razzismo | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 24 Dec 2024 15:10:21 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png razzismo | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Qatar, il Mondiale degli insulti (online) https://www.parolacce.org/2023/08/05/ricerca-offese-calcio/ https://www.parolacce.org/2023/08/05/ricerca-offese-calcio/#comments Sat, 05 Aug 2023 13:01:29 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19941 Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di… Continue Reading

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I calciatori della Germania posano con la mano sulla bocca all’inizio dei Mondiali: una protesta contro la FIFA, che aveva vietato di indossare fasce arcobaleno in Qatar (come solidarietà al mondo LGBT).

Quanti “leoni da tastiera” e quante parolacce ha scatenato l’ultimo Mondiale di calcio, Qatar 2022? La Fifa ha pubblicato il primo report globale sulle offese più frequenti sui social media verso calciatori, arbitri, allenatori. Da dove arrivano, chi prendono di mira, e quando.
La Fifa, infatti, durante il torneo aveva
alzato una barriera protettiva virtuale per i calciatori, il Servizio di protezione dei social media (SMPS): un sistema di intelligenza artificiale che ha monitorato le principali piattaforme di social media (Instagram, Facebook, Twitter, TikTok, YouTube) alla ricerca di post o commenti insultanti. Che sono stati in parte censurati in tempo reale sugli account di giocatori, allenatori,staff, squadre, in parte segnalati alle piattaforme.

Ora, a distanza di mesi dall’evento, la Fifa ha pubblicato un report che fa un bilancio dell’esperienza. E offre molti interessanti spunti di riflessione, anche se l’Italia non ha partecipato al torneo: è una delle prime volte in cui un torneo mondiale è stato monitorato dall’intelligenza artificiale (sebbene affiancata da quella umana) in un’operazione di protezione (o censura, a seconda dei punti di vista) in tempo reale e su scala globale. Alle squadre e ai giocatori la Fifa ha dato infatti un software di moderazione che nasconde automaticamente i commenti offensivi sui loro account: in questo modo sono stati occultati al pubblico 286.895 commenti.

In più lo studio ha risposto ad alcune curiosità: quanto sono frequenti gli insulti a squadre e giocatori? [ Risposta: poco ] Quali offese sono più frequenti e da dove arrivano? [ quelle generiche, e dall’Europa ]  Ci sono squadre più bersagliate di altre? [ la Francia ]. Con molte sorprese: razzismo e omofobia non sono stati i temi più frequenti della fogna virtuale.

Il sistema protettivo

La fasce anti discriminazione consentite dalla Fifa ai Mondiali femminili in Australia e Nuova Zelanda

Che il calcio sia uno sfogatoio dell’aggressività non è una novità. Molti calciatori diventano bersaglio dei tifosi, a ogni latitudine. E spesso questo può pregiudicare la loro serenità e il loro rendimento in campo. L’ex attaccante del Brasile Willian Borges da Silva ha sperimentato in prima persona gli abusi online: i tifosi del Corinthians insultavano lui e la sua famiglia ogni volta che non giocava all’altezza delle loro aspettative. Così, per evitare questi episodi, ha deciso di trasferirsi in Inghilterra (per il Fulham). 

«Un ambiente online tossico è un posto difficile e rischioso per i giocatori. L’odio e la discriminazione nell’ambiente online avere effetti dannosi sul loro benessere generale con attacchi di ansia, depressione, bassa autostima, disturbi del sonno, cambiamenti nelle abitudini alimentari, sentimenti di inadeguatezza, ritiro sociale e isolamento» ammonisce il report. 

Perciò, in vista dei mondiali, la Fifa ha attivato il Servizio di protezione dei social media (SMPS) chiamato “Threat Matrix” della società britannica Signify.ia: i giocatori di tutte le 32 Federazioni hanno fruito di un servizio di monitoraggio, segnalazione e moderazione dei commenti offensivi nelle lingue delle squadre che partecipavano al torneo. In pratica, un sistema di intelligenza artificiale, impostato in modo da riconoscere migliaia di parole-chiave insultanti nelle 7 lingue ufficiali della Fifa (inglese, francese, tedesco, spagnolo, arabo, portoghese e russo), ha analizzato oltre 20 milioni di post e commenti. Gran parte veniva da utenti di Instagram (43%), seguito da Twitter (26%) e Facebook (24%), il resto da TikTok (6%) e YouTube (1%).

Gli insulti? Un’eccezione

Fra i 20 milioni di commenti, il sistema ne ha segnalati 434mila (il 2,17%) agli operatori umani per ulteriore controllo: di questi, quasi 287mila (1,4%) sono stati bloccati (cioè resi invisibili sugli account dei partecipanti al Mondiale e al pubblico) e 19.600 (0,1%) sono stati segnalati alle piattaforme dei social media in quanto verificate come offensive. 

Voglio sottolineare le percentuali in gioco: i commenti sospettati come offensivi erano il 2,17%, quelli effettivamente bloccati l’1,4% e quelli più gravi, segnalati alle piattaforme,solo lo 0,1%.

Una statistica del tutto in linea con i trend che avevo rilevato nel linguaggio parlato (lo studio qui): le parolacce usate nell’italiano rappresentano lo 0,2% (in questo caso, però, ho conteggiato una singola parola, mentre nel report Fifa si conteggiano i post o i commenti, che possono contenere più di un termine insultante). Ed è un fatto insolito che sui social i commenti offensivi siano così bassi, dato che – rispetto al linguaggio parlato – ci si può nascondere dietro uno schermo e un nome falso. In ogni caso, per valutare seriamente la rappresentatività di questo dato bisognerebbe sapere quali e quante parole-chiave siano state impostate nel monitoraggio (e questo non è dato sapere).

Il report precisa che la Fifa «migliorerà ulteriormente i filtri di moderazione SMPS in vista del Campionato del mondo femminile Australia e Nuova Zelanda 2023» che terminerà in agosto.

Gli autori? Chissà

La nota dolente del report riguarda la possibilità di identificare ed eventualmente sanzionare gli autori di commenti irrispettosi: sono stati censiti 12.600 autori di post offensivi (in teoria ne avrebbero scritti 34 a testa) e solo 306 di loro (il 2,4%) sono stati effettivamente identificati per nome, cognome e indirizzo. Le loro identità sono state messe a disposizione dalla FIFA alle Federazioni affiliate e alle autorità giurisdizionali «per supportare l’azione intrapresa nel mondo reale contro coloro che hanno inviato commenti offensivi, discriminatori e minacciosi alle squadre e ai giocatori partecipanti durante la Coppa del Mondo FIFA». Ma il report segnala che «la risposta iniziale di Meta (proprietaria di Instagram e Facebook, ndr) alle loro segnalazioni era spesso una risposta automatica “che il team di revisione non era stato in grado di esaminarle”».
In più, prosegue il report, «
è stato rilevato un abuso razzista proveniente da un account in cui persino il nome dell’account conteneva termini chiaramente offensivi e razzisti, violando chiaramente i termini di servizio di Meta. Ciò ha segnalato una vulnerabilità nel processo di revisione della piattaforma, poiché l’account offensivo è rimasto attivo per più di 4 mesi dopo la fine del torneo, nonostante fosse stato segnalato il giorno della finale».
Non a caso, il p
residente della Fifa Gianni Infantino ha commentato: «Ci aspettiamo che le piattaforme di social media si assumano le proprie responsabilità e ci sostengano nella lotta contro ogni forma di discriminazione».

Dei 12.618 account che hanno inviato messaggi offensivi durante il torneo, è stato possibile identificare le loro provenienze per 7.204. Tre quarti dei “leoni da tastiera” vivono fra Europa (38%) e Sud America (36%).

Gli insulti più usati

Quali tipi di insulti sono stati rilevati? Per lo più generici (26,24%), seguiti da termini osceni (17,09%) e sessismo (13,47%). Solo 4° l’omofobia (12,16%) e il razzismo (10,7%), anche se a quest’ultima voce bisognerebbe aggiungere xenofobia (0,92%), anti Rom (0,37%), antisemitismo (0,18%), e forse anche islamofobia (1,94%), per un totale del 14,11%. Difficile, comunque, districarsi nella miriade di categorie con cui sono stati censiti gli insulti: come l’abilismo (che io ho tradotto con “insulti anti disabili”), o gli “insulti allusivi” (dog whistle: “banchieri internazionali” come sinonimo allusivo di “ebrei”), più altri difficilmente valutabili.

Ciò che conta, comunque, è la prevalenza di insulti generici o osceni, per un totale del 43,33%, quasi la metà dei casi: omofobia e razzismo, che tanto fanno scalpore sulle cronache, messi insieme arrivano solo a un quarto dei casi. Sono episodi emendabili ma non sono i più diffusi. E tra l’altro sono quelli che destano più preoccupazioni alla Fifa, che nel suo statuto ha inserito la lotta alla discriminazione in tutte le sue forme.

Per fare un confronto, «le finali di AFCON 2021 ed EURO 2020 sono state più colpite pesantemente dai contenuti razzisti e omofobi, con il 78% di tutti gli abusi rilevati che rientrano in una di queste due categorie. L’abuso razzista e omofobo è in genere il più eclatante e più facilmente identificabile e perseguibile dalle piattaforme».

D’altronde, nello sport, come nelle guerre, nel traffico o nelle riunioni di condominio (ovvero i contesti ad alto tasso di aggressività) si offende più per sfogare le proprie pulsioni aggressive che per volontà di emarginare: e tutto l’arsenale delle offese va bene pur di per ferire (simbolicamente) un avversario.

I più bersagliati (e quando)

Interessanti le statistiche su quale sia stata la nazione più bersagliata dagli insulti: la Francia, seguita da Brasile e Inghilterra, E più giù Messico, Argentina e Uruguay. La Germania (la nostra bestia nera ai Mondiali) è in coda alla classifica. Lascio agli esperti di calcio ulteriori interpretazioni che non sono in grado di dare.
Interessante, comunque, notare che la partita che ha acceso maggiormente gli animi non è stata la finale Argentina-Francia, bensì lo scontro Inghilterra-Francia, due rivali storiche, bersagliato da oltre 12mila commenti offensivi. Seguono la finale Argentina-Francia, e Marocco-Portogallo, entrambi sopra i 10mila. Accese anche le reazioni durante i match che hanno visto coinvolta la Germania (contro il Giappone e il Costa Rica) oltre ad Arabia Saudita-Messico.
«
La violenza e la minaccia sono diventate più estreme man mano che il torneo andava avanti con le famiglie dei giocatori sempre più referenziate e molti minacciati se sono tornati in un determinato Paese. Nelle fasi finali del torneo, il targeting individuale è stato più pronunciato, a causa di prestazioni, incidenti o rigori sbagliati» conclude il report. Il tifo si è acceso man mano che la posta in gioco si faceva più rilevante.

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Parolacce: la “top ten” del 2020 https://www.parolacce.org/2021/01/02/classifica-parolacce-2020/ https://www.parolacce.org/2021/01/02/classifica-parolacce-2020/#comments Sat, 02 Jan 2021 09:21:01 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18324 Le parolacce più notevoli e divertenti del 2020. In Italia e nel mondo. Tra gaffe, sbrocchi e provocazioni. Continue Reading

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Il 2020 su T-shirt (spreadshirt.com), addobbo natalizio (etsy.com), logo (thesilkscreenmachine.com) e su uno striscione goliardico a Venezia.

Quali sono state le parolacce più notevoli del 2020, in Italia e nel mondo? Anche quest’anno ho fatto la classifica dei 10 insulti più emblematici dell’anno. Una “top ten” che non poteva essere immune al Coronavirus: molti episodi, infatti, sono collegati alla pandemia. Era inevitabile. Come forse era inevitabile che un anno funesto come il 2020 diventasse esso stesso un insulto. Fra contagi, crisi economica, isolamento forzato, questo anno è diventato l’emblema della sfortuna, della rovina, del male assoluto. Tanto che sui social in lingua inglese si è diffusa l’espressione “go 2020 yourself”, come equivalente di “go fuck yourself”, vai a farti fottere (“vaffan2020”). E’ presto per dire quanto sopravviverà questo modo di dire, ma con un anno così disgraziato non poteva essere altrimenti.
Ed è un sentimento diffuso: il mese scorso il quotidiano britannico “The Guardian” ha fatto un sondaggio fra i lettori, chiedendo loro di sintetizzare in una sola parola il loro sentimento verso il 2020. La parola più votata è stata “shit“, merda (qui un mio articolo su tutti i modi di dire con questa metafora) seguita da “fucked” (fottuto).
Non stupisce, quindi, che acuni siti abbiano messo in vendita T-shirt e ornamenti natalizi in cui gli “0” del 2020 sono rappresentati con rotoli di carta igienica; negli ornamenti natalizi il 2020 è raffigurato come cacca di cane o come dito medio (vedi foto).
D’altronde, anche in Italia l’espressione “Che ti venga il Coronavirus” ha iniziato a circolare come maledizione (e non è l’unico malaugurio a sfondo sanitario nella nostra lingua, come raccontavo
qui).

La prima serie tv sulle parolacce

Sperando che il 2021 sia migliore, prima di passare alla classifica devo segnalare un evento storico: la prima serie tv dedicata alle parolacce. E’ un documentario in 6 episodi da 20 minuti ciascuno intitolato “History of Swear Words“. Condotto dall’attore Nicolas Cage, è una serie Netflix che andrà in onda dal prossimo 5 gennaio. Ogni episodio sarà dedicato a una diversa espressione in inglese: shit, fuck, pussy, bitch, dick e damn ovvero merda, fottere, figa, troia, cazzo e dannazione. I documentari hanno una base solida: annoverano consulenti di rilievo come il lessicografo Kory Stamper, lo psicologo cognitivo Benjamin Bergen, la linguista Anne Charity Hudley e la studiosa di letteratura Melissa Mohr (per chi vuole approfondire l’argomento in italiano, c’è sempre il mio libro).
Qui sotto il trailer della serie, giocato sull’ironia. Vedremo se la serie sarà all’altezza delle aspettative.

La classifica del 2020

Esaurite le premesse, ecco la mia “Top ten” con i 10 episodi volgari più emblematici e divertenti riportati dalle cronache nazionali e internazionali. Per sorridere e per riflettere.
Come per le precedenti edizioni, ho selezionato gli episodi con 3 criteri: il loro valore simbolico, le loro conseguenze e la loro carica di originalità. Vista l’aria che tira, essendo per di più la 13ma edizione della “Top ten” un po’ di scaramanzia è d’obbligo. Dunque, incrociando le dita, buona lettura. E buon anno! 

1) CANZONE KAMIKAZE

«Le brutte intenzioni, la maleducazione, la tua brutta figura di ieri sera, la tua ingratitudine, la tua arroganza».
Squalificato.
Morgan, 7 febbraio 2020, Festival di Sanremo

 

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IL FATTO
 

Festival di Sanremo. Morgan e Bugo presentano la canzone “Sincero”, scritta da quest’ultimo. E, sul palco, avviene un fatto inaudito: Morgan cambia il testo della canzone, che trasforma in un avvelenato e unilaterale attacco verso il suo partner. Il testo originario diceva: “Le buone intenzioni, l’educazione. La tua foto profilo, buongiorno e buonasera. E la gratitudine, le circostanze. Bevi se vuoi ma fallo responsabilmente. Rimetti in ordine tutte le cose. Lavati i denti e non provare invidia”. Una canzone contro l’ipocrisia delle buone maniere, contro una società che ci vuole tutti uguali. 

Morgan lo ha trasformato così: “Le brutte intenzioni, la maleducazione, la tua brutta figura di ieri sera, la tua ingratitudine, la tua arroganza, fai ciò che vuoi mettendo i piedi in testa. Ma tu sai solo coltivare invidia, ringrazia il cielo sei su questo palco, rispetta chi ti ci ha portato dentro”. Nessuna volgarità, ma una serie di offese pesanti a cui Bugo, umiliato in diretta davanti alle telecamere, non ha potuto e voluto rispondere. Così ha preso il foglio con il testo della canzone e ha abbandonato il palco, lasciando Morgan da solo e preso in contropiede. Dato che il regolamento del Festival vieta di modificare il testo (oltre che di interrompere l’esibizione) i due sono stati squalificati.

Un episodio senza precedenti nella storia del Festival e della canzone in generale. Un litigio che diventa plateale e si trasforma in un suicidio artistico. I motivi di tanta acredine fra i due non sono mai stati chiariti: alcuni video mostrano un animato litigio prima di salire sul palco, per il cattivo esito dell’esibizione della serata precedente in cui i due avevano eseguito una propria versione del brano “Canzone per te” di Sergio Endrigo. (Qui una dettagliata ricostruzione). E gli strascichi continuano tuttora: al prossimo Festival Bugo parteciperà come concorrente, mentre Morgan è stato escluso sia come cantante che come giurato. E per reazione lui ha definito “infami e sciacalli” gli organizzatori (vedi qui). 

 

2) RAZZISMO GEOGRAFICO

«Che mongolo!».
E la Mongolia protesta all’Onu.
Max Verstappen, 23 ottobre 2020, Portimão (Portogallo)

 

 

 

 

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IL FATTO
 

Gran Premio di Formula1. Alle prove libere all’autódromo internacional do Algarve in Portogallo, Lance Stroll (Racing Point) non rallenta in curva e urta l’auto di Max Verstappen (Red Bull). Quest’ultimo impreca alla radio: “Ma è cieco questo cazzone? Che cazzo c’è che non va con lui? Gesù Cristo. Che ritardato. Ho subìto un danno. Che mongolo” [“Is this fucking guy blind? What the fuck is wrong with him? Jesus Christ. What a retard, I have damage. What a mongol”].

La lettera dei protesta dell’associazione “Mongol identity”.

Il suo sfogo fa il giro del mondo. E suscita l’indignazione della Mongolia, che non vuole essere equiparata a un termine offensivo.
La prima a protestare è l’associazione “Mongol Identity” che scrive in un comuncato: “Vogliamo esprimere la nostra disapprovazione e al tempo stesso la nostra preoccupazione nel vedere utilizzato il termine ‘mongolo’ in maniera dispregiativa. Siamo anche abbastanza sotto shock per il fatto che la F1 non abbia preso alcun provvedimento e ci rivolgiamo direttamente ai vertici di questa competizione. Dal 1965 l’OMS ha chiaramente stabilito che il termine ‘Mongoloide’ non poteva essere associato a chi soffre della Sindrome di Down in quanto offensivo per coloro che hanno nazionalità mongola. Chiediamo a Verstappen scuse pubbliche e maggiore sensibilità nei confronti di persone che soffrono. Chiediamo cortesemente che il termine ‘mongolo’ venga utilizzato in maniera corretta”.

Il consigliere-plenipotenziario della Red Bull, Helmut Marko ha preso posizione: “Ho detto a Verstappen che episodi di questo genere non devono più accadere in futuro. Ha sbagliato su tutta la linea”. Ma Verstappen non ne ha voluto sapere: “Se qualcuno si sente offeso dalle mie espressioni non è un mio problema”. Allora la vicenda è diventata un incidente diplomatico internazionale: Lundeg Purevsuren, ambasciatore della Mongolia presso le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), ha inviato una lettera al fondatore della Red Bull Dietrich Mateschitz per esprimere le sue critiche all’uso di Verstappen dell’insulto e la sua riluttanza a chiedere scusa. E ha scritto anche agli sponsor della Red Bull.
Uno di questi, la Siemens, ha risposto dicendo  di “non accettare discriminazioni, molestie o attacchi personali verso individui o gruppi” e ha rivelato di aver già chiaramente espresso le proprie preoccupazioni alla Red Bull per l’incidente. Ma da Verstappen nessun segno di ravvedimento: Unro Janchiv, l’inviato culturale della Mongolia, ha detto che “ancora aspetta le scuse pubbliche del pilota”.

E’ la prima volta che uno Stato interviene ufficialmente per protestare contro un termine spregiativo geografico. Che non è l’unico del nostro vocabolario, come raccontavo in questo articolo.

 

 

3) DRONI SCURRILI

«Dove cazzo vai? Torna a casa! A calci in culo!»
Cateno De Luca, sindaco di Messina, 25 marzo 2020

 

 

 

 

 

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IL FATTO
 

E’ primavera e l’Italia è in piena emergenza Covid. Il Paese entra in lock down, ma molti faticano a rispettare il divieto di circolazione. Così il sindaco di Messina, Cateno De Luca, annuncia una decisione inusitata: una flotta di droni per controllare il territorio. I velivoli sono dotati di un altoparlante con la voce del sindaco che urla ai trasgressori: “Non si esce! Questo è l’ordine del sindaco De Luca e basta! Dove cazzo vai? Torna a casa! A calci in culo!”.

Mai nessuna autorità aveva intrapreso un’iniziativa simile, che ha fatto il giro del mondo: fra gli altri l’ha segnalata la rete americana NBC. Non si sa se l’iniziativa sia stata attuata in quei termini e con quali effetti, ma non è rimasta isolata: a Pasqua il sindaco ha inviato per la città un’auto che diramava un messaggio con un altoparlante, invitando ogni cittadino a stare a casa “per i cazzi suoi” (“io rustu a casa pi cazzi mei”), aggiungendo gli auguri di Buona Pasqua. La decisione, però, ha sollevato forti reazioni: alcuni cittadini hanno presentato due esposti indignati, a cui sono seguite le proteste del Garante dell’infanzia e del segretario del Comitato pari opportunità dell’Ordine degli avvocati, che hanno contestato il linguaggio scurrile. A loro si è aggiunta, dal pulpito della chiesa,la dura reprimenda dell’arcivescovo di Messina Giovanni Accolla: “in città si sentono linguaggi turpi, è una vergogna. Messina non merita questi insulti. Devono pentirsi pubblicamente. Le persone che sono volgari non possono augurare la Santa Pasqua”. Il sindaco ha dovuto così fare marcia indietro.

 

4) PREVENZIONE A TINTE FORTI

Dito medio a chi non usa la mascherina.

14 ottobre 2020, Berlino

 

 

 

 

 

 

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IL FATTO
 

Il manifesto contro chi non indossa la mascherina anti Covid.

Questa campagna è stata promossa dal Dipartimento per l’economia di Berlino e dall’ufficio turistico “Visit Berlin”. E’ una campagna provocatoria per sensibilizzare i tedeschi a indossare la mascherina per prevenire il contagio da Coronavirus. La campagna è attuata con un contrasto e un doppio senso: lo slogan “L’indice alzato per tutti quelli senza maschera” fa riferimento all’indice (“indice alzato” significa “stai attento”), ma l’immagine mette in evidenza il dito medio.

Il manifesto, che ha fatto furore sui social, è una doccia fredda per spingere le persone a fermarsi e a riflettere sul proprio senso di responsabilità sociale, mettendo fine a comportamenti irresponsabili come circolare senza protezioni contro la diffusione dell’infezione. Un comportamento che mette a rischio soprattutto le persone più vulnerabili come gli anziani: di qui la scelta di usare come testimonial una donna dai capelli argentati. La volgarità dell’immagine ha però sollevato aspre polemiche in Germania. Molti l’hanno trovata offensiva: il leader locale della CDU di Angela Merkel, Kai Wegner, ha criticato il Senato (guidato da una coalizione di socialdemocratici, sinistra e Verdi): “La situazione è troppo grave per scherzarci sopra”, ha detto. E Marcel Luthe, membro del Senato di Berlino, ha presentato una denuncia alla polizia in merito all’annuncio, sostenendo che incitava all’odio contro tutti coloro che non possono indossare una maschera, come i bambini piccoli e le persone con problemi di udito o altri problemi di salute.
In ogni caso, non è l’unica campagna sociale giocata sulle volgarità: in questo articolo ne trovate una raccolta, con 24 casi (e molti italiani).

 

 

5) RAZZISTA IN AFRICA

«I tifosi sono stupidi. Sanno solo urlare come scimmie e abbaiare come cani».
Licenziato ed espulso dal Paese.
Luc Eymael, 27 luglio 2020, Dar es Salaam (Tanzania)

 

 

 

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IL FATTO
 

L’allenatore belga Luc Eymael.

Luc Eymael è un ex calciatore belga che all’inizio del 2020 era stato reclutato come allenatore degli Young Africans (Yanga), una delle squadre più popolari e titolate della Tanzania. Da un decennio, infatti, Eymael lavorava in Africa come ct in varie nazioni. Il 22 luglio gli Yanga avevano pareggiato 1-1 con il modesto Mtibwa Sugar, per poi concludere il campionato al secondo posto, dietro il suo più odiato competitor, il Simba Sports Club. 

Inviperito per il risultato, l’allenatore 60enne, parlando coi giornalisti, si è lamentato dicendo che «i tifosi sono stupidi in questo Paese. Sanno solo gridare come le scimmie e abbaiare come i cani. Non sanno niente di calcio». E non ha risparmiato critiche anche alla Tanzania: «Non mi sto godendo il vostro Paese, siete gente ignorante. Non ho un’automobile, non ho la tv satellitare, lavorare in queste condizioni non fa per me, mia moglie è disgustata, io sono disgustato». Insomma, un incredibile mix di razzismo, arroganza e irriconoscenza.

La pagina Web (in swaili, qui tradotta con Google) dello Yanga.

I dirigenti della sua squadra non ci hanno pensato due volte: quando la notizia si è diffusa l’hanno licenziato e cacciato dal Paese. Ecco quanto ha scritto il segretario generale del club, Simon Patrick: “Siamo rattristati da queste parole e ci scusiamo con la Federazione tanzaniana di calcio, con i tifosi e la cittadinanza tutta per gli insulti e le offese del manager. La nostra società crede nel rispetto e nella dignità e si oppone a qualsiasi forma di razzismo. Per questo la leadership dello Yanga Club ha deciso di licenziare il signor Luc Eymael e assicurarsi che lasci il Paese il più presto possibile”. Eymel – noto per il suo pessimo carattere unito a una grande ambizione – si è poi scusato: “Ero di cattivo umore, quelle affermazioni sono frutto della delusione e della frustrazione per non aver vinto il titolo, ma non sono razzista”, ha dichiarato.

Eppure, questo clamoroso scivolone sembra non aver interrotto la carriera africana di Eymael: il mese scorso è stato infatti reclutato dal Chippa United, una squadra sudafricana che – beffa del destino – gioca le partite di casa allo stadio Nelson Mandela di Port Elizabeth.  Ma non è detto che Eymael ce la faccia: la Federcalcio sudafricana (Safa) ha annunciato che intende opporsi a questa decisione. «La Federcalcio sudafricana ha appreso con sgomento la notizia della nomina del razzista impenitente‚ Luc Eymael a capo allenatore del Chippa United», ha detto in un comunicato. «Troviamo profondamente offensivo che mentre la comunità calcistica globale è unita nella solidarietà intorno alla campagna “Black Lives Matter”, il Chippa United riterrà opportuno assumere un personaggio del genere per lavorare nella città che prende il nome dal padre fondatore della nazione, Tata Nelson Mandela ‚il paladino di un mondo libero dal razzismo e da altre forme di discriminazione. Safa scriverà immediatamente al ministro degli Interni per esprimere la sua opposizione alla concessione di un permesso di lavoro per lui. Chiederemo anche ai comitati etici di Fifa e Safa di incriminare il signor Eymael poiché la sua condotta spregevole è una violazione dei codici di entrambi gli organismi».

 

6) SESSISMO IN TV

«Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina!».
Silurato.
Mauro Corona a Bianca Berlinguer, “Carta bianca” Rai3, 22 settembre 2020

 

 

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IL FATTO
 

La trasmissione “Cartabianca” è un talk show di politica e attualità che va in onda dal 2016. Dal 2018 ha come ospite fisso lo scrittore alpinista Mauro Corona, protagonista di siparietti molto seguiti con la conduttrice Bianca Berlinguer. Durante una puntata, Corona tenta di parlare di un albergo in cui era stato, ma la conduttrice lo blocca ricordandogli che “Non possiamo parlare di questo albergo perché è pubblicità e non possiamo fare pubblicità in televisione”. Allora Corona si infiamma “Senta Bianchina, se lei mi vuole qui tutta la stagione mi fa parlare. Altrimenti la mando in malora e me ne vado, lei stia zitta! Stia zitta una buona volta gallina! Da stasera la sua trasmissione se la conduce da sola gallina!”. La Berlinguer allora reagisce: “Io non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole insultando me che sto qui a condurre la trasmissione. quindi gallina lo dice a chi vuole ma non si permette di dirlo a me, chiaro il concetto?”. Qui sotto il filmato del litigio:

Il giorno dopo la trasmissione, la Rai ha pubblicato un comunicato in cui ha preso le distanze da Corona, chiedendo scusa al pubblico femminile “per le inaccettabili offese verso la conduttrice. Il signor Corona ha violato le disposizioni normative e i principi etici volti a promuovere la parità di genere e il rispetto dell’immagine e della dignità della donna. A tali inderogabili principi è improntata la programmazione della Rai che pertanto intraprenderà tutte le azioni del caso nei confronti di Corona al fine di tutelare l’immagine e la dignità culturale e professionale della conduttrice e il ruolo di servizio pubblico della Rai”.

Dopo l’episodio Corona non è stato più ospite della trasmissione. Ma il finale di questa vicenda è sorprendente. Perché la destinataria delle offese, una donna, è stata molto più tollerante rispetto al direttore di Rai3, un uomo. La decisione di esautorare Corona dalla trasmissione, infatti, non è stata presa dalla Berlinguer bensì dal direttore di Rai3, Franco Di Mare. Anzi, la sua decisione è risultata sgradita alla Berlinguer, che l’ha contestata  in varie interviste . «Corona aveva chiesto scusa subito, la sera stessa. E credo di aver reagito in modo adeguato in diretta» ha detto la Berlinguer. «Di Mare si è dimenticato di prendere in considerazione proprio l’opinione della persona che si sarebbe dovuta sentire offesa, che sono io. E’ stato un maschio a decidere della gravità dell’offesa e della sanzione, ignorando l’opinione della parte lesa. A fronte di ripetute scuse, pubbliche e private, si è intervenuti di autorità sui contenuti del mio programma, mortificando completamente la mia autonomia. Questo, peraltro, è stato l’unico momento in cui il direttore si è interessato della trasmissione. Questa separazione è stata dolorosa per me e per Corona».

 

7) CAMPAGNA ELETTORALE (DIS)EDUCATIVA

«Se 2.500 persone si iscrivono al voto, vi insegno a dire parolacce in 15 lingue diverse».

Samuel L. Jackson su www.headcount.org, 14 settembre 2020

 

 

 

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IL FATTO
 

Negli Stati Uniti, la scarsa partecipazione elettorale rischiava di assegnare a Donald Trump un secondo mandato. Una prospettiva che sarebbe stata un incubo per l’attore Samuel L. Jackson, che non aveva esitato a definire Trump un “motherfucker” (un gran figlio di puttana) a costo di perdere fan fra i suoi sostenitori. Così, sfruttando la sua celebrità (legata all’uso di un linguaggio molto colorito), Jackson ha lanciato su headcount.org, un sito che promuove la partecipazione democratica fra gli appassionati della musica, un appello per spingere le persone a iscriversi alle liste elettorali. Se almeno 2.500 persone si fossero iscritte, lui avrebbe pubblicato un video tutorial per imprecare in 15 lingue diverse.

l’iniziativa ha avuto successo: su Instagram ha superato i 61mila “mi piace” e ha centrato l’obiettivo. Così Jackson ha pubblicato il video, nel quale traduce l’espressione “fuck you” (fanculo) in 15 lingue, dal brasiliano all’esperanto, fino al vietnamita e allo swaili. 

Un video non particolarmente spiritoso (e forse realizzato banalmente, usando Google translate) ma senz’altro un’iniziativa senza precedenti. E nel suo piccolo ha contribuito a un risultato storico: mentre alle presidenziali del 2016 aveva votato il 59,2% della popolazione, a quelle del 2020 l’affluenza è stata del 66,7%, la più alta mai registrata nella storia statunitense. 

 

  

8) L'AUTOGOL DEL CAMPIONE

«Il test anti Covid è una stronzata»

Cristiano Ronaldo, 28 ottobre 2020 Instagram

 

 

 

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IL FATTO
 

Il contestato post di Ronaldo (evidenziato).

Il 13 ottobre l’attaccante della Juve Cristiano Ronaldo viene trovato positivo al Covid. Per sua fortuna è asintomatico, ma come tutti è costretto a stare in isolamento. E a saltare partite importanti, non solo in Serie A ma anche in Champions League, come la partita contro il Barcellona del 28 ottobre. Così dopo aver postrato qualche frase di circostanza sul suo profilo Instagram (“Feeling good and healty” cioè “mi sento bene e in buona salute” e “Forza Juve”) aggiunge una frase indispettita: “PCR IS BULLSHIT”, ovvero il Pcr è una stronzata. Pcr è la sigla di reazione a catena della polimerasi, una tecnica di biologia molecolare che consente di moltiplicare frammenti di acidi nucleici. E’ il metodo usato per diagnosticare l’infezione da Covid: il virus è a Rna, cioè contiene un filamento di acido ribonucleico. Per essere rilevato, va prima convertito in Dna e poi moltiplicato miliardi di volte, così può essere identificato. Un procedimento ideato nel 1983 dal biochimico statunitense Kary B. Mullis, che per questo ha ottenuto il premio Nobel per la chimica nel 1993. Dunque, tutt’altro che una stronzata: una tecnica diagnostica fondamentale, grazie alla quale abbiamo potuto non solo diagnosticare gli infettati da Covid, ma anche diverse malattie genetiche e contaminazioni da Ogm.

Così la frase di Ronaldo, che pure ha ottenuto oltre 6mila “mi piace”, ha suscitato un’ondata di indignazione anche da parte di medici impegnati nella lotta al Coronavirus. E così il campione ha rimosso l’infelice frase da Instagram.

 

 

9) GAFFE AL QUIZ

Definizione di “piccolo diverbio”? Scazzo.

 26 maggio 2020, “L’eredità”, Rai1

 

 

 

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IL FATTO
 

La gaffe è andata in onda durante una puntata dell’Eredità, il celebre quiz condotto da Flavio Insinna. Il presentatore ha proposto al concorrente, Alessandro, la definizione di “piccolo diverbio”. Quando ha visto apparire sullo schermo le lettere “S”, “Z” e “O” ha risposto d’impulso “Scazz…” e si è subito bloccato, suscitando l’ilarità dell’avversaria. Il conduttore Insinna ha glissato dicendo “Eh, nella vita…”. 

La risposta corretta era “Screzio”. D’altronde lo “scazzo” non è un diverbio piccolo, bensì una discussione agitata e violenta, come dice il dizionario. Sarebbe stata una risposta sbagliata comunque.

 

10) FUORIONDA IN CONFERENZA

«Non si sente un cazzo».
Giancarlo Blangiardo, presidente Istat, 8 maggio 2020, Roma

 

 

 

 

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IL FATTO
 

Roma. Come ogni settimana, il ministero della Salute e l’Istituto Superiore di sanità (Iss) organizzano una conferenza stampa per aggiornare sull’andamento del Coronavirus. In questa occasione sono presenti Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss, e Giovanni Rezza, Direttore generale della Prevenzione del Ministero della Salute. In collegamento da casa, proiettato su un grande schermo, c’è Giancarlo Blangiardo, presidente dell’Istat, che deve parlare delle statistiche sulle vittime della pandemia. Ma il collegamento non è dei migliori, e ci sono problemi di audio. Dopo quasi un’ora di incontro, una giornalista presente in sala pone una domanda a Blangiardo, e lui (non rendendosi conto di avere il microfono aperto) sbotta: “Ecco, qui non si sente un cazzo”.Imbarazzo generale, risate. L’interprete nella lingua dei segni si blocca.
Rezza ha commentato ironicamente: “E’ stato diretto, diciamo”. Aggiungendo, nell’ilarità generale: “Ha detto che così non si sente una minchia, in siciliano”.  Qui sotto il video della gaffe, dal minuto 52:40

Un po’ di umanità e di leggerezza in un momento ufficiale e drammatico. 

 

Se volete leggere le classifiche degli ultimi 12 anni, potete cliccare sui link qui di seguito: 20192018, 2017, 2016, 2015, 2014, 2013, 2012, 2011, 2010,  2009 e 2008.

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L’altra faccia dello stronzo https://www.parolacce.org/2018/11/20/significato-insulto-stronzo/ https://www.parolacce.org/2018/11/20/significato-insulto-stronzo/#comments Tue, 20 Nov 2018 11:03:31 +0000 https://www.parolacce.org/?p=14861 Quanti significati nasconde la parola “stronzo”? La domanda non è bizzarra: come molte parolacce è sfuggente, difficile da definire. E’ un concentrato di significati, come un file zippato. In più il suo senso cambia se ci si sposta dal Nord al Centro-Sud… Continue Reading

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Un popolare meme (da memegen).

Quanti significati nasconde la parola “stronzo”? La domanda non è bizzarra: come molte parolacce è sfuggente, difficile da definire. E’ un concentrato di significati, come un file zippato. In più il suo senso cambia se ci si sposta dal Nord al Centro-Sud dell’Italia.
Me ne sono reso conto di recente, grazie a un fatto di cronaca: a Napoli, su un treno della Circumvesuviana, c’era un giovane che maltrattava un immigrato pakistano. Una passeggera l’ha difeso, criticando l’atteggiamento dell’aggressore: “Vergognati!” gli ha detto. Ma lui non ha desistito: anzi, con insensato orgoglio le ha risposto di essere “razzista”. Allora la donna gli ha replicato: “Tu nun sì razzista, sì strunz!” (“Tu non sei razzista, sei stronzo!”).
La scena, ripresa con un telefonino da chi aveva assistito alla scena, è diventata virale sui social. E ha scatenato, su Twitter, gli interventi dei napoletani, che hanno voluto precisare il senso autentico dell’espressione “strunz”: «In lingua napoletana, strunz equivale a “omm’ ‘e merd‘”, uomo di merda, di poco valore. Non è un insulto generico è n’a cos’ pesante!», ha scritto uno dei commentatori.

Pubblicità della birra “Stronzo” (Danimarca).

L’episodio mi ha fatto capire che occorreva tornare sull’argomento, per sviscerare (appunto) il significato di stronzo. In una puntata precedente, infatti, avevo messo a fuoco un’accezione, quella più diffusa al Nord Italia: qui significa “persona sociopatica“, ovvero egoista, manipolatrice, indifferente agli altri e alle regole sociali. Una persona che non si preoccupa di far male agli altri pur di avere un vantaggio per sè stesso. E per questo una persona degna di disprezzo e di odio, al punto da essere paragonata a uno sterco: stronzo – ricordiamolo – deriva dal longobardo strunz, escremento solido di forma cilindrica. Una parola con una sonorità molto espressiva, tanto da essere l‘8a parolaccia più pronunciata in Italia. E da essere stata scelta, fuori dall’Italia, per denominare una birra (vedi qui) e anche una pizzeria (vedi qui).

In questa puntata, invece, scopriremo gli altri significati che questa parola assume al Centro-Sud: l’altro modo di essere stronzi (e ugualmente disprezzati). Nel frattempo, nel riquadro qui sotto racconto un paio di aneddoti gustosi sull’episodio capitato a Napoli: ha un precedente politico insospettabile.

[ clicca sul + per aprire il riquadro ]

UN PREMIO E UN LOGO

Il logo ispirato dall’episodio sulla Circumvesuviana.

Ecco un paio di dettagli gustosi sull’episodio capitato a Napoli. La protagonista dell’episodio si chiama Maria Rosaria Coppola, e lavora come sarta alla Rai. E’ diventata celebre non solo per la sua risposta fulminante al giovane, ma anche perché aveva mostrato un notevole coraggio nell’affrontarlo. Di fronte alle sue minacce, infatti, gli ha risposto: “Se ti vedo alzare un pugno” gli ha detto, “prendo l’ombrello e te lo scasso in testa”.
L’episodio ha avuto varie conseguenze inattese. La signora Coppola, pochi giorni dopo, ha ricevuto il premio “Cittadina coraggiosa” da Umberto De Gregorio, presidente dell’Eav (Ente Autonomo Volturno, che gestisce la linea ferroviaria Circumvesuviana). A fine anno, poi, è stata persino nominata Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal presidente Sergio Mattarella: Per il coraggio e lo spirito di iniziativa con cui ha pubblicamente difeso un giovane straniero vittima di una aggressione razzista”.
L’episodio, infine, ha ispirato anche un utente di Twitter,
Mr Sharif, mediatore culturale, a creare un logo: ombrello, guanto da pugile e la storica frase “Tu nun sì razzista, sì strunz”.
Senza nulla togliere al coraggio della donna, però, la primogenitura di quella frase non è sua: è di Gianfranco Micciché, presidente della Regione Sicilia. Quando il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva bloccato a Catania la nave Diciotti con a bordo 190 migranti per forzare una trattativa sui migranti con le autorità europee, Miccicchè aveva scritto un intervento furioso su Facebook: “Non so come tu riesca a dormire al pensiero di quanta sofferenza si stia procurando nel tuo nome… Salvini, non agisci così perché intollerante o razzista. Perché nel lasciare 190 persone per tre giorni in balìa di malattie e stenti su una nave non c’entra niente la razza o la diversità, c’entra l’essere disumani, sadici. E per cosa poi, per prendere 100 voti in più?  Salvini, fattene una ragione, non sei razzista: sei solo stronzo”. Per questa frase, però, Miccicchè non ha ricevuto alcun premio (anzi, per Salvini la Procura di Catania ha chiesto di recente l’archiviazione).

Quali sono allora i significati della parola stronzo al Centro-Sud? Lo spieghiamo con un linguista d’eccezione: Gigi Proietti. Che ha dedicato a questo argomento una parte dello spettacolo “Serata d’onore” (2004), da cui è tratto il video qui sotto: 3 minuti e mezzo di puro divertimento. La mia analisi prosegue dopo il video.

 In questo sketch, Proietti mette in luce 2 sfumature della parola stronzo:

  1. barzelletta del “matto” e della “coda alla cassa”: in questi due casi, la parola stronzo è usata nel senso di inetto. Equivale a coglione, idiota, imbecille, quaquaraquà, pirla, nullità
  2. barzelletta dell’”incidente sfiorato”: qui stronzo ha il significato di incauto, irresponsabile. Equivale a testa di cazzo.

Quale di questi 2 significati avrà avuto in mente la signora della Circumvesuviana? Bisognerebbe chiederlo a lei. In ogni caso, come potete vedere, dentro una parolaccia si nasconde un mondo di significati. Altro che stronzate!
Dunque, concludendo, “stronzo” può significare 3 cose diverse: egoista cattivo (come raccontavo nell’articolo precedente); inetto; irresponsabile. Ovvero bastardo, coglione e testa di cazzo. Strana equivalenza, ma con le parolacce è così. Sono tutti comportamenti odiosi, ma diversi fra loro. E, a volte, ugualmente presenti in una stessa persona: non è sempre facile tracciare una linea di demarcazione netta fra uno e l’altro. Insomma, ognuno è stronzo a modo suo, e l’insulto è un jolly linguistico che si adatta alle diverse situazioni.
Concludo questo argomento con una canzone dedicata allo stronzo (nel senso centro-meridionale): “Che felicità”, di Giorgio Bracardi, pubblicata nel cd “Craccracriccrecr” insieme agli amici Elio e le storie tese. Ecco la prima strofa:

Io sono stronzo. Testa de cazzo.

Oho ohooo, oho ohooo.

Io vado a zonzo come ‘no stronzo.

Oho ohooo, che felicità….  

Per saperne di più su stronzi & stronzate, ecco altri articoli sull’argomento:

quali fattori mentali ci rendono più vulnerabili a credere alle stronzate

chi è lo stronzo

che cosa significa la faccia da stronzo

Le fonti (nascoste) delle stronzate

l’incredibile storia del professor Stronzo Bestiale

Di questo argomento (e diversi altri) ho parlato con Nicola e Gianluca Vitiello a Dee Notte su Radio DeeJay nella puntata del 3 dicembre.
Potete ascoltare l’audio del mio intervento cliccando sul riproduttore qui sotto:

 

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Gli insulti più feroci: quelli fisici https://www.parolacce.org/2017/10/16/emarginazione-difetti-corpo/ https://www.parolacce.org/2017/10/16/emarginazione-difetti-corpo/#respond Mon, 16 Oct 2017 11:11:25 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13065 Ciccione, quattrocchi, nasone, ciospo… Le consideriamo – a torto – offese infantili e di poco conto. Ma in realtà gli insulti fisici sono molto più feroci di quanto possa sembrare. Sono una categoria molto nutrita (ne ho raggruppati 137, vedi sotto),… Continue Reading

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Campagna contro l’emarginazione delle persone sovrappeso.

Ciccione, quattrocchi, nasone, ciospo… Le consideriamo – a torto – offese infantili e di poco conto. Ma in realtà gli insulti fisici sono molto più feroci di quanto possa sembrare. Sono una categoria molto nutrita (ne ho raggruppati 137, vedi sotto), e hanno effetti sorprendenti.
Sono infatti fra gli insulti più universali che esistono: con infinite varianti, si ritrovano a ogni latitudine.
Ma perché sono così diffusi? Quali aspetti del corpo prendono più di mira? E in che senso sono potentiIl loro successo è facilmente spiegabile: sono offese immediate, a presa rapida. Sono il modo più diretto per squalificare qualcuno: a differenza degli insulti contro l’intelligenza o il comportamento (imbecille, troia, rompiballe), quando si denigra una persona sul piano fisico (nano, faccia di merda) non c’è bisogno di conoscerla o entrare in rapporto con essa per verificarlo: basta semplicemente guardarla. Sono gli insulti più darwiniani, o se preferite i più nazisti: hai un difetto? Devi essere eliminato.

Hollande, Merkel, Renzi, Tsipras in un’impietosa caricatura uscita su “Libero”.

Proprio questa immediatezza spiega perché gli insulti fisici sono così diffusi in politica. La politica, infatti, smuove grandi e selvagge passioni (come lo sport), e in un’epoca in cui le informazioni viaggiano veloci, e si dedica poco tempo all’analisi, all’argomentazione (come raccontavo qui, a proposito dell’uso degli insulti in politica), ecco che gli insulti fisici diventano il modo più rapido e sbrigativo di sbarazzarsi di un avversario.
Al punto che molti di questi insulti sono diventati i soprannomi, transitori o ufficiali, di tanti politici: Bettino Craxi era soprannominato “cinghialone”, Piero Fassinogrissino”, Silvio Berlusconipsiconano” o “Al Tappone”, Renato Brunettaenergumeno tascabile”, Maria Elena Boschichiappona”, Giulio Andreottiil gobbo”, Lamberto Diniil rospo”, Rosy Bindibrutta”, o “più bella che intelligente”, Cécile Kiengeorango”.
Va detto, tra l’altro, che gli insulti fisici sono sessisti, ma con una par condicio: ci sono alcuni insulti declinati solo al femminile e riguardano tutti la bruttezza estetica. Ma allo stesso tempo, gli insulti contro la debolezza fisica sono indirizzati quasi sempre ai maschi (vedi le liste più sotto).

Salute e igiene, valori universali

Come tutte le altre categorie di insulti, anche quelli fisici sono giudizi negativi: sono un modo di dire “non sei normale”, non vai bene, non ti accetto, sei inferiore, mi fai ribrezzo. E questi giudizi si trasformano in azioni, hanno un effetto sociale: l’esclusione, l’emarginazione (vattene, stai lontano).
Ma gli insulti fisici hanno un “quid” in più. Non sono soltanto immediati: sono anche profondi, perché vanno dritto al cuore della nostra identità. Il corpo, infatti, è la manifestazione tangibile di ciò che siamo: in termini biologici, è il fenotipo del nostro genotipo, ovvero è la manifestazione del nostro patrimonio genetico. E, dato che siamo innanzitutto animali, la presenza di un difetto (vero o sospettato, grande o piccolo, essenziale o trascurabile) è un indicatore importantissimo del nostro stato di salute. Una persona malata rappresenta istintivamente una minaccia: è un peso, potrebbe contagiarmi, e (in caso di accoppiamento) potrebbe farmi generare figli malati.

Il cartello offensivo appeso dal cliente di un ipermercato di Carugate: mette a nudo l’intolleranza verso i disabili.

Gli insulti fisici, infatti, scatenano le nostre paure più ancestrali. Declassano il destinatario a un livello inferiore, oltre che repellente e pericoloso. Insultare qualcuno sul piano fisico (gobbo, pelato, culona) significa attribuire uno stigma, un segno distintivo negativo: si qualificano le persone come difettose e da evitare, da espellere dalla società.
E sono etichette difficili da cancellare. Perché oltre a essere profonde sono universali. L’antropologo Desmond Morris racconta di un’indagine effettuata in quasi 200 culture per cercare di stabilire quale fosse un criterio universale di “bellezza umana”. Questo criterio non c’è: “i soli aspetti del nostro corpo che abbiano valore universale sono la pulizia e la salute” scrive Morris nel libro “L’uomo e i suoi gesti”. “E poiché essere sporchi significa essere brutti, i gesti connessi con la sporcizia sono ovvi candidati al ruolo di segnali insultanti e si possono osservare in ogni parte del mondo”.

Brutti fuori, brutti dentro

Le mie statistiche sui tipi di insulti fisici: clic per ingrandire

Questa considerazione vale non solo per i gesti (di cui ho parlato qui), ma anche per le parole. E non poteva essere altrimenti: igiene e salute sono i requisiti minimi per la nostra sopravvivenza e per consentire la trasmissione dei nostri geni ai figli. Se mancano queste condizioni, la sopravvivenza nostra e dei nostri discendenti è in pericolo. Ecco perché 2 insulti fisici su 3 (il 65%) puntano proprio su questi aspetti: un insulto fisico su 5 (18%) riguarda l’igiene (cesso, chiavica, puzzone), oltre 1 su 6 (il 15%) indica malattie e menomazioni, mentre il 32% (uno su 3) riguarda la bruttezza in tutte le sue forme: cozza, rospo, scimmia. L’uso di metafore tratte dal mondo animale, a proposito, è un modo per rimarcare la mancanza di umanità, la bestialità di una persona.
Dato che anche la bruttezza, come la bellezza è mutevole e sfuggente (“Ciò che un tempo era brutto oggi può essere accettato, e viceversa” scrive Umberto Eco nel libro “Storia della bruttezza”), il brutto in realtà è ciò che provoca disgusto, che evoca morte e malattieE’ lo scherzo di natura (oggi diremmo il difetto genetico). Come la bellezza è l’espressione di buona salute e di un patrimonio genetico armonico, la bruttezza ci appare istintivamente come la manifestazione del contrario. Ovvero di malattia e disarmonia.

Un Obama volutamente mostruoso sulla prima di “Libero”.

Non solo: l’istinto ci porta a pensare che chi è brutto fuori lo sia anche dentro, che la bruttezza esteriore sia una manifestazione di quella interiore. Come ha tentato di fare – in modo pseudoscientifico – la fisiognomica di Cesare Lombroso, che pretendeva di dimostrare che i tratti di personalità criminale fossero sempre associati ad anomalie fisiche. E comunque, prima di lui, gli antichi Greci credevano nella “kalokagathìa“, cioè erano convinti che il bello (kalòs) fosse anche eticamente buono (agathòs).
Questo accade, per esempio, nei confronti delle persone obese, come raccontavo qui: mentre in passato le persone grasse erano accettate, e anzi, la loro pinguedine era uno status symbol della loro opulenza, oggi sono denigrate per motivi culturali (la moda delle indossatrici filiformi) e anche economici (“La tua grassezza è un peso per il sistema sanitario”).

Quando i difetti fanno ridere

Dunque, gli insulti fisici sono come caricature: esagerano un aspetto del corpo per irridere o denunciare, attraverso un difetto fisico, un difetto morale. Imbruttiscono il destinatario, enfatizzandone un tratto fino alla deformità.  Ecco perché le caricature sono molto usate nei giornali politici. Giovanni Spadolini, premier e senatore a vita, è stato disegnato grasso e con un pene piccolissimo, Giulio Andreotti con la gobba e Brunetta e Berlusconi come nani.

Ebreo minaccioso in una cartolina antisemita della propaganda fascista (Gino Bocccasile, 1943)

In questo modo, gli uomini di potere sono abbassati a un livello inferiore e diventano quindi ridicoli. Infatti gli insulti fisici ci fanno sentire superiori: i malriusciti, i malridotti, i deformi sono gli altri. E’ proprio su questa dinamica che si basano le campagne razziste che puntano a suscitare l’odio verso intere categorie sociali (ebrei, immigrati, etc): degradando interi gruppi di persone a schiere di esseri subumani che non meritano compassione né rispetto.
Rendere disumano qualcuno è il modo più facile per odiarlo e ucciderlo: non si prova compassione per qualcuno che non ha nulla di umano ed è inferiore a noi. Con questo meccanismo si creano capri espiatori su cui riversare le tensioni di un’epoca, soprattutto nei momenti di guerra o di crisi economica: e questo spiega perché, negli ultimi tempi, si è acuita l’intolleranza verso gli immigrati e i disabili. Sono un facile parafulmine, debole e indifeso, su cui sfogare le ansie sociali.
D’altra parte è anche vero che diversi comici hanno avuto successo proprio rappresentando, caricandoli, i difetti fisici: in questo modo ci fanno sentire superiori, aiutandoci a esorcizzare le ansie di essere contagiati anche noi da malattie e difetti. Basta pensare agli attori che hanno puntato la loro comicità su una corporatura disarmoniosa (Stanlio e Ollio), sul modo patologico di camminare o sull’abbruttimento della mimica facciale (Marty Feldman, Jerry Lewis, Totò).

Jerry Lewis fa ridere enfatizzando difetti fisici (dal film “Le folli notti del dottor Jerryl”).

E’ un modo consolatorio di scacciare la paura della malattia e del diverso, che è molto profonda. Per secoli, infatti, le persone deformi, deboli e malate erano o uccise, derise oppure semplicemente recluse (in manicomi, nosocomi e carceri) per essere allontanate dalla vista dei “normali”. D’altronde, ancora oggi “handicappato” è percepito come uno degli insulti più offensivi, come ho riscontrato col mio sondaggio del Volgarometro.

La lista degli insulti fisici

Qui sotto trovate la lista dei 137 insulti fisici: gran parte sono parolacce, ovvero hanno un registro volgare, ma ho integrato l’elenco anche con termini neutri o dotti (orripilante, malfatto, tremendo) perché hanno comunque un’innegabile carica offensiva.

[ clicca sul + per aprire i riquadri ]

STATURA

Bassa statura: bagonghi, microbo, nano, nanerottolo, pigmeo, puffo, ranocchio, tombolotto, tappo,

Alta statura: stangone

CORPORATURA

Corporatura grande: antropoide, abnorme, balena, budellone,  chiappone, ciccione, culone, gorilla, grassone, orango, panzone,trippone, vacca,
Corporatura piccola: bamberottolo, chiodo, grissino, moscerino, omuncolo, secco, scheletro, segaligno, rachitico

BRUTTEZZA

Ambosessi: aborto, bertuccia, brutto, buco di culo, cefalo, ceffo, cercopiteco, cozza, ciospo, crozza, faccia di cazzo, faccia di merda, faccia da pesce lesso, malfatto, mostro, obbrobbrio, orribile, orrendo, orrido, orripilante, racchio, rafano, roito, rospo, sbrindellato, scalcinato, scarabocchio, scarafaggio, scherzo della natura, scarpantibus, scorfano, sgorbio, sputo, scimmia, smandrappato,spaventapasseri, terribile, tremendo

Femminili: arpia, befana, megera, virago, piatta, piallata (senza seno)

DIFETTI DEL VOLTO

Testa: capoccione,  testone, faccione, zuccone

Naso: nasone, elefante,

Orecchie: dumbo, orecchione,

Capelli: palla da biliardo, pelato

REPELLENZA, SPORCIZIA

cesso, chiavica, cispa, disgustoso, fetido, laido, lercio, nauseabondo, puzzone, piscione, piscialetto, piscioso, pulcioso, ributtante, ripugnante, rivoltante, stomachevole, schifoso, trucio/trucido, unto, vespasiano, vomitoso, water, zozzone

FORZA FISICA

loffio, mezzasega, pappamolla, pippa, sega, scartina,

MALATTIE E MENOMAZIONI FISICHE

Vista: cecato, guercio, orbo, quattrocchi, strabico,

Udito: sordo,

Volto: deforme, sfigurato

Disabilità generali: disabile, handicappato, minorato, mongolo,

Schiena: gibboso, gobbo,  

Andatura: goffo, sciancato, sbilenco, storpio, zoppo

Sessualità: impotente, frigida

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Cosa svelano le parolacce nei film di Tarantino https://www.parolacce.org/2017/03/30/turpiloquio-cinema-di-tarantino/ https://www.parolacce.org/2017/03/30/turpiloquio-cinema-di-tarantino/#respond Thu, 30 Mar 2017 13:24:36 +0000 https://www.parolacce.org/?p=12065 Si può capire il cinema di Quentin Tarantino studiando le parolacce che ha inserito nei suoi film? La domanda è stuzzicante: il regista più splatter del nostro tempo ama infatti il linguaggio senza filtro, e le sue pellicole ne sono… Continue Reading

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Tarantino posa dopo lasciato l’impronta delle mani nel cemento (Shutterstock).

Si può capire il cinema di Quentin Tarantino studiando le parolacce che ha inserito nei suoi film? La domanda è stuzzicante: il regista più splatter del nostro tempo ama infatti il linguaggio senza filtro, e le sue pellicole ne sono la prova.
Ma quante parolacce contengono, e di che tipo? Ne usa più o meno rispetto ad altri registi? E qual è il film più volgare della sua carriera? 
Per rispondere a queste domande, un giornalista statunitense, Oliver Roeder, ha fatto un lavoro certosino: ha rivisto tutti i film di Tarantino, segnando pazientemente tutte le parolacce dette dai protagonisti. In questo post analizzerò i risultati di questo lavoro, che getta una luce inedita sul regista di “Pulp fiction”.

Innanzitutto, definiamo il campo d’analisi: Roeder ha esaminato le 7 pellicole principali dirette da Tarantino: “Le iene” (1992), “Pulp fiction” (1994), “Jackie Brown” (1997), “Kill Bill vol. 1” (2003), “Kill Bill vol. 2” (2004), “Bastardi senza gloria” (2009), “Django unchained” (2012). A questa analisi (i dati grezzi li trovate qui) ho aggiunto le parolacce contenute in “The hateful eight” (2015), di cui lo stesso Roeder ha esaminato la sceneggiatura (che potrebbe avere alcune differenze rispetto al film effettivo).

Scena da “Pulp fiction”.

Il risultato è impressionante: le volgarità censite sono state in tutto 1882, pari a una media di 235 per ogni pellicola (ma, come vedremo, ci sono in realtà differenze notevoli da un film all’altro). Dato che i film di Tarantino durano in tutto 1155 minuti, significa che, in media, nelle sue pellicole si dice più di una parolaccia al minuto (per la precisione 1,6 al minuto).

Un assaggio eloquente è la scena iniziale delle “Iene” che è un vero concentrato di scurrilità. Basti dire che solo nei primi 10 minuti ne vengono pronunciate 59, quasi 6 al minuto, ovvero una ogni 10 secondi… I protagonisti, infatti, mentre giocano a carte, lanciano interpretazioni sempre più spinte sul vero significato della canzone di Madonna “Like a virgin”. E al minuto 1:24 lo stesso Tarantino si produce in una mitragliata di “cazzo” (ripetuto 9 volte), tanto che Edward Bunker (Mr Blue) domanda: “Quanti cazzi fanno?”. E Harvey Keitel (Mr White) risponde: “Una marea!”. Insomma, un inizio così non passa certo inosservato…

Ma esattamente quali parolacce ha inserito nei suoi film Tarantino? Il lessico è abbastanza vario: Roeder ha censito 27 diverse espressioni, anche se c’è un’ossessiva ricorrenza di fuck (fottere, fanculo) che, nella sue varianti, rappresenta più di una parolaccia su 3. Un dato che sorprende fino a un certo punto, dato che è la scurrilità più usata in inglese, anche come intercalare e rafforzativo: come per noi lo è la parola cazzo, come raccontavo in questo articolo.
Ecco l’elenco delle parolacce censite negli 8 film: nella tabella ho accorpato sotto la voce “altre” le espressioni che ricorrono pochissime volte (da 1 a 3), come cocksucker (succhiacazzi) o il francese merde.

Parolaccia Quantità % sul totale
fuck (fottere, fanculo) 683       36,3
shit (merda) 244       13,0
nigger (negro) 233       12,4
ass (culo) 183        9,7
goddamn (maledizione) 114        6,1
motherfucker (bastardo, carogna) 112        6,0
bitch (cagna, stronza, troia) 87        4,6
damn (dannato) 84        4,5
hell (inferno) 61        3,2
dick (cazzo) 20        1,1
bullshit (stronzata) 15        0,8
bastard (bastardo) 11        0,6
pussy (figa) 11        0,6
altre espressioni 24        1,3
TOTALE 1882 100

Dunque, metà delle volgarità (quasi il 48%) sono di origine sessuale, e anche questo non sorprende, perché in inglese, come in altre lingue, gran parte del turpiloquio è alimentato da metafore oscene. Che sono usate per parlare di sesso in modo diretto e colloquiale, ma anche per esprimere rabbia, enfasi e sorpresa, emozioni fondamentali nell’arte di Tarantino.
Gli insulti, invece, sembrano avere meno peso, rappresentando circa ¼ delle parolacce censite, anche se è una statistica molto approssimata. In realtà, quando deve descrivere l’odio fra le persone, Tarantino preferisce mostrarle mentre lottano fisicamente fino all’ultimo sangue: è molto più spettacolare.

Uma Thurman in “Kill Bill vol. 1”.

Ma in questo scenario ci sono alcune variazioni interessanti: il film con il maggior numero di insulti etnici (negro) è “Django unchained”, e ha senso dato che il protagonista è uno schiavo di colore.
E, allo stesso modo, i film col maggior numero di insulti sessisti verso le donne (bitch, pussy) sono “Jackie Brown”, “Kill Bill” 1 e 2: tutti con protagoniste femminili. Da notare un fatto non scontato: sono quasi assenti gli insulti omofobi, faggot (frocio) è stato censito una sola volta. Almeno finora, quindi, l’omofobia non è dunque una delle ossessioni del regista, che ha preferito approfondire altri sentimenti, dall’odio razziale al senso dell’onore, alla vendetta, e così via.

Tarantino, però, non è stato costante nell’uso del turpiloquio: anzi, come potete vedere nel grafico qui a lato (clic per ingrandire), 2 espressioni volgari su 3 (il 66,9%) sono presenti solo nei suoi primi 3 film. Come mai? Roeder lancia un’interpretazione maliziosa: mentre la violenza verbale non costa nulla, quella fisica è molto costosa da realizzare.
Roeder infatti ha messo in rapporto l’uso di parolacce con la quantità di omicidi nei film di Tarantino. Notando che mentre in “Jackie Brown” muoiono solo 4 personaggi, in “Kill Bill vol. 1” le vittime salgono a 63.Ecco la conclusione di Roeder:  “Se vuoi far salire l’audience dei tuoi film, hai due strade, una costosa e una economica. Se vuoi fare una scena in cui tagli in due una persona, hai bisogno di soldi; se hai un budget scarso, ti butti sulle parolacce. Costa molto meno inserire una dozzina di imprecazioni sulla celluloide, che far accoppare una dozzina di samurai”. Infatti, mentre “Le iene” (10 omicidi) sono costate 2 milioni di dollari, “Django unchained” (47 morti) è costato 100 milioni.

Forse c’è qualcosa di vero, ma in realtà l’uso del turpiloquio dipende dai contenuti della trama, che è comunque estrema, sia nelle scene che nei dialoghi. Se calcolo c’è stato, forse è stato di altro genere: Tarantino, come tutti i registi, vuole che i suoi film siano visti dal maggior numero di persone, e col passare del tempo ha limitato i contenuti volgari per non pregiudicarsi gli spettatori con i divieti ai minori. Gli Usa, infatti, classificano i film con vari tipi di restrizioni anche a seconda del tipo di linguaggio. Tanto che anche la frequenza del turpiloquio è nettamente in discesa nelle sue opere, come mostra il grafico qui a lato (clic per ingrandire).
Dunque, anche il turpiloquio rivela aspetti interessanti sull’arte di Tarantino.
Ma com’è rispetto a quella di altri registi? Va a lui la palma del regista più volgare della storia del cinema?
Impossibile rispondere: nessuno si è preso la briga di censire tutte le parolacce di un autore, come ha fatto Roeder con Tarantino. L’unico censimento disponibile si limita al termine fuck. E ci rivela un dato sorprendente: almeno nell’uso di questa espressione la palma non va a Tarantino… Se volete sapere a chi, potete leggere questo altro mio
articolo.
E se, come me, siete appassionati di cinema, potete curiosare in una nuova categoria che ho creato in questo sito:
parolacce e cinema.
Per finire, potete vedere e ascoltare tutti i “fuck” contenuti nei film di Tarantino, raccolti in un unico video di 26 minuti: sono 1.371 (un totale diverso dal conteggio di cui sopra, perché esamina altri 5 suoi film, ed esclude “The hateful eight”). Da far girare la testa.

Ringrazio Francesca (sei una grande!) per il prezioso aiuto nel rielaborare i dati.

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Campagna contro il razzismo (Armando Testa, 2014, v. sotto).

Si può essere volgari nelle campagne sociali? L’uso della parolacce nella pubblicità non è una novità. Ma da qualche tempo si è varcata una nuova frontiera: il turpiloquio è entrato nelle pubblicità-progresso, gli spot che non promuovono l’acquisto di prodotti, bensì incoraggiano i comportamenti sanitari o sociali corretti, condannando invece quelli scorretti (droga, fumo, obesità, razzismo).
Ma le parolacce possono davvero aiutare a sensibilizzare le persone a sostenere la lotta ai tumori o a denunciare la violenza contro le donne? Come si possono conciliare i temi “alti” col linguaggio “basso”?

Il tema è affascinante, anche perché alcune delle campagne che vedrete qui sotto sono state commissionate dalle istituzioni: ministeri, Parlamento, Province…. Infatti bisogna sfatare un mito diffuso: i due mondi (il turpiloquio e le campagne sociali) non sono inconciliabili. Le parolacce, infatti, possono avere senso anche se si affrontano temi delicati: infatti possono servire ad attirare l’attenzione e a scuotere l’opinione pubblica su temi trascurati o sottovalutati (il bullismo, l’obesità…). E a volte sono l’unico modo di condannare una realtà sgradevole, chiamandola col suo nome: pane al pane, vino al vino.
La nuova tendenza si sta diffondendo a macchia d’olio, non solo in Italia ma anche all’estero. Poco tempo fa, il quotidiano britannico “The Guardian“, parlando delle campagne sociali sboccate, scriveva: “Siamo passati dalla povertà-oscena (le campagne con le foto dei bambini africani denutriti, piangenti e ricoperti di mosche) all’oscenità della volgarità?”. Evidentemente sì. Ma non tutta la volgarità vien per nuocere. Accanto alle (poche) campagne riuscite, ce ne sono molte brutte, di cattivo gusto o inefficaci: il turpiloquio va usato con intelligenza, in modo pertinente e soprattutto con ironia. Insomma: la volgarità non va condannata a priori, ma occorre esaminare caso per caso.

Lo facciamo ora, esaminando, in ordine cronologico, le 32 campagne sociali più volgari degli ultimi decenni, sia in Italia che all’estero. Con una sorpresa: per quanto ho potuto accertare, l’Italia è stata fra i precursori in questo campo.
Le campagne italiane sono 24, con un’impennata nel decennio 2011-2020 (vedi grafico). Nonostante il linguaggio forte, non risultano censurate (tranne la prima) dal Giurì dello IAP, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria.

COGLIONI

“Comincia dalla prima sigaretta il lento suicidio dei coglioni” (1982).  L’oncologo Umberto Veronesi affidò a Girolamo Melis una campagna di Pubblicità Progresso contro il fumo. Ne venne fuori un poster con una sigaretta accesa e uno slogan destinato a non essere mai più dimenticato.  Le reazioni furono feroci. Lo Iap (Istituto di autodisciplina pubblicitaria) ordinò l’immediata rimozione dei manifesti: «La parola “coglioni” ha una capacità d’urto offensivo e questo legittimerebbe l’inizio di un degrado selvaggio nello stile pubblicitario, che sarebbe arduo considerare un progresso» (autore del pronunciamento, Francesco Saverio Borrelli, che sarebbe diventato famoso con Tangentopoli). Giornalisti di spessore come Indro Montanelli ironizzarono. Altri, come Enzo Biagi, approvarono.

CANI & BASTARDI

abbandono_animali“Il vero bastardo sei tu che ci abbandoni” (1994). La prima campagna “strong” contro l’abbandono di animali domestici fu realizzata gratuitamente dalla Universal Advertising con il patrocinio di Pubblicità Progresso per la Lega nazionale difesa del cane. Lo spot mostrava il destino di un cane abbandonato, e si concludeva con la frase che condannava questo comportamento. Lo slogan – basato sul doppio senso di “bastardo” (cane non di razza/persona crudele, insensibile) – ha fatto fortuna, tanto da essere stato poi ripreso da diverse altre campagne, come quella nella foto a lato. Come dire che sono più bastardi alcuni uomini che i cani. 

DROGA DI MERDA

drogaNon toccare questa merda!(2007). Queste campagne contro la droga (cocaina ed ecstasy) sono state lanciate da Forza Nuova, movimento politico di estrema destra. Un linguaggio forte, diretto e senza ambiguità per rivolgersi a un pubblico giovane. Un tentativo di trasformare gli stupefacenti, simbolo di trasgressione e di moda, in oggetti repellenti come gli escrementi. Ma mentre nel primo caso (foto a sinistra) lo slogan risultava un po’ generico, nel secondo (foto a destra) era almeno accompagnato da una spiegazione e un invito: “il sabato sera divertiti, non ucciderti”. Lo slogan sarebbe stato più efficace se fosse stato: “Non mangiare (non sniffare) questa merda”.

BULLI & PISELLI

campagnabullismo1Bananona vs pisellino (2009).
La campagna è stata finanziata dalla Provincia di Bolzano e si inserisce nel progetto altoatesino “Fair play” contro ogni forma di estremismo. L’autore era il fotografo Oliviero Toscani, celebre per altre campagne senza peli sulla lingua (o nell’occhio): quella contro l’anoressia mostrava una ragazza scheletrica, quella contro la condanna a morte i volti dei condannati, quella contro l’Aids i preservativi…. etc etc. In questo caso Toscani ha scelto le rappresentazioni simboliche del pene: il “pisello” (termine usato per rivolgersi ai bambini) e la “banana” (metafora usata dagli adulti: in questo post ho raccontato la sua forza simbolica). Come dire che il bullo è infantile, perché compensa con la violenza una virilità inadeguata. Dunque, invece di far paura i bulli dovrebbero essere presi in giro. Un messaggio ironico, diretto e forte al tempo stesso. 

NEGRI & LESBICHE

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“Ci chiami ‘sporco negro’ e ‘lesbica schifosa’. Ma ti offendi se ti chiamano ‘italiano mafioso'” (2009). Le persone raffigurate nella campagna Arci (Associazione Ricreativa e Culturale Italiana) sono  Jean Leonard Touadì, deputato di colore, e Paola Concia, deputata gay, entrambi del Pd. Lo slogan è efficace: il razzismo è un boomerang, e se non ti piace essere chiamato mafioso, non insultare gay e persone di colore. Ma la campagna non è del tutto azzeccata: innanzitutto, perché è una forzatura etichettare l’omofobia come razzismo (il razzismo ha a che fare con le origini etniche; semmai è una discriminazione). Poi, perché la discriminazione è decisamente più forte nei confronti dei maschi omosessuali rispetto alle femmine.
I due protagonisti sono ritratti nudi: per fare ancora più clamore mostrando due parlamentari senza veli? Può darsi. In ogni caso, i loro sorrisi aiutano a rendere la campagna più simpatica.

VANDALO = CRETINO

bullo_bus“Non fare il cretino, questo bus è anche il mio” (2010). La campagna è stata lanciata dal gruppo di formazione Ifos per combattere il bullismo sugli autobus a Cagliari. In realtà, il termine più corretto sarebbe stato vandalismo, visto che sotto la campagna è diretta contro “chi distrugge ciò che è di tutti”. Poco comprensibile l’immagine del ragazzino coi guantoni da boxe: incarna il vandalo immaturo che distrugge gli autobus, oppure dovrebbe rappresentare chi reagisce alla violenza dei vandali? In quest’ultimo caso, sarebbe un messaggio sbagliato perché indurrebbe alla violenza. Ma è più probabile che il ragazzino coi guantoni rappresenti il vandalo: in questo caso, allora, sarebbe stato più efficace metterlo maggiormente in ridicolo, evidenziando – appunto – la sua cretinaggine. Efficace, comunque, l’invito ad alzare la testa: il silenzio dà forza ai prepotenti. 

PICCHIATA E CRETINA

rassegna-stai-zitta-cretina-large“Stai zitta, cretina” (2011). E’ una campagna contro la violenza sulle donne, lanciata dall’associazione Intervita (oggi WeWorld): mostra una donna con la bocca cucita, accanto allo slogan”. Ovvero, non si chiude la bocca a una donna come se fosse una cretina. Ma a parte la scarsa chiarezza del messaggio (non si capisce che è una campagna contro la violenza alle donne), risulta respingente l’immagine della bocca cucita: la violenza, invece di essere esorcizzata, condannata, viene esibita così com’è, osserva Giovanna Cosenza, docente di semiotica dei nuovi media all’università di Bologna. 

STRUNZ

“Strunz” (2012). Come combattere le persone che non rispettano la fila o gettano i rifiuti per strada? Chiamando l’incivile col suo vero nome: “strunz“, stronzo in napoletano. Si chiama così una campagna contro l’inciviltà che è stata lanciata a Napoli. Dopo aver lanciato un sito internet (strunz.me, oggi disattivo), un’utenza Twitter e un flash mob, l’iniziativa sembra oggi tramontata. 

VIOLENTO = BASTARDO

yamamay-fermailbastardo“Ferma il bastardo” (2013). La campagna è stata promossa da Yamamay, noto marchio di abbigliamento femminile. Ancora una volta, la foto di una donna maltrattata (il primo piano di un occhio pesto) e lo slogan: “Ferma il bastardo“. Anche in questo caso, osserva Cosenza, un messaggio generico (in che modo si possono fermare i violenti?) e una violenza esibita: di certo, non si aiutano le donne a uscire dal ruolo di vittime se le si mostra sempre come vittime, commenta ancora Cosenza. Sarebbe più interessante (anche se più difficile) concentrare l’attenzione sull’uomo.

#COGLIONI

“Italiani #coglioni” (2013). La campagna “nelQ” nasce come parodia polemica nei confronti di una campagna Enel “#guerrieri”. L’agenzia BluMagenta ha voluto rappresentare lo scoramento degli italiani, con il seguente testo: “Abbiamo le tasse più alte del pianeta, un debito pubblico superiore a duemila miliardi, la disoccupazione giovanile al 40%. Il sistema sanitario nazionale è al collasso. Siamo tra i paesi Europei che investono meno in istruzione e cultura, quello con la più bassa percentuale di diplomati e laureati ma con la spesa pubblica costantemente in crescita. Facciamo trecento miliardi di evasione fiscale all’anno. Siamo uno dei paesi più corrotti al mondo. P.S. L’ energia italiana è la più cara d’Europa.” Quest’ultima è una stoccata polemica proprio verso Enel.

INSULTI COME PROIETTILI

razzismo

“Negro, ladra, ciccione, terrorista… Anche le parole possono uccidere. No alla discriminazione: l’altro è come me” (2014). La campagna, realizzata da Armando Testa, è stata promossa da Famiglia Cristiana, Avvenire e Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), col patrocinio di Camera e Senato. Lo scopo: “promuovere una cultura della consapevolezza, stimolare la riflessione e la discussione e fornire uno strumento alla crescita personale e sociale”. Le foto, molto curate, colpiscono subito. Perché esprimono efficacemente che gli insulti sono come proiettili: distruggono le persone. Un concetto drammatico, espresso in un modo che non può passare inosservato né lasciare indifferenti. 

CREATIVI, NON CRETINI

CreaWEB“Coglione no” (2014). Lo slogan è la reazione di un gruppo di creativi (comunicatori, autori, designer, etc) stanchi di essere sottopagati (o non pagati affatto) per il loro lavoro, spesso con alibi del tipo: “Non ti pago, ma tanto ti diverti…. Non ti pago, ma in cambio avrai visibilità…Non ti pago, ma ti fa curriculum” e così via.
Di qui la campagna per una maggiore dignità lavorativa: “Al tuo idraulico mica lo paghi con visibilità no? E perchè lo proponi a un designer? Siamo creativi, siamo giovani, siamo freelance: e siamo lavoratori, non coglioni”.  La campagna è stata ideata da Zero, un gruppo di giovani videomakers. Ed  è diventata virale in Rete.   

FUMATORE = SCEMO

C_17_campagneComunicazione_104_paragrafi_paragrafo_0_immagine“Ma che, sei scemo?” (2015). Altrettanto diretta è stata una campagna promossa dal ministero della Salute l’anno scorso. Il ministero ha lanciato in tv uno spot per dissuadere i giovani dal tabagismo. Invece di agitare lo spetto della morte (sentita inevitabilmente come un rischio lontano, e che tocca sempre ad altri), la campagna ha scelto di condannare il tabagismo senza “se” e senza “ma”, usando un linguaggio diretto: “chi fuma è scemo“.
Un insulto leggero, poco più di un buffetto, ma utile a far drizzare le antenne ai giovani, dicendo le cose come stanno. Ma la scelta del testimonial, il simpatico comico siciliano Nino Frassica (65 anni) non è stata altrettanto azzeccata, visto che la campagna era destinata ai giovani.  Nessuno di loro può identificarsi in lui, vista la differenza di età.

FANCULO AI TUMORI

lilt22Tumore al seno? Dito medio (2015). L’ultima campagna trash risale allo scorso autunno: la sezione milanese della Lilt (Lega italiana per la lotta contro i tumori) ha posto il fiocco rosa – simbolo internazionale della lotta contro il tumore al seno) – sul L.O.V.E., la celebre scultura del dito medio davanti alla sede della Borsa di Milano. Invece di una parolaccia, un gestaccio: ma il messaggio resta lo stesso: “Un gesto forte e irriverente per dire no al tumore al seno”, dice la Lilt, “un messaggio provocatorio per ribadire che non bisogna mai abbassare la guardia“. Sarà, ma la campagna risulta poco efficace, perché il segno (la scultura di Cattelan, famosa e ciclopica) prevale sul significato. E nessuno indosserebbe un nastro sul dito medio invece che al polso: in questo modo, ha obiettato ironicamente qualcuno, sembra più una campagna contro il tumore alla prostata

TRATTAMENTO DI MERDA

Fare-x-bene-2016-1000-2 (1)“Mi tratta come una merda” (2016). Per condannare bullismo e discriminazioni di genere, l’onlus “Fare x bene” ha lanciato da poco questa campagna dirompente.  Lo slogan è diretto e rende subito l’idea; e il viso della ragazza aggiunge drammaticità al messaggio: “Le idee sbagliate sull’amore crescono insieme a loro”. Questo aspetto – ovvero il fatto che il disprezzo subìto resta una ferita e un condizionamento emotivo anche da adulti – resta però poco sviluppato e passa in secondo piano. Ed è un peccato, perché era la parte più importante del messaggio: tratta male un bambino e creerai un adulto problematico. In questo modo, lo choc della parola “merda” risulta vanificato. E fine a se stesso.

FARSI I CAZZI ALTRUI

“I cazzi degli altri sono anche cazzi tuoi” (2017). Anche qui una campagna contro il bullismo a tinte forti: è un video realizzato dai ragazzi della Civica Scuola di cinema Luchino Visconti di Milano. Nel filmato si vede un ragazzo che tenta di lavare via un fallo disegnatogli sulla fronte da un bullo. I suoi compagni di squadra, per solidarietà, si presentano in campo tutti quanti con lo stesso disegno sulla fronte. Lo slogan: “Fai squadra contro il bullismo. I cazzi degli altri sono anche cazzi tuoi”. Indubbiamente una campagna che lascia il segno: il video è stato visto da quasi 8 milioni di persone. Sicuramente parla nel linguaggio dei giovani e arriva al punto senza tanti giri di parole; ma mette in primo piano le parolacce rispetto al messaggio fondamentale (fare squadra contro i bulli) e rischia di essere respingente per lo choc di aver utilizzato immagini e linguaggio violento. Difficile che sia proiettato nelle scuole…

FOTTERSI

“Se te ne fotti, l’Aids ti fotte” (2017). Vuole scuotere le coscienze, la campagna che l’associazione Anlaids (Associazione nazionale lotta all’Aids) ha scelto per far tornare sotto i riflettori l’allarme Hiv in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids. Ancora oggi, in Italia, ci sono 4mila nuove diagnosi di infezione all’anno, Così l’Anlaids ha reclutato diversi personaggi del mondo dello spettacolo, dello sport e del volontariato (da Federica Fontana a Saturnino), che hanno posato sotto lo slogan dirompente. Il gioco di parole, basato sul doppio senso fottersene-essere fottuto, è molto efficace, soprattutto perché è rivolto ai giovani. Tanto più che si parla di un’infezione trasmessa principalmente per via sessuale.

CACCA

“Se mi abbandoni per strada… la cacca sei tu” (2019). La giunta di Santo Stefano Quisquina (Agrigento) in Sicilia, ha deciso che per combattere il problema degli escrementi canini bisogna passare alle maniere forti. E così ha lanciato il manifesto qui a lato sui canali social ufficiali del Comune, sperando che l’immagine e lo slogan diventino virali. Sperano, insomma, che la disapprovazione sociale riesca a cambiare la mentalità dei padroni incivili dei quadrupedi. Un’offesa educativa.

PORCO & CAPRA

“Capra! Capra!! Capra!!!” – “Che porco che sei!” (2019). Con lo slogan “Manda i tuoi amici a quel Paese”, l’associazione umanitaria internazionale Manitese ha lanciato un’originale campagna per la raccolta fondi del 5 x 1000. La campagna si basa su 4 poster, costruiti su slogan colloquiali a doppio senso: “Capra! Capra!! Capra!!!” ricalca il celebre insulto usato da Vittorio Sgarbi, ma qui serve a raffigurare l’importanza di finanziare la pastorizia in Kenya; lo stesso vale per lo slogan “Che porco che sei!”. Ci sono anche altri due slogan per finanziare le attività agricole: “Che cavolo vuoi?” e “Andate a zappare la terra”. Una campagna azzeccata: è un equilibrio ironico fra linguaggio colloquiale e impegno sociale.

SFIGATO

“A Pasqua mangi ancora l’agnello? #Seiunosfigato” (2019). Per quanto possa apparire strano, la campagna è stata lanciata dalla Lega nazionale per la difesa del cane. Ma, si sa, se inizi ad amare Fido diventi un po’ animalista.  E così la campagna cerca di rendere “trendy” chi non mangia l’agnello per Pasqua. Ma il resto dell’anno? E il resto degli animali? Se per Pasqua si registra “il massacro di migliaia di agnelli giovanissimi per banchettare paradossalmente in quella che dovrebbe essere la festa della vita”, negli altri 364 giorni dell’anno lo stesso tragico destino è riservato a maiali, buoi, conigli, polli e chi più ne ha più ne metta. Ma per loro, nessuna campagna….

PAROLACCE FEMMINISTE

“Mi cadono le tette” – “Andiamo a figa dura” – “Non rompermi il clitoride” – “Mi hai rotto le tube” (2021). Per celebrare l’8 marzo, Giornata della donna, l’agenzia pubblicitaria M&C Saatchi di Milano ha lanciato “Swherwords”, gioco di parole di “swearwords” (parolcce) + “her” (lei). In pratica ha preso 4 espressioni volgari basate su attributi maschili e le ha declinate al femminile. La scelta è patetica o ridicola, a seconda dei punti di vista: i diritti delle donne si giocano su ben altri piani che non quelli linguistici (sul lavoro, la carriera, il part time, i sostegni economici). E, sul piano linguistico, i modi di dire “femminilizzati” tentano di correggere espressioni che hanno decenni se non secoli di storia, che non si cancellano con un maquillage improvvisato. Con esiti involontariamente comici: “andare a figa dura” è un’espressione senza senso perché non ha radici nella realtà. Tra l’altro, i pubblicitari non hanno potuto correggere altri modi di dire basati sugli organi maschili: “cazzone” (“figone” diventerebbe un complimento), “che palle” (“che tube” sarebbe insensato), “testa di cazzo” (testa di figa”….), “incazzarsi” (c’è già “infighettarsi” ma ha il senso di “abbellirsi, vestirsi in modo elegante”). L’unica espressione azzeccata è “mi cadono le tette”, perché dà l’idea della vecchiaia, oltre a rimandare alla memoria “far  venire il latte alle ginocchia” (riferito peraltro alla mungitura, quando ooccorreva aspettare molto tempo prima che il latte raggiungesse il livello delle ginocchia).
Insomma, alla fine questa campagna dà l’idea di essere stata costruita più che altro per fare clamore e guadagnarsi una facile visibilità.

CANI E PADRONI

“Barletta è piena di st***zi” – “Se sporchi non sei incivile, sei deficiente” (2021). La campagna è stata lanciata da Bar.S.A. S.p.A., azienda municipalizzata della città di Barletta, in Puglia. Per sensibilizzare le persone sul problema dell’abbandono dei rifiuti e delle deiezioni canine in città, si è scelto di mettere da parte il “politically correct”. Ecco come l’ideatore della campagna, Giancarlo Garribba, spiega questa scelta lessicale: “Chi butta l’immondizia per strada, chi getta i mozziconi delle sigarette per terra, chi non raccoglie i bisogni del proprio cane, sa benissimo che non dovrebbe farlo ma se ne frega alla grande. E non è certo una campagna di sensibilizzazione a far sì che certa gente cambi il proprio atteggiamento, altrimenti tutti noi non useremmo il cellulare alla guida, non fumeremmo, non berremmo alcolici, non mangeremmo carne, faremmo mezz’ora di sport al giorno e così via. E allora che si fa? Si prova con un’ennesima campagna persuasiva, educatrice, del tipo “Orsù, raccogli gli escrementi del tuo cane, non essere birbaccione!”? No, meglio usare il messaggio per denunciare, anche per offendere, utilizzando il linguaggio che la gente “per bene” vorrebbe gridare in faccia a questi quando li incontra per strada. Utilizzando contestualmente immagini esplicite di quello che succederebbe se non ci fossero gli operatori ecologici a bonificare aiuole e marciapiedi della città dalle cacche dei cani lasciate dagli stronzi dei padroni”.

FROCIO

Frocio Vileda (2024). Si chiama FAGS, acronimo di “Fightin’ Against Gay Slurs”, ossia “combattere contro gli insulti gay” (e fag, faggot in inglese è lo spregiativo per gli omosessuali). E’ una campagna ideata dal grafico Dario Manzo, che utilizza gli insulti omofobi (frocio, checca, ricchione, finocchio, arrusu, pedè…) per depotenziarli. “Appropriarsi degli insulti diventa uno dei modi per combatterli, forse il più efficace perché è in grado di trasformarne la percezione. Prendere un insulto e trasformarlo equivale a dire: non fa più male perché ora questa parola è mia e la uso come voglio”. Idea originale, tutta da verificare l’efficacia reale.

SE TE NE FOTTI...

“Se te ne fotti sei fottuto” (2024).  E’  lo slogan della campagna, promossa da Erion WEEE, per stimolare il riciclo delle apparecchiature elettroniche. Ricordando che i negozi sono obbligati a prendere un elettromestico dismesso anche senza fare acquisti (1 contro 0) o lasciando il proprio dispositivo vecchio in cambio di un nuovo (1 contro 1).
Lo slogan strizza l’occhio ai giovani, ma è tutt’altro che originale (vedi sopra). E non si ricollega direttamente al contenuto della campagna.

Se ti è piaciuto questo articolo potrebbe interessarti anche la mia ricerca sulle pubblicità più volgari d’Italia

 

E ALL’ESTERO….

La tendenza delle campagne sociali oscene si sta diffondendo anche all’estero. Qui ho raccolto alcuni esempi, ma è probabile che ce ne siano diversi altri: se li conoscete, potete segnalarli nei commenti qui sotto.

FANCULO AL SESSISMO

fuckOK“F-bomb for feminism (Fanculo per il femminismo” (2014).  La campagna ha fatto clamore e non poteva essere altrimenti: un produttore statunitense di T-shirt,, FCKH8, ha realizzato un video contro il sessismo e la discriminazione di genere, impegnandosi a devolvere 5 dollari ad associazioni femministe per ogni maglietta venduta. Ottimo proposito, ma pessima realizzazione: per promuovere l’iniziativa ha diffuso un video nel quale 5 bimbe dai 6 ai 13 anni, condannano il sessismo con un linguaggio da caserma. Il video, infatti, inizia subito con un “What the fuck?!” (ma che cazzo?!) e prosegue su questi toni per 2 minuti e mezzo per denunciare le violenze e le discriminazioni economiche, lavorative e sociali ai danni delle donne. L’idea di fondo, secondo gli autori, è che ci sono parole e situazioni ben più offensivi delle parolacce: “cos’è più offensivo?” domanda retoricamente il video “una bambina che dice fanculo, o il modo in cui la nostra società sessista tratta le donne?”.
Il Washington post ha replicato: “Cosa c’è di più offensivo? Una società sessista o una bimba che recita un copione volgare, scritto da adulti pur di vendere magliette?“. Sono d’accordo: più che a una campagna sociale siamo di fronte a un marketing senza scrupoli, che non esita a sfruttare bambine pur di fare clamore. Se ci fosse un Oscar per il cattivo gusto, lo vincerebbero senz’altro loro. Il video, comunque, è stato visto da quasi 2,5 milioni di persone.

MARCIA DI M...

Tough“Merda dura” (2015). Si chiama così una marcia a ostacoli prevista il prossimo ottobre a Camberley (Uk) e promossa dall’associazione “Water aid”, impegnata a raccogliere fondi per l’acqua nei Paesi arretrati. La marcia è stata battezzata “Tough shit” (letteralmente “merda dura“, situazione difficile, in italiano si direbbe: cazzi amari), per sensibilizzare i partecipanti sul problema dei 2,5 miliardi di persone che, nel mondo, vivono in città prive di scarichi fognari. Uno slogan simpatico e pertinente.

LOTTA AL CIOCCOLATO

dechox“Dai il dito al cioccolato” (2015). L’anno scorso, la British heart foundation ha lanciato la campagna “Dechox“, per sensibilizzare i britannici sugli eccessi e i danni alla salute indotti dall’eccessivo consumo di zucchero. L’immagine della campagna è forte: 5 snack al cioccolato vanno a formare una mano con il dito medio alzato, e lo slogan: “Dai un dito al cioccolato”, ovvero: fanculo al cioccolato. La strategia ha pagato: 19mila persone hanno aderito alla campagna, e la Fondazione ha raccolto 800mila sterline (oltre un milione di euro) per la ricerca sulle malattie cardiache. Al di là del risultato, un simbolo inaspettato, originale e simpatico, che getta una luce inedita sui dolci, svelando che possono essere nostri nemici se consumati in quantità eccessive. 

BAMBINI & ANELLI

B-CuQ3XIAAAddCi“Dai il dito al matrimonio infantile” (2015). Una scelta simile l’ha fatta l’associazione britannica Plan, che si occupa di bambini: per raccogliere fondi contro i matrimoni infantili, ha lanciato una campagna che consiste nella vendita di un anello con la frase “Basta matrimoni infantili”. E l’ha fatto indossare alla cantante Eliza Doolittle con lo slogan:  “Dai il dito al matrimonio infantile”. Anche se il dito era l’anulare, l’effetto è più che evidente: fanculo ai matrimoni infantili, una piaga da abbattere in tutto il pianeta entro il 2030. Oggi, nei Paesi in via di sviluppo, 1 bimba su 9 viene fatta sposare prima dei 15 anni d’età. La campagna è incisiva: le spose bambine sono un dramma su cui non c’è da scherzare. 

CASCO DI MERDA

“Sembra una merda. Ma mi salva la vita” (2019). Questa campagna non è nata da qualche creativo americano in vena di provocazioni, ma nell’austera terra di Germania. E per di più è un’iniziativa ufficiale del ministero dei Trasporti. Come si spiega?  Il ministro dei trasporti Andi Scheuer dice che sono soprattutto i giovani tedeschi, fra i 17 e i 30 anni, a non indossare il casco da ciclisti. E negli ultimi tempi si sono registrate molte vittime sulle strade. Quindi ha voluto ribadire, con termini coloriti, che quell’elmo “poco figo” serve a salvare la pelle. Campagna efficace? Sicuramente ha fatto discutere sui social media. Soprattutto per la scelta di mostrare ciclisti in lingerie: già lo slogan è drammatico (in quanto volgare), ma con i ciclisti sexy si aggiunge la pruderie dell’erotismo e – qualcuno dice – del sessismo. Se avessero scelto un soggetto ironico o autoironico, la campagna sarebbe stata più efficace.

FANCULO AGLI UNTORI

“L’indice alzato per tutti quelli senza maschera” (2020). Questa campagna provocatoria è stata promossa dal Dipartimento per l’economia di Berlino e dall’ufficio turistico “Visit Berlin”. E’ una campagna provocatoria per sensibilizzare i tedeschi a indossare la mascherina per prevenire il contagio da Coronavirus o Covid che dir si voglia. La campagna è attuata con un contrasto e un doppio senso: lo slogan fa riferimento all’indice (“indice alzato” significa “stai attento”), ma l’immagine mette in evidenza il dito medio.
Il manifesto, che ha fatto furore sui social, è una doccia fredda per spingere le persone a fermarsi e a riflettere sul proprio senso di responsabilità sociale, mettendo fine a comportamenti irresponsabili come circolare senza protezioni contro la diffusione dell’infezione. Un comportamento che mette a rischio soprattutto le persone più vulnerabili come gli anziani: di qui la scelta di usare come testimonial una donna dai capelli argentati. La volgarità dell’immagine ha sollevato diverse polemiche in Germania.

 

 

 

CAZZO DI VACCINO

“Fatti quel cazzo di vaccino” “Indossa una cazzo di mascherina” (2021). La campagna – nonostante i termini forti – è stata lanciata da un ente governativo, i Centers for disease control and prevention (CDC). I manifesti sono stati affissi nelle principali città statunitensi, per combattere i no-vax con le loro stesse armi: il linguaggio colloquiale.

 

 

IL TUMORE NON MI FOTTE

“Il cancro non sarà l’ultima cosa a fottermi” (2023). Lo slogan campeggia sui manifesti di una campagna di GirlVsCancer, un’associazione di volontariato britannica per le donne colpite da tumore. La campagna si chiama “Smash the Stigma” e aveva l’obiettivo di promuovere una salute sessuale positiva per le donne malate di tumore.Nonostante il verbo fosse stato semicensurato da un asterisco (f*ck) la parola era facilmente comprensibile. Perciò l’Autorità che regola la pubblicità,  l’Advertising Standards Authority, l’ha censurata

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Quel fascismo strisciante contro i grassi https://www.parolacce.org/2015/03/19/pregiudizi-verso-gli-obesi/ https://www.parolacce.org/2015/03/19/pregiudizi-verso-gli-obesi/#comments Thu, 19 Mar 2015 11:09:58 +0000 https://www.parolacce.org/?p=7132 Se insulti un nero, sei razzista. Se insulti un gay, sei omofobo. Se insulti un ciccione, invece, sei simpatico. Parliamo tanto di combattere lo “hate speech“, cioè l’intolleranza. Ma usiamo due pesi e due misure: perché consideriamo normale il disprezzo… Continue Reading

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FatPride

Il “Fat pride”, contro-manifestazione per i diritti dei grassi.

Se insulti un nero, sei razzista. Se insulti un gay, sei omofobo. Se insulti un ciccione, invece, sei simpatico.
Parliamo tanto di combattere lo “hate speech“, cioè l’intolleranza. Ma usiamo due pesi e due misure: perché consideriamo normale il disprezzo verso chi ha qualche chilo di troppo. Tanto da dedicargli un ricco vocabolario offensivo con almeno una dozzina di insulti mirati: grassone, barile, porco, trippone, elefante, balena, palla di lardo, lardoso, pancione, obeso, falsomagro e ciccione.
Insulti bonari? Tutt’altro. Queste parole producono un’emarginazione irreversibile, che dall’infanzia dura fino all’età adulta. Chi è grasso “sviluppa l’idea di essere sbagliato, impotente, inferiore” osserva il pedagogista Francesco Baggiani, autore di “P(r)eso di mira” (Clichy), il primo libro italiano contro i pregiudizi ponderali. Le persone grasse sono discriminate a scuola (dall’asilo all’università), nell’assistenza sanitaria e sul lavoro: non sono assunti, e se lo sono hanno stipendi più bassi e non fanno carriera. Secondo l’osservatorio del Comitato Cido (che tutela i diritti delle persone affette da obesità), gli insulti agli obesi hanno superato l’omofobia e la xenofobia. E spesso si registrano aggressioni, anche fisiche, ai danni di chi ha l’unica colpa di avere più adipe degli altri. “Il salutismo imperante rischia di diventare il razzismo del terzo millennio. Un’obesofobia che sta assumendo i toni integralisti e intolleranti di una vera e propria persecuzione. Quasi che il sovrappeso sia una macchia morale” avverte l’antropologo Marino Niola  nel libro “Homo dieteticus“. E gli insulti contro le persone grasse rientrano nella categoria degli insulti fisici, di cui parlo in questo articolo: sono, in generale, gli insulti più pesanti per squalificare una persona.

grassone

Locandina di un circo: un obeso esposto come fenomeno da baraccone.

In un’epoca di “political correctness”, salta all’occhio che l’Europa non abbia leggi che vietino la discriminazione in base al peso del corpo: un baby sitter danese che era stato licenziato ha fatto ricorso in Tribunale, e il caso è approdato alla Corte Europea di giustizia. La quale ha replicato che non esistono leggi che vietino la discriminazione per obesità: l’unica tutela possibile sarebbe quella di dimostrare che l’obesità è un handicap, cioè impedisce di lavorare alla pari con i non-obesi. A oggi, l’unico Paese europeo che ha varato una legge in difesa della dignità delle persone sovrappeso è la Spagna, nel 2011: la legge 17/2011 (su sicurezza alimentare e nutrizione) dice all’articolo 37 che “è vietata ogni discriminazione diretta o indiretta basata su sovrappeso e obesità”.
Ma da dove salta fuori questa grassofobia, tanto crudele da annullare ogni umana empatia? E se l’obesità è un eccesso alimentare al pari dell’anoressia, perché verso le anoressiche proviamo solidarietà e compassione, mentre per i grassi solo dileggio e colpevolizzazione? Perché abbiamo molti pregiudizi sui grassi. Baggiani li ha raccolti qui:

  • Sono ingordi e non riescono a controllare la fame
  • non hanno autocontrollo e umore instabile
  • non hanno forza di volontà
  • sono pigri
  • non curano l’igiene
  • sono meno intelligenti

BaggianiPer quanto meno diffusi, ci sono anche pregiudizi positivi: le persone grasse sono considerate oneste, generose, socievoli, simpatiche, calorose, spiritose. Basti pensare a Oliver Hardy, Bud Spencer, Luciano Pavarotti, Barry White, Sancho Panza.
Ma da dove saltano fuori questi pregiudizi? Innanzitutto, dall’ignoranza medica nei confronti di questa condizione. L
‘obesità di per sè non è una malattia, ma un fattore di rischio per altre malattie (cardiovascolari e tumori). E non esiste una sola obesità, ma due grandi famiglie: le obesità primarie, causate da una dieta ipercalorica e una vita sedentaria; e le obesità secondarie, causate da malattie genetiche, endocrine, neurologiche. La distinzione è fondamentale, perché mette in chiaro un punto fondamentale: non tutte le obesità dipendono dalla volontà di chi ne soffre. Dunque, non sempre un obeso è tale per “mancanza di autocontrollo” o per “ingordigia”.
Restando in campo medico, c’è anche un’altra riflessione da fare, e piuttosto inquietante. Se l’obesità aumenta il rischio di contrarre malattie gravi, noi stigmatizziamo i grassi non tanto perché siamo preoccupati della loro salute, quanto perché potrebbero diventare una zavorra economica del Sistema sanitario. Chi è obeso rischia di pesare, in avvenire, sulle finanze pubbliche perché avrà bisogno di assistenza. Come i disabili, i malati di mente, gli alcolisti e i tossicodipendenti, guardacaso anch’essi emarginati e disprezzati. In tempo di crisi del Welfare e di risorse scarse, è responsabile porsi anche questo problema.
Ma è una prospettiva scivolosa: basta poco, e si potrebbe scivolare nella tentazione di negare un aiuto a tutti gli obesi, in nome dei risparmi economici. Il che sarebbe disumano: nella Germania nazista, ricorda la filosofa Nunzia Bonifati in “Homo immortalis“, i programmi di eugenetica miravano a “rinforzare la razza” eliminando i deboli, i malriusciti e chi grava sulla collettività, pesando sui bilanci pubblici. In fondo, il consumismo moderno è sottilmente nazista: chi non produce, chi non rende, chi intralcia il fluire del mercato va emarginato. Ma la mentalità dominante è contraddittoria: viviamo in una società obesogena, che ci mette a disposizione una grande quantità di cibo e una vita sedentaria. E quella stessa società ci impone di essere snelli, efficienti, giovani: dunque stigmatizzare i grassi serve a rimuovere le nostre contraddizioni (non sono io che sono sedentario, sei tu che sei obeso!) e a esorcizzare le nostre paure di insuccesso. Senza contare – altro fattore economico – che colpevolizzare il grasso alimenta il business planetario delle diete “light”, dei dimagranti e degli interventi chirurghi estetici.

Bruegel-Cucina-grassa

Incisione di Pieter Bruegel il Vecchio: la cucina grassa (1563).

Ma il disprezzo verso i grassi ha radici molto più profonde, e non ha sempre caratterizzato il pensiero occidentale. Nelle civiltà più antiche, per esempio, la grassezza era l’archetipo della femminilità procreatrice e nutrice: basta guardare le statue delle abbondanti Veneri paleolitiche (come anche delle donne di Rubens, Botero, Fellini). I primi nemici dei grassi furono gli antichi Greci, che detestavano ogni forma di eccesso. Con i Romani e i Barbari, i valori si sono capovolti: il corpo grasso era una manifestazione di potere, di ricchezza e benessere, in un’epoca in cui il cibo non era alla portata di tutti. “Nelle regioni agrarie del Mediterraneo i contadini, dopo avere speso una vita nel tentativo vano di accumulare calorie, al momento della morte venivano vestiti per il funerale con un cuscino sulla pancia, ben nascosto sotto l’abito della festa. Perché si presentassero nell’altra vita belli grassi come dei veri signori. Essere pasciuti, ancor meglio se panciuti, era allora il segno tangibile dell’opulenza. E dunque del benessere e della bellezza“, racconta Niola.
Col Medioevo, tutto si è capovolto: il peccato di gola diventa un vizio capitale. “A essere sotto accusa non era la grassezza in sé e per sé, ma gli appetiti smodati di cui la taglia era la prova tangibile. Non ragioni estetiche ma etiche. Perché a essere in questione non è la salute del corpo ma la salvezza dell’anima”, aggiunge Niola.”Un tempo l’obesità era peccato, oggi è malattia”.
Dal Rinascimento, e fino alla rivoluzione industriale, il grasso è tornato a essere uno status symbol di ricchezza e benessere.

PerfectBody

Sopra, la campagna di “Victoria’s secret” con modelle super magre; sotto, la contro-campagna di Dear Kate.

I canoni sono cambiati anche per influsso della moda: nel 1924 lo stilista francese Jean Patou fu il primo a proporre le modelle “alte, snelle, senza fianchi e con caviglie fini”. Per esaltare un abito, infatti, un corpo snello è più adatto perché non ne modifica le forme. E questi “manichini umani” hanno ribaltato i canoni della bellezza femminile, avvicinandola pericolosamente all’anoressia. Per fortuna, questo modello estremo inizia a essere contestato. Quando l’anno scorso Victoria’s secret (produttore americano di lingerie) ha lanciato la campagna pubblicitaria “The perfect body”, con 10 modelle super magre, le reazioni non si sono fatte attendere: prima alcuni produttori di abbigliamento femminile per tutte le taglie (come Dear Kate e JD Williams) hanno proposto una contro-campagna con modelle più formose. Poi un gruppo di donne britanniche ha lanciato una petizione, accusando quella campagna di “promuovere uno standard di bellezza insalubre e irrealistico”, minando l’autostima delle donne, facendole sentire inadeguate e non attraenti. La campagna ha ricevuto 33mila adesioni e alla fine Victoria’s secret ha dovuto cambiare slogan: non più “Perfect body” ma “A body for every body”, cioè un corpo per tutti. E negli Usa è nato il movimento “Fat pride”, orgoglio grasso, impegnato nella lotta alla discriminazione basata sul peso. Sperando che alla questione sia dato… il giusto peso.

 

ULTIM’ORA

Oggi, a distanza di 5 giorni da questo post, l’università britannica UCL (University College London) ha pubblicato una ricerca scientifica sull’impatto della discriminazione nella vita delle persone grasse.
Ecco i risultati: su oltre 5 mila adulti studiati, quanti erano stati discriminati in base al loro peso hanno registrato un aumento del 70% nei sintomi di depressione, un calo del 14% nella qualità di vita e il 12% in meno di soddisfazione della vita rispetto a quanti non erano stati emarginati per il loro peso.
Ed ecco le conclusioni dello studio, guidato dall’epidemiologa Sarah Jackson. “La discriminazione può essere una causa importante di scarso benessere per le persone obese. Non ci sono leggi che vietino la discriminazione in base al peso, e questo potrebbe veicolare alla gente il messaggio che questo tipo di discriminazione sia accettabile. La discriminazione è parte del problema-obesità, e non la soluzione. Tutti, compresi i medici, dovrebbero smetterla di incolpare e far provare vergogna alle persone per il loro peso, e offrire invece un supporto o, quando necessario, un trattamento”.

uomo_grasso_copertinaUna lettrice di questo blog segnala un’ulteriore (e sottile) forma di discriminazione verso gli over size: il dilemma dell’uomo grasso. E’ un esercizio di filosofia morale che consiste nell’affrontare questo caso: “Un carrello ferroviario fuori controllo corre verso 5 uomini che sono legati sui binari: se non sarà fermato li ucciderà tutti e 5. Vi trovate su un cavalcavia e osservate la tragedia imminente. Tuttavia, un uomo molto grasso, un estraneo, è in piedi accanto a voi: se lo spingete facendolo cadere sui binari, la notevole stazza del suo corpo fermerà il carrello, salvando 5 vite, anche se lui morirà. Voi uccidereste l’uomo grasso?”. Insomma, uccidere un uomo grasso può essere “il minore dei mali”. E nessuno, a quanto mi risulta, ha protestato.

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Il logo della ricerca di Vox.

Il logo della ricerca di Vox.

Si può mappare l’odio studiando la diffusione degli insulti su Twitter? Nei giorni scorsi è stata presentata la “Mappa dell’intolleranza”, una ricerca promossa da Vox (Osservatorio italiano sui diritti) in collaborazione coi docenti di 3 università (Statale di Milano, Sapienza di Roma, Aldo Moro di Bari). L’idea è interessante, ma si è rivelata un’occasione mancata per almeno 6 importanti ragioni. Qui spiegherò perché.

I ricercatori hanno studiato i messaggi di Twitter per 8 mesi (da gennaio ad agosto 2014), monitorando la frequenza d’uso di 75 insulti divisi in 5 categorie:

  1. Insulti misogini
    troia, puttana, cicciona, cicciona di merda, vacca, zoccola, mignotta, bocchinara, pompinara, cagna, strappona, smandrappona, bagascia, sfasciolacazzi, culona, frigida, figa di legno, battona, ciuccia cazzi, cesso, sfigata
  2. Insulti omofobi
    frocio, frocio di merda, finocchio, checca, ricchione, invertito, culattone, pervertito, culanda, piglianculo, rottinculo, rotto in culo, culo rotto, bocchinaro, pompinaro, ciuccia cazzi, culo, passiva, deviato, leccafiche, camionista
  3. insulti legati alla disabilità
    handicappato, storpio, mongoloide, cerebroleso, nano, spastico, zoppo, quattrocchi, cecato, mongoflettico
  4. insulti antisemiti
    ebreo di merda, usuraio, rabbino, cazzo mozzo, giudeo
  5. insulti razzisti
    negro, sporco negro, negro di merda, negro di merda, romeno di merda, albanese di merda, zingaro, terrone, muso giallo, muso da scimmia, ebrei ai forni, ebreo di merda, bangla, giudeo, mangiarane, kebabbaro, crucco, rabbino

insulti2Ecco i risultati: gli insulti più diffusi sono quelli misogini, seguiti da quelli legati alla disabilità e da quelli razzisti. Ho evidenziato in arancione i termini che sono risultati i più usati in ogni categoria.
Grazie ai (pochi) tweet geolocalizzati, i ricercatori hanno identificato le aree italiane dove gli insulti sono più diffusi: Lombardia e Campania hanno quasi sempre il triste primato della maggior diffusione di questi insulti.

Ma perché dico che questa ricerca è un’occasione mancata? Perché presenta diversi aspetti critici. Eccoli:

  1. I ricercatori hanno studiato 1.853.092 Tweet contenenti gli insulti di cui sopra. Ma quanti erano in tutto i Tweet presi in esame? I quasi 2 milioni di Tweet insultanti, quale percentuale rappresentano rispetto al totale dei Tweet esaminati? In altre parole: quanto era ampio il campione di Tweet esaminato dai ricercatori? Loro non lo scrivono, ma è un aspetto fondamentale: se dico che in Italia ci sono 10mila persone malate di Aids, può sembrare un numero enorme; ma se lo rapporto al totale della popolazione (60 milioni), i malati rappresentano lo 0,001%. Ho chiesto questo dato con diverse mail e telefonate all’ufficio stampa di Vox, ma non è mai arrivato. Dunque, non sappiamo se questi 2 milioni di Tweet insultanti rappresentano una goccia in un oceano oppure no. E non è poco. Sempre a proposito di campione: i ricercatori hanno tenuto conto del fatto che Twitter è più usato da maschi di istruzione medio-alta e residenti al Nord? I Tweet presi in esame sono molti, ma arrivano da un campione che non è propriamente rappresentativo di tutta l’Italia
  2. Dire che 1 milione e 800mila Tweet contengono termini intolleranti fa effetto. Ma quanto sono diffusi altri termini insultanti altrettanto pesanti come cazzone, coglione, rincoglionito, tangentaro, testa di cazzo, bastardo, stronzo, faccia di merda, figlio di puttana, ladro, mafioso (solo per fare alcuni esempi provenienti da altre aree semantiche)? Non si sa, ma potrebbero essere ancora più diffusi e ridimensionare la “mappa dell’odio”.
  3. La scelta degli insulti presenta diversi aspetti discutibili: fra i termini misogini, per esempio, figurano i termini cicciona (e cicciona di merda), sfasciolacazzi (strana scelta: un termine dialettale invece dei corrispettivi italiani cagacazzi e scassacazzi; stesso discorso per il termine romanesco mongoflettico), sfigata che non sono misogini: infatti sono usati anche al maschile. Diversi termini delle varie categorie (cagna, cesso, camionista, culo, vacca, nano, cerebroleso, leccafiche, pervertito, handicappato, passiva, deviato) non hanno solo un senso insultante, ma potrebbero essere usati anche in modo neutro o comunque non sempre in senso spregiativo: ne hanno tenuto conto i ricercatori? Non si sa, insomma, se le parolacce siano state studiate in relazione al contesto d’uso, che nelle parolacce è determinante per capirne il senso. Non va trascurato anche il mezzo, Twitter: il limite dei 140 caratteri spinge gli scriventi a essere sintetici, sbrigativi e brutali. E’ il limite della Computer mediated communication (Cmc): ne hanno tenuto conto i ricercatori? 
  4. Gli insulti antisemiti (rabbino, giudeo, etc) sono stati studiati due volte? Figurano sia fra gli insulti antisemiti, sia tra quelli razzisti. Se i ricercatori non ne hanno tenuto conto, andrebbero a pregiudicare la validità delle statistiche finali. Senza contare che è discutibile aver inserito il termine usuraio fra gli insulti antisemiti: gli usurai possono essere di qualunque origine etnica, in italiano usuraio ed ebreo non sono sinonimi, né in tutto né in parte.
  5. Fra gli insulti razzisti non sono stati inseriti termini molto usati come polentone (razzismo del Sud verso il Nord) e talebano; figura invece il termine mangiarane (spregiativo nei confronti dei francesi) ben poco diffuso rispetto a mangiabanane (che però non risulta preso in esame).
  6. I ricercatori accostano l’uso di termini insultanti a inquietanti statistiche su aggressioni ai gay, femminicidi, etc. Il salto mi pare un po’ azzardato. Le parolacce possono essere il sintomo, ma non la causa della violenza. E, soprattutto, non tengono conto del fatto che le parolacce sono per loro stessa natura omofobe, misogine, razziste: per fare male devono essere taglienti e brutali. Tutti i termini insultanti sono tali perché usano colpi bassi. E di questo ce ne rendiamo conto fino a un certo punto quando le usiamo: se dico rabbino a una persona poco generosa (che posso offendere, tra l’altro, dicendogli che è un genovese, o uno scozzese, altri termini ignorati dalla ricerca), difficilmente mi accorgo che quella parola ha un’etimologia antisemita. In più, agli insulti misogini corrispondono insulti sessisti contro i maschi (sega, mezza sega, segaiolo, puttaniere, sfigato, cornuto, bastardo, cazzone…). Perché non monitorare anche questi, che sono altrettanto gravi? Sappiamo se sono più o meno diffusi rispetto a quelli misogini? La ricerca non l’ha considerato.

Interessante, invece, il dato sulla frequenza d’uso degli insulti (quelli che ho evidenziato in arancione nell’elenco): ma anche in questo caso i ricercatori non svelano quanto siano diffusi. Peccato.

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Se “filippino” diventa un insulto https://www.parolacce.org/2014/10/29/filippino-insulto/ https://www.parolacce.org/2014/10/29/filippino-insulto/#comments Wed, 29 Oct 2014 12:35:25 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6635 Essere definiti “filippini” è un insulto? Massimo Ferrero (presidente della Sampdoria), in un’intervista alla Rai ha definito “filippino” il presidente dell’Inter, l’indonesiano Erick Thohir. La sua è stata molto più che una gaffe: la Figc ha aperto un fascicolo sulla… Continue Reading

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Filippini Essere definiti “filippini” è un insulto? Massimo Ferrero (presidente della Sampdoria), in un’intervista alla Rai ha definito “filippino” il presidente dell’Inter, l’indonesiano Erick Thohir. La sua è stata molto più che una gaffe: la Figc ha aperto un fascicolo sulla vicenda. E Thohir sta valutando se denunciare Ferrero per razzismo o per diffamazione:se lo facesse, l’aggettivo “filippino” diventerebbe ufficialmente un insulto. Se qualcuno vi definisse greci o turchi vi offendereste?

L’episodio mi ha colpito. Dopo il caso di Tavecchio e delle banane, mette a nudo non solo il nostro razzismo strisciante, ma anche il nostro complesso di inferiorità: come spesso accade nellle discriminazioni, il bue dà del cornuto all’asino. Vedremo in che senso.

Ma prima ricordiamo cos’è successo. L’episodio risale a domenica scorsa. In quei giorni, Massimo Moratti – dopo 19 anni alla guida dell’Inter – si era dimesso dalla carica di presidente onorario: un anno fa aveva venduto il pacchetto azionario dell’Inter all’imprenditore indonesiano Thohir.

Così Enrico Varriale, conduttore di Stadio Sprint (Rai2) ha chiesto a Ferrero un commento sull’addio di Moratti. Ferrero si è detto dispiaciuto, aggiungendo: “Io gliel’ho detto a Moratti, caccia via quel filippino…!”. Varriale gli ha fatto notare che è indonesiano: “Viene dall’Indonesia a insultà un emblema del calcio italiano?”,  ha ribadito Ferrero.

https://www.youtube.com/watch?v=kCSKcLjeVdI

“Caccia via quel filippino”: come dire, licenzia quel domestico. In Italia, spesso i filippini trovano lavoro come badanti o domestici. L’insulto c’è tutto: un modo classista e razzista di equiparare un popolo a una condizione sociale considerata inferiore. Come avviene con negro, terrone, villano, cafone

bbc

La frase di Ferrero sul sito della Bbc.

La notizia è rimbalzata sui giornali, non solo in Italia ma anche all’estero. Tanto che Rachel Ruiz, direttrice dell’associazione calcistica filippina, ha confermato che la battuta di Ferrero è stata considerata offensiva. Così, sul sito Web della Sampdoria, alla fine Ferrero ha dovuto correggere il tiro, precisando che “non voleva mancare di rispetto a Thohir e alle Filippine”, aggiungendo che coi filippini “da sempre mi legano rapporti bellissimi”. Sarà, ma la frittata è fatta. Ora vediamo con quali ingredienti.

Innanzitutto, con 165 mila persone, i filippini sono il 2,9% degli stranieri residenti in Italia: sono il 6° gruppo più numeroso. Difficile verificare se facciano tutti i domestici, ma poco importa: secondo un recentissimo sondaggio Istat su 21 mila stranieri, filippini e moldavi sono fra i più soddisfatti del proprio lavoro (con un voto di 8/10), e solo il 17,5% di loro denuncia un trattamento discriminatorio (stanno peggio, ovvero sopra il 30%, tunisini, marocchini, polacchi e rumeni). E’ probabile, quindi, che la soddisfazione sia reciproca: ovvero che anche gli italiani siano contenti del modo di lavorare dei filippini.

MigrantiMa allora come spiegare il disprezzo nei loro confronti?

In due modi: da un lato, ci accorgiamo, in qualche modo, di dipendere da loro: ben pochi italiani sono disposti a fare i domestici o i badanti, quindi in realtà siamo noi a dipendere dai filippini per questi importanti servizi.

Ma in realtà quello che brucia di più è la nostra inferiorità rispetto alle economie asiatiche: Cina, India, Giappone e Russia sono nei primi 6 posti dell’economia mondiale (e noi arranchiamo al 10°), ma la Banca mondiale, da qui al 2050, prevede che saliranno ancora (clicca sulla tabella per ingrandire). Pil2Quanto all’Indonesia, supererà l’Italia entrando nella “top 10” mentre noi scenderemo al 14° posto. Il gigante asiatico fa paura: ha comprato l’Inter (e non solo), e magari un domani potremmo essere noi a fare da domestici agli indonesiani. O ai filippini.

 

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esibizionistManifestazioni di piazza e negli stadi. Attacchi sui giornali. Insulti politici e sportivi. E scandali: per aver tirato in ballo le banane, Carlo Tavecchio ha rischiato di non diventare presidente della Figc ed è stato condannato a 6 mesi di squalifica dalla Uefa. Ma perché negli ultimi anni la banana è diventata un simbolo così potente?

La storia (culturale) della banana è piuttosto interessante, e riserva molte sorprese.

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La copertina di Warhol per i Velvet Underground.

L’uso della banana come simbolo fallico ha una lunga storia. Uno dei primi esempi fu, nel 1967, la copertina disegnata da Andy Warhol per “The Velvet underground & Nico”, un album rock. Sulla copertina del disco c’era una banana: non compariva né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo la firma dell’artista. Le prime copie del disco invitavano chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” ; togliendo un adesivo si poteva vedere una banana rosa shocking, a ricordare un membro maschile. L’album, però, non fece scandalo perché la realizzazione di quella copertina risultò troppo dispendiosa e ne rallentò la produzione.

Nel 2000 fece successo una canzone degli anni ’60, “La banana”: un brano fortemente allusivo ma allegro, cantato dal cubano Michael Chacon: “el unico fruto del amor, la banana, la banana de mi amor”. Fu usato in uno spot della Peugeot e diventò un tormentone.

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La campagna anti-bullismo di Oliviero Toscani.

Un altro esempio creativo è una campagna di Oliviero Toscani contro il bullismo, commissionata nel 2009 dalla Provincia di Bolzano. Nel manifesto, l’uomo è rappresentato da una virile banana, e il bullo da un infantile pisello. Come dire che il vero macho non è il bullo. Due vegetali usati come simboli sessuali, e non sono gli unici: avevo già scritto qui che su 744 termini usati in italiano per descrivere l’organo sessuale maschile, il 13% sono vegetali (piante, frutti, verdure: ci sono anche la carota, il cetriolo, la fava, la pannocchia…).

Negli ultimi anni, però, la banana è diventata anche un simbolo di razzismo: l’idea è nata tra i tifosi di calcio inglesi, che nel 1987 tirarono una banana in campo a John Barnes, calciatore giamaicano che all’epoca giocava nel Liverpool. Un gesto di disprezzo, come dire: “sei una scimmia, mangiati questa banana”. Quando si vuole insultare un’altra persona, infatti, basta paragonarla a un animale (porco, somaro, cane, bestia, balena, troia, vacca, verme, pidocchio, vipera, oca, conigli, mollusco…), nella credenza – tutta da dimostrare – che gli animali siano inferiori a noi. Oltre al fatto che gli animali servono spesso a descrivere determinati tratti caratteriali umani: l’ostinazione, l’ottusità, la promiscuità, la codardia…

Da allora, gettare banane negli stadi (o esporre palloncini a forma di banana sugli spalti) è diventata un’abitudine virale: l’hanno fatto i tifosi dello Zenit di San Pietroburgo nei confronti dei giocatori africani dell’Olympique Marsiglia nel 2008, e poi la moda si è diffusa in tutto il mondo. Eppure, la banana non è affatto di origine africana: è nata in Asia, e in particolare in Nuova Guinea dove è stata domesticata, per poi diffondersi in Africa e in Europa frazie ai mercanti arabi. Arrivò nelle Americhe grazie ai colonizzatori portoghesi.

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“Furba come una scimmia: Taubira ritrova la banana”. Copertina di “Minute”, giornale francese di destra.

Ma tant’è: lanci sprezzanti di banane sono stati fatti nei confronti dell‘ex ministro Cecile Kyenge e del ministro della Giustizia francese Christiane Taubiria, sollevando forte indignazione.
Ma quest’anno c’è stato un calciatore che è riuscito a disinnescare questo meccanismo con l’ironia: il calciatore brasiliano Dani Alves (Barcellona), durante una partita contro il Villareal, ha raccolto dal campo di gioco una banana che gli era stata lanciata. E l’ha mangiata, continuando a giocare.

«Il razzismo è un problema. Ma bisogna prendere le cose con una dose di umorismo perché non è facile cambiare le cose, Se non diamo importanza a queste persone, non raggiungeranno il loro obiettivo». Un gesto semplice ma efficace, che ha spinto molti personaggi famosi – compreso il premier Matteo Renzi e l’ex ct Cesare Prandelli – a farsi fotografare mentre mangiavano una banana.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Ma ci sono altri usi simbolici della banana: negli anni del cinema muto, la persona che scivolava sulla buccia di banana era uno dei meccanismi comici più utilizzati.
E proprio su una “buccia di banana” è scivolato Tavecchio, che durante un’assemblea della Lega Dilettanti, parlando della facilità con cui i calciatori extracomunitari militano nelle squadre italiane, ha detto: «Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…».

La frase ha sollevato uno scandalo internazionale: persino la Fifa e l’Unione europea hanno stigmatizzato l’affermazione. Che aggiunge un ulteriore elemento di razzismo, secondo il quale chi mangia le banane è da disprezzare in quanto povero e non gastronomicamente evoluto. Un meccanismo di disprezzo che conosciamo bene: molti stereotipi razzisti si basano sullo stesso concetto: basti pensare a polentone (mangia polenta), spaghetti, maccarone, e ai tanti nomignoli con cui gli immigrati italiani sono stati dileggiati all’estero. Come tutti gli stereotipi, ingrandisce un dettaglio (in questo caso un’abitudine alimentare) per distorcere l’insieme.

Ma non finisce qui l’uso simbolico della banana: un uso spregiativo è nell’espressione “Repubblica delle banane”. Questo modo di dire ha una paternità precisa: il romanziere americano O. Henry (Williams Sydney Porter) che nel 1904 pubblicò “Re e cavoli”, una serie di racconti brevi. Uno di questi, “L’ammiraglio”, era ambientato nella repubblica di Anchuria, un paese immaginario la cui economia era completamente basata sulle esportazioni di banane. La situazione attira alcune grandi società statunitensi, che riescono a ottenere il monopolio delle banane corrompendo la classe politica. Il libro descrive l’Honduras, e molti altri Stati la cui economia era basata su una monocultura (caffè, banane, canna da zucchero): la produzione era nelle mani di una ristretta élite, che con l’aiuto dei militari gode dei profitti mentre il resto della popolazione rimane povera.

71ildittatoreIl termine è entrato nel vocabolario per indicare un regime dittatoriale e instabile, in cui le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è diffusa così come una forte influenza straniera (politica o economica).
Per estensione, il termine è usato per definire governi in cui un leader forte concede vantaggi ad amici senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno appoggiato in senso economico o politico. La repubblica delle banane ha avuto molta fortuna: è stato usato da Pablo Neruda nel “Canto general”, da Gabriel García Márquez in “Cent’anni di solitudine”, e dal film di Woody Allen “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” (1971). Senza contare “Banana republic”, disco dal vivo di Lucio Dalla e Francesco De Gregori (1979), e  il disegnatore Francesco Tullio Altan, che nelle sue vignette satiriche ritrae Silvio Berlusconi come “il Cavalier Banana”. Ecco com’è nato il personaggio: «Prima delle elezioni del 2001, Gianni Agnelli disse che non eravamo una Repubblica delle Banane. È vero, scrivevo io, non siamo una Repubblica delle Banane, ma del Cavalier Banana. La banana diventò così un segnale, un termometro».

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