destra, in particolare, è il gruppo di partiti che riceve il maggior numero di insulti, e dai cui commentatori arriva il più alto tasso di insulti verso le altre forze politiche. Il Pd ha uguali tendenze, ma con un tasso dimezzato. I 5 Stelle, invece, ricevono pochi insulti (0,5%): prevalgono “il senso di appartenenza, l’entusiasmo, la comunità”; e dai suoi commentatori arriva anche il più basso tasso di insulti verso le altre forze politiche (3,3%). Risultato notevole per un movimento nato in un “Vaffa day”.
Secondo l’attore Clint Eastwood, questo avviene perché la gente ormai è stanca della “correttezza politica” (politically correct), dei leccaculo e dei fighetti: nella nostra epoca, insomma, si apprezza chi dice “pane al pane e vino al vino“. E’ davvero così?
La questione è più che mai d’attualità: mancano pochi giorni alle presidenziali americane, dopo una campagna elettorale che Trump ha basato sistematicamente sugli insulti contro tutti gli avversari.
Ma cosa dice la scienza su questo stile comunicativo? Davvero il politicamente scorretto riesce a spostare i consensi in politica?
Un’originale ricerca scientifica italiana – uscita sul Journal of Language and Social Psychology – ha accertato che le parolacce funzionano davvero, ma in modo invisibile: condizionano gli elettori in modo indiretto e inconsapevole, perché attirano l’attenzione e danno un’impressione di schiettezza e confidenza.
Ma attenzione: le parolacce non funzionano sempre e comunque. Per i candidati uomini, in particolare, il linguaggio triviale rischia di trasformarsi in un boomerang, ovvero di risultare meno persuasivo rispetto a un ragionamento più compassato. Soprattutto se le volgarità sono usate per attaccare gli avversari e non le loro idee. Dunque, Trump è destinato a perdere?
Prima di rispondere, vediamo più in dettaglio che cosa hanno scoperto le ricerche scientifiche. L’idea è venuta a due psicologhe dell’Università di Modena-Reggio Emilia, Nicoletta Cavazza e Margherita Guidetti, che per misurare l’impatto delle parolacce hanno fatto un esperimento interessante. Hanno presentato via Internet a 110 adulti (da 20 a 68 anni d’età) il blog di due candidati inventati: Mario e Maria Gambettini. In un caso il loro testo conteneva volgarità, in un altro no.
Le frasi volgari erano due: “Un milione di famiglie non può contare su un reddito mensile: una situazione che ha fatto incazzare tutti” e “A peggiorare le circostanze, la cura di sole tasse al paziente Italia, che ora più che mai si trova nella merda” (vedi immagine: clic per ingrandire).
Dunque, la ricerca non ha valutato l’uso di insulti (non si offendeva nessuno in particolare), bensì l’uso di un linguaggio volgare enfatico: si esprimevano posizioni politiche usando il linguaggio della strada per rafforzare i concetti, dare un colore emotivo e attirare l’attenzione.
In questo modo, le ricercatrici potevano valutare l’efficacia delle parolacce sia per un candidato maschile che per uno femminile, senza tenere conto di tutti gli altri possibili fattori che nella campagna elettorale hanno peraltro un peso notevole: il volto, l’età, la provenienza geografica e sociale, il livello di istruzione, la militanza ideologica (destra-sinistra-centro)…
Il “V-day” (V sta per vaffanculo) che ha segnato il debutto politico del Movimento 5 stelle.
Ecco quali sono stati i risultati dell’esperimento:
Quali conclusioni trarre da questi risultati? «Se la informalità è percepita come una sorpresa positiva, dire parolacce è un modo efficace per aumentare il consenso» scrivono le ricercatrici. «Ma questo avviene in modo indiretto e inconsapevole: un linguaggio volgare dà un’alta impressione di informalità, avvicinando il politico alla gente e lasciando un segno che poi, in prospettiva, può tradursi in un voto (v. diagramma sopra). Ma se a un elettore si domanda esplicitamente se voterà per un candidato volgare, la risposta è no, soprattutto per un candidato uomo: forse nessuno si sente di affermare che voterà un candidato solo perché ha usato un linguaggio triviale».
La ricerca, però, ha studiato solo le parolacce enfatiche, rafforzative. Ma quali effetti ha un politico che dice insulti? «Le ricerche scientifiche distinguono fra due situazioni: gli insulti contro il programma e i contenuti politici, e gli insulti contro un’altra persona» risponde Cavazza. «Mentre i primi funzionano e spostano voti, i secondi si rivelano un boomerang. In pratica, posso dire che le idee di un avversario sono cazzate, a patto di argomentare e spiegare perché; ma se dico che il mio nemico è un cazzone, la strategia non paga: si perdono credibilità e autorevolezza, ovvero si perdono voti».
Allora Trump è condannato a perdere? Ha basato la sua campagna elettorale su attacchi a 360 gradi… Tanto che il “New York Times” ha pubblicato la lista dei suoi oltre 4mila tweet contro 281 persone, Paesi o situazioni (nella foto): uno su 8 (il 12,5%) era un insulto, soprattutto contro la rivale Hillary Clinton definita ossessivamente “corrotta” (crooked).
«In effetti la tattica di Trump è sconcertante: forse è mal consigliato o non segue i consigli del suo staff di comunicazione» osserva Cavazza. «La sua campagna aggressiva si rivolge soprattutto ai disaffezionati, a chi non va a votare: il suo tono sopra le righe serve a dare l’impressione che i giochi per la Casa Bianca siano ancora aperti, e che ogni singolo voto possa fare la differenza. Trump fa leva sulle minacce potenziali (immigrati, terroristi) per spingere l’elettorato verso destra e verso una forma di governo forte. Fa leva sulle minacce, questo può servire a rendere compatto l’elettorato contro i (presunti) nemici. Ma Trump non propone nulla di rassicurante e questo spaventa molti americani: in questo modo, favorisce la Clinton, che, anche per la sua lunga esperienza politica, appare più competente e capace di gestire le minacce internazionali».
Dunque la strategia di Trump si rivelerà un boomerang? «Difficile fare previsioni: di sicuro è uno stile che non mi sento di raccomandare. E finora non mi pare che abbia pagato. Bisognerà vedere quanti elettori disaffezionati alla politica andranno poi effettivamente a votare l’8 novembre». E anche quante elettrici decideranno di punire il maschilismo del magnate nel segreto dell’urna.
30 novembre 2015, convention del partito Pdp-Laban
LA FRASE. “Papa, figlio di mignotta [Putang Ina Ka], tornatene a casa. Non tornare più a farci visita”. A quell’epoca Duterte si era appena candidato alla presidenza. Era indispettito perché, quando papa Francesco era venuto nelle Filippine, Duterte aveva impiegato 5 ore per raggiungere un centro commerciale della città, per gli ingorghi causati dalla visita papale. E così, rievocando l’episodio, ha insultato il pontefice.
L’insulto è stato detto in modo scherzoso, ma ha fatto clamore in un Paese dove l’81% degli abitanti è di fede cattolica. Tanto che, nei giorni seguenti. Duterte ha dovuto scusarsi. Ma la sua uscita ha fatto breccia nella “pancia” dell’elettorato.
4 giugno 2016, a una conferenza stampa, rispondendo ai media stranieri che lo avevano criticato.
LA FRASE. “Vaffanculo [fuck you] Onu, non riesce nemmeno a risolvere le carneficine in Medio-Oriente… e non riesce nemmeno ad alzare un dito in Africa… Chiudete il becco tutti quanti!”. Spiegherò più avanti i motivi di questo attacco all’Onu. La frase è stata pronunciata in piena campagna elettorale: era un assaggio di quanto sarebbe avvenuto nei mesi successivi.
8 agosto 2016, incontro con le forze armate.
LA FRASE. “Avevamo parlato con Kerry (John Kerry, segretario di Stato, Usa). Con lui è tutto a posto, anche se ho litigato con il loro ambasciatore (Philip Goldberg, ndr), quel frocio [bakla]. Figlio di puttana [putang ina], mi infastidisce davvero. Goldberg si è immischiato durante le elezioni, facendo dichiarazioni qua e là. Non doveva farlo”.
5 settembre 2016, a una conferenza stampa
LA FRASE. “Porca puttana [putang-ina], ti maledirò in quel dibattito (riferimento all’incontro previsto con Obama al summit Asean in Laos, ndr) ”. La frase è stata tradotta da molti media come “figlio di puttana”, ma in realtà secondo una traduzione autorevole qui “puttana” è usato come imprecazione, come sfogo di rabbia generico. Secondo altri commentatori, invece, Duterte avrebbe detto “figlio di puttana” ma non a Obama, bensì al giornalista che gli aveva fatto una domanda scomoda. La frase si inseriva in un discorso in cui Duterte ha ribadito, lucidamente e con orgoglio, di essere “presidente di uno Stato sovrano, abbiamo smesso da tempo di essere una colonia”, accusando di indebite ingerenze gli Usa.
Dopo il clamore suscitato sui media Duterte si è scusato, precisando comunque che l’insulto non era rivolto a Obama. Ma di fatto l’incidente diplomatico c’è stato lo stesso: Obama ha cancellato un incontro previsto con Duterte, qualificandolo come un “tipo colorito”. Eleganza contro stile trash.
9 settembre 2016, summit Asean in Laos
LA FRASE. “Ban Ki-Moon ha fatto un’altra dichiarazione sui diritti umani. Sei un altro stronzo/rincoglionito [tarantado]”. Anche le ragioni di questo attacco le spiegherò più sotto.
21 settembre 2016, discorso a Davao
LA FRASE. “Ho letto la condanna dell’UE contro di me. Dirò loro: ‘Fanculo’ (fuck, alzando il dito medio, ndr). In realtà lo stai facendo per espiare i tuoi peccati: basta leggere i libri di storia per vedere che i Paesi europei hanno ucciso migliaia di persone in passato. E hanno la faccia tosta di condannare me… Lo ripeto: andate affanculo”. Il motivo della polemica contro l’Ue è lo stesso che lo ha spinto contro l’Onu.
Come si spiegano tutti questi insulti? Innanzitutto, bisogna precisare che nonostante i suoi modi di fare, Duterte non è una persona incolta: è un ex avvocato di 71 anni. Ed è soprattutto un politico navigato: il suo esordio risale al 1988, quando fu eletto sindaco della città di Davao, che ha amministrato per oltre 20 anni, fino al 2010. L’uso di insulti si spiega, piuttosto, con il suo populismo: strizza l’occhio alla gente comune, usandone il linguaggio.
In più, ha un carattere spiccio e autoritario: quando era sindaco, ha adottato il pugno di ferro – tolleranza zero – contro la criminalità, avallando metodi sanguinari da parte della polizia e di anonimi squadroni della morte. Guadagnandosi così il soprannome di “castigatore” (The punisher) o di “sceriffo del Pacifico”.
Un approccio che ha continuato anche da presidente, nella lotta alla droga: si stima che da quando è entrato in carica, circa 3mila persone sono state uccise: un terzo dalla polizia, il resto da anonimi assassini. Duterte ha pure offerto medaglie e ricompense in denaro per chi avesse ucciso i trafficanti. Dunque, assolutista, nazionalpopolare e violento.
Eppure, come ha rilevato un’inchiesta di “Time”, la diffusione di droga nelle Filippine non è peggiore che in altri Paesi. “Consumatori e spacciatori di droga” scrive il settimanale, “sono solo l’ultimo capro espiatorio in un Paese che da tempo deve affrontare problemi molto più gravi, come la corruzione endemica, la povertà, una sanità pubblica carente, gli abusi dei diritti e l’impunità della polizia (…). Duterte è riuscito a convincere molti suoi concittadini che il consumo di droga è una tale emergenza da minacciare l’esistenza stessa del Paese, e che solo il suo governo può salvare le Filippine”. Dunque, parolacce e lotta alla droga sarebbero una strategia di “distrazione di massa”.
Duterte mostra l’organigramma dello spaccio di droga (Wikipedia, King Rodriguez/Presidential Photographers Division)
Ed è proprio la sistematica violazione dei diritti umani che ha spinto Onu, Usa e Ue a contestare Duterte, il quale invece vuole tirare dritto per la propria strada. Dunque, le parolacce sono usate non solo per aumentare il consenso, ma anche per ribadire la propria identità a dispetto delle pressioni (o ingerenze) internazionali. “Vuole mostrarsi come uomo di popolo, paladino di un’indipendenza e di una purezza politica e culturale molto seducente per l’orgoglioso popolo filippino”, scrive Difesaonline.
Ma quali effetti avranno i suoi attacchi ai poteri forti? Non rischia di perdere autorevolezza internazionale e di portare le Filippine all’isolamento?
Il rischio esiste, ma potrebbe anche essere calcolato, ipotizzano alcuni esperti di geopolitica. Finora, le Filippine sono state un’importante stampella per le strategie Usa nel Pacifico, scrive ancora Difesaonline, soprattutto in chiave anti-cinese. Ma forse Duterte vuole cambiare gli equilibri, riaprendo il dialogo con Pechino. O magari semplicemente alzare la posta con gli Usa.
Come andrà a finire, è difficile immaginarlo. Di certo, però, lo stile di Duterte resta senza precedenti: se il buongiorno si vede dal mattino (Duterte è in carica da 3 mesi) ne vedremo delle belle. Del resto, in filippino presidente si dice “pangulo”: un nome, un destino?
Ringrazio le persone che mi hanno aiutato a districarmi nel filippino, da WordLo a molti altri.
E’ stato interessante (e divertente).
Sergio Giordano e la moglie Carla Forcellini durante una manifestazione in spiaggia.
«Erano gli anni ’80 e stavo passeggiando sulla spiaggia col mio cane» racconta Giordano. «A un certo punto sulla spiaggia si è aperto uno scarico fognario: sono dovuto intervenire perché, per poco, il mio cane rischiava di morire affogato nella merda. Ho chiamato in Comune per protestare, ma mi hanno dato risposte evasive. Allora ho iniziato a informarmi, e a bussare a tutte le porte: ma mi sono trovato davanti a un muro di gomma. Istituzioni, albergatori, bagnini, persino le associazioni ambientaliste e di consumatori si voltavano dall’altra parte. L’argomento era tabù perché tutti temevano che, sollevando il problema, Rimini avrebbe perso turisti: ma li avrebbe persi a maggior ragione se non avesse affrontato la situazione! Nel mare di Rimini affluiscono (quando ci sono forti piogge) gli scarichi fognari non solo della città, ma anche dell’entroterra, fino a San Marino. Così, insieme ad altri che nel frattempo si erano uniti alla mia causa, abbiamo deciso di chiamarci con quel nome: volevamo far sentire la nostra voce, scuotere le coscienze. E poi, avendo militato nei radicali, non avevo paura di affrontare la situazione di petto. Abbiamo organizzato assemblee, volantinaggi, proteste: è stata dura, perché all’inizio ci prendevano per terroristi».
Il nome non poteva passare inosservato. E, strada facendo, è arrivato un supporter inaspettato: Beppe Grillo, che all’epoca faceva soltanto il comico, per quanto sensibile alle tematiche ambientali.
«Era l’anno 2000» ricorda ancora Giordano. «Approfittando del fatto che l’ex moglie di Beppe Grillo è riminese, sono riuscito a fargli sapere della nostra battaglia. Lui era arrivato in città per uno spettacolo, e come sempre si teneva informato sulle tematiche locali per rendere più incisivo il suo show. Quando seppe della nostra associazione, mi fece chiamare per portargli subito in camerino un nostro manifesto. E’ andata oltre le più rosee aspettative: durante lo spettacolo, Grillo ha sventolato il nostro manifesto, l’ha arrotolato e l’ha sbattuto più volte sulla testa del sindaco di allora, per stimolarlo a intervenire dicendo: Basta merda in mare! Basta merda in mare!». Chissà se l’ispirazione per la sua politica a suon di parolacce (dal “Vaffa day” in poi) sia germogliata in Romagna…
Ma dopo la breve parentesi dello spettacolo di Grillo, la strada dell’associazione è rimasta comunque in salita. «Quando mi presentavo alle autorità, dicendo il nome dell’associazione, l’effetto era quello di un pugno nello stomaco» racconta ancora Giordano. «Ma abbiamo tenuto duro: insisti oggi, insisti domani, pian piano i riminesi hanno capito l’importanza della nostra battaglia e il nostro nome è stato accettato da tutti, cittadini, stampa e istituzioni. Solo il “Resto del Carlino”, quando scrive di noi, glissa sul nome chiamandoci “Basta m… in mare”. Ma ciò che conta è che ora siamo finalmente ottimisti: i lavori di potenziamento delle fogne sono partiti, e già da quest’anno i collettori di Rimini nord non scaricheranno più in mare. Entro il 2020 non avremo più questo problema. Che però continua ad affliggere tante altre città costiere d’Italia: ecco perché ci hanno chiesto di aprire comitati affiliati a Falconara Marittima e forse anche in Salento».
Insomma, la lotta alla merda nei mari italiani continua. E sì: per quanto «pochi, pochissimi» dice Giordano, “Basta merda in mare” riceve anche i contributi del 5 x 1000.
E, probabilmente, questo approccio schietto e diretto nell’ecologia potrebbe funzionare anche in altri campi, come l’economia: provate a vedere il film “La grande scommessa“, al cinema in questi giorni. Una delle scene clou del film – da non perdere, se volete capire le ragioni della crisi attuale – è quando gli economisti (onesti) dicono: “Cosa sono i subprime? Merda!”.
Questo post è stato ripreso da AdnKronos e “La Voce di Romagna“. Ed è stato citato nel docufilm “Gli amici delle fogne – Il mare pulito di Rimini: il suo valore, la sua storia”, scritto e diretto da Manuela Fabbri per l’associazione “Basta merda in mare” (per ricevere il dvd: scrivere a BMIM).
Qui sotto lo spezzone dedicato a parolacce.org:
UPDATE: l’associazione “Basta merda in mare” ha ricevuto dal Comune di Rimini il Sigismondo d’oro 2021, la massima onorificenza cittadina. Ecco cosa dice la motivazione: “Per aver contribuito in maniera fattiva a migliorare la nostra comunità, in termini ambientali, sociali, relazionali e culturali. Sono l’esempio e la testimonianza di come la passione, sia individuale che organizzata in forma collettiva, abbia un reale impatto sulla vita e sul futuro delle città. La partecipazione è un patrimonio, una ricchezza, uno stimolo che deve essere accolto con totale convinzione e apertura da parte dell’Istituzione. ‘Basta merda in mare’, con la sua incessante attività pluriennale, ha consentito a Rimini di superare ingiustificati ritardi e veri e propri tabù, ponendo nella giusta luce e dimensione problemi prima misconosciuti, creando percorsi e soluzioni attraverso la collaborazione, credendo fermamente nell’apporto straordinario che può dare ogni persona al bene comune”.
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Copertina de “L’Unità” del 1928: all’epoca era un giornale clandestino.
E così le parolacce sono diventate un linguaggio di rottura: un’arma per fare la rivoluzione, per rovesciare il potere costituito, per dire che il re è nudo. E sono diventate anche un segno distintivo, come i forconi: il linguaggio del popolo, del volgo (volgare, appunto), è diventato il linguaggio della schiettezza, dell’autenticità: di chi dice “pane al pane”. Da questo punto di vista, le parolacce sembrano essere più “di sinistra”, se per sinistra si intende uno schieramento politico progressista, socialista, radicale, riformista, mentre la destra rappresenta i conservatori, i tutori dell’ordine costituito. Semplificando: a sinistra i poveri, con un linguaggio popolare; a destra i ricchi, con un linguaggio più forbito. Ma la separazione non è così netta: ci sono poveri “di destra”, morigerati nel linguaggio; e ricchi “di sinistra”, con un linguaggio ruspante.
In realtà le parolacce sono state usate, in epoche alterne, da tutti i movimenti, sia di destra che di sinistra, che si sono schierati contro la cultura dominante: dai futuristi di Tommaso Marinetti, ai fascisti di Benito Mussolini (che usava un “linguaggio da caserma“, essendo un dittatore), fino alla contestazione giovanile del ’68.
Una rivoluzione, questa, che ha accomunato destra e sinistra nella lotta contro il potere costituito. E anche contro il suo linguaggio formale: dal 1968 il linguaggio informale, colloquiale (parolacce comprese) ha fatto irruzione in ogni settore, dalla letteratura al cinema, alla radio. Diventando l’emblema della contestazione giovanile, dell’abbattimento delle barriere di classe, della lotta ai formalismi e all’autorità. Ancora oggi i giovani usano il gergo e le parolacce proprio per distinguersi e prendere le distanze dagli adulti, anche nel linguaggio.
Poi, nel 1984, il vento è cambiato: nasceva la Lega Nord ed entrava in politica Umberto Bossi. Un’entrata dirompente, anche nel linguaggio: Bossi voleva accreditarsi come forza popolare, e al tempo stesso scuotere il panorama politico per gridare a gran voce i bisogni del Nord, anche attraverso le parolacce. Diverse espressioni volgari apparivano anche negli slogan – molto diretti, verso gli avversari e verso gli immigrati – dei manifesti leghisti. In quegli anni, intanto, anche la sinistra usava le parolacce, non in politica ma nella satira: era nato “Il Vernacoliere” (1982), mensile livornese anarcoide con simpatie a sinistra; e soprattutto “Cuore” (1989-1996), settimanale satirico inserto dell’Unità. Le sue prime pagine sono passate alla storia proprio grazie alle parolacce, che in quegli anni era impossibile trovare sulle pagine dei giornali.
Il duopolio Lega-satira si è spezzato negli anni ’90, con il debutto politico di un terzo incomodo, Silvio Berlusconi: dal 1994 ha usato le parolacce sia per strizzare l’occhio al popolo (“parlo come voi perché sono come voi”: un’operazione di marketing) sia per attirare l’attenzione su di sé (e a volte per distrarre da problemi ben più spinosi), sia per attaccare, svilendoli, i propri avversari e corrodere il potere delle istituzioni (magistratura innanzitutto). Dopo lo scandalo iniziale, col passare del tempo il suo linguaggio ha contagiato tutta la destra, ma anche gli altri schieramenti. La parolaccia era stata definitivamente “sdoganata” in politica.
Solo 13 anni dopo ha fatto irruzione nella politica italiana un quarto alfiere delle volgarità: Beppe Grillo. Che ha fatto un’operazione diversa: ha messo il linguaggio della satira al servizio della politica. E l’ha fatto con grande padronanza, grazie al suo passato di comico. Tanto che il suo esordio nelle piazze è avvenuto con uno slogan che era una parolaccia: vaffanculo (“Vaffa day”, 2007). Il vaffanculo serviva a esprimere la rabbia del “popolo” contro i politici condannati che continuavano (e continuano) a sedere in Parlamento.
Con lui, la contaminazione fra satira e politica ha raggiunto il culmine, contagiando anche i quotidiani di destra. Per la prima volta nella storia, i giornali di cronaca toglievano il doppiopetto e iniziavano a usare le parolacce nei titoli: prima “Il Giornale” diretto da Vittorio Feltri (2009-2010), e poi “Libero” di Maurizio Belpietro (dal 2009). Non solo per strizzare l’occhio al popolo, per apparire più schietti, ma anche per prendere una posizione chiara e netta. I due giornali non facevano i cerchiobottisti: dicevano in modo diretto quello che pensavano degli avversari politici.
Nello stesso anno, il 2009, nasceva – a sinistra – “Il fatto quotidiano“: anch’esso prende posizione in modo diretto, ma usa le parolacce più raramente. In tutti questi casi, comunque, si vede quanto è labile il confine fra “popolaresco” e “populista”.
A tutta questa liberalizzazione delle parolacce, però, hanno contribuito non solo i politici, ma anche (e molto) un altro fattore, ancora più influente: la televisione. Essendo a caccia di audience, le tv davano sempre meno spazio alle noiose tribune politiche, in favore dei talk show con risse fra politici.
I politici hanno iniziato a usare un linguaggio volgare non solo per avere più visibilità, per attirare l’attenzione, ma anche per avere una comunicazione veloce ed efficace. In tv, infatti, non c’è tempo per lunghe argomentazioni. Bisogna andare dritti al sodo. E cosa c’è di meglio delle parolacce, che sono “giudizi abbreviati”, sentenze per direttissima e senza appello, per liquidare un avversario in pochi secondi?
Dunque, se oggi viviamo in un’epoca di inflazione delle parolacce, lo dobbiamo al movimento del 1968, ai politici e alla tv. E per i corsi e ricorsi della storia, negli ultimi 25 anni si sono ribaltati i ruoli: la sinistra si è imborghesita, è andata al potere, e mantiene un profilo tendenzialmente “pulito” (potremmo dire “fighetto”) nel linguaggio. La destra, invece, assume i panni dell’oppositore barricadero e rivoluzionario, che parla “pane al pane” e quindi dice le parolacce. Oggi, insomma, le parolacce sono più “di destra”. Ma i confini sono labili: le parolacce riemergono – sia a destra che a sinistra – quando occorre essere brevi, incisivi e “popolari”. I nostri politici, insomma, usano le parolacce per farsi percepire come schietti, diretti e rivoluzionari. Ma non si accorgono che, così facendo, perdono prestigio e somigliano sempre più a una caricatura degli adolescenti, come ha osservato il comico Saverio Raimondo (vedi video qui sotto): “Montecitorio, quartiere malfamato, culla italiana dell’hip hop. Gronda violenza e turpiloquio,e i politici esprimono questo degrado. Il Parlamento punto di ritrovo dell’underground italiano, e i politici si sfidano nelle gare di freestyle”…
Ho parlato di questo argomento nella puntata di “Max e Monica” su Radio Montecarlo il 28 gennaio 2016. Potete ascoltare l’intervento cliccando sul player qui sotto.
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The post Ma le parolacce sono di destra o di sinistra? first appeared on Parolacce.]]>In questi Mondiali di calcio, una notizia è passata sotto silenzio nei giornali italiani. Eppure è una notizia clamorosa: anche il Brasile ha avuto il suo “vaffa day”. E ben più eclatante di quello che – nel 2007 – lanciò in politica Beppe Grillo: perché il sonoro “vaffa” ha avuto come destinatario addirittura un capo di Stato e per di più donna, la presidenta Dilma Rousseff. Ed è avvenuto davanti alle telecamere di tutto il mondo e ad altri 12 capi di Stato presenti in tribuna allo stadio di San Paolo.
Il fatto è accaduto il 12 giugno, alla partita di esordio dei Mondiali, durante la partita Brasile-Croazia (vinta dal Brasile 3-1). Tra i 62mila spettatori presenti all’arena Corinthians, in migliaia hanno intonato più volte in coro: “Ei, Dilma, vai tomar no cú” (“Ehi, Dilma, vaffanculo”).
Il motivo? Politico: con una spesa di 14 miliardi di dollari (tra stadi e infrastrutture), il Mondiale in Brasile è stato quello più costoso della storia. Ma molti brasiliani hanno contestato questa scelta, obiettando che il Paese ha problemi ben più gravi su cui il governo avrebbe dovuto concentrare i propri sforzi economici: inflazione galoppante, povertà, sanità pubblica al collasso, scuola pubblica allo sbando, corruzione sfrenata. Tanto che, quando l’anno scorso fu deciso l’aumento di 20 centesimi dei trasporti pubblici, la popolazione scese in piazza per protestare pacificamente, ma la polizia represse le contestazioni a suon di proiettili di gomma e arresti.
Da allora le proteste sono continuate, tanto che l’anno scorso, quando Joseph Blatter (capo della Fifa, nella foto sopra insieme alla Rousseff) affiancò la presidente Rousseff al discorso inaugurale per la Confederations Cup, furono sommersi dai fischi del pubblico.
Ecco perché entrambi, all’inaugurazione dei Mondiali, hanno preferito non fare discorsi. Ma gli oppositori sono riusciti comunque a guastarle la festa, sommergendo la presidenta a suon di “vaffa”: un attacco politico in piena regola, non solo per farle fare brutta figura davanti agli occhi del mondo, ma anche in vista delle prossime elezioni presidenziali previste a ottobre. In un sondaggio svolto questo mese dall’istituto Datafolha il gradimento della presidenta è calato dal 44% al 34%: una percentuale bassa, ma potenzialmente vincente dato che i suoi due principali concorrenti, Aecio Neves e Eduardo Campos, stanno rispettivamente al 19% e al 7%. Ma almeno il 30% dei brasiliani è indeciso, ed è per questo che le opposizioni si sono coagulate nei cori ingiuriosi allo stadio.
Dopo l’episodio la Rousseff ha replicato che non si lascerà intimidire: “ho affrontato situazioni estremamente difficili, situazioni nelle quali ho subito aggressioni fisiche quasi insopportabili (il carcere e le torture negli anni della dittatura militare in Brasile, ndr), ma mai ho deviato dal mio cammino né dai miei impegni”. Sintomo, comunque, che il vaffa è andato a segno.
The post Anche in Brasile scoppia il “vaffa day” first appeared on Parolacce.]]>«Ascolterò la città anche a costo di qualche “vaffa”».
Francesco Rutelli, 24 febbraio 2008
«Siamo incazzati».
Slogan del Partito socialista, 22 febbraio 2008 (v. foto qui sotto)
In effetti, sono incazzato anch’io. Non per i toni volgari di questa campagna elettorale: quando scrivevo “Parolacce” ne ho lette a migliaia, di tutte le epoche e in tutte le lingue. Ci ho fatto l’abitudine… E che la politica scateni violente passioni è un fatto naturale, come ho già scritto in questo stesso blog.
Altrettanto assodato (lo hanno dimostrato molti studi scientifici) che, quando un leader usa il turpiloquio, accorcia le distanze con il suo uditorio ma al tempo stesso perde carisma, credibilità e autorevolezza: se i nostri politici vogliono correre questi rischi, fatti loro. Diciamo che ognuno ha il proprio “stile”…
Il problema è un altro: quando ascolto un candidato che dice volgarità, mi sento defraudato. E c’è un motivo oggettivo: le parolacce sono, da sempre, il linguaggio del popolo (non a caso, “volgare” significa “popolare”). E un linguaggio anarchico, senza padroni, intrinsecamente contro il potere costituito.
L’ha scoperto, il secolo scorso, un grande critico letterario russo, Michail Bachtin studiando la comicità nelle opere dello scrittore rinascimentale François Rabelais.
Le parolacce, diceva Bachtin, sono il linguaggio della piazza: fa cadere le barriere di potere e di classe, liberandoci “dalla meschina serietà degli affari della vita quotidiana, dalla serietà sentenziosa e cupa dei moralisti e dei bigotti”. Le parolacce, se usate per ridere, ci aiutano a superare la paura di vivere, non impongono divieti o restrizioni, corrodono i soprusi e la sopraffazione del potere. Non a caso, diceva Bachtin, “il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso”.
Ma allora perché i politici di oggi lo usano? Per biechi motivi di marketing elettorale: i politici, usando le parolacce, ci strizzano l’occhio, per farci credere che sono vicini a noi, che parlano come noi, che sono come noi… Ma non è vero: loro, a differenza di noi, hanno grandi poteri, ampi privilegi e gravose responsabilità. Compresi gli esponenti dei partiti che si definiscono “popolari” come la Lega Nord, forse il primo partito ad aver sdoganato le parolacce nei comizi e non solo.
Un conto è un politico che insulta l’avversario (uso legittimo, col beneplacito della Cassazione); tutt’altro conto è un politico che dica volgarità ai suoi elettori per conquistarli: è un mistificatore!
Quindi, i politici (nessuno escluso: siano di destra, di sinistra o di centro) facciano il sacrosanto piacere di non rubarci anche le parolacce, dopo averci sottratto la stabilità, l’avvenire e in diversi casi anche i soldi… Che lascino le parolacce al popolo e ai comici! Il che è anche un avvertimento a Beppe Grillo: se, un domani, decidesse di avventurarsi in politica, non sarebbe più legittimato a fare “Vaffa-day”… Quantomeno, dovrebbe chiamarli in un altro modo.
P.S.: A proposito di politica, se volete ripensarla in modo serio, interessante e divertente, non perdete il prossimo numero di Focus Extra, in edicola dal 5 aprile: scoprirete quanto può essere appassionante e utile la “vera” politica. Cazzarola.
Alberto Sordi fa il gesto dell’ombrello nel film “I vitelloni”.
La notizia ha fatto scalpore: “La Cassazione assolve il ‘vaffa’, non è più un’offesa”.
Questo, più o meno, il tenore dei titoli dei giornali del 18 luglio, che riferivano una recente sentenza della Corte di Cassazione (la n° 27966 della Sezione V Penale, 23 maggio – 13 luglio 2007).
La suprema corte ha assolto un consigliere comunale di Giulianova Marche (Teramo) che aveva mandato a quel “paese” il vicesindaco durante un consiglio comunale del 1999.
Pertanto – hanno argomentato molti giornali – il vaffanculo è legalizzato, non è più un’ingiuria, ovvero un’offesa all’onore (= valore sociale) e al decoro (= doti fisiche, intellettuali e professionali) di una persona. Insomma, non sarebbe più punibile secondo quanto prevede l’articolo 594 del Codice Penale.
Ma è proprio così? La risposta è: NO!!!
Innanzitutto, i fatti. Il vaffanculo è stato la risposta a questa frase del vicesindaco: «Ci si deve vergognare di essere comunisti!». Dunque, il vaffa è stato una legittima (per quanto volgare) difesa. E guarda caso, proprio il Codice Penale afferma che se le offese sono reciproche non si è punibili: infatti il vaffa è stato detto, sottolinea la sentenza, “in risposta a frasi che non postulano, per serietà e importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto”.
Ma c’è anche un altro aspetto sottolineato dalla Corte: il vaffa è scaturito “tra soggetti in posizione di parità”. Non è un aspetto da poco: “è evidente” dice ancora la sentenza “che se queste espressioni volgari vengono pronunciate nei confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un vigile che dà una multa (o di un giudice in tribunale, aggiungo io, ndr) esse assumono carattere di spregio”. Quindi, altro che legalizzato! Il vaffa continua a rimanere un’ingiuria pesante. Anzi, tecnicamente parlando, una “maledizione”: con questa formula si augura il male (fisico) a un’altra persona. Provate a dirla al vostro capo….
Bisogna ricordare, infatti, che la Corte Costituzionale è da sempre meno severa nel giudicare le parolacce dei politici (come anche dei tifosi sportivi e degli automobilisti), tenendo conto – giustamente – del fatto che nella dialettica politica si scatenano emozioni molto forti. Quindi è naturale e comprensibile che, in una discussione, si passi alle maniere (verbali) forti.
Allora, tutto come prima? Non proprio. Perché la suprema corte fa un’osservazione sociologica: “l’uso troppo frequente, quasi inflazionato [di parolacce] ha modificato in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina certamente un impoverimento del linguaggio e dell’educazione”. Così, “vi sono delle parole e anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune e hanno perso il loro carattere offensivo”. In pratica, “vaffanculo” è diventato sinonimo di “non infastidirmi, non voglio prenderti in considerazione, lasciami in pace”.
Su questa considerazione non sono del tutto d’accordo. È vero che negli ultimi 10 anni le parolacce si sono inflazionate e – di questo passo – rischiano di perdere il loro potere offensivo. Ma il vaffanculo ha ancora la sua forza, che dipende da come viene pronunciato, da chi e verso chi. Può essere ancora un liberatorio atto di ribellione e di sfogo, un potente sberleffo verso il potere e chi ne abusa.
In ogni caso, al grido di allarme della Cassazione non dobbiamo restare insensibili. Che cosa sarebbe il mondo senza il vaffanculo, magica formula di ricca di consonanti fricative (F e V), tipiche del disprezzo e del rifiuto e con una consonante occlusiva (C) tipica della forza e della durezza? Il “vaffanculo-day” di Beppe Grillo perderebbe la sua carica dirompente. E i comici perderebbero l’occasione di fare sketch esilaranti, come quello celebre di Aldo Baglio (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo) nel film “Tre uomini e una gamba”.
Quindi, prendendo a prestito le parole di Italo Calvino (intervenuto a proposito della parola cazzo) difendiamo anche il vaffanculo da un uso “pigro, svogliato, indifferente”.
Spezziamo una lancia per il vaffa. E fanculo a chi lo inflaziona, svuotandolo di senso e di forza!