puttana | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 19 Nov 2024 10:18:40 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png puttana | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Le parolacce di Dante, spiegate bene https://www.parolacce.org/2021/06/20/turpiloquio-nella-divina-commedia/ https://www.parolacce.org/2021/06/20/turpiloquio-nella-divina-commedia/#comments Sun, 20 Jun 2021 14:00:50 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18702 Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto… Continue Reading

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Dante ha inserito espressioni scurrili nella “Divina commedia” (montaggio su ritratto di Botticelli, 1495).

Si può fare poesia di altissimo livello usando le parolacce? Sì, e c’è un esempio clamoroso: la “Divina commedia”. Nel suo capolavoro, infatti, Dante Alighieri ha inserito 11 espressioni volgari, compresa una bestemmia e un ritratto squalificante di Maometto. Tanto che nel corso dei secoli – e persino quest’anno – la sua opera è stata pesantemente criticata, da Petrarca in poi, e più volte censurata. Reazioni spropositate, da parte di chi non ha capito la sua arte: la “Divina commedia” è un poema universale, che ritrae tutte le sfumature dell’animo umano. Perciò ha mescolato volutamente diversi registri linguistici – aulici e grotteschi, intellettuali e popolareschi, celestiali e terreni. Ha saputo, insomma, mescolare “alto” e “basso” come solo i grandi poeti sanno fare. Un altro esempio di questo livello è William Shakespeare.
Le parolacce, in particolare, sono servite a Dante per descrivere le peggiori bassezze dell’animo umano, a creare effetti comici e anche a dar voce alle sue passioni religiose, politiche e morali esprimendo la sua profonda indignazione. Dante modellava la lingua a seconda dei personaggi e delle situazioni che voleva descrivere.
Nel 700° anniversario della sua morte, ho deciso quindi di approfondire il turpiloquio di Dante, che probabilmente a scuola non vi hanno raccontato. In questo articolo troverete tutte le strofe (e relative spiegazioni) che contengono parole volgari, così potrete capire le precise ragioni artistiche che lo hanno indotto a usarle: Alighieri infatti ha sempre scelto con grande cura il lessico nel suo poema. 

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PUTTANA E BORDELLO

Nella “Divina commedia” i termini che si riferiscono alle donne di facili costumi non sono solo  nel registro volgare, come nei brani successivi. Nel poema troviamo anche i più neutri meretrice, femmine da conio (cioè da moneta).

brano significato argomento canto e verso
Taide è, la puttana che rispuose 

al drudo suo quando disse “Ho io grazie 

grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”. 

Taide è la prostituta che al suo amante, quando le chiese “Ho io grandi meriti presso di te?, rispose: “Anzi, grandissimi!” .  ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 133

Il brano parla di Taide, una prostituta amante del soldato Trasone nella commedia “Eunuchus” di Terenzio. L’episodio descritto da Dante era stato citato anche da Cicerone come esempio di adulazione:  a una domanda a cui bastava rispondere con un sì, Taide risponde con una frase adulatoria esagerata.


brano significato argomento canto e verso
Di voi pastor s’accorse il Vangelista, 

quando colei che siede sopra l’acque 

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;  

Di voi (cattivi) pastori si accorse l’Evangelista (Giovanni) quando vide la meretrice che siede sopra le acque (la Chiesa) comportarsi da prostituta con i re; simoniaci (chi compra e vende cariche ecclesiastiche) – La Chiesa corrotta e il suo asservimento alla monarchia francese Inferno, 19°, 108

 

brano significato   argomento canto e verso
Sicura, quasi rocca in alto monte, 

seder sovresso una puttana sciolta 

m’apparve con le ciglia intorno pronte; 

Mi sembrò che su di esso sedesse una sfacciata prostituta, sicura come una rocca su un’alta montagna, che ruotava intorno gli occhi seduttivi La Chiesa corrotta e la sua dipendenza dalla monarchia francese  

Purgatorio, 32°, 149

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo, 

disciolse il mostro, e trassel per la selva, 

tanto che sol di lei mi fece scudo 

a la puttana e a la nova belva.     

poi, pieno di sospetto e crudele d’ira, staccò il mostro (il carro) dall’albero e lo trascinò via per la selva, tanto che fu solo quella a impedirmi di vedere la prostituta e la nuova belva (il carro).  

Purgatorio, 32°, 160

Ho unificato il commento di questi 3 diversi brani perché si riferiscono tutti allo stesso bersaglio: la Chiesa, che Dante condanna per la sua sudditanza verso la monarchia francese.

Nel Purgatorio, in particolare, la Chiesa è simboleggiata da un carro, che a un certo punto si ricoprirà tutto di penne e metterà 7 teste cornute (i 7 peccati capitali), sormontato da una volgare meretrice che raffigura la Curia papale corrotta. Dante si ispira al mostro descritto nell’Apocalisse di Giovanni. La bestia rappresenta la degenerazione della Chiesa a causa della corruzione e della simonia; la meretrice se la intende con un gigante (il re di Francia Filippo il Bello) che si preoccupa che non gli venga sottratta.


brano significato argomento canto e verso
Ahi serva Italia, di dolore ostello, 

nave sanza nocchiere in gran tempesta, 

non donna di province, ma bordello!  

Ahimè, Italia schiava, sede del dolore, nave senza timoniere in una gran tempesta, non più signora delle province ma bordello! L’Italia preda di divisioni interne Purgatorio, 6°, 78

Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all’Italia, simmetricamente al 6° canto dell’Inferno in cui si parlava di Firenze e al 6° del Paradiso in cui si parlerà dell’Impero. In questa invettiva traspare tutta la rabbia e la delusione di Dante, oltre che la sua passione politica.  

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MERDA

I termini che si riferiscono agli escrementi e alla sporcizia sono numerosi nella “Divina commedia”. Oltre a quelli di registro basso (che vedremo più sotto) troviamo anche letame, sterco, privadi (latrine), cloaca. Tutti termini usati per svilire qualcuno o qualcosa, per mettere in ridicolo, per esprimere disgusto.

brano significato argomento canto e verso
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 

vidi un col capo sì di merda lordo, 

che non parea s’era laico o cherco.     

E mentre scrutavo giù con lo sguardo, vidi un dannato che aveva il capo così pieno di escrementi che non si capiva se fosse chierico o laico (se avesse o meno la tonsura). ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 116

Le pareti della Bolgia sono incrostate di muffa per i miasmi che provengono dal fondo e che irritano occhi e naso. La Bolgia è talmente profonda e oscura che per vedere bene Dante e Virgilio sono costretti a salire sul punto più alto del ponte: da qui vedono gente immersa nello sterco.
Questo brano, in particolare, descrive in modo grottesco e infamante il lucchese Alessio Interminelli: si colpisce il capo e afferma di scontare le adulazioni di cui la sua lingua non fu mai abbastanza sazia.


brano significato   argomento canto e verso
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

mi disse «il viso un poco più avante, 

sì che la faccia ben con l’occhio attinghe                    

di quella sozza e scapigliata fante 

che là si graffia con l’unghie merdose

e or s’accoscia e ora è in piedi stante.       

Dopodiché la mia guida mi disse: «Fa’ in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, così che tu veda bene con l’occhio la faccia di quella donna sudicia e scapigliata che si graffia là con le unghie piene di sterco, e ora si china sulle cosce e ora è in piedi. ruffiani e seduttori Inferno, 18°, 131

La disgustosa descrizione si riferisce alla prostituta Taide di cui abbiamo parlato sopra.


brano significato argomento canto e verso
Tra le gambe pendevan le minugia; 

la corata pareva e ’l tristo sacco 

che merda fa di quel che si trangugia.  

Gli pendevano le interiora tra le gambe; si vedevano gli organi interni e il ripugnante sacco (stomaco) che trasforma in escrementi ciò che si mangia.

 

seminatori di discordia Inferno, 28°, 27

Coloro che hanno seminato divisioni, nella religione e nella politica sono tagliati a pezzi; un diavolo armato di spada mozza loro parti del corpo e poi le ferite si richiudono, finché non tornano davanti a lui. In questo brano c’è la descrizione grottesca di MaomettoDante lo descrive in termini volutamente crudi e volgari, paragonandolo a una botte che ha perso il fondo e includendo macabri dettagli delle sue mutilazioni: ha un taglio che va dal mento infin dove si trulla, cioè fino all’ano dove si fanno sconci rumori; le minugia, cioè le interiora, gli pendono tra le gambe insieme alla corata, cuore e organi interni, e allo stomaco, definito “il tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia”.  Il dannato si apre il petto mostrando le sue ferite, definendo la propria pena e quella degli altri, spiegando anche la logica del contrappasso; il contesto è fortemente e violentemente comico.  Maometto è stato attaccato da Dante perché nella sua ottica aveva causato guerre e uccisioni in Europa e per l’occupazione dei luoghi santi, eventi che facevano degli Arabi un popolo invasore da cui era necessario difendersi. Una visione figlia dell’epoca in cui la Divina Commedia fu scritta. 

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FICHE

brano significato argomento canto e verso
Al fine de le sue parole il ladro 

le mani alzò con amendue le fiche

gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!».    

Quand’ebbe finito di parlare, il ladro alzò entrambe le mani col pollice tra l’indice e il medio, gridando: «Prendi, Dio, poiché le rivolgo a te!» ladri Inferno, 25°, 2

Il gesto delle fiche in un dipinto anonimo del 1620 (Lucca).

Il brano descrive Vanni Fucci, ladro di Pistoia. un uomo violento e rissoso. Vanni partecipò alle lotte interne della sua città compiendo razzie e saccheggi e nel 1292 fu al servizio di Firenze contro Pisa, occasione nella quale forse Dante lo conobbe. Dante lo colloca tra i ladri della VII Bolgia  dove i dannati corrono nudi tra i serpenti e hanno le mani legate dietro la schiena da altre serpi, subendo spesso delle orribili trasformazioni. Per Dante il furto è più grave della violenza fisica, perché implica l’uso dell’intelletto a fin di male.

Dante vede Vanni alla fine del Canto 24°, quando il peccatore è morso alla nuca da un serpente e si trasforma in cenere, per poi riacquistare subito le sue sembianze umane. Virgilio gli chiede chi sia e Vanni si presenta come pistoiese, spiegando poi a Dante di scontare il furto degli arredi sacri compiuto nel duomo di Pistoia nel 1293.

Vanni profetizza a Dante le sventure dei guelfi Bianchi dopo il suo esilio, con la sconfitta di Pistoia, ultima roccaforte dei Bianchi, ad opera di Moroello Malaspina e aggiunge di averlo detto per far del male al poeta. Poi il ladro fa un gesto osceno che diventa blasfemo perché rivolto contro Dio: con ambo le mani fa il gesto delle fiche, ovvero inserisce i pollici fra indice e medio, a mimare l’atto sessuale. E’ l’equivalente osceno del gesto del dito medio: quindi, una doppia bestemmia. Subito dopo una serpe gli si avvolge attorno al collo e lo strozza, impedendogli di dire altro. Fucci è definito da Dante il dannato più superbo da lui visto all’Inferno: Dante ne rimane così disgustato da lanciarsi in una cruda invettiva contro Pistoia, città degna, secondo lui, di tali cittadini.  

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CULO

brano significato argomento canto e verso
Per l’argine sinistro volta dienno; 

ma prima avea ciascun la lingua stretta 

coi denti, verso lor duca, per cenno; 

ed elli avea del cul fatto trombetta. 

I diavoli si voltarono a sinistra sull’argine; ma prima ognuno di loro aveva stretto la lingua tra i denti, voltandosi alla loro guida (Barbariccia) come a un segnale convenuto; e quello aveva emesso un peto i barattieri, cioè corrotti Inferno, 21°, 139

Il passo descrive i Malebranche, una truppa di 13 diavoli che aveva il compito di controllare che i dannati non uscissero dalla pece bollente. Essi creano con le loro grottesche figure una parentesi comica : in questo brano il loro capo Barbariccia come segnale per “avanti marsch” invece di una tromba militare usa una “trombetta” fatta col culo, ovvero un peto. Un modo efficace per svilire i diavoli mettendoli in ridicolo. 

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POPPE

brano significato argomento canto e verso
Tempo futuro m’è già nel cospetto, 

cui non sarà quest’ora molto antica,                             

nel qual sarà in pergamo interdetto 

a le sfacciate donne fiorentine 

l’andar mostrando con le poppe il petto. 

Io prevedo un tempo futuro, rispetto al quale il presente non sarà molto antico, nel quale dal pulpito sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine di andare in giro a seno scoperto. golosi Purgatorio, 23°, 12

In questo brano parla Forese Donati, che sconta le pene per il peccato di gola: il profumo dei frutti e la freschezza dell’acqua li tormentano con fame e sete. Forese racconta di trovarsi lì grazie alle preghiere della moglie Nella, l’unica donna virtuosa di Firenze. E qui apre una polemica contro le donne dissolute di Firenze, contro cui Dante si era già scagliato nell’invettiva all’Italia del Canto 6°. Forese prevede che di lì a non molto tempo dal pulpito si dovrà proibire espressamente alle donne di Firenze di andare in giro a petto nudo; e quali donne, barbare o saracene, ebbero mai bisogno di un simile divieto? Ma se le Fiorentine sapessero cosa le attende, comincerebbero già a urlare: Forese prevede che su di loro si abbatterà un terribile castigo nel giro di pochissimi anni. 

Le radici del turpiloquio: realismo e Bibbia

Dante e Virgilio guardano gli adulatori (Gustave Dore, 1885).

Dante usò la lingua del popolo, il “volgare”, ponendo le radici del lessico italiano. La sua lingua è una tavolozza espressiva multiforme, che va dai termini più bassamente popolari a quelli aulici. Dante, insomma, non si fa problemi a introdurre anche i registri bassi se sono funzionali alle sue esigenze narrative

Ma c’è un’altra radice, giustamente sottolineata dal filologo Federico Sanguineti: la Bibbia. In molti passi dell’Antico Testamento, ma anche nell’Apocalisse, infatti, i profeti non esitano a citare gli escrementi e le prostitute per esprimere la loro riprovazione nei confronti degli empi, siano essi singole persone o interi popoli. Trovate esempi in abbondanza nel mio libro, che potrà farvi compagnia quest’estate.

Non è un caso che le parolacce più usate da Dante siano proprio “puttana” e “merda”: esprimono entrambe il disprezzo verso la dissolutezza morale, il disgusto per chi ha una condotta empia, la condanna verso persone che hanno piegato la propria anima al male.

Com’era prevedibile, nessuna delle espressioni scurrili trova posto nel Paradiso, dove avrebbero contaminato i temi e gli ambienti più elevati. La maggior parte (7) sono nell’Inferno, le altre 4 nel Purgatorio. Il canto con la maggior presenza di parolacce è il 18° dell’Inferno dedicato a ruffiani e seduttori: persone che, evidentemente, suscitavano la maggiore ira in Dante. Per uno abituato a cantarle chiare – come si vede nella “Divina commedia” – è più che comprensibile.

Statistiche e censure, antiche e moderne

Andrea di Buonaiuto, discesa al Limbo nel cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1365).

In tutto il poema Dante usa 11 volte 6 diverse espressioni scurrili: puttana, bordello, merda, culo, fiche, poppe. Pochissime: dato che la Divina Commedia ha in tutto 101.698 parole, il turpiloquio rappresenta lo 0,01%: un’esigua minoranza, circa un ventesimo di quante ne diciamo oggi nel parlato quotidiano (vedi le statistiche che ho ricavato qui). Eppure sono significative: hanno attirato l’attenzione degli intellettuali dell’epoca e per molti secoli a venire.

Già Petrarca, intellettuale d’élite, precisava di non provare invidia per Dante che era apprezzato da “tintori, bettolai e lanaioli”, cioè la plebe. E un altro umanista dell’epoca, Niccolò Niccoli, sosteneva addirittura che Dante andrebbe allontanato dal circolo esclusivo degli umanisti  “per esser consegnato a farsettai, panettieri e simili  essendosi egli stesso espresso in modo tale da sembrare voler stare a proprio agio solo con un pubblico di bassa estrazione sociale e culturale”. Insomma, la scelta di inserire termini popolari e volgari  è stata un atto di coraggio in un’epoca in cui la cultura era un fatto elitario, snob, aristocratico.

Non stupisce, quindi, che quelle 11 parolacce sono state spesso censurate dai copisti che trascrivevano l’opera. Il filologo Federico Sanguineti ricorda che già nel 1300 Francesco di ser Nardo da Barberino sostituì “merda” con «feccia» (Inferno, 18°); nel codice Barberiniano latino 3975 sono anneriti gli endecasillabi in cui è denunciato il «puttaneggiar» della Chiesa (Inferno 19°). Il codice Canoniciano 115 nella bestemmia di Vanni Fucci (Inferno 25°) la parola «Dio» è sostituita da puntini sospensivi. E la censura prosegue anche oggi: quest’anno una casa editrice, Blossom Books, ha pubblicato una versione olandese della “Divina commedia” per ragazzi in cui è stato cancellato Maometto, per evitare che l’episodio risultasse «inutilmente offensivo per un pubblico di lettori che è una parte così ampia della società olandese e fiamminga». Ricordiamo infatti che Maometto è trattato come uno scismatico che ha diviso al suo interno il cristianesimo, e soprattutto è raffigurato con orrende e grottesche mutilazioni.

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Le parolacce di De Andrè: un poeta ribelle https://www.parolacce.org/2019/02/18/studio-parolacce-canzoni-de-andre/ https://www.parolacce.org/2019/02/18/studio-parolacce-canzoni-de-andre/#respond Mon, 18 Feb 2019 10:41:34 +0000 https://www.parolacce.org/?p=15275 È stato uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e le sue canzoni sono state studiate in ogni aspetto. Tranne uno: le parolacce. Ma non sono state marginali nella sua opera: anzi, sono state così rilevanti da aver contribuito… Continue Reading

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Fabrizio De Andrè (1940-1999, foto Wikipedia).

È stato uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, e le sue canzoni sono state studiate in ogni aspetto. Tranne uno: le parolacce. Ma non sono state marginali nella sua opera: anzi, sono state così rilevanti da aver contribuito al suo successo. Come ricorda Ivano Fossati, «Al liceo ascoltavamo i dischi di Fabrizio De Andrè. Quello che ci piaceva delle sue canzoni è che c’erano le parolacce».
Eppure, le volgarità di De Andrè non sono mai state studiate in dettaglio. Come se fossero un incidente, o un aspetto trascurabile rispetto al lessico, indubbiamente raffinato, dei suoi testi. Ma la scelta di usare il linguaggio basso non è stata un caso. Perché De Andrè metteva una cura maniacale nella scelta di ogni singolo termine, come ricorda Fossati: «Lui sa benissimo che dietro ogni parola c’è una responsabilità, bisogna dire le cose che si condividono realmente. E allora la scelta di un termine, di un sostantivo, di un aggettivo, poteva prendere anche tre giorni». Dunque, se il cantautore genovese ha inserito termini volgari nei suoi testi, l’ha fatto con una scelta mirata e meditata.
D’altra parte, per una persona che amava senza snobismo la cultura popolare, la schiettezza e il realismo, le parolacce hanno rappresentato uno strumento molto efficace, persino in testi raffinati e complessi come i suoi. Insomma, è uno dei pochi artisti che è riuscito a fare poesia alta anche usando il linguaggio basso. Del resto, come egli stesso diceva, “dal letame nascono i fior“.

Per questi motivi ho deciso di fare la prima analisi lessicale sul turpiloquio di De Andrè, studiando tutte le 125 canzoni scritte nella sua carriera. Il risultato è stato sorprendente: ho scoperto che De Andrè ha usato più di 30 diversi termini scurrili, che sono presenti in una canzone su 4. Dunque, le parolacce arricchiscono in modo straordinario la sua tavolozza espressiva, tanto che molte di queste strofe “a tinte forti” sono passate alla storia, come ricorderò più sotto. E rivelano in modo efficace la sua personalità e il suo mondo artistico.
Ho pensato, quindi, che questo studio lessicale fosse un buon modo per ricordare De Andrè, un musicista che ho amato immensamente, nel  20° anniversario della sua scomparsa.

Per questa ricerca ho consultato 3 fonti principali: la voce di Wikipedia su Fabrizio De Andrè, e gli ottimi libri “Falegname di parole” di Luigi Viva (Feltrinelli, 2018) e Fabrizio De Andrè: il libro del mondo” di Walter Pistarini (Giunti, 2018).

Un ribelle che parlava sporco

De Andrè con Paolo Villaggio (a destra, Wikipedia)

Le parolacce non sono entrate per caso nei dischi di De Andrè. Da giovane, infatti,  aveva un linguaggio sboccato, come ha raccontato egli stesso. Ecco come ricorda il suo primo incontro, nel 1948, con Paolo Villaggio (altro mago delle parolacce, come racconto qui): «L’ho incontrato per la prima volta a Pocol, sopra Cortina; io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco; gli piacevo perché ero tormentato, inquieto e lui lo era altrettanto, solo che era più controllato, forse perché era più grande di me e allora subito si investì della parte del fratello maggiore e mi diceva: “Guarda, tu le parolacce non le devi dire, tu dici le parolacce per essere al centro dell’attenzione, sei uno stronzo”».
Dunque, De Andrè si definisce «un ragazzo incazzato, che parla sporco e tormentato». E fin da giovane, scriveva canzoni: «Sono sempre stato un inguaribile romantico e insieme un gran polemico, ce l’ho sempre avuta con le ingiustizie della società, con l’ipocrisia; e siccome avevo bisogno di sfogarmi, scrivevo delle storielle che poi mettevo in musica e accompagnavo con la chitarra, togliendomi la gran soddisfazione di dire ciò che pensavo veramente». Per De Andrè, insomma, le canzoni erano un modo di far polemica, di contestare le ingiustizie della società (non a caso, studiò legge all’università). E le parolacce sono proprio il linguaggio della protesta e della polemica, come ci ha mostrato la politica degli ultimi 30 anni in Italia, come raccontavo qui.
Un altro indizio importante è che De Andrè odiava l’ipocrisia: e, da sempre, il turpiloquio è il linguaggio della spontaneità, un modo – rude – di chiamare le cose per quello che sono (come ricordavo qui).

Le statistiche: volgare una canzone su 4

Le parolacce nella discografia di De Andrè (clic per ingrandire).

Dunque, nella vita De Andrè parlava sporco. Come si è concretizzato questo aspetto nelle canzoni? Ho fatto un’analisi lessicale della sua produzione: 125 canzoni in 14 album (più 2 singoli. “Una storia sbagliata” e “Titti”) che ha pubblicato in 41 anni di attività. Ho censito solo gli inediti, escludendo i “live”, le raccolte e “I viaggi di Gulliver” (perché i testi non sono suoi). Il risultato è sorprendente: ho censito 33 diversi lemmi volgari, presenti in 62 strofe. Un dizionario ben nutrito, di cui parlerò più avanti. Queste espressioni sono presenti in 29 delle 125 canzoni: il 23,2%, quasi una canzone su 4 contiene volgarità.
E c’è stata un’evoluzione storica: negli anni ‘60 ne ha usate solo 11, che sono salite a 15 negli anni ‘70, ma i picchi si sono registrati nell’ultima parte della sua carriera: 16 parolacce negli anni ‘80, tutte concentrate nell’album in genovese “Crueza de ma”, e 19 negli anni ‘90 in due album.
Per ogni decennio, una media di 15 parolacce, ma con concentrazioni ben diverse: negli anni ‘60 e ‘70 viaggiava a 2-3 parolacce ad album, ma nel ventennio successivo è salito a 8-9,5 parolacce ad album.

Le statistiche principali delle scurrilità di De Andrè (clic per ingrandire).

Da questa analisi emergono altre curiosità: l’album con più canzoni volgari è del 1971, “Non al denaro non all’amore né al cielo” (5). E la canzone più densa di espressioni scurrili è “A DUMENEGA” (10), in genovese.
I lemmi volgari (di cui più in basso trovate l’elenco completo, strofa per strofa) sono 33 in 62 strofe. E’ una tavolozza molto varia: solo 8 hanno una frequenza di 3 volte o superiore. Sono questi: belìn (cazzo), (culo): 6; idiota: 4, bagascia (puttana), carogna, cornuto, porco, puttana: 3. Approfondirò più avanti il significato di questi usi prevalenti.
Ma il dato più interessante di tutti è il tipo di parolacce: la maggior parte (55%) sono insulti, seguiti da termini sessuali (34%). Hanno invece un ruolo marginale i modi di dire (6%), i termini escrementizi (3%) e le maledizioni (2%: il vaffa, per intenderci).

LE PAROLACCE PIÙ FAMOSE

Via del Campo a Genova, con una targa dedicata a De Andrè.

Una delle scurrilità più famose risale ai primi dischi di De Andrè, e si trova nel brano “VIA DEL CAMPO”, del 1967. Il testo descrive uno dei vicoli più malfamati nella Genova degli anni Sessanta, perché rifugio di prostitute, travestiti e gente povera, ossia quegli “ultimi” ai quali il cantautore genovese ha sempre prestato particolare attenzione nei suoi brani. Dopo un inizio molto poetico (“Via del Campo c’è una graziosa, gli occhi grandi color di foglia”), la terza strofa è come un pugno nello stomaco:  Via del Campo c’è una puttana, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla ti vien la voglia, basta prenderla per la mano”. Il cambio di registro è sottolineato, musicalmente, da un cambio di tonalità: si sale di un tono e mezzo, passando dal la minore al do minore. In questo modo, la parolaccia raddoppia la sua efficacia, aggiungendo un crudo realismo a una descrizione che rimane garbata. Un risultato non facile da ottenere.

Un’altra strofa a tinte forti che è passata alla storia si trova in “UN GIUDICE” (1971). Il brano racconta di un giudice che si compiace del potere di essere “arbitro in terra del bene e del male” come forma di vendetta per l’emarginazione e il dileggio che ha subìto a causa della sua bassa statura. Il testo a un certo punto dice: “La maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, Fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”. Anche in questo caso, la parolaccia, inserita al termine di una strofa con uno stacco musicale, ha una grandissima efficacia anche sonora, perché è un improvviso cambio di registro che non passa inosservato.
La canzone, com’è noto, è ispirata all’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters,che in Italia fu tradotta da Fernanda Pivano. A lei che gli domanda, nelle note di copertina, come mai abbia usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, De Andrè ha risposto così: «Anche il vocabolario al giorno d’oggi è un po’ cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa una carogna perché la gente carogna lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente».

Arriviamo poi nel 1984 per ascoltare il brano di De Andrè che ha il numero più alto di parolacce (10) presenti, seppur mitigate dall’uso del genovese: “Ä DUMÉNEGA”. Il brano parla della passeggiata domenicale delle prostitute genovesi, che fino al 1800 erano emarginate, anche se grazie alle loro tasse il Comune riusciva a pagare i lavori del porto. Così la domenica il popolino esce “a guardare le figlie del diavolo, che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro”. E le insulta, elencando le loro specialità a seconda delle zone: “a Pianderlino succhia cazzi, alla Foce cosce da schiaccianoci, in Carignano fighe di terza mano, e a Ponticello gli mostrano l’uccello”. Fra quanti le offendono, c’è anche il direttore del porto, il direttore del porto “che ci vede l’oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro. Per non fare vedere che è contento, che il molo nuovo ha il finanziamento, si confonde nella confusione con l’occhio pieno di indignazione, e gli grida gli grida dietro: “bagasce siete e ci restate”. Ma a svelare la sua ipocrisia e a rimetterlo al suo posto ci pensa lo stesso De Andrè: “brutto stronzo di un portatore di Cristo, non sei l’unico che se ne è accorto che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane da nude c’è c’è c’è c’è c’è anche tua moglie”.

Copertina di “Le nuvole” (1990).

Si stacca, invece, dagli altri brani a sfondo erotico, un’altra canzone storica: “LA DOMENICA DELLE SALME” (1990). E’ un brano politico, onirico e denso di immagini, è una descrizione allusiva del clima dell’Italia di quegli anni. Come racconta il coautore Mauro Pagani: “è la descrizione lucida e appassionata del silenzioso, doloroso e patetico colpo di Stato avvenuto intorno a noi senza che ci accorgessimo di nulla, della vittoria silenziosa e definitiva della stupidità e della mancanza di morale sopra ogni altra cosa. Della sconfitta della ragione e della speranza”. La canzone è sostanzialmente un’invettiva, un urlo di dolore indignato sulla società e la politica. E come Dante Alighieri usò il lessico basso per esprimere un analogo urlo nel “Purgatorio” (“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”) anche De Andrè non si risparmia. Dice dei polacchi che “rifacevano il trucco alle troie di regime”: un riferimento, spiegò, “alla nostra bella società capitalistica; ex comunisti pronti a convertirsi il prima possibile per dimenticare un passato troppo ingombrante (ed esserne così dispensati l’anno dopo)”. Più avanti parla del “ministro dei temporali, in un tripudio di tromboni, auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”. Durante il colpo di Stato strisciante, i politici che lo hanno in qualche modo appoggiato se non organizzato auspicano, ovviamente, una “loro” democrazia. Per timore che questa venga davvero, fanno il gesto scaramantico di toccarsi i testicoli: un modo per descrivere la volgarità dei loro pensieri, prima ancora che dei loro gesti.
Poi De Andrè canta della “scimmia del quarto Reich che ballava la polka sopra il muro”, un riferimento ai rigurgiti neonazisti in Germania. Aggiungendo che “mentre si arrampicava, le abbiamo visto tutti il culo”, ovvero la sua repellente fragilità. C’è anche un riferimento ai cantanti, che invece di denunciare le storture di questa epoca si sono venduti ai vari potenti di turno, dai comunisti ai leghisti (longobardi): per questo sono stati abbandonati in malo modo dal pubblico (ci guardarono cantare per una mezz’oretta, poi ci mandarono a cagare”). Le loro “voci potenti”, aggiunge con amara autoironia, sarebbero state “adatte per il vaffanculo”. Una specie di profezia del movimento 5 stelle, che ha esordito proprio con un “Vaffa day”.

La copertina di “Anime salve” (1996)

L’ultimo, celebre brano scurrile è “PRINÇESA(1996). E’ la storia di un transessuale realmente esistito, Fernandinho Farias de Albuquerque detto “Prinçesa” perché, nel ristorante dove lavorava, sapeva cucinare il filetto alla parmigiana in modo sublime. De Andrè racconta il suo dramma con termini realisticamente crudi, fin dalla prima strofa: “Sono la pecora sono la vacca, Che agli animali si vuol giocare, Sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare”. Quando deve descrivere i suoi rapporti sessuali, tuttavia, De Andrè preferisce prendere le distanze con un linguaggio alto: “Dove tra ingorghi di desideri, alle mie natiche un maschio s’appende, nella mia carne tra le mie labbra, un uomo scivola, l’altro si arrende”. Ma poi torna a descrivere, senza giri di parole, il sogno di Fernandinho di diventare donna: “davanti allo specchio grande Mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi tra le gambe una minuscola fica”. Anche in questo caso, la parolaccia, fortissima, giunge inaspettata alla fine della strofa, seguita da un breve intermezzo strumentale come a lasciarla sedimentare (o addolcire) nell’ascoltatore.

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DE ANDRÈ, TUTTE LE PAROLACCE STROFA PER STROFA

Ecco l’elenco di tutte le parolacce di De Andrè, strofa per strofa.

PAROLACCIA E STROFA CANZONE ALBUM
bagascia (puttana)
bagasce sëi e ghe restè (bagasce siete e ci restate) A dumenega Crêuza de mä
sultan-a de e bagasce (sultana delle troie) Jamin-a Crêuza de mä
e ‘nte l’àtra stànsia è bagàsce a dà ou menù (e nell’altra stanza le bagasce a dare il menù) Megu megùn Le nuvole
becchino
i becchini ne raccolgono spesso fra la gente che si lascia piovere addosso. Canzone del padre Storia di un impiegato
signor becchino mi ascolti un poco Il testamento Volume III
belìn (cazzo)
o belin che festa o belin che festa (cazzo che festa cazzo che festa) A dumenega Crêuza de mä
che belin de lou che belin de lou (che cazzo di lavoro, che cazzo di lavoro) A dumenega Crêuza de mä
a Ciamberlinú sûssa belin (a Pianderlino succhia cazzi) A dumenega Crêuza de mä
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín  (la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino) Sinàn capudàn pascià Crêuza de mä
Uh che belin de ‘n nolu che ti me faièsci fa (Uh che cazzo di contratto mi faresti fare) Megu megùn Le nuvole
a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun (la sfortuna è un avvoltoio
che gira intorno alla testa dell’imbecille)
Sinàn capudàn pascià Crêuza de mä
bordello
E Maggie uccisa in un bordello dalle carezze di un animale La collina Non al denaro non all’amore né al cielo
cagare
poi ci mandarono a cagare La domenica delle salme Le nuvole
calaba (casino)
nu l’è l’aaegua de ‘na rammâ ,n calaba ‘n calaba (Non è l’acqua di un colpo di pioggia
(ma) un gran casino, un gran casino)
Dolcenera Anime Salve
carogna
Tanto più che la carogna è già abbastanza attenta Morire per delle idee Canzoni
fino a dire che un nano e’ una carogna di sicuro, Un giudice Non al denaro non all’amore né al cielo
conoscemmo anzitempo la carogna che ad ogni ambito sogno mette fine Recitativo (corale) Tutti morimmo a stento
casin (casino)
veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín (voglio andare a casino voglio andare a casino) A dumenega Crêuza de mä
cialtrone
ciò detto agì da gran cialtrone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers Volume I
coglioni
auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni La domenica delle salme Le nuvole
però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni Nella mia ora di libertà Storia di un impiegato
cornuto
e rivolgendosi alle cornute, le apostrofò con parole argute Bocca di rosa Volume I
briganti, papponi, cornuti e lacchè Don Raffaè Le nuvole
con tanti auguri per chi c’è caduto di conservarsi felice e cornuto Il testamento Volume III
cretino
sian furbi o siano cretini li fulminerà. Girotondo Tutti morimmo a stento
cù (culo)
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín  (la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino) Sinàn capudàn pascià Crêuza de mä
se ti gii ‘a tèsta ti te vèddi ou cù (se giri la testa ti vedi il culo) Megu megùn Le nuvole
e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutti il culo La domenica delle salme Le nuvole
perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo. Un giudice Non al denaro non all’amore né al cielo
e a un dio fatti il culo non credere mai. Coda di lupo Rimini
e pa lu stantu ponimi la faccia in culu. (e nel frattempo mettimi la faccia in culo.) Zirichiltaggia Rimini
fica
tra le gambe una minuscola fica Prinçesa Anime Salve
galûsciu (stronzo)
bruttu galûsciu de ‘n purtòu de Cristu (brutto stronzo d’un portatore di Cristo) A dumenega Crêuza de mä
idiota
Quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota Cantico dei drogati Tutti morimmo a stento
Con l’idiota in giardino ad isolare le tue rose migliori Canzone per l’estate Volume 8
Son morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d’amore. Un chimico Non al denaro non all’amore né al cielo
Intellettuali d’oggi, idioti di domani Il bombarolo Storia di un impiegato
infame
Tutto il giorno con quattro infamoni, Don Raffaè Le nuvole
loèugu (cesso)
loèugu de ‘n spesià (cesso d’un farmacista) Megu megùn Le nuvole
mussa (fica)
fatt’ammiâ Jamin-a roggiu de mussa pin-a (fatti guardare Jamina, getto di fica sazia) Jamin-a Crêuza de mä
in Caignàn musse de tersa man (in Carignano fiche di terza mano) A dumenega Crêuza de mä
nèsciu (scemo)
Na carèga dùa nèsciu de ‘ n turtà (Una sedia dura, scemo di un tortaio) Megu megùn Le nuvole
öxellu (uccello)
e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu (e a Ponticello gli mostrano l’uccello) A dumenega Crêuza de mä
pappone
briganti, papponi, cornuti e lacchè Don Raffaè Le nuvole
piscia
in quel pozzo di piscio e cemento Khorakhanè Anime Salve
porco
cianciare ancora delle porcate mangiate in strada nelle ore sbagliate La collina Non al denaro non all’amore né al cielo
“E’ mai possibile, porco d’un cane,
che le avventure in codesto reame
Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers Volume I
ti me perdunié se nu riûsciò a ésse porcu cumme i teu pensë (mi perdonerai se non riuscirò a essere porco come i tuoi pensieri Jamin-a Crêuza de mä
puttana
Via del Campo c’è una puttana Via del campo Volume I
ad ogni fine di settimana sopra la rendita di una puttana Il testamento Volume III
che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane. Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers Volume I
scciappe (chiappe)
nte quelle scciappe a reposu da a lou (in quelle chiappe a riposo dal lavoro) A dumenega Crêuza de mä
scemo
Lo costrinse a viaggiare una vita da scemo Un blasfemo Non al denaro non all’amore né al cielo
si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) Non al denaro non all’amore né al cielo
sputtanare
è una storia un po’ sputtanata o è una storia sbagliata Una storia sbagliata Fabrizio De Andrè
tette
sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare Prinçesa Anime Salve
e a stu luciâ de cheusce e de tettín (e a questo dondolare di cosce e di tette) A dumenega Crêuza de mä
troia
Vostro Onore, sei un figlio di troia, Canzone del padre Storia di un impiegato
rifacevano il trucco alle troie di regime La domenica delle salme Le nuvole
vacca
Sono la pecora sono la vacca Prinçesa Anime Salve
vaffanculo
voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo La domenica delle salme Le nuvole
xàtta (pappone)
tùtti sùssa rèsca da ou xàtta in zù (tutti succhiatori di lische dal pappone in giù) Megu megùn Le nuvole

Gli argomenti: insulti e sesso

Ecco la statistica dettagliata dei termini volgari, suddivisi per tipologia:

insulti: 18 termini, 34 ricorrenze idiota: 4 volte

bagascia (puttana), carogna, cornuto, porco, puttana: 3 volte

becchino, scemo, troia: 2 volte

cialtrone, cretino, galûsciu (stronzo), infame, nèsciu (scemo), loèugu (cesso), pappone, vacca, xàtta (pappone): 1 volta

sesso: 8 termini, 21 ricorrenze belìn (cazzo), (culo) : 6 volte

coglioni, mussa (fica), tette: 2 volte

fica, öxellu (uccello), scciappe (chiappe): 1 volta

enfasi, modi di dire: 4 termini, 4 ricorrenze bordello, calaba (casino), casin (casino), sputtanare: 1 volta
maledizioni: 1 termine, 1 ricorrenza vaffanculo: 1 volta

Copertina di “In direzione ostinata e contraria” (2005, antologia)

La maggior parte delle parolacce, quindi sono insulti. E questo non stupisce: nelle sue canzoni, De Andrè prende posizione apertamente, e gli insulti non sono altro che giudizi sommari di condanna verso una persona nella sua totalità. Ma che genere di insulti preferiva De Andrè? Quelli che disprezzano la mancanza di intelligenza (5): idiota, scemo, cialtrone, cretino, nèsciu. Ma ha altrettanto peso il disprezzo per chi si comporta in modo scorretto (4): cialtrone, carogna, galûsciu, infame. Sono tutti insulti che squalificano personaggi tronfi, disonesti, ignoranti.
E poi c’è una serie di insulti sulla morale sessuale: 4 sulle prostitute (puttana, bagascia, vacca, troia), e i corrispettivi maschili che designano i sessuomani (porco) e gli sfruttatori delle prostitute (pappone, xàtta).
Ma attenzione: come molti sanno, De Andrè frequentava le prostitute, e almeno con una si fidanzò («Prima di incontrare mia moglie ho conosciuto e amato, molto amato, una donna di strada. Però sono stato vigliacco e ipocrita: ecco, qui sono rimasto borghese. No, non l’avrei mai sposata»). Quindi di certo non le disprezzava: anzi, di loro diceva che «Sono semplici, spontanee, hanno le loro grandi crisi ma si spaccano come meloni, sono aperte e non piangono mai». Il termine spregiativo “puttana”, in realtà, è usato per incarnare la morale comune (la “morale borghese”, come la chiamava). Ed è anche un modo crudo di descrivere un mestiere crudo.

Ma quale peso hanno, in media, le volgarità scelte da De Andrè? Sappiamo che le parolacce non sono tutte uguali: alcune hanno un impatto più forte di altre, come ho mostrato col volgarometro. Difficile però valutare le scelte lessicali di De Andrè: se si escludono “coglioni”, “vaffanculo”, “puttana” e “idiota”, i termini volgari in genovese – nella sua percezione personale – li considerava meno pesanti. «A Genova, chiunque dica mussa o belìn non provoca alcuno scandalo, ma se lo dici in italiano casca il mondo». Dunque, nella sua ottica, ha usato per lo più scurrilità di intensità media.

DENUNCE E CENSURE

Copertina di “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers” (1962).

Inserire parolacce nelle canzoni non è indolore. Soprattutto in passato, quando la sensibilità verso le parole forti era molto più alta rispetto a oggi. E così De Andrè ha avuto qualche grattacapo legale: una delle sue prime canzoni, “CARLO MARTELLO RITORNA DALLA BATTAGLIA DI POITIERS” (1962) è un brano goliardico, che racconta, sotto l’apparente veste di una ballata celebrativa, il ritorno vittorioso dalle gloriose gesta belliche contro i Mori. Ma il re dei franchi quando vede una pastorella, la vuole concupire, scoprendo poi che è una prostituta. Al che Martello sbotta in un «È mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane». Il verso fu denunciato per oscenità, ma nel 1968 De Andrè fu assolto  “perché il fatto non sussiste”. Il commento di De Andrè è illuminante sul suo uso delle parolacce come forma di sincerità: “Definire pornografica una pagina come Carlo Martello è inammissibile. A meno che per pornografia non si intenda chiamare le cose col loro vero nome, rifiutando l’ipocrisia dei doppi sensi e delle metafore. Con questa canzone ho voluto demitizzare quel certo alone che siamo abituati a porre intorno ai personaggi storici. Tendiamo a divinizzarli, dimenticando che furono uomini come noi, con voglie e difetti umani. La mia, dunque, non è oscenità ma lotta alla retorica”. La testimonianza svela in modo inequivocabile il rapporto di De Andrè con le parolacce: servono a chiamare le cose col loro nome. In quella stessa canzone, tra l’altro, il testo originale aveva anche un altro verso volgare, che però fu corretto prima di incidere il disco: il verso «frustando il cavallo come un mulo, quella gran faccia da culo» fu trasformato in: «frustando il cavallo come un ciuco, tra il glicine e il sambuco».

In “BOCCA DI ROSA” (1967), dedicata a una donna controcorrente, a cui piaceva il sesso e non lo nascondeva, era previsto un verso che diceva: “spesso gli sbirri e i Carabinieri al proprio dovere vengono meno, ma non quando sono in alta uniforme e l’accompagnarono al primo treno”. Ma lo spregiativo “sbirri” non piacque all’Arma, che chiese a De Andrè di correggere il testo. Che diventò: “Il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i Carabinieri, ma quella volta a prendere il treno l’accompagnarono malvolentieri”.

Il singolo della “Canzone di Marinella”.

Anche “LA CANZONE DI MARINELLA” (1968) – dedicata a una prostituta di 33 anni, Maria Boccuzzi, trovata uccisa in un fiume alla periferia di Milano – era nata in origine come canzone “quasi pornografica, molto spinta”, raccontò De Andrè. “Poi una persona che allora mi era particolarmente vicina mi ha fatto capire che quella canzone poteva diventare un grosso successo, e ne è venuta fuori una canzone a cui ci si poteva avvicinare tranquillamente, senza il pericolo di offendere la morale o il buon costume”.

Nella “CITTÀ VECCHIA” (1974), una canzone dedicata ai bassifondi di Genova, popolati da donnacce, ladri e ubriachi, c’era in origine un verso pesante: “quella che di giorno chiami con disprezzo specie di troia”. Fu corretto in “quella che di giorno chiami con disprezzo pubblica moglie”. E in un verso c’è la versione addolcita di un volgare modo di dire: “per dimenticare d’esser stati presi per il sedere” (invece che “per il culo”). 

Sesso allusivo e sesso esplicito

Molti brani di De Andrè parlano di sesso. Descrivono le onde della passione, i rapporti amorosi, e a volte persino gli amplessi. Ma lo fanno, in genere, puntando su termini allusivi ed evocativi: “ANDREA” (1978) parla di un amore omosessuale, ma senza alcuna indulgenza (“Andrea aveva un amore, riccioli neri”). Nel “GORILLA” (1968) canta “con poco senso del pudore, le comari di quel rione, contemplavano lo scimmione, non dico dove non dico come” (gli guardavano il sesso). Nel “GIUDICE” (1971) allude alla diceria secondo cui le persone basse siano superdotate: “la curiosità di una ragazza irriverente, che li avvicina solo per un suo dubbio impertinente. Vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani: che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente”.

Per quanto riguarda strettamente gli atti sessuali, nelle sue canzoni sono presenti diversi rimandi allusivi ma molto efficaci. In “AMICO FRAGILE” (1975) descrive l’eccitazione senza termini osceni: “Potevo stuzzicare i pantaloni della sconosciuta fino a vederle spalancarsi la bocca”. E così in “DOLCENERA” (1996) “il lenzuolo si gonfia sul cavo dell’onda, e la lotta si fa scivolosa e profonda”.

La copertina di ” Crêuza de mä ” (1984)

Ma la canzone più emblematica è “JAMIN-A” (1984), un brano fortemente erotico: parla dell’amplesso con una donna algerina dalla sensualità senza freni. De Andrè ha parlato di questa canzone in termini crudi e provocatori: «In Jamin-a descrivo una scopata che mi sono fatto. C’è qualcosa di erotico a un livello un po’ più alto che non “Ti spacco il culo brutta troiaccia”». La canzone, infatti, inizia con una descrizione allusiva (che qui traduco dal genovese): “Lingua infuocata Jamin-a, lupa di pelle scura, con la bocca spalancata, morso di carne soda, stella nera che brilla, mi voglio divertire, nell’umido dolce del miele del tuo alveare”. Poi il testo diventa decisamente diretto, contraddicendo – almeno in apparenza – il proposito dell’autore di “volare alto”: “Fatti guardare Jamina, getto di fica sazia, e la faccia nel sudore, sugo di sale di cosce, dove c’è pelo c’è amore, sultana delle troie” (Fatt’ammiâ Jamin-a, Roggiu de mussa pin-a. E u muru ‘ntu sûù, Sûgu de sä de cheusce, Duve gh’è pei gh’è amù, Sultan-a de e bagasce”).
Ecco come De Andrè spiega questa apparente contraddizione: «Mi sono nascosto dietro il dialetto genovese perché certe parole, che in italiano hanno un significato fortemente volgare, in genovese perdono questa connotazione. A Genova belìn, che individua l’organo genitale maschile, è un lubrificante del linguaggio, del tutto privo di valenza negativa. La stessa cosa per mussa, che invece indica l’organo genitale femminile e, per traslato, vuol dire balla».

Di questo post hanno parlato AdnKronos, l’Unione Sarda, il Corriere quotidiano.

Dedico questa ricerca alla memoria del mio amato zio Enzo Tartamella,
che al telefono, dalla Sicilia, ha guidato con frasi brevi e fulminanti
i miei primi passi nel giornalismo.
Mi mancheranno le nostre chiacchierate su tutto.
E le canzoni di De André da cantare insieme d’estate.
Mi sento molto più solo senza di te. RIP

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I ristoranti più sfacciati del mondo https://www.parolacce.org/2018/07/31/negozi-divertenti-italiani-estero/ https://www.parolacce.org/2018/07/31/negozi-divertenti-italiani-estero/#comments Tue, 31 Jul 2018 08:00:51 +0000 https://www.parolacce.org/?p=14434 La sua storia ha fatto scalpore quest’estate: un imprenditore pugliese, Luigi Aseni, 37 anni, ha avuto successo in Scozia aprendo una catena di bar, i Boteco do Brasil. E ha battezzato le sue società “Skassa Kazz “, “Rumba Kazz” e “Kaka Kazz“. Quella… Continue Reading

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I documenti ufficiali delle società “Kaka Kazz” e Skassa Kazz” dell’imprenditore pugliese Luigi Aseni.

La sua storia ha fatto scalpore quest’estate: un imprenditore pugliese, Luigi Aseni, 37 anni, ha avuto successo in Scozia aprendo una catena di bar, i Boteco do Brasil. E ha battezzato le sue società “Skassa Kazz “, “Rumba Kazz” e “Kaka Kazz“. Quella che gestirà il locale Mango si chiamerà “Mango Pu Kazz“.
La storia è stata scoperta da Milena Gabanelli, per la rubrica DataRoom del “Corriere della Sera”. Mi ha divertito, e allora mi sono chiesto se fosse l’unica del genere. Non lo è: in giro per il mondo – in Europa ma anche in Asia, Africa, America e Oceania – ho trovato 21 negozi, per lo più ristoranti, con nomi volgari. Dalla “Cantina baldracca” (Lisbona) alla società di import “Pirla” (Berlino). Dunque, il mondo è pieno di società del Kazz
.
Ma prima di mostrarvi la lista di questi locali, una domanda sorge spontanea: che cosa scatta nella testa degli italiani che aprono attività all’estero? Perché si affidano a un linguaggio da Cinepanettoni per i loro business?

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BEFFA, MARKETING E NOSTALGIA

Il fenomeno è interessante, oltre che divertente. E ha varie ragioni. Innanzitutto, quando siamo all’estero, cadono i nostri tabù linguistici: gli stranieri non capiscono le parolacce italiane, quindi le diciamo in libertà, senza preoccuparci di scandalizzare  o di indignare qualcuno. Insomma, un bello sfogoE permette di esprimere le proprie emozioni in modo schietto e immediato,in un momento carico di passioni: quando si apre un’azienda si è eccitati per l’avventura, preoccupati per il suo successo, ispirati per trovare nuove strade, arrabbiati per i contrattempi…

Negozio di ottica a Pamplona (Spagna), in Calle del Vínculo. L’accento, dunque, cade sulla “i”: ma se cade sulla “u”, l’insegna acquista ben altro senso. 

E al tempo stesso, usare un nome, un’insegna scurrile è anche uno scherzo, una beffa: immaginate di essere allo sportello della Camera di Commercio britannica e di dire ad alta voce (o scrivere) il nome della vostra società: “Mango Pu Kazz limited”. Tanto l’impiegato non sarà in grado di capirne il significato: riderete alle sue spalle. Una goliardia di contrabbando, una provocazione mimetizzataInfatti nel Regno Unito non se n’è accorto nessuno, e l’attività imprenditoriale di Aseni è stata anche premiata. Ma quando alcuni fornitori italiani si sono visti arrivare fatture intestate alla società “Skassa Kazz”, hanno strabuzzato gli occhi: pensavano fosse uno scherzo, un falso.
E quando un nome simile finisce addirittura in vetrina, su un’insegna, all’estero diventa un’allusione, un messaggio in codice: un italiano, vedendo un ristorante che si chiama “Cantina baldracca” farà una risata. E ne sarà anche incuriosito: il messaggio è rivolto a lui, che è in grado di capirlo anche a migliaia di km dall’Italia. E, tutto sommato, è anche un modo di esprimere la nostalgia dell’Italia.
Dunque, anche questo è marketing: una parolaccia attira sempre l’attenzione. A maggior ragione in un luogo dove non viene detta perché si parla un’altra lingua. E così molti italiani entrano per curiosità o si fanno fotografare davanti all’ingresso.
In giro per il mondo ho scoperto una dozzina di attività con un nome che in Italia sarebbe decisamente improponibile. Sono per lo più ristoranti, bar e fornitori di alimentari, a testimonianza che il cibo muove le nostre passioni. Unica eccezione, un negozio di vestiti.

Ecco la lista dei 21 ristoranti più sfacciati del mondo (tutti verificati).
Se ci andate, fatevi raccontare la loro storia… e condividetela nei commenti

CANTINA BALDRACCA

A Lisbona (Portogallo). E’ una pizzeria italiana, sicuramente fondata da nostri connazionali.
Sul suo menu ha scritto uno slogan in rima: “Cantina Baldracca, quando a fome ataca”, ovvero: “Cantina Baldracca, quando colpisce la fame”.

 

 

 

Pagina internet su TripAdvisor

BISCHERO

A Ginevra (Svizzera). E’ una focacceria italiana, probabilmente fondata da toscani. Prepara anche lasagne, piadine e parmigiana. Probabilmente gli svizzeri ticinesi capiranno il nome, ma quelli di lingua francese non immagineranno che è un insulto.

Sito ufficiale

CHE CULO!

Phnom Penh (Cambogia). La spiritosa  insegna campeggia su un cocktail bar che serve anche hamburger, poco lontano dalle rive del Mekong. Non ho trovato informazioni sulla sua storia, ed è un peccato: i suoi gestori hanno fatto un bel viaggio per aprire un locale in una cultura molto diversa dalla nostra.

Pagina Internet su TripAdvisor

ROTTINCULO

Dublino (Irlanda): il termine, come noto, può significare sia “fortunato” che “omosessuale” (in senso spregiativo). Chi ha fondato il locale, che nel frattempo ha chiuso, voleva con tutta probabilità puntare sul primo dei due significati: un modo spiritoso di evocare la buona sorte. Il locale era un ristorante italiano, e preparava diversi piatti  siciliani.

Sito su Facebook

COL ‘CACCHIO

Cape Town (Sud Africa). E’ una catena di pizzerie in Sud Africa. Un cliente ha raccontato così l’origine del nome:
I
l titolare si era rivolto a un italiano per avere consigli su come fare una buona pizza e quando e quanto far lievitare l’impasto. L’italiano, sicuro che il proprietario del ristorante non sarebbe mai riuscito a fare una pizza come quella partenopea, disse: Col cacchio che farai un’ottima pizza! Il ristoratore, raccogliendo la sfida, non solo fece una buona pizza, ma volle chiamare il suo ristorante “Col Cacchio”.

Sito Internet ufficiale 

IL BORDELLO

Londra (Regno Unito). Il locale offre piatti della cucina italiana. E’ un ristorante-pizzeria di grandi dimensioni e il suo nome evoca le case di tolleranza, altrimenti dette “casini”. Il menu prevede vari piatti tipici, dalla caprese alla bruschetta; ma ha una grave lacuna, visto il nome del locale: mancano gli spaghetti alla puttanesca.

Sito Internet ufficiale 

TERRONI

Toronto (Canada). Tutto è iniziato con un negozio che vendeva cibi italiani. Poi è diventato una pizzeria, e oggi è una catena di 8 ristoranti che offrono cibi italiani. Inutile dire che il gruppo è stato fondato da due immigrati italiani d’origine meridionale.

Sito Internet ufficiale 

LA FIGA

Londra (Regno Unito). Il locale, un ristorante di specialità italiane, è stato fondato da un italiano goliarda, che ha osato l’inosabile. Tanto, chi lo capisce? Su Tripadvisor, infatti, un utente, alla fine di una recensione, scrive: “What does La Figa mean?” (cosa significa La Figa?).
Sul Web le recensioni dei nostri connazionali sono quasi tutte positive, e le battute si sprecano: “W la figa!”, “Non è un ristorante del cazzo”, “Sono curioso di entrarci dentro” e “Quando arriva il conto sono cazzi”.
Il nome, per quanto osè, è comunque diffuso nel mondo: c’è una pizzeria “La figa” a Rio de Janeiro (Brasile) e  un “Cafè Figa” a Viña del Mar (Cile) .

Sito Internet ufficiale

PIZZA CAZZO

Golbey (Francia). Il ristoratore ha scelto un nome provocatorio ma musicale, perché basato su un’allitterazione (cioè la ripetizione di lettere: -izza -azzo). Il locale si trova in una piccola città nella Francia orientale, e l’ho inserito qui per “par condicio” dopo il locale precedente. Le poche recensioni sul Web non sono positive.

Segnalazione su un portale di ristorazione 

 

FACCIA DI CULO JEANS

Hong Kong (Cina). E’ l’unico locale di questa lista che non sia un ristorante. Il negozio di abbigliamento è stato fondato da un italiano, Oreste Carboni, che ha ideato il marchio dopo essersi stabilito a Hong Kong (ha sposato una donna cinese). Su Flickr alcuni hanno commentato: “Gli spedisco subito il curriculum, anzi: il curriculo”. Ma il negozio è stato chiuso anni fa.

Segnalazione su Flickr 

LA ZOCCOLA DEL PACIOCCONE

Amsterdam (Paesi Bassi). Il nome è lungo e composito. Ma non per attenuare l’impatto del termine “zoccola”, bensì perché il locale – una pizzeria con forno a legna – è attigua a un altro ristorante, che si chiama per l’appunto “Il pacioccone”. Il locale si trova in un vicolo del centro storico.

Segnalazione su un sito turistico

CULO DEL MONDO

Werdohl (Germania). Il nome lo trovo davvero spiritoso, anche se sarebbe stato più appropriato in Cambogia o in Nuova Zelanda invece che nel cuore d’Europa, nella Germania nord occidentale. Ma tant’è: comunque, a dispetto del nome, il ristorante non sembra il tipico angolo d’Italia all’estero: le recensioni raccomandano le sue bistecche.

Segnalazione su TripAdvisor

VAFFANCULO

Buenos Aires (Argentina). “Il vero sapore della gastronomia italiana: Vaffanculo Cantina Italiana”. Più che uno slogan, sembra uno sfogo rabbioso… Ma tant’è. Il locale propone alcune specialità italiane, soprattutto i primi piatti.

Il sito ufficiale 

LA PUTTANA

Lisbona (Portogallo). Ecco un altro locale in Portogallo, dove negli ultimi anni sono emigrati diversi italiani. E questa attività commerciale è una scelta tipica: una pizzeria. L’insegna fa effetto, anche perché il termine non è così lontano dal suo equivalente portoghese (puta). Se una cameriera o la titolare del locale rispondesse al telefono, però, vivrebbe una situazione imbarazzante: “La Puttana?” “Sim” (“Puttana?” “Sì”).

Sito Internet

CHE FIGATA

Naperville (Usa). In inglese si dice “cool”. L’equivalente italiano è “Che figata”: ed è proprio così che è stato chiamato un ristorante italiano a Naperville. Certo, un nome difficile da dire per gli anglofoni, tanto che in alcuni annunci viene spiegata anche la pronuncia, per quanto a spanne (Kay / Fah-gah-tah). 

PIZZERIA STRONZO

A Santiago del Cile (Cile). Impossibile sapere la storia di questa pizzeria, abbastanza popolare a Santiago. Il titolare non sembra di origini italiane: forse ha imparato questa parola in un viaggio in Italia o da amici italiani. Ha anche lanciato cappellini griffati “Stronzo”, sovrastati dalla scritta “ingredientes naturales” (come del resto è naturale lo stronzo…). Risulta esserci un’altra pizzeria con il medesimo nome a Zurigo.

 

Pagina internet su Facebook

KAGO SUSHI

Varsavia (Polonia). L’insegna è esilarante ma tutt’altro che invitante per un italiano. Eppure il suo significato è innocente: in giapponese vuol dire “cestino di sushi”. E’ un ristorante di specialità nipponiche nel cuore della capitale polacca. E ha scatenato vari commenti ironici da parte di clienti italiani, tipo: “All you can shit” (invece di “all you can eat”); “Lo chef si chiama Urinawa Suimuri”; “Questo piatto è Ushito Nakagata”.

segnalazione su TripAdvisor

 

POMPINO

Auckland (Nuova Zelanda). Non sono riuscito a ricostruire la storia di questo locale, un caffè ristorante: se sia stato fondato a un emigrato italiano, o no, ma il fatto che in menu abbiano la pasta fa pensare di sì. Uno dei visitatori del sito ha commentato: “Dopo una mangiata al ristorante Pompino, una bella grappa Bocchino”.

segnalazione su TripAdvisor

PORCO DIO

Lleida (Spagna). E’ una pizzeria fondata, c’è da scommetterlo, da italiani. E oltre all’insegna anche il menu non lascia spazio all’immaginazione: le pizze, invece di “margherita” o “quattro stagioni”, si chiamano “vaffanculo”, “baldracca”, “coglione” e così via. La pizza raccomandata si chiama “Madonna santa”. Nelle recensioni, comunque, molti affermano che in questo locale si mangi “da Dio” (alcuni dicono di aver fatto “una cena della Madonna”).

Il sito ufficiale

GNOCCA

Las Palmas (Spagna). E’ un piccolo ristorante a Nord dell’isola Gran Canaria. A giudicare dal menu, a base di lasagne e gnocchi, i suoi gestori sono senz’altro italiani. Il nome probabilmente nasce come variante di gnocco, uno dei piatti forti del locale. Ma ovviamente strizza l’occhio al significato di vulva o anche, più in generale, di “bella donna”. 

Il sito ufficiale

BELIN

Mogan (Spagna). Il ristorante è sul lungomare di Mogan, a Gran Canaria. Si potrebbe pensare a una semplice omonimia con il termine ligure che designa l’organo sessuale maschile (e, per estensione, le persone di scarso valore intellettuale): ma il ristorante è gestito da liguri, quindi la scelta è stata decisamente consapevole

segnalazione su TripAdvisor

PIRLA

Berlino (Germania). Non si sa nulla di questa impresa, che importa cibi italiani in Germania. I suoi camion sono fotografati con divertimento dai nostri connazionali lungo le strade tedesche. Vista la scelta lessicale, la ditta deve essere stata fondata da imprenditori di origine lombarda.

Sito internet

Conoscete – all’estero – altre ditte, negozi, attività con nomi scurrili? Segnalatele nei commenti (precisando dove sono, e il loro sito Internet): aggiornerò la lista

Di questo post ha parlato la trasmissione “I Vitiello” su Radio DeeJay il 22 agosto 2019.
Per ascoltarla, cliccate sul riproduttore qui sotto:

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Dimmi che lavoro fai. E ti dirò il tuo insulto https://www.parolacce.org/2018/03/20/spregiativi-professioni-mestieri/ https://www.parolacce.org/2018/03/20/spregiativi-professioni-mestieri/#comments Tue, 20 Mar 2018 08:00:51 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13924 «Smettila di comportarti come un bifolco!». «Altro che un dentista, quello è un cavadenti!».  «Siamo stufi di questi politicanti!». Ci avete fatto caso? Quando vogliamo insultare qualcuno, a volte lo offendiamo per il lavoro che fa (o per come lo… Continue Reading

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Alcuni sinonimi spregiativi di necroforo (disegno Shutterstock).

«Smettila di comportarti come un bifolco!». «Altro che un dentista, quello è un cavadenti!».  «Siamo stufi di questi politicanti!». Ci avete fatto caso? Quando vogliamo insultare qualcuno, a volte lo offendiamo per il lavoro che fa (o per come lo fa). Ma perché si può offendere qualcuno prendendo di mira la sua attività lavorativa? Perché esistono professioni così disonorevoli da essere usate come offese? Gli insulti professionali sono una categoria molto interessante. Il lavoro, infatti, esprime e al tempo stesso costruisce la nostra identità: siamo quello che facciamo. La professione esprime quale posto occupiamo nella società, quanto valiamo e quanto contribuiamo al nostro bene e al bene comune. Dunque, sono offese che colpiscono il nostro ruolo pubblico, e dato che siamo “animali sociali”, le offese in questo ambito ci colpiscono al cuore della nostra onorabilità. Chi lavora male o fa un brutto lavoro perde la faccia, viene additato e disprezzato. Viste queste premesse, ho deciso di fare un censimento completo di questi insulti. Mi aspettavo di trovarne una ventina, e invece sono un centinaio: per la precisione sono 131, e prendono di mira 32 figure professionali. Quali sono? E perché sono disprezzate?

Per rispondere a queste domande, guardiamo subito la lista completa di questi insulti:

professione epiteti insultanti motivazione
attrice/attore attricetta/attorucolo
avvocato  avvocaticchio, avvocatucolo, avvocatuncolo, leguleio, paglietta (per l’uso che avevano un tempo gli avvocati napoletani di portare cappelli di paglia neri), parafanghista (avvocato dedito a cause per incidenti stradali), azzeccagarbugli, mozzaorecchi
barista oste (persona pettegola e opportunista)
calzolaio ciabattino
colf, donna delle pulizie sguattera/o, serva/o
commerciante bottegaio, pescivendolo, pellaio (conciatore, venditore di pelli: significa anche persona rozza e ignorante), faccendiere, mercante, maneggione
contadino bifolco, villano (maleducato), cafone, burino, tamarro (venditore di datteri), pecoraio (stereotipo falso: nell’Italia preunitaria, proprio i pecorai, spostandosi nelle transumanze e leggendo nelle soste a compagni ignoranti i “libri de pelliccia” – grandi poemi cavallereschi che portavano con sé nelle tasche delle pellicce – promossero la diffusione dell’italiano), zappaterra
dentista cavadenti
disoccupato fancazzista, perdigiorno, pelandrone, pigrone, poltrone, fannullone, scansafatiche, sfaccendato, scioperato, lavativo, perditempo, bighellone, vagabondo, ozioso, indolente
fotoreporter paparazzo
giornalista giornalaio, pennivendolo, scribacchino, imbrattacarte, imbrattafogli, velinaro, pennaiolo
giudice ammazzasentenze (giudice incline ad annullare giudizi di gradi inferiori)
guidatore carrettiere (persona di modi volgari), camionista
impiegato, funzionario burocrate, burosauro,mandarino (alto funzionario che vorrebbe conservare e far valere a ogni costo i privilegi più esclusivi della sua carica), travet (impiegato mal pagato e di basso livello), ragionierino, mangiacarte, mezzamanica, portaborse
imprenditore edile palazzinaro
informatico, programmatore nerd (sfigato, chi è portato per la tecnologia ma è imbranato in tutto il resto ed è incapace nei rapporti sociali)
manovale manovalanza
medico, chirurgo beccaio, cavasangue,  cerusico, conciaossa, macellaio, norcino, scannagalli, segaossi
necroforo beccamorto, becchino, tombarolo, vespillone
netturbino spazzino
pittore imbrattatele
politico tangentaro/tangentista, bonzo (persona autorevole, che si comporta con eccessiva e ridicola solennità), politicante, corrotto, politicume, politicastro, venduto
poliziotto, militare sbirro (agente con metodi arbitrari, servo del potere, corrotto, violento), caporale (persona prepotente, autoritaria), piedipiatti, sgherro
portiere, custode portinaio (persona pettegola)
professionista, artista mestierante (impreparato, improvvisato), artistoide
prostituta, lavoratrice del sesso puttana, mignotta, zoccola, troia, corpivendola, bagascia, battona, squillo, meretrice, donna di vita/di strada/di malaffare/da marciapiede, malafemmina, escort, passeggiatrice, lucciola, bella di notte, marchettara, sgualdrina
psicologo strizzacervelli
sacerdote, prete corvo, gesuita, pretucolo,  pretignuolo, pretino, pretoccolo, pretoide, pretume
uomo di fatica facchino, scaricatore di porto, camallo
uomo/donna delle pulizie sguattero/a
usuraio strozzino, sanguisuga, mignatta, cravattaro
vigilante sceriffo

legenda: nomignolo attribuito per:

classismo
delusione
paura

Come si può notare, diversi di questi insulti professionali sono costruiti alterando il nome di un lavoro con suffissi diminutivi, accrescitivi o peggiorativi: vedi pretino, pretoccolo, pretoide… (per sapere come offendere usando solo i suffissi, vedi questo altro mio articolo). 

Un vecchio “Topolino”. Inquietante.

Ma questo elenco dà lo spunto anche per altre riflessioni. Un eloquente indizio è vedere quali sono le categorie più bersagliate, ovvero quelle con il maggior numero di sinonimi e varianti: la lingua batte dove il dente duole. Fuori di metafora, le figure professionali che hanno generato più insulti sono quelli che colpiscono di più la nostra immaginazione, che suscitano le emozioni più forti e complesse. Come potete vedere nella tabella, le attività che hanno ispirato il maggior numero di epiteti offensivi sono l’avvocato (leguleio, azzeccagarbugli, avvocaticchio, etc), il commerciante (bottegaio, faccendiere, maneggione), il contadino (bifolco, zotico, burino, cafone…), il giornalista (pennivendolo, scribacchino, velinaro), l’impiegato (travet, burocrate, portaborse), il medico (cavasangue, macellaio), il politico (tangentaro, politicante), il poliziotto (sbirro, piedipiatti), il prete (corvo, pretucolo), la prostituta (zoccola, mignotta), l’usuraio (strozzino, cravattaro).
In sintesi, vengono più bersagliate le persone che esercitano male il loro potere (politici, usurai, commercianti), o che fanno male il loro lavoro, soprattutto se è una professione importante e delicata (giornalisti, medici, avvocati). Per questo ho classificato questi epiteti come l’effetto di una delusione.
Discorso a parte merita il disoccupato, che è – insieme al contadino – il più disprezzato: perché è considerato un parassita che campa alle spalle di tutti gli altri che lavorano. Insomma, un cattivo esempio da mettere al bando: meglio avere un lavoro, anche schifoso, piuttosto che nulla. Ma non sempre – soprattutto oggi, in tempi di crisi economica – essere disoccupati è una colpa. Così alla disgrazia di non avere soldi e lavoro, si aggiungono l’isolamento e il disprezzo sociale.

Libro contro gli stereotipi: racconta la storia di un agente, Elio Carminati.

Ma alcune attività sono disprezzate in quanto tali. Il contadino, ad esempio, da secoli ispira la più ampia categoria di insulti lavorativi: tanto che ormai cafone, villano, bifolco non indicano più gli agricoltori, ma sono sinonimo di persona ignorante, maleducata, rozza. Il motivo? Puro e semplice classismo: quando si sono formate le città, nel Medioevo, i benestanti che vivevano nei primi agglomerati urbani guardavano con disprezzo quanti facevano il duro lavoro di zappare la terra. Li consideravano inferiori. Ma altri mestieri sono disprezzati in quanto tali non solo perché sono umili, ma anche per moralismo e paura. Il caso più emblematico è quello della prostituzione: un lavoro tanto disprezzato ma al tempo stesso molto richiesto. In un certo senso, un male necessario, di cui non si vuole ammettere l’importanza, negandogli ogni dignità. (Anche se poi, nel disprezzo verso le prostitute, entrano in gioco altri fattori, culturali e sessuali, di cui non mi occupo in questo articolo). E lo stesso tipo di disprezzo ansioso e pauroso si registra anche per i necrofori, che si occupano dei morti. Insomma, quando si tratta di cose delicate, degli aspetti più bui della nostra vita, preferiamo offendere. E voltarci da un’altra parte.

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Alcuni insulti discussi in tribunale (elaborazione foto Shutterstock).

Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi“, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi: questa espressione va condannata perché “è indice di disprezzo“, replica la Suprema Corte in un altro pronunciamento.
Le sentenze sugli insulti sono appassionanti, ma spesso sembrano contraddirsi e perciò rischiano di creare confusione: che cosa si può dire, allora, senza rischiare di finire in tribunale?
La questione è vitale, come testimoniano i numerosi e accorati appelli che mi arrivano da quando ho scritto un post sulla riforma del reato di ingiuria: «Se do a qualcuno dello “sciacallo” su Facebook, mi può denunciare?», chiede Luca. «Dopo che la mia ex fidanzata mi ha detto che mi aveva tradito, ai suoi messaggi sul telefonino ho risposto con pesanti parolacce, tipo lercia, zoccola, viscida, ecc , rischio qualcosa?», incalza Andrea.
Non sono quesiti astratti, visto che le leggi puniscono le offese (ingiuria, diffamazione, oltraggio) con multe fino a 12mila euro e carcere fino a 5 anni.

Ora, però, c’è finalmente un quadro d’insieme: lo offre il “Dizionario giuridico degli insulti” (A&B editrice, 196 pagg, 18 €), un libro straordinario, appena pubblicato, che passa in rassegna oltre un secolo di sentenze pronunciate dai tribunali italiani. Potete trovare, in ordine alfabetico, i pronunciamenti su 1.203 termini insultanti (da “A fess ‘e mammeta” a “Zozzo”) e 83 gesti (dal dito medio all’ombrello). L’autore è un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D’Alessandro, che i lettori di questo blog ricorderanno per un suo precedente libro (di cui avevo parlato qui), che pubblicava le statistiche sugli insulti più denunciati in tribunale (vedi grafico più sotto).
Il nuovo dizionario (a sin. la copertina) è un’opera preziosa: può essere utile non solo ai giuristi e ai linguisti, ma anche ai sociologi (per capire come cambia la percezione delle offese nel corso delle epoche) e ai giornalisti e blogger, per sapere quali parole possono o non possono usare nel criticare un personaggio pubblico.
Ma attenzione: fino a un certo punto, come spiegherò più sotto. Le parolacce, infatti, non si lasciano ingabbiare in una sentenza – di condanna o di assoluzione – perché possono essere usate in molti modi e non solo illeciti. Le parolacce, infatti, sono come i coltelli: si possono usare per ferire o uccidere, ma anche per sbucciare una mela o incidere una scultura nel legno…

PAROLE CONDANNATE

Nel libro, del quale ho scritto la prefazione, trovate tutti gli insulti classici (stronzo, carogna, puttana, verme, ladro, fogna, infame…). E anche espressioni molto più creative o ispirate dalla letteratura e dalla cronaca: dentiera ambulante, diesel fumoso, ancella giuliva, barabba, azzeccagarbugli, Zio Paperone, Papi girl, Pacciani, Lewinsky
Ma fra i termini offensivi sottoposti a giudizio trovate anche parole neutre (tizio, boy scout, coccolone) o addirittura complimenti: bella, bravo, onesto. Tutte – badate bene – espressioni condannate come insulti. Com’è possibile?
Dipende dall’intenzione comunicativa: se è vero che con le parolacce posso esprimere anche affetto (fra amici: «Come stai, vecchio bastardone?»), è altrettanto vero che 
si può camuffare un’offesa sotto le sembianze di un complimento.
Ne sa qualcosa, racconta il libro, la persona che nel 2010 disse a due vigilesse: «Siete due gran
fiche». E’ stata condannata, e non per sessismo: l’automobilista che aveva detto quella frase sarcastica era infatti una donna di Modena. Che stava usando un’altra figura retorica, l’antifrasi: una locuzione il cui significato era l’esatto opposto di quello che ha letteralmente. Dunque, vale la seguente equazione: complimento = insulto. La medesima parola, insomma, può avere entrambe le funzioni a seconda del tono (ovvero dell’intenzione comunicativa) con cui viene detta.

Gli insulti più processati in tribunale (clic per ingrandire)

Ecco perché i magistrati, per giudicare se una parola sia stata davvero offensiva, usano lo stesso criterio di un buon linguista: collocano quella espressione nel contesto. Cioè vanno a guardare chi l’ha detta, quando, perché, a chi, dove, con quale intenzione comunicativa.
E così
, grazie a questi dettagli, questo libro racconta tante storie, spesso divertenti. Come quella del magistrato che aveva chiamato i propri colleghi, durante un’infuocata camera di consiglio, “minchie mortee “nani mentali(fu condannato dalla Cassazione nel 2004). 
O quella dell’automobilista punito dalla Suprema corte nel 2011 per aver detto a un poliziotto che l’aveva sanzionato durante un controllo stradale: «Questa multa non mi toglie nemmeno un pelo di minchia». Peccato, era una bella battuta.
Altri giudici, in passato, si erano dimostrati più tolleranti: avevano assolto un uomo che aveva detto a un collega «Mi
fai una sega tu e la legge». Perché, scrissero i magistrati dell’epoca (era il 1948!) la frase, per quanto volgare e come tale emendabile, «aveva il significato traslato di “Sono assolutamente tranquillo di fronte alla minaccia di adire vie legali”».

I CONFINI DELLA CRITICA

Alcuni insulti fanno rischiare la galera (Shutterstock).

Ma fino a che punto ci si può spingere nel criticare qualcuno?
La libertà di criticare un personaggio pubblico è uno dei cardini della democrazia e della libertà di stampa. E’ in nome di questa libertà che Vittorio Feltri è stato assolto per la sua rubrica «Il bamba del giorno», che metteva alla berlina vari protagonisti delle cronache. Una critica anche feroce, purché argomentata, è infatti tollerata. Ma salendo di tono e di bersaglio, questa libertà inizia a scricchiolare: è legittimo affibbiare il soprannome di “Cialtracons” al Codacons, l’associazione dei consumatori? I giudici hanno detto di no.
E’ il noto dibattito sui confini della satira: fino a dove può spingersi per «castigare i costumi attraverso il riso»? La Cassazione parla di “continenza”: si possono usare parole forti, purché siano figlie di un dissenso ragionato. Ma, in realtà, è impossibile stabilire una formula a priori valida per tutti i casi.
E quando si parla di parolacce i dubbi da sciogliere sono numerosi e, a volte, involontariamente comici. Per esempio, muovere il bacino in avanti e indietro dicendo «Suca» (succhia) è un’ingiuria? I magistrati l’hanno inquadrata come atto contrario alla pubblica decenza, ma si potrebbe discutere a lungo. E la frase «Ti rompo le corna» è un’ingiuria o una minaccia? Dipende se si dà più peso al verbo rompere o alle corna...
E augurare a qualcuno che «gli venga un cancro»? Esemplare quanto hanno scritto i giudici della Cassazione nel 2008: «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale».
Miseria umana ma anche superstizione: la maledizione – questo il nome tecnico dell’augurare il male a qualcuno – si basa sulla credenza magica che un desiderio (malevolo) possa realizzarsi davvero. Molte espressioni volgari sono maledizioni, eppure nei loro confronti i giudici hanno pareri discordi: hanno assolto chi ha augurato la morte di qualcuno, ma condannato chi ha detto «Va a morì ammazzato», «Che ti vengano le emorroidi», «Che tu possa sputare sangue», e perfino «Va a cagare» (che per uno stitico sarebbe una benedizione).

SENTENZE DISCUTIBILI

Locandina del “Vernacoliere”, giornale satirico.

Com’è inevitabile, molte sentenze fanno discutere. Perché, in diversi giudizi, rompicoglioni è un termine tollerato («è una manifestazione scomposta di fastidio, di disappunto ma non lede l’onore») mentre rompicazzo è considerato insultante, pur avendo un significato equivalente? Perché i testicoli debbano avere una minor forza insultante rispetto al pene non è dato sapere.
Lo stesso dilemma si pone per i termini pagliaccio e buffone: pur essendo termini sovrapponibili, mentre il primo è stato sempre condannato, il secondo è stato anche assolto. Il buffone, del resto, è una figura ambigua: è ridicolo ma può anche rivelare verità scomode.
Ed è lecito che un insegnante dia dell’asino a un alunno? La Cassazione, nel 2013, ha scritto che il termine «potrebbe, in linea di principio, riconnettersi ad una manifestazione critica sul rendimento del giovane con finalità correttive». Sarà, ma ho qualche perplessità sull’efficacia educativa dell’insulto.
Di certo, per chi come me è giornalista, ovvero fa informazione critica, fa effetto leggere che è stato condannato chi ha usato i termini faccendiere, inqualificabile, modesto, politicante, scalmanato, sciagurato, sconcertante, specioso, strampalato.
D’altra parte, è pur vero che è stato assolto chi ha detto crumiro, dittatore, esaurito, fanatico, fazioso, incauto, inciucio, lacché, lottizzato, nepotismo, pazzo, retrivo, risibile, ruffiano (ma solo in senso metaforico), sanguisuga, sobillatore, sprovveduto, stravagante, superficiale, trombato, trombone, zelante e zombie.
Ma attenzione: non c’è alcuna garanzia che, usando questi termini, la passerete liscia. Dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice. Perché gli insulti possono sì ferire, ma restano pur sempre inafferrabili: come cantava don Basilio nel “Barbiere di Siviglia”, «la calunnia è un venticello».

AVVERTENZA IMPORTANTE

Diversi lettori mi chiedono pareri per insulti ricevuti o fatti. Rispondo volentieri, ma attenzione: sono un esperto di turpiloquio e degli aspetti psicosociali legati ad esso. Non sono un avvocato né un giurista, quindi non sono una fonte qualificata in campo legale. Per un parere qualificato dovete rivolgervi a un avvocato.
In ogni caso, se volete comunque una mia valutazione (sociale, relazionale), spiegate bene le circostanze: cosa avete detto, a chi (senza precisare il nome), dove, perché e se c’erano altri testimoni.
E se volete esprimere la vostra gratitudine per il mio impegno, la soluzione c’è: acquistate una copia del mio ebook. Costa meno di un aperitivo, e aiutate questo sito a vivere.

Hanno parlato di questo post: AdnKronos, L’Espresso, Ansa, Quotidiano.net, IlRestoDelCarlinoFranco Abruzzo, Il GiornaleIl Secolo d’Italia, StravizziFan Page, Enews24, Il DubbioGenova quotidiana, Ultima voce. E qui sotto c’è anche una video recensione di Dellimellow:

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Caspita! Gli eufemismi, parolacce col “lifting” https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/ https://www.parolacce.org/2016/12/07/eufemismi-in-italiano/#comments Wed, 07 Dec 2016 14:29:58 +0000 https://www.parolacce.org/?p=11378 “Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno… Continue Reading

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col-cacchio-pizzeria-sudafrica

La pizzeria “Col cacchio” aperta da italiani in Sud Africa.

Caspita, mi hai rotto i cosiddetti!! Ma vaffancuore!!”. Diciamo la verità: gli eufemismi – le versioni addolcite delle parolacce – sono ridicoli. Come le foglie di fico nei dipinti di nudo, tentano di nascondere le “vergogne”, ma così le fanno risaltare ancor di più. E, nel loro essere così artificiosi e innaturali risultano un po’ patetici. Con l’aggravante che spesso gli eufemismi sono usati dagli ipocriti per mascherare le loro cattive azioni o intenzioni.
Eppure, a ben guardare, questi surrogati verbali sono un’invenzione straordinaria: nella nostra lingua sono circa 200 e si possono usare in 6 modi diversi, non solo per censurare o mistificare la verità ma anche per varie forme di delicatezza. Studiarli, anzi, è affascinante perché sono come un trattato di sociologia: svelano le nostre fobie più nascoste.
In questo articolo solleveremo queste foglie di fico linguistiche per vedere che cosa nascondono. Racconteremo la lunga, insospettabile storia degli eufemismi; sveleremo come si costruiscono, quanti sono nel dizionario e quali concetti cercano di camuffare. E ascolteremo i divertenti eufemismi consigliati da Elio e le storie tese.
Infine, potrete leggere la lista dei 79 eufemismi più spassosi della nostra lingua, con un gioco: dovrete indovinare quale parolaccia sostituiscono. Insomma, un test per mettere alla prova la vostra cultura: sapete il significato originario di alcune espressioni come cacchio? E perché ci sono così tanti vegetali (cavolo, capperi, corbezzoli…) in questo elenco?

La storia

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L’osteria “Maremma maiala“: non è in Toscana ma in provincia di Cremona.

Partiamo dalla loro storia: quando sono stati inventati gli eufemismi, e perché? Sono nati ben prima del galateo e delle buone maniere. Gli eufemismi (dal greco “parlar bene”) infatti erano già presenti nelle società primitive, che credevano nel potere magico delle parole. Nelle civiltà più antiche i nomi non erano soltanto simboli, ma erano “l’anima” delle cose: chi conosceva il nome d’un essere l’aveva in suo potere. Per questo, i nomi delle divinità e quelli dei defunti erano tabù: non si potevano pronunciare, perché dicendoli si sarebbero evocati quegli spiriti. Così furono inventati termini allusivi ma neutri, da usare nelle conversazioni al posto di quelli “pericolosi”. Dunque, gli eufemismi sono nati in campo religioso.
Con l’umanesimo e il cristianesimo, a questi nomi se ne sono aggiunti altri: quelli del sesso e delle parti del corpo, per motivi di pudore e di etica. Infine, nell’ultimo secolo, sull’onda del “politicamente corretto”, ne sono nati altri per difendere alcune categorie sociali svantaggiate (come “non udente” al posto di “sordo”) ma anche per propaganda politica o economica: come l’espressione “adeguamento tariffario” invece di “aumento”, “riduzione di organico” invece di “licenziamento”.

I modi di usarli

Questa lunga e ricca stratificazione ha aumentato gli ambiti d’uso degli eufemismi. Si usano in 6 modi:

  1. con i bambini: sono parole depotenziate, disinfettate. Sono come armi giocattolo, pistole col tappino rosso: “Accipicchia, sei proprio un monello!”.
  2. per scrupoli religiosi: si utilizzano per non peccare, sono come preservativi linguistici per non contaminarsi con contenuti tabù. Sono una forma di autocensura: “Cribbio, mi avete stufato!”.
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    Gli eufemismi sono come pistole giocattolo (foto Shutterstock).

    per scrupoli sociali: si usano davanti ad estranei, o superiori, o anziani. Insomma, quando non si vuole rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno. Si usano per decenza, convenienza, cortesia, tatto: sono una frenata in extremis, uno slalom morale, un modo di indorare la pillola, un lifting delle parole. “Penso che Franca faccia la escort” (invece di “puttana”). Gli eufemismi sono messaggi in codice, strizzate d’occhio: “io ti dico mezza verità, ma sappiamo entrambi che è una foglia di fico che nasconde ben altro”.

  4. per blocchi psicologici: gli eufemismi sono usati per timidezza o inibizioni morali. li usano le persone represse, sono l’espressione del “vorrei ma non posso”: “Ma vaffancuore!”.
  5. per educazione, autocontrollo: gli eufemismi sono come non mangiare con la bocca aperta o non ruttare. Svolgono una funzione importante: esprimono rabbia, ma lo fanno in una maniera socialmente accettabile, mostrando che chi li dice sa controllare i propri impulsi. Sono un compromesso fra espressione e censurta, un messaggio in codice fra gentiluomini (o donne). Insomma, gli eufemismi sono come la valvola di una pentola a pressione, fanno sfiatare il vapore in eccesso: “Fiiiischia che roba!”. L’opposto è dell’eufemismo è infatti il disfemismo, ovvero dire le cose nude e crude: per esempio “i miei vecchi” al posto di “i miei genitori”
  6. per ipocrisia e mistificazione: sono un forma di contrabbando, tentano di far passare di sottecchi qualcosa di inaccettabile. Invece di ammettere di aver rubato truccando i bilanci, si dice “Ci sono delle irregolarità contabili”.

Quei geniacci di “Elio e le storie tese” hanno fatto un intervento molto divertente proponendo dei nuovi eufemismi (parole di senso compiuto) che sembrano bestemmie, “da utilizzare nelle barzellette estreme per non urtare la sensibilità dell’elettore cattolico”: le potete ascoltare cliccando il video qui sotto.

Quanti sono e cosa nascondono

Quanti sono gli eufemismi in italiano? Il modo più scientifico di calcolarli è estrapolare le parole contrassegnate come “eufemismo” (alla voce “limite d’uso”) nel dizionario. Io ho usato lo Zingarelli su Cd-Rom. Nel mio libro ne ho censiti 172; nel 2011 erano saliti a 185, nel 2012 la linguista tedesca Ursula Reutner – direttrice del Centro linguistico all’Università di Passau, in Germania – ne ha trovati 240. Nell’ultimo, lo Zingarelli 2017 (pubblicato quest’anno) gli eufemismi sono 183: da “abile” (nella locuzione “diversamente abile“) a “zio” .
Perché queste variazioni? Innanzitutto perché la lingua è viva e sempre in evoluzione, e i dizionari lo registrano: la loro crescita altalenante può essere l’effetto del “politicamente corretto”, che ha aumentato la nostra sensibilità (e quindi le forme di censura) su molte parole.

sorbole

Commedia erotica di Alfredo Rizzo (1976).

Ma, come ha notato la professoressa Reutner, non è facile censire gli eufemismi: “ad esempio, lo Zingarelli non marca come eufemistiche diverse espressioni che lo sono (come audioleso e fuoco amico). Nei dizionari la stessa espressione può essere marcata come eufemistica in un punto e non in un altro”. Anche perché molti eufemismi diventano tali in espressioni composte: “casa” e “chiusa” non sono termini eufemistici presi singolarmente; ma l’espressione che li unisce, “casa chiusa“, è un eufemismo di bordello. Per questo, i censimenti di queste parole sono approssimativi.
E di cosa parlano gli eufemismi? Degli aspetti più delicati della nostra vita, come si può vedere da questa interessante statistica stilata dalla professoressa Reutner:

  • il 23,3% delle espressioni eufemistiche riguardano la vita e gli atti sessuali (escort/puttana, rapporti intimi/ trombare);
  • il 20,4% riguardano la morte (passare a miglior vita/crepare, mancare/schiattare);
  • un altro 19,2% le parti del corpo (fondoschiena/culo, scatole/coglioni);
  • l’11,3% riguarda Dio e diavolo (vivaddio/bestemmia);
  • il 7,5% i bisogni fisiologici (andare di corpo/cagare);
  • il 5,4% soldi e lavori (ritocco tariffario/aumento, lavoretto/lavoro umile);
  • 5,4% qualità fisiche e mentali, comportamenti (robusto/grasso, maturo/vecchio);
  • 5%, malattia (male incurabile/cancro, non udente/sordo);
  • 2,5% biologia femminile (stato interessante, avere le cose).
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Borsa di “Mani in pasta“, associazione culinaria.

Come nascono gli eufemismi? La nostra lingua usa 4 stratagemmi: l’omissione (non dire il termine scottante), la modificazione, la sostituzione con altri termini o l’abbreviazione.
Nella maggior parte dei casi (il 78%) gli eufemismi nascono per sostituzione: si mette una parola accettabile al posto di una inaccettabile (andare a letto con qualcuno invece di scopare con qualcuno). Solo nell’1% dei casi sono abbreviazioni (poffare sta per “può fare Dio”). Per chi vuole approfondire questi 3 stratagemmi – che hanno molte e ingegnose varianti – rimando al mio libro, dove ne ho parlato più diffusamente.
In questo articolo, invece, mi concentro sulle deformazioni: ovvero gli eufemismi che nascono per alterazione fonetica (“sostituti parafonici”), salvando la prima sillaba e mutando le successive, oppure cambiando o sopprimendo l’iniziale. Gli eufemismi di questo tipo sono il 21%: ho scelto di approfondirli non solo perché sono i più usati nella lingua parlata al posto delle parolacce, ma anche perché sono i più divertenti.

La lista degli eufemismi

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Un libro ammiccante ma “educato”.

Come leggerete nella lista qui sotto, molti degli eufemismi sono parole che rimandano a ortaggi e frutta: cavolo, capperi, cacchiocorbezzoli, sorbole. Ma perché? Secondo la Suda, un’antica enciclopedia greca, nell’antichità “molti, per dare forza ai propri giuramenti”, giurano sugli ortaggi: non tanto per evitare di nominare invano i nomi delle divinità, quanto per sdrammatizzare.
Come ricorda Paolo Martino, docente di linguistica alla Lumsa di Roma, in un divertente saggio sull’esclamazione “capperi!”, Radamanto, il giudice dell’Averno, ordinò che si giurasse non sugli dèi, ma su piante e animali domestici. Tanto che nell’antichità si giurava “per il cane” (da cui l’esclamazione “porco cane”, di cui ho parlato in questo articolo), “per l’oca” (da cui il “porca l’oca” usato ancora oggi), ma anche “per il cavolo”, “per il cappero”. Dunque, questi sostituti sono stati scelti non solo per assonanza con “cazzo” ma anche perché avevano già una lunga storia linguistica. D’altronde, avevo già parlato in un altro articolo dell’importanza simbolica dei vegetali come sostituti sessuali, sia nelle immagini che nel linguaggio.

Dunque, ecco la lista dei più frequenti eufemismi parafonici: sono 79, e non tutti li trovate sullo Zingarelli, perché a volte i dizionari non riescono a registrare tutti i termini colloquiali. Qui sotto potete mettere alla prova la vostra cultura: sapete davvero che cosa si nasconde dietro queste “foglie di fico”? Basta fare caso alle lettere iniziali… Se non riuscite a indovinarli, niente paura: cliccate sulla striscia blu col segno “+” per espandere il box e scoprire che cosa c’è sotto, avrete qualche sorpresa, cazzarola! Per i casi più curiosi (segnalati dagli asterischi *) ho inserito anche una breve spiegazione sull’origine del termine.

A

accidempoli, acciderba, accipicchia*, acc

Sta per...

*accidenti, che ti venga un accidente: l’accidente (o incidente) per eccellenza è la morte

alimortè

Sta per...

dal romanesco “li mortacci tua”, ovvero “i tuoi spregevoli defunti”

ammappelo/ammappalo, ammappete, ammazza

Sta per...

dal romanesco “ammazzalo” o “ammazzate” (ammazzati)

azzolina, azzo

Sta per...

cazzo

B

boia d’un diavolo, bòia d’un dìèvel

Sta per...

boia d’un dio

C

cacchio*, canchero, capperi/o, caspita, caspiterina, cavolo, cazzarola, cazzica, corno

Sta per...

cazzo

* termine agricolo che indica i germogli della vite o di alcuni tipi di piante rampicanti o infestanti.

caramba, carramba

Sta per...

dallo spagnolo carajo, cazzo

che pizza

Sta per...

che palle

corbelli*, corbezzoli**, cordoni, cosiddetti

Sta per...

coglioni

*corba è una cesta di vimini o il suo contenuto: corbelli è sinonimo di scatole, nel senso di testicoli; **corbezzolo è un arbusto sempreverde che produce frutti a bacche simili a ciliegie

cribbio, Cristoforo Colombo, cristallo

Sta per...

Cristo

D

della malora

Sta per...

della Madonna

diacine, diamine*,

Sta per...

diavolo

*sovrapposizione di domine (domineddio, Dio) con diavolo

dio cantante, dio caro, dio campanaro

Sta per...

dio cane

dioniso, Diogene, Diomede

Sta per...

dio

F

fischia

Sta per...

figa

I

incavolarsi, incacchiarsi

Sta per...

incazzarsi

K

kaiser

Sta per...

cazzo

M

madosca, malora

Sta per...

Madonna

Maremma*, Maremma maiala

Sta per...

Madonna maiala

* la Maremma è una regione geografica fra il sud della Toscana e il Lazio

mizzega, mizzica, mizzeca

Sta per...

minchia

O

osteria, ostrega, ostrica

Sta per...

ostia

 P

paravento

Sta per...

paraculo

parbleu

Sta per...

dal francese par Dieu, per dio

per dinci, per dindirindina, per Diana

Sta per...

per dio

porco zio, porco diesel, porco Diaz*, porco dinci, porco diavolo, porco due

Sta per...

porco dio

*Armando Diaz fu un generale, capo dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale

porca paletta, porca puzzola, porca putrella

Sta per...

porca puttana

porca madosca, porca malora

Sta per...

porca Madonna  

porca trota, porca trottola

Sta per...

porca troia

S

sorbole*

Sta per...

dal dialetto bolognese soccmel (o soccia), succhiamelo

*le sorbole sono i frutti del sorbo, pianta della famiglia delle rosacee: sono piccoli pomi   

U

urca

Sta per...

porca

V

vaffa, vaffancuore, vaffanbagno

Sta per...

vaffanculo

và a farti frate

Sta per...

và a farti fottere

Z

zio cane, zio cantante, zio canterino, zio canarino

Sta per...

dio cane

Dedico questo post all’amico Davide Viganò, che pochi giorni fa mi ha detto: “Vito! Ma perché non fai un post sugli eufemismi?!?”, ricordandomi il loro fascino.

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Il presidente più volgare della Storia https://www.parolacce.org/2016/09/30/insulti-duterte-filippine/ https://www.parolacce.org/2016/09/30/insulti-duterte-filippine/#respond Fri, 30 Sep 2016 12:50:39 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10907 Al suo confronto, Trump, Bossi, Berlusconi, Grillo, Salvini e Gasparri diventano raffinati gentiluomini. Rodrigo Duterte, il nuovo presidente delle Filippine, è un caso unico e inedito nello scenario politico internazionale: ha sparato offese pesanti alle più importanti istituzioni e autorità mondiali:… Continue Reading

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duterte2Al suo confronto, Trump, Bossi, Berlusconi, Grillo, Salvini e Gasparri diventano raffinati gentiluomini. Rodrigo Duterte, il nuovo presidente delle Filippine, è un caso unico e inedito nello scenario politico internazionale: ha sparato offese pesanti alle più importanti istituzioni e autorità mondiali: dall’Onu all’Unione Europea, e persino papa Francesco. Non si era mai visto un capo di Stato  insultare non solo gli avversari interni, ma persino i vertici di altre nazioni e anche un leader religioso.
Ma come si spiega questo stile comunicativo che viola ogni protocollo diplomatico?
Si può dedurre la strategia politica di un capo di Stato dalle parolacce che dice?
E quali effetti ha questo comportamento fuori dagli schemi?
Il caso merita di essere approfondito.
Partiamo prima dagli insulti che lo hanno proiettato sulla ribalta internazionale. Insulti non sempre facili da tradurre, perché Duterte li pronuncia in tagalog, una lingua austronesiana con alcune influenze inglesi e spagnole, che lui però non padroneggia essendo di lingua madre cebuanaQuindi spesso le sue frasi non sono del tutto corrette, comprensibili o facilmente traducibili. E spesso le mescola con un inglese rudimentale. Ecco perché ho chiesto aiuto a vari esperti per avere una traduzione il più possibile fedele.
Qui sotto cito i 6 insulti più clamorosi che ha pronunciato finora. La sua espressione preferita è putangina, che deriva da puta (puttana) in spagnolo.

PAPA

“Papa, figlio di mignotta”.

30 novembre 2015, convention del partito Pdp-Laban

LA FRASE. “Papa, figlio di mignotta [Putang Ina Ka], tornatene a casa. Non tornare più a farci visita”. A quell’epoca Duterte si era appena candidato alla presidenza. Era indispettito perché, quando papa Francesco era venuto nelle Filippine, Duterte aveva impiegato 5 ore per raggiungere un centro commerciale della città, per gli ingorghi causati dalla visita papale. E così, rievocando l’episodio, ha insultato il pontefice.
L’insulto è stato detto in modo scherzoso, ma ha fatto clamore in un Paese dove l’81% degli abitanti è di fede cattolica. Tanto che, nei giorni seguenti. Duterte ha dovuto scusarsi. Ma la sua uscita ha fatto breccia nella “pancia” dell’elettorato.

ONU

“Fanculo, ONU”.

4 giugno 2016, a una conferenza stampa, rispondendo ai media stranieri che lo avevano criticato.

LA FRASE. “Vaffanculo [fuck you] Onu, non riesce nemmeno a risolvere le carneficine in Medio-Oriente… e non riesce nemmeno ad alzare un dito in Africa… Chiudete il becco tutti quanti!”. Spiegherò più avanti i motivi di questo attacco all’Onu. La frase è stata pronunciata in piena campagna elettorale: era un assaggio di quanto sarebbe avvenuto nei mesi successivi.

Fonte

AMBASCIATORE

“L’ambasciatore Usa: frocio e figlio di puttana”.

8 agosto 2016, incontro con le forze armate.

LA FRASE. “Avevamo parlato con Kerry (John Kerry, segretario di Stato, Usa). Con lui è tutto a posto, anche se ho litigato con il loro ambasciatore (Philip Goldberg, ndr), quel frocio [bakla]. Figlio di puttana [putang ina], mi infastidisce davvero. Goldberg si è immischiato durante le elezioni, facendo dichiarazioni qua e là. Non doveva farlo”.

Fonte

OBAMA

“Porca puttana, Obama”.

5 settembre 2016, a una conferenza stampa

LA FRASE. “Porca puttana [putang-ina], ti maledirò in quel dibattito (riferimento all’incontro previsto con Obama al summit Asean in Laos, ndr) ”. La frase è stata tradotta da molti media come “figlio di puttana”, ma in realtà secondo una traduzione autorevole qui “puttana” è usato come imprecazione, come sfogo di rabbia generico. Secondo altri commentatori, invece, Duterte avrebbe detto “figlio di puttana” ma non a Obama, bensì al giornalista che gli aveva fatto una domanda scomoda. La frase si inseriva in un discorso in cui Duterte ha ribadito, lucidamente e con orgoglio, di essere “presidente di uno Stato sovrano, abbiamo smesso da tempo di essere una colonia”, accusando di indebite ingerenze gli Usa.
Dopo il clamore suscitato sui media Duterte si è scusato, precisando comunque che l’insulto non era rivolto a Obama. Ma d
i fatto l’incidente diplomatico c’è stato lo stesso: Obama ha cancellato un incontro previsto con Duterte, qualificandolo come un “tipo colorito”. Eleganza contro stile trash.

BAN KI-MOON

“Ban Ki-Moon, sei un altro stronzo/rincoglionito”.

9 settembre 2016, summit Asean in Laos

LA FRASE. “Ban Ki-Moon ha fatto un’altra dichiarazione sui diritti umani. Sei un altro stronzo/rincoglionito [tarantado]”. Anche le ragioni di questo attacco le spiegherò più sotto.

Fonte

UNIONE EUROPEA

“Fanculo, Unione europea”.

21 settembre 2016, discorso a Davao

LA FRASE.Ho letto la condanna dell’UE contro di me. Dirò loro: ‘Fanculo’ (fuck, alzando il dito medio, ndr). In realtà lo stai facendo per espiare i tuoi peccati: basta leggere i libri di storia per vedere che i Paesi europei hanno ucciso migliaia di persone in passato. E hanno la faccia tosta di condannare me… Lo ripeto: andate affanculo”. Il motivo della polemica contro l’Ue è lo stesso che lo ha spinto contro l’Onu.
 

Come si spiegano tutti questi insulti? Innanzitutto, bisogna precisare che nonostante i suoi modi di fare, Duterte non è una persona incolta: è un ex avvocato di 71 anni. Ed è soprattutto un politico navigato: il suo esordio risale al 1988, quando fu eletto sindaco della città di Davao, che ha amministrato per oltre 20 anni, fino al 2010. L’uso di insulti si spiega, piuttosto, con il suo populismo: strizza l’occhio alla gente comune, usandone il linguaggio. 

Il Palazzo di Malacañan, sede della presidenza.

Il Palazzo di Malacañan, sede della presidenza a Manila (Wikipedia).

In più, ha un carattere spiccio e autoritario: quando era sindaco, ha adottato il pugno di ferro – tolleranza zero – contro la criminalità, avallando metodi sanguinari da parte della polizia e di anonimi squadroni della morte. Guadagnandosi così il soprannome di “castigatore” (The punisher) o di “sceriffo del Pacifico”.
Un approccio che ha continuato anche da presidente, nella lotta alla droga: si stima che da quando è entrato in carica, circa 3mila persone sono state uccise: un terzo dalla polizia, il resto da anonimi assassini. Duterte ha pure offerto medaglie e ricompense in denaro per chi avesse ucciso i trafficanti. Dunque, assolutista, nazionalpopolare e violento.
Eppure, come ha rilevato un’inchiesta di “Time”, la diffusione di droga nelle Filippine non è peggiore che in altri Paesi. “Consumatori e spacciatori di droga” scrive il settimanale, “sono solo l’ultimo capro espiatorio in un Paese che da tempo deve affrontare problemi molto più gravi, come la corruzione endemica, la povertà, una sanità pubblica carente, gli abusi dei diritti e l’impunità della polizia (…). Duterte è riuscito a convincere molti suoi concittadini che il consumo di droga è una tale emergenza da minacciare l’esistenza stessa del Paese, e che solo il suo governo può salvare le Filippine”. Dunque, parolacce e lotta alla droga sarebbero una strategia di “distrazione di massa”.

TRIAD CONNECTION. President Rodrigo R. Duterte shows a copy of a diagram showing the connection of high level drug syndicates operating in the country during a press conference at Malacañang on July 7, 2016. KING RODRIGUEZ/Presidential Photographers Division

Duterte mostra l’organigramma dello spaccio di droga (Wikipedia, King Rodriguez/Presidential Photographers Division)

Ed è proprio la sistematica violazione dei diritti umani che ha spinto Onu, Usa e Ue a contestare Duterte, il quale invece vuole tirare dritto per la propria strada. Dunque, le parolacce sono usate non solo per aumentare il consenso, ma anche per ribadire la propria identità a dispetto delle pressioni (o ingerenze) internazionali. “Vuole mostrarsi come uomo di popolo, paladino di un’indipendenza e di una purezza politica e culturale molto seducente per l’orgoglioso popolo filippino”, scrive Difesaonline.
Ma quali effetti avranno i suoi attacchi ai poteri forti? Non rischia di perdere autorevolezza internazionale e di portare le Filippine all’isolamento?
Il rischio esiste, ma potrebbe anche essere calcolato, ipotizzano alcuni esperti di geopolitica. Finora, le Filippine sono state un’importante stampella per le strategie Usa nel Pacifico, scrive ancora Difesaonline, soprattutto in chiave anti-cinese. Ma forse Duterte vuole cambiare gli equilibri, riaprendo il dialogo con Pechino. O magari semplicemente alzare la posta con gli Usa.
Come andrà a finire, è difficile immaginarlo. Di certo, però, lo stile di Duterte resta senza precedenti: se il buongiorno si vede dal mattino (Duterte è in carica da 3 mesi) ne vedremo delle belle. Del resto, in filippino presidente si dice “pangulo”: un nome, un destino?

 

 

Ringrazio le persone che mi hanno aiutato a districarmi nel filippino, da WordLo a molti altri.
E’ stato interessante (e divertente).

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I libri e la moda dei titoli volgari: funzionano? https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/ https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/#comments Thu, 11 Aug 2016 08:36:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10583 Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo… Continue Reading

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Libri4Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo per andare di corpo“.
Mi hanno colpito perché, solo qualche anno fa, volumi con titoli del genere sarebbero rimasti confinati e un po’ nascosti nel settore “umorismo” o “erotismo”. E magari li avremmo comprati con un po’ di imbarazzo. Oggi, invece, evidentemente sono considerati un fatto normale.
Ma è un fenomeno nuovo? E’ in crescita? Quanti sono, ogni anno, i titoli volgari che vengono pubblicati in Italia? E, soprattutto: hanno successo?
Ho deciso di approfondire. Anche perché, a modo loro, tutti questi libri sono imparentati con “Parolacce”, di cui è appena uscita la nuova edizione in ebook.

Cazzaria

“La cazzaria” (1531), il più antico libro con titolo volgare.

Innanzitutto, smentisco subito un pregiudizio diffuso: il fenomeno non è affatto nuovo. Come potrete leggere in fondo a questo articolo, in realtà i primi titoli scandalosi risalgono già al 1500.
Ma torniamo per ora ai giorni nostri. Per fare una statistica attendibile ho consultato il database più completo di cui disponiamo: il catalogo del Servizio bibliotecario nazionale, ovvero tutti i libri posseduti dalla rete delle biblioteche italiane.
Nella maschera di ricerca, ho digitato le 10 parolacce più usate (al maschile e al femminile, al singolare e al plurale), circoscrivendo la ricerca dal 1960 a oggi, sui testi a stampa in italiano. La ricerca avanzata restituisce i risultati ordinando i libri per anno di pubblicazione.
Ho scartato dal conteggio le edizioni successive del medesimo titolo, ma non posso garantire una precisione assoluta (che, come vedremo, per i numeri in gioco non avrebbe senso).
Ecco il – prevedibile – risultato: l’uso di parolacce nei titoli è stato un crescendo esponenziale. Negli anni  ’70 e ’80 si è quadruplicata, per poi esplodere negli anni ’90 e 2000, come emerge dal grafico qui sotto (clicca per ingrandire):

Quanti sono?

GraficiLibri1Rispetto agli anni ’60, i libri con un titolo volgare sono aumentati di 13 volte negli anni ’90 e di 29 volte negli anni 2000. Se la tendenza resterà costante, entro la fine di questo decennio saranno aumentati di 36 volte. C’è di che inquietarsi? Direi di no: perché i numeri in gioco sono davvero piccoli rispetto al totale dei libri pubblicati.
Prendiamo il decennio record 2000-2009, per il quale abbiamo dati definitivi dell’Aie (Associazione italiana editori) e dell’Istat. In quegli anni, in media, sono stati pubblicati in Italia 56mila libri all’anno, per un totale di 560mila dal 2000 al 2009: i 231 volumi con un titolo volgare usciti in quel decennio rappresentano un misero 0,04% del totale. Vuol dire 4 ogni 10mila libri, una ventina l’anno: una piccola minoranza, anche se fa rumore. Piccola curiosità: l’editore che ha pubblicato il maggior numero di titoli osè risulta Mondadori (65), seguito da Piemme (sempre del gruppo Mondadori, 24) e Zelig (16).

Perché questo boom?

Perché questa diffusione crescente? Innanzitutto perché, dagli anni ’70 il linguaggio è cambiato: il vento della rivoluzione giovanile del 1968 ha portato il linguaggio informale e colloquiale anche sui media (radio, film, tv, giornali e, ovviamente, libri), come raccontavo in questo articolo. Ma per i titoli dei libri vanno considerati anche altri aspetti. Primo, il peso sempre più crescente della satira, della comicità e della letteratura popolare. Non a caso, una delle apparizioni più osè è un titolo del 1970: “Le poesie d’amore: dar core ar cazzo er passo è breve“. Il libro è la traduzione, in dialetto romanesco, delle poesie di Catullo da parte di Massimo Catalucci. Insomma, la stessa operazione di “Il culo non esiste solo per andar di corpo” di Alvaro Rissa (2015), che è un’antologia di classici greci e latini.
LibriMa la vera svolta, come rivelano i numeri qui sopra, è maturata negli anni ’90, quando è iniziata un’esplosione di titoli che dura ancora. Se volessimo identificare un punto di inizio in un libro di successo, forse potremmo trovarlo nel 1997 con “Che stronzo! Il libro-verità sul fidanzato italiano” di Silvio Lenares. Un libro umoristico, nel quale il sedicente Ettore Bengavis, emerito dottore in Stronzologia, descrive le tipologie del fidanzato italiano, consigliando come sfuggire al maschio italiano.
Nel 2002 Luciana Littizzetto pubblica un altro titolo dirompente: “Ti amo bastardo“. Seguito da un best seller che ha rotto gli schemi della saggistica, per il tono colloquiale dei titoli: “Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita” di Giulio Cesare Giacobbe (2003), poi replicato con “Come diventare bella, ricca e stronza: istruzioni per l’uso degli uomini” (2006) e “Il fascino discreto degli stronzi” (2009). La via era tracciata: l’uso di parolacce nei titoli è passato dalla letteratura satirica e umoristica alla saggistica.
Un approccio che ha avuto un successo notevole: non solo perché la parolaccia attira l’attenzione e quindi è un potente strumento di marketing (l’abbiamo visto a proposito di vini con etichetta sboccata), ma anche perché la parolaccia è il linguaggio della schiettezza, della sincerità, del “pane al pane vino al vino”. Dunque, chi scrive un saggio (che sia di auto-aiuto, di psicologia o di denuncia politica e sociale) se ricorre al linguaggio colloquiale dà subito l’idea di essere alla portata di tutti. Come dimostrano i saggi, serissimi, “Stronzate: un saggio filosofico” (2005) di Harry Frankfurt, “Il culo e lo stivale: i peggiori anni della nostra vita” di Oliviero Beha (2012) o “Siamo tutti puttane: contro la dittatura del politicamente corretto” di Annalisa Chirico (2014). E infatti, fra i titoli che ho esaminato in questa indagine, gran parte rientra nel genere humor, seguito proprio da psicologia (ed erotismo, ma meno di quanto ci si aspetterebbe).
Insomma, l’uso della parolaccia nei titoli dei libri è il sintomo di un’epoca che gioca a contaminare gli stili e i registri, che sono diventati permeabili fra loro: formale e colloquiale, serio e comico si mischiano fra loro. Fino agli anni ’80, se qualcuno avesse pubblicato un saggio (serio) con un titolo volgare, avrebbe perso in prestigio e credibilità. Oggi, invece risulta simpatico e schietto.
Da un altro punto di vista, poi, significa che la cultura “ufficiale” ha legittimato, oltre al linguaggio, anche la cultura comica e quella popolare in generale. Gli ha dato dignità letteraria. E questo è senz’altro un bene.

Quali parolacce si usano? Hanno successo?

GraficiLibri2Ma quali sono le parolacce più usate nei titoli dei libri italiani? In classifica svetta “bastardo” (257 titoli), seguito da “puttana” (109) e “culo” (60). In questo decennio si assiste a un’impennata di “stronzo“, che ha già superato “culo” e tallona “puttana“. Trovate i dati in dettaglio nella tabella qui a destra.
Se i libri sono lo specchio di un’epoca, allora viviamo in un tempo di bastardi e di puttane? L’ipotesi è suggestiva e ha un fondo di verità; ma in realtà, bastardi e puttane sono presenze costanti in tutta la storia, perché sono le due facce della medesima miseria umana…
A parte questo: è una strategia vincente pubblicare libri con titoli volgari? Dipende. Un titolo con una parolaccia senz’altro attira l’attenzione dei lettori fra i numerosi volumi pubblicati ogni anno in Italia (oggi ci avviciniamo ai 60mila). Ma la medaglia ha il suo rovescio: i libri con un titolo spudorato hanno meno possibilità di essere recensiti da tv, radio, giornali. Dove, almeno in alcuni casi, si sta attenti al linguaggio, e certi titoli sarebbero impronunciabili. Insomma, un libro come “Il metodo antistronzi“, più che una recensione su un giornale prestigioso dovrà la sua fama al passaparola, ai social network o anche come regalo goliardico. D’altronde, se le parolacce sono il registro colloquiale e popolare per eccellenza, è giusto che si diffondano in quello stesso canale comunicativo.
E comunque, ovviamente, una parola forte non basta a decretarne il successo: sui 594 libri con titoli volgari che ho preso in esame per questa statistica, i best seller non mi sono sembrati più di una ventina. Insomma, alla fine vince pur sempre il contenuto (com’è giusto che sia).

Quando sono stati pubblicati i primi libri con titoli volgari?

Resta un’ultima curiosità: a quali anni risale l’esordio di queste parolacce nei titoli librari? Ecco quanto sono riuscito a ricostruire nella tabella qui sotto. Come potete vedere, non è affatto una tendenza moderna, visto che 7 termini su 10 sono precedenti a prima del 1900; e risalgono al 1500, dopo poco più di un secolo dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455). Solo vaffanculo, tette e fica sono stati “sdoganati” negli ultimi 40 anni. Anche in questo caso, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i libri erotici sono una minoranza (20%); la maggioranza (70%) sono scritti a sfondo umoristico o satirico. Già nell’antichità, le parolacce si usavano soprattutto per far ridere. E se vi capitasse di leggere qualcuno di questi libri, vi accorgerete che non sono affatto libri commerciali: hanno uno spessore culturale che oggi non ci sogniamo lontanamente. Perché sono stati scritti dai (pochi, veri) intellettuali dell’epoca. Le parolacce, scritte da uomini di cultura, acquistano un altro sapore.

Parolaccia Anno Titolo Autore Genere
Cazzo 1531 La cazzaria Antonio Vignali Satirico
Puttana 1532 La puttana errante Lorenzo Venier Umoristico
Coglione 1569 Historia della vita, et fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Coglione Pietro Spino Satirico
Bastardo 1594 Trattato delle ragioni sopra il regno di Cipro, appartenti alla serenissima casa di Sauoia. Con narratione d’historia del violento spoglio, commesso dal bastardo Giacomo Lusignano.  Storico. (Il termine, pur con sfumatura spregiativa, non significa “cattivo, spregevole, spietato” bensì “figlio illegittimo”).
Merda
Stronzo  
1629 La merdeide, stanze in lode delli stronzi della gran villa di Madrid, del sign. D. Nicolò Bobadillo. Tommaso Stigliani Satirico
Culo 1842 La culeide in antitesi al moderno costume dei culi finti Gabriele Rossetti Cantone Umoristico
Vaffanculo 1977 La Traviata Norma, ovvero: vaffanculo… ebbene sì. Collettivo teatrale “Nostra signora dei fiori” Umoristico
Tette 1979 Lord tette M.H. Englen. Erotico
Fica 1994 La fica di Irene Louis Aragon Erotico

Questo articolo è stato ripreso da AdnKronos, Il Giornale, Prima Comunicazione, Il MessaggeroBooksBlogAgora Magazine, Donna Charme, Reportage online, Italy journal.

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Cin-cin, curva e altre parole da non dire all’estero https://www.parolacce.org/2016/03/23/falsi-amici-italiano/ https://www.parolacce.org/2016/03/23/falsi-amici-italiano/#comments Wed, 23 Mar 2016 17:08:52 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9741 Il più famoso è il cin-cin: se fate un brindisi con amici giapponesi, evitatelo come la peste. Nel Paese del Sol Levante, infatti, significa pene, nel senso di organo sessuale maschile (montaggio con foto Shutterstock). Ma non è l’unica espressione italiana che,… Continue Reading

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cinCin2Il più famoso è il cin-cin: se fate un brindisi con amici giapponesi, evitatelo come la peste. Nel Paese del Sol Levante, infatti, significa pene, nel senso di organo sessuale maschile (montaggio con foto Shutterstock). Ma non è l’unica espressione italiana che, in altre lingue, ha un significato volgare.
Avevo già raccontato (
qui) i casi contrari: ovvero le parole straniere che in italiano suonano come parolacce.  Ora, però, visto che si avvicinano le vacanze (e i viaggi) di Pasqua, vale la pena conoscere i fenomeni inversi: i “falsi amici” italiani, ovvero le nostre parole che hanno assonanze con parolacce straniere: ne ho trovate 28 in 8 lingue (se avete altri casi da segnalare aggiornerò la lista). Se le conosci, le eviti: se non volete rischiare equivoci o situazioni imbarazzanti

 

CECO

kurva2

Gli Szeki Kurva, gruppo punk.

Flag_of_the_Czech_RepublicSe andate a Praga, non dite che avete preso una curva: in ceco, kurva non è una strada tortuosa, significa puttana. Il termine è diventato molto celebre, tanto da essere usato anche in altri Paesi dell’est: Polonia, Russia, Ucraina, Bielorussia.
E ha un’etimologia curiosa: il termine, infatti, ha davvero a che fare con le curve. In passato, infatti, le donne che avevano difetti fisici (tra i quali le gambe “incurvate” o “arcuate”) erano emarginate perché considerate inadatte al lavoro nei campi e ad allevare figli. Così, alle “zitelle” con questo difetto fisico, non restavano molte alternative: spesso diventavano prostitute. E come tali erano mal viste dalle altre donne, che hanno caricato di disprezzo il termine kurva.

Non è l’unico termine imbarazzante in ceco. Anche la parola panna può creare equivoci: significa vergine, che non è una parolaccia ma introduce un tema sessuale mentre siamo convinti di parlare di cibo.
E il nostro avverbio
così ha una pronuncia simile a kozy, che vuol dire capre ma anche tette.

FINLANDESE
Flag_of_FinlandQui, la parola panna è ancora più pesante che in Repubblica ceca: significa mettere, anche nel senso di fottere, scopare. E attenti: portto non è un molo ma vuol dire puttana, come akka (occhio quando fate lo spelling: non è la H!). La parola bimbo, invece, è per adulti: significa tetta, sciocco, coglione.

UNGHERESE

Flag_of_HungarySe dite che state seguendo un ciclo di conferenze, potreste risultare comici: ha la stessa pronuncia di csikló, che significa clitoride.  Ma va decisamente peggio per chi ha un amico o un marito si chiama Pino: non chiamatelo ad alta voce in strada, perché il suo suono è identico a pina, che vuol dire fica.

SPAGNOLO

Flag_of_Spain

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“Nonna, passami la canna!”

Nonostante le notevoli corrispondenze fra la nostra lingua e lo spagnolo, i “falsi amici” sono numerosi. Anche fra le espressioni volgari. Per esempio, parlando di verdure, attenti a dire porro: significa persona goffa, maleducata e stupida, ed è anche un sinonimo gergale di spinello. Così come il burro non è un alimento: vuol dire asino, incivile, grezzo.
Chi si occupa di lavorazione delle pelli, meglio che sappia che concia, in molti Paesi latino-americani (Argentina, Perù, Bolivia, Cile, Guatemala, Paraguay, Uruguay) ha lo stesso suono di concha, fica (in origine significa conchiglia).
Se volete andare a pranzo in Messico, Ecuador, Honduras, El Salvador o in Nicaragua, state attenti a parlare di mensa con una cameriera: significa stupida, tontaIn Argentina, invece, se dite che amate dedicarvi all’orto, non stupitevi se chi vi ascolta resterà interdetto: state parlando del culo.
Ma il capolavoro più sorprendente di ambiguità è la parola bergamasca: una donna che dica “Yo soy bergamasca”, può suscitare l’ilarità generale. Perché “berga” ha lo stesso suono di verga (cazzo), e masca significa “mastica”: la sua frase, quindi, può essere intesa come “Io sono mastica cazzo”.

PORTOGHESE

Flag_of_Portugal

Il portoghese non è una lingua monolitica: come lo spagnolo, in America Latina si arricchisce di nuovi vocaboli e significati. E, soprattutto in Brasile, terra di immigrazione, si mescola con altre lingue: l’italiano è una di queste. Ecco perché, in alcuni Stati brasiliani, le parole italiane sono entrate nei modi di dire gergali. Come testimonia il sito Brazzil.commosca, polaca, minestra, piranha, a dispetto delle apparenze, significano tutti “puttana” (e mosca può significare anche fica). Mentre ferramenta non si riferisce al negozio di utensili: significa affare nel senso di pene. Ma non è tutto. In Brasile, se dite a una donna “Posso entrar?”, potreste ricevere uno schiaffo: entrar significa anche penetrare, fottere.

FRANCESE

Flag_of_France

sarko-colere

Quando Sarkozy disse: “Taci, povero coglione”.

La stretta parentela fra italiano e francese può generare molti equivoci. Se dite, guardando il cielo, “Che belle scie“, la frase, in francese, suonerebbe “Che bella cacata” perché scie, in francese, ha la stessa pronuncia di chier = cagare.
E ricordate che
con, in francese, non è una congiunzione ma significa figa, stronzo (è diventata celebre quando la usò l’ex presidente Nicholas Sarkozy per zittire un contestatore).
Attenti, infine, a tradurre
baciare con baiser (vuol dire anche scopare) e gatta con chatte (che indica anche la vulva).

INGLESE
Flag_of_the_United_KingdomLa distanza fra le radici linguistiche dell’italiano e dell’anglosassone produce poche assonanze volgari. Fra le più evidenti c’è ass, che non vuol dire asso ma (negli Usa) culo, stupido. Ma nella lista delle parole pericolose bisogna segnalarne due italiane che sono entrate nel dizionario inglese con significati del tutto diversi: bagnio (con la i) non vuol dire toilette ma bordello; e bimbo non vuol dire bambino ma sciacquina, oca giuliva, svampita.

Elizabeth-mikoshi

La processione fallica Kanamara Matsuri.

GIAPPONESE

Flag_of_JapanL’ho già anticipato all’inizio di questo post: in giapponese, chinchin (pronuncia: cin cin) vuol dire pene. Tant’è vero che il festival della Kanamara Matsuri, la processione fallica che si svolge ogni anno a Kawasaki per propiziare la fertilità, è chiamato anche Chinchin Matsuri (festival del… cazzo). Se siete in Giappone, quest’anno l’appuntamento è fissato per il 3 aprile. E se volete brindare con gli amici giapponesi, dovete usare un’altra espressione: “kanpai”.
Ma perché in italiano per brindare usiamo l’espressione cin cin? In effetti, l’espressione ha origini orientali, per la precisione cinesi: deriva infatti da qǐng qǐng, che significa “prego, prego”. Queste parole erano usate fra i marinai di Canton come forma di saluto cordiale ma scherzoso, e si diffuse nei porti europei. E’ entrato nei nostri modi di dire per la somiglianza onomatopeica con il suono prodotto dal tintinnare di due bicchieri tra loro.

RmcHo parlato di questo post con Monica Sala e Max Venegoni su Radio Montecarlo. Potete ascoltare il podcast con il mio intervento cliccando qui.

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Zokola, katso e altri 27 (falsi) amici https://www.parolacce.org/2016/02/25/assonanze-parolacce-straniere/ https://www.parolacce.org/2016/02/25/assonanze-parolacce-straniere/#comments Thu, 25 Feb 2016 16:15:24 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9547 Se in Norvegia una commessa vi dicesse “skopare“, non illudetevi: vi sta proponendo un paio di scarpe. Se un giapponese pronunciasse la parola “kago“, non vi sta segnalando i propri bisogni fisiologici: sta parlando di auto. E, restando in tema,… Continue Reading

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Katso

“Katso!” (Guarda!): settimanale finlandese sulla tv fondato nel 1960.

Se in Norvegia una commessa vi dicesse “skopare“, non illudetevi: vi sta proponendo un paio di scarpe. Se un giapponese pronunciasse la parola “kago“, non vi sta segnalando i propri bisogni fisiologici: sta parlando di auto. E, restando in tema, uno svedese che dice “merda” sta parlando di merenda
Benvenuti nei “falsi amicivolgari: ovvero, le parole straniere che hanno il medesimo suono (“omofone”) o una grafia simile a parolacce italiane.
Ne parlo oggi, ispirato da un post di Oxford Dictionaries, segnalato dalla collega blogger Licia Corbolante: l’articolo elencava 13 parole straniere che in inglese hanno un suono offensivo. Da dick (in inglese, cazzo, in tedesco grasso) a cant (omofona di cunt, fica: ma lato in olandese).

La segnalazione mi ha ricordato i casi dei prodotti che han dovuto cambiar nome perché somigliavano a parole volgari in un altro Paese: come la Ford Pinto che dovette cambiar nome in Brasile, perché in portoghese pinto significa cazzo. Racconto diversi casi del genere sul mio libro e in questo articolo.
Qui, invece, ho voluto fare una ricerca in onore dei tanti traduttori che seguono questo blog (grazie!). Ho cercato assonanze fra le principali parolacce italiane e le parole (neutrale) di altre lingue, usando Google Translate: un metodo empirico, forse impreciso, ma è l’unico che conosco. Il risultato? Ho trovato 29 espressioni che in italiano avrebbero un senso volgare, ma in altre lingue no. Quasi metà di loro arrivano dai Paesi nordici, in particolare dalla Finlandia: qui potete dire, senza scandalizzare nessuno, “katso merta” (guarda il mare), “katso sukkia” (guarda i calzini) e “katso matto” (guarda il tappeto)…

Ecco l’elenco dei falsi amici che ho raggruppato per categorie: buon divertimento.

SESSO MASCHILE

katso = guarda (finlandese)

gatsu = mese (giapponese). La parola si combina dando origine ai nomi dei mesi dell’anno: sangatsu (marzo), kugatsu (settembre)

katso merta = guarda il mare (finlandese)

katze = gatto (tedesco). La frase “Il mio terzo gatto nel carbone” in tedesco suona: “Meine dritte Katze in Kohle”.

minkia = visone (rumeno, albanese) = nostro (corso)

kojon = mano (lituano)

SESSO FEMMINILE

fika2

Slogan involontariamente comico di un caffè svedese.

fika = bevande, rinfreschi, pausa caffè (svedese)

fica = è, resta, rimane (portoghese)

tette = solo, appena (curdo)

 

INSULTI SULL’ETICA SESSUALE

porkka = bastoncino da sci (finlandese)

vakka = cofanetto di legno (finlandese)

zokola = podio (albanese) = piedistallo (russo)

troja = tre (bosniaco) = maglione (tröja, svedese)

puttana = stracci (usbeco)

frouxo (in portoghese si pronuncia froscio) = sciolto, allentato

minhota (in portoghese si legge mignota) = donna del Minho regione del Portogallo.

AREA SCATOLOGICA

zokola

Zokola: fabbrica di cioccolato in Belgio.

kago = auto, cestino (giapponese): “kago sushi” vuol dire “cestino di sushi” (che è il nome di un ristorante a Varsavia, come racconto qui)

merta = mare (finlandese)

merda = mossa, passaggio (bulgaro)

stronzo = stronzio (russo: elemento chimico)

kakare = scritto (giapponese) = torte (norvegese)

Auto della polizia tedesca con lo slogan “immerda”

kakata = cacao (bulgaro)

immerda = sempre lì, sempre presenti (tedesco), composto da immer + da. E’ diventato lo slogan della polizia della Renania Palatinato, in Germania

 

GLUTEI

kulor = perline (svedese)

kuulo

Pubblicità di apparecchi acustici in Finlandia: “kuulo” vuol dire “udito”.

kuulo = udito (finlandese)

kulo = corsa (giavanese); incendio boschivo (finlandese)

kulho = ciotola (finlandese)

 

ATTI SESSUALI

pompino = assolo (hawaiano)

skopare = paio di scarpe (norvegese)

katso sukkia = guarda i calzini (finlandese)

Katze in der Kohle = gatto nel carbone (tedesco)

inkulo = recupero crediti (norvegese) = in questo (zulu)

fankulo = amaca, dondolo (curdo)

 

A proposito di assonanze volgari, segnalo questa versione in finlandese della canzone “Guarda che luna” di Fred Buscaglione. Il ritornello suona così: Hopeinen kuu luo…. da sentire.

Se vi è piaciuto questo articolo, potete leggere:

i marchi stranieri che suonano come parolacce in italiano:

Oops! Quando il logo diventa indecente

gli acronimi stranieri che suonano come parolacce in italiano:

PIRLA project, CACCA club e altre (vere) sigle divertenti

Le parole italiane che all’estero suonano come parolacce:

Cin-cin, curva e altre parole da non dire all’estero

Le città mondiali con un nome volgare:

Le città più imbarazzanti d’Italia

 

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