satira | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Mon, 03 Feb 2020 13:48:10 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png satira | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Processo agli insulti: cosa dicono le sentenze https://www.parolacce.org/2017/02/06/giudizi-tribunale-insulti/ https://www.parolacce.org/2017/02/06/giudizi-tribunale-insulti/#comments Mon, 06 Feb 2017 09:00:44 +0000 https://www.parolacce.org/?p=11650 Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi“, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi: questa espressione va condannata perché “è indice di disprezzo“, replica la Suprema Corte in un altro pronunciamento. Le sentenze sugli… Continue Reading

The post Processo agli insulti: cosa dicono le sentenze first appeared on Parolacce.]]>

Alcuni insulti discussi in tribunale (elaborazione foto Shutterstock).

Il “vaffa” ha perso il suo carattere offensivo: significa “non infastidirmi“, quindi si può dire impunemente, dice la Cassazione. No, anzi: questa espressione va condannata perché “è indice di disprezzo“, replica la Suprema Corte in un altro pronunciamento.
Le sentenze sugli insulti sono appassionanti, ma spesso sembrano contraddirsi e perciò rischiano di creare confusione: che cosa si può dire, allora, senza rischiare di finire in tribunale?
La questione è vitale, come testimoniano i numerosi e accorati appelli che mi arrivano da quando ho scritto un post sulla riforma del reato di ingiuria: «Se do a qualcuno dello “sciacallo” su Facebook, mi può denunciare?», chiede Luca. «Dopo che la mia ex fidanzata mi ha detto che mi aveva tradito, ai suoi messaggi sul telefonino ho risposto con pesanti parolacce, tipo lercia, zoccola, viscida, ecc , rischio qualcosa?», incalza Andrea.
Non sono quesiti astratti, visto che le leggi puniscono le offese (ingiuria, diffamazione, oltraggio) con multe fino a 12mila euro e carcere fino a 5 anni.

Ora, però, c’è finalmente un quadro d’insieme: lo offre il “Dizionario giuridico degli insulti” (A&B editrice, 196 pagg, 18 €), un libro straordinario, appena pubblicato, che passa in rassegna oltre un secolo di sentenze pronunciate dai tribunali italiani. Potete trovare, in ordine alfabetico, i pronunciamenti su 1.203 termini insultanti (da “A fess ‘e mammeta” a “Zozzo”) e 83 gesti (dal dito medio all’ombrello). L’autore è un avvocato cassazionista siciliano, Giuseppe D’Alessandro, che i lettori di questo blog ricorderanno per un suo precedente libro (di cui avevo parlato qui), che pubblicava le statistiche sugli insulti più denunciati in tribunale (vedi grafico più sotto).
Il nuovo dizionario (a sin. la copertina) è un’opera preziosa: può essere utile non solo ai giuristi e ai linguisti, ma anche ai sociologi (per capire come cambia la percezione delle offese nel corso delle epoche) e ai giornalisti e blogger, per sapere quali parole possono o non possono usare nel criticare un personaggio pubblico.
Ma attenzione: fino a un certo punto, come spiegherò più sotto. Le parolacce, infatti, non si lasciano ingabbiare in una sentenza – di condanna o di assoluzione – perché possono essere usate in molti modi e non solo illeciti. Le parolacce, infatti, sono come i coltelli: si possono usare per ferire o uccidere, ma anche per sbucciare una mela o incidere una scultura nel legno…

PAROLE CONDANNATE

Nel libro, del quale ho scritto la prefazione, trovate tutti gli insulti classici (stronzo, carogna, puttana, verme, ladro, fogna, infame…). E anche espressioni molto più creative o ispirate dalla letteratura e dalla cronaca: dentiera ambulante, diesel fumoso, ancella giuliva, barabba, azzeccagarbugli, Zio Paperone, Papi girl, Pacciani, Lewinsky
Ma fra i termini offensivi sottoposti a giudizio trovate anche parole neutre (tizio, boy scout, coccolone) o addirittura complimenti: bella, bravo, onesto. Tutte – badate bene – espressioni condannate come insulti. Com’è possibile?
Dipende dall’intenzione comunicativa: se è vero che con le parolacce posso esprimere anche affetto (fra amici: «Come stai, vecchio bastardone?»), è altrettanto vero che 
si può camuffare un’offesa sotto le sembianze di un complimento.
Ne sa qualcosa, racconta il libro, la persona che nel 2010 disse a due vigilesse: «Siete due gran
fiche». E’ stata condannata, e non per sessismo: l’automobilista che aveva detto quella frase sarcastica era infatti una donna di Modena. Che stava usando un’altra figura retorica, l’antifrasi: una locuzione il cui significato era l’esatto opposto di quello che ha letteralmente. Dunque, vale la seguente equazione: complimento = insulto. La medesima parola, insomma, può avere entrambe le funzioni a seconda del tono (ovvero dell’intenzione comunicativa) con cui viene detta.

Gli insulti più processati in tribunale (clic per ingrandire)

Ecco perché i magistrati, per giudicare se una parola sia stata davvero offensiva, usano lo stesso criterio di un buon linguista: collocano quella espressione nel contesto. Cioè vanno a guardare chi l’ha detta, quando, perché, a chi, dove, con quale intenzione comunicativa.
E così
, grazie a questi dettagli, questo libro racconta tante storie, spesso divertenti. Come quella del magistrato che aveva chiamato i propri colleghi, durante un’infuocata camera di consiglio, “minchie mortee “nani mentali(fu condannato dalla Cassazione nel 2004). 
O quella dell’automobilista punito dalla Suprema corte nel 2011 per aver detto a un poliziotto che l’aveva sanzionato durante un controllo stradale: «Questa multa non mi toglie nemmeno un pelo di minchia». Peccato, era una bella battuta.
Altri giudici, in passato, si erano dimostrati più tolleranti: avevano assolto un uomo che aveva detto a un collega «Mi
fai una sega tu e la legge». Perché, scrissero i magistrati dell’epoca (era il 1948!) la frase, per quanto volgare e come tale emendabile, «aveva il significato traslato di “Sono assolutamente tranquillo di fronte alla minaccia di adire vie legali”».

I CONFINI DELLA CRITICA

Alcuni insulti fanno rischiare la galera (Shutterstock).

Ma fino a che punto ci si può spingere nel criticare qualcuno?
La libertà di criticare un personaggio pubblico è uno dei cardini della democrazia e della libertà di stampa. E’ in nome di questa libertà che Vittorio Feltri è stato assolto per la sua rubrica «Il bamba del giorno», che metteva alla berlina vari protagonisti delle cronache. Una critica anche feroce, purché argomentata, è infatti tollerata. Ma salendo di tono e di bersaglio, questa libertà inizia a scricchiolare: è legittimo affibbiare il soprannome di “Cialtracons” al Codacons, l’associazione dei consumatori? I giudici hanno detto di no.
E’ il noto dibattito sui confini della satira: fino a dove può spingersi per «castigare i costumi attraverso il riso»? La Cassazione parla di “continenza”: si possono usare parole forti, purché siano figlie di un dissenso ragionato. Ma, in realtà, è impossibile stabilire una formula a priori valida per tutti i casi.
E quando si parla di parolacce i dubbi da sciogliere sono numerosi e, a volte, involontariamente comici. Per esempio, muovere il bacino in avanti e indietro dicendo «Suca» (succhia) è un’ingiuria? I magistrati l’hanno inquadrata come atto contrario alla pubblica decenza, ma si potrebbe discutere a lungo. E la frase «Ti rompo le corna» è un’ingiuria o una minaccia? Dipende se si dà più peso al verbo rompere o alle corna...
E augurare a qualcuno che «gli venga un cancro»? Esemplare quanto hanno scritto i giudici della Cassazione nel 2008: «la malattia non è mai una colpa, ma un evento naturale che colpisce tutti e per la quale non c’è motivo di vergogna: l’augurio dell’altrui sofferenza denota miseria umana, ma non riveste rilevanza penale».
Miseria umana ma anche superstizione: la maledizione – questo il nome tecnico dell’augurare il male a qualcuno – si basa sulla credenza magica che un desiderio (malevolo) possa realizzarsi davvero. Molte espressioni volgari sono maledizioni, eppure nei loro confronti i giudici hanno pareri discordi: hanno assolto chi ha augurato la morte di qualcuno, ma condannato chi ha detto «Va a morì ammazzato», «Che ti vengano le emorroidi», «Che tu possa sputare sangue», e perfino «Va a cagare» (che per uno stitico sarebbe una benedizione).

SENTENZE DISCUTIBILI

Locandina del “Vernacoliere”, giornale satirico.

Com’è inevitabile, molte sentenze fanno discutere. Perché, in diversi giudizi, rompicoglioni è un termine tollerato («è una manifestazione scomposta di fastidio, di disappunto ma non lede l’onore») mentre rompicazzo è considerato insultante, pur avendo un significato equivalente? Perché i testicoli debbano avere una minor forza insultante rispetto al pene non è dato sapere.
Lo stesso dilemma si pone per i termini pagliaccio e buffone: pur essendo termini sovrapponibili, mentre il primo è stato sempre condannato, il secondo è stato anche assolto. Il buffone, del resto, è una figura ambigua: è ridicolo ma può anche rivelare verità scomode.
Ed è lecito che un insegnante dia dell’asino a un alunno? La Cassazione, nel 2013, ha scritto che il termine «potrebbe, in linea di principio, riconnettersi ad una manifestazione critica sul rendimento del giovane con finalità correttive». Sarà, ma ho qualche perplessità sull’efficacia educativa dell’insulto.
Di certo, per chi come me è giornalista, ovvero fa informazione critica, fa effetto leggere che è stato condannato chi ha usato i termini faccendiere, inqualificabile, modesto, politicante, scalmanato, sciagurato, sconcertante, specioso, strampalato.
D’altra parte, è pur vero che è stato assolto chi ha detto crumiro, dittatore, esaurito, fanatico, fazioso, incauto, inciucio, lacché, lottizzato, nepotismo, pazzo, retrivo, risibile, ruffiano (ma solo in senso metaforico), sanguisuga, sobillatore, sprovveduto, stravagante, superficiale, trombato, trombone, zelante e zombie.
Ma attenzione: non c’è alcuna garanzia che, usando questi termini, la passerete liscia. Dipende dal tono che usate, dalle argomentazioni che adducete, dalla sensibilità del giudice. Perché gli insulti possono sì ferire, ma restano pur sempre inafferrabili: come cantava don Basilio nel “Barbiere di Siviglia”, «la calunnia è un venticello».

AVVERTENZA IMPORTANTE

Diversi lettori mi chiedono pareri per insulti ricevuti o fatti. Rispondo volentieri, ma attenzione: sono un esperto di turpiloquio e degli aspetti psicosociali legati ad esso. Non sono un avvocato né un giurista, quindi non sono una fonte qualificata in campo legale. Per un parere qualificato dovete rivolgervi a un avvocato.
In ogni caso, se volete comunque una mia valutazione (sociale, relazionale), spiegate bene le circostanze: cosa avete detto, a chi (senza precisare il nome), dove, perché e se c’erano altri testimoni.
E se volete esprimere la vostra gratitudine per il mio impegno, la soluzione c’è: acquistate una copia del mio ebook. Costa meno di un aperitivo, e aiutate questo sito a vivere.

Hanno parlato di questo post: AdnKronos, L’Espresso, Ansa, Quotidiano.net, IlRestoDelCarlinoFranco Abruzzo, Il GiornaleIl Secolo d’Italia, StravizziFan Page, Enews24, Il DubbioGenova quotidiana, Ultima voce. E qui sotto c’è anche una video recensione di Dellimellow:

The post Processo agli insulti: cosa dicono le sentenze first appeared on Parolacce.]]>
https://www.parolacce.org/2017/02/06/giudizi-tribunale-insulti/feed/ 151
I libri e la moda dei titoli volgari: funzionano? https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/ https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/#comments Thu, 11 Aug 2016 08:36:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10583 Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo… Continue Reading

The post I libri e la moda dei titoli volgari: funzionano? first appeared on Parolacce.]]>
Libri4Qualche giorno fa, in una libreria, ho visto una cosa che mi ha colpito. Davanti alla cassa campeggiavano in bella mostra due libri che mi hanno fatto sobbalzare. Si intitolavano: “Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare“, e “Il culo non esiste solo per andare di corpo“.
Mi hanno colpito perché, solo qualche anno fa, volumi con titoli del genere sarebbero rimasti confinati e un po’ nascosti nel settore “umorismo” o “erotismo”. E magari li avremmo comprati con un po’ di imbarazzo. Oggi, invece, evidentemente sono considerati un fatto normale.
Ma è un fenomeno nuovo? E’ in crescita? Quanti sono, ogni anno, i titoli volgari che vengono pubblicati in Italia? E, soprattutto: hanno successo?
Ho deciso di approfondire. Anche perché, a modo loro, tutti questi libri sono imparentati con “Parolacce”, di cui è appena uscita la nuova edizione in ebook.

Cazzaria

“La cazzaria” (1531), il più antico libro con titolo volgare.

Innanzitutto, smentisco subito un pregiudizio diffuso: il fenomeno non è affatto nuovo. Come potrete leggere in fondo a questo articolo, in realtà i primi titoli scandalosi risalgono già al 1500.
Ma torniamo per ora ai giorni nostri. Per fare una statistica attendibile ho consultato il database più completo di cui disponiamo: il catalogo del Servizio bibliotecario nazionale, ovvero tutti i libri posseduti dalla rete delle biblioteche italiane.
Nella maschera di ricerca, ho digitato le 10 parolacce più usate (al maschile e al femminile, al singolare e al plurale), circoscrivendo la ricerca dal 1960 a oggi, sui testi a stampa in italiano. La ricerca avanzata restituisce i risultati ordinando i libri per anno di pubblicazione.
Ho scartato dal conteggio le edizioni successive del medesimo titolo, ma non posso garantire una precisione assoluta (che, come vedremo, per i numeri in gioco non avrebbe senso).
Ecco il – prevedibile – risultato: l’uso di parolacce nei titoli è stato un crescendo esponenziale. Negli anni  ’70 e ’80 si è quadruplicata, per poi esplodere negli anni ’90 e 2000, come emerge dal grafico qui sotto (clicca per ingrandire):

Quanti sono?

GraficiLibri1Rispetto agli anni ’60, i libri con un titolo volgare sono aumentati di 13 volte negli anni ’90 e di 29 volte negli anni 2000. Se la tendenza resterà costante, entro la fine di questo decennio saranno aumentati di 36 volte. C’è di che inquietarsi? Direi di no: perché i numeri in gioco sono davvero piccoli rispetto al totale dei libri pubblicati.
Prendiamo il decennio record 2000-2009, per il quale abbiamo dati definitivi dell’Aie (Associazione italiana editori) e dell’Istat. In quegli anni, in media, sono stati pubblicati in Italia 56mila libri all’anno, per un totale di 560mila dal 2000 al 2009: i 231 volumi con un titolo volgare usciti in quel decennio rappresentano un misero 0,04% del totale. Vuol dire 4 ogni 10mila libri, una ventina l’anno: una piccola minoranza, anche se fa rumore. Piccola curiosità: l’editore che ha pubblicato il maggior numero di titoli osè risulta Mondadori (65), seguito da Piemme (sempre del gruppo Mondadori, 24) e Zelig (16).

Perché questo boom?

Perché questa diffusione crescente? Innanzitutto perché, dagli anni ’70 il linguaggio è cambiato: il vento della rivoluzione giovanile del 1968 ha portato il linguaggio informale e colloquiale anche sui media (radio, film, tv, giornali e, ovviamente, libri), come raccontavo in questo articolo. Ma per i titoli dei libri vanno considerati anche altri aspetti. Primo, il peso sempre più crescente della satira, della comicità e della letteratura popolare. Non a caso, una delle apparizioni più osè è un titolo del 1970: “Le poesie d’amore: dar core ar cazzo er passo è breve“. Il libro è la traduzione, in dialetto romanesco, delle poesie di Catullo da parte di Massimo Catalucci. Insomma, la stessa operazione di “Il culo non esiste solo per andar di corpo” di Alvaro Rissa (2015), che è un’antologia di classici greci e latini.
LibriMa la vera svolta, come rivelano i numeri qui sopra, è maturata negli anni ’90, quando è iniziata un’esplosione di titoli che dura ancora. Se volessimo identificare un punto di inizio in un libro di successo, forse potremmo trovarlo nel 1997 con “Che stronzo! Il libro-verità sul fidanzato italiano” di Silvio Lenares. Un libro umoristico, nel quale il sedicente Ettore Bengavis, emerito dottore in Stronzologia, descrive le tipologie del fidanzato italiano, consigliando come sfuggire al maschio italiano.
Nel 2002 Luciana Littizzetto pubblica un altro titolo dirompente: “Ti amo bastardo“. Seguito da un best seller che ha rotto gli schemi della saggistica, per il tono colloquiale dei titoli: “Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita” di Giulio Cesare Giacobbe (2003), poi replicato con “Come diventare bella, ricca e stronza: istruzioni per l’uso degli uomini” (2006) e “Il fascino discreto degli stronzi” (2009). La via era tracciata: l’uso di parolacce nei titoli è passato dalla letteratura satirica e umoristica alla saggistica.
Un approccio che ha avuto un successo notevole: non solo perché la parolaccia attira l’attenzione e quindi è un potente strumento di marketing (l’abbiamo visto a proposito di vini con etichetta sboccata), ma anche perché la parolaccia è il linguaggio della schiettezza, della sincerità, del “pane al pane vino al vino”. Dunque, chi scrive un saggio (che sia di auto-aiuto, di psicologia o di denuncia politica e sociale) se ricorre al linguaggio colloquiale dà subito l’idea di essere alla portata di tutti. Come dimostrano i saggi, serissimi, “Stronzate: un saggio filosofico” (2005) di Harry Frankfurt, “Il culo e lo stivale: i peggiori anni della nostra vita” di Oliviero Beha (2012) o “Siamo tutti puttane: contro la dittatura del politicamente corretto” di Annalisa Chirico (2014). E infatti, fra i titoli che ho esaminato in questa indagine, gran parte rientra nel genere humor, seguito proprio da psicologia (ed erotismo, ma meno di quanto ci si aspetterebbe).
Insomma, l’uso della parolaccia nei titoli dei libri è il sintomo di un’epoca che gioca a contaminare gli stili e i registri, che sono diventati permeabili fra loro: formale e colloquiale, serio e comico si mischiano fra loro. Fino agli anni ’80, se qualcuno avesse pubblicato un saggio (serio) con un titolo volgare, avrebbe perso in prestigio e credibilità. Oggi, invece risulta simpatico e schietto.
Da un altro punto di vista, poi, significa che la cultura “ufficiale” ha legittimato, oltre al linguaggio, anche la cultura comica e quella popolare in generale. Gli ha dato dignità letteraria. E questo è senz’altro un bene.

Quali parolacce si usano? Hanno successo?

GraficiLibri2Ma quali sono le parolacce più usate nei titoli dei libri italiani? In classifica svetta “bastardo” (257 titoli), seguito da “puttana” (109) e “culo” (60). In questo decennio si assiste a un’impennata di “stronzo“, che ha già superato “culo” e tallona “puttana“. Trovate i dati in dettaglio nella tabella qui a destra.
Se i libri sono lo specchio di un’epoca, allora viviamo in un tempo di bastardi e di puttane? L’ipotesi è suggestiva e ha un fondo di verità; ma in realtà, bastardi e puttane sono presenze costanti in tutta la storia, perché sono le due facce della medesima miseria umana…
A parte questo: è una strategia vincente pubblicare libri con titoli volgari? Dipende. Un titolo con una parolaccia senz’altro attira l’attenzione dei lettori fra i numerosi volumi pubblicati ogni anno in Italia (oggi ci avviciniamo ai 60mila). Ma la medaglia ha il suo rovescio: i libri con un titolo spudorato hanno meno possibilità di essere recensiti da tv, radio, giornali. Dove, almeno in alcuni casi, si sta attenti al linguaggio, e certi titoli sarebbero impronunciabili. Insomma, un libro come “Il metodo antistronzi“, più che una recensione su un giornale prestigioso dovrà la sua fama al passaparola, ai social network o anche come regalo goliardico. D’altronde, se le parolacce sono il registro colloquiale e popolare per eccellenza, è giusto che si diffondano in quello stesso canale comunicativo.
E comunque, ovviamente, una parola forte non basta a decretarne il successo: sui 594 libri con titoli volgari che ho preso in esame per questa statistica, i best seller non mi sono sembrati più di una ventina. Insomma, alla fine vince pur sempre il contenuto (com’è giusto che sia).

Quando sono stati pubblicati i primi libri con titoli volgari?

Resta un’ultima curiosità: a quali anni risale l’esordio di queste parolacce nei titoli librari? Ecco quanto sono riuscito a ricostruire nella tabella qui sotto. Come potete vedere, non è affatto una tendenza moderna, visto che 7 termini su 10 sono precedenti a prima del 1900; e risalgono al 1500, dopo poco più di un secolo dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455). Solo vaffanculo, tette e fica sono stati “sdoganati” negli ultimi 40 anni. Anche in questo caso, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i libri erotici sono una minoranza (20%); la maggioranza (70%) sono scritti a sfondo umoristico o satirico. Già nell’antichità, le parolacce si usavano soprattutto per far ridere. E se vi capitasse di leggere qualcuno di questi libri, vi accorgerete che non sono affatto libri commerciali: hanno uno spessore culturale che oggi non ci sogniamo lontanamente. Perché sono stati scritti dai (pochi, veri) intellettuali dell’epoca. Le parolacce, scritte da uomini di cultura, acquistano un altro sapore.

Parolaccia Anno Titolo Autore Genere
Cazzo 1531 La cazzaria Antonio Vignali Satirico
Puttana 1532 La puttana errante Lorenzo Venier Umoristico
Coglione 1569 Historia della vita, et fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Coglione Pietro Spino Satirico
Bastardo 1594 Trattato delle ragioni sopra il regno di Cipro, appartenti alla serenissima casa di Sauoia. Con narratione d’historia del violento spoglio, commesso dal bastardo Giacomo Lusignano.  Storico. (Il termine, pur con sfumatura spregiativa, non significa “cattivo, spregevole, spietato” bensì “figlio illegittimo”).
Merda
Stronzo  
1629 La merdeide, stanze in lode delli stronzi della gran villa di Madrid, del sign. D. Nicolò Bobadillo. Tommaso Stigliani Satirico
Culo 1842 La culeide in antitesi al moderno costume dei culi finti Gabriele Rossetti Cantone Umoristico
Vaffanculo 1977 La Traviata Norma, ovvero: vaffanculo… ebbene sì. Collettivo teatrale “Nostra signora dei fiori” Umoristico
Tette 1979 Lord tette M.H. Englen. Erotico
Fica 1994 La fica di Irene Louis Aragon Erotico

Questo articolo è stato ripreso da AdnKronos, Il Giornale, Prima Comunicazione, Il MessaggeroBooksBlogAgora Magazine, Donna Charme, Reportage online, Italy journal.

The post I libri e la moda dei titoli volgari: funzionano? first appeared on Parolacce.]]>
https://www.parolacce.org/2016/08/11/libri-con-parolacce-nel-titolo/feed/ 1
Parolacce alla friulana https://www.parolacce.org/2015/11/08/parolacce-in-friulano/ https://www.parolacce.org/2015/11/08/parolacce-in-friulano/#comments Sun, 08 Nov 2015 14:35:59 +0000 https://www.parolacce.org/?p=8695 In Friuli è scoppiato un piccolo caso – un casino! – per “Felici ma furlans”, la prima serie tv sui friulani, anzi: sull’homo furlanus. I video, pubblicati su YouTube, sono una satira di friulani su friulani, e sono stati cliccati da… Continue Reading

The post Parolacce alla friulana first appeared on Parolacce.]]>
Furlan

“Hai più culo che intelligenza”: video-lezione di “Tacons”, pillole di friulano.

In Friuli è scoppiato un piccolo caso – un casino! – per “Felici ma furlans”, la prima serie tv sui friulani, anzi: sull’homo furlanus. I video, pubblicati su YouTube, sono una satira di friulani su friulani, e sono stati cliccati da migliaia di persone, anche fuori dai confini regionali. Insomma, un successo. Ma non per tutti: il presidente dell’Ente Friuli nel Mondo, per esempio, ha contestato la serie per l’uso del turpiloquio: «Non si usano le parolacce per far conoscere il friulano» ha obiettato. «Vogliamo farci conoscere in giro con questo tipo di linguaggio? Che idea si possono fare di noi? Io, come Friuli nel Mondo, mi sento offeso. Non si devono mai superare i limiti del buon senso e della creanza».

Ma dove sta lo scandalo? I dialetti sono la lingua popolare per eccellenza, e le volgarità fanno parte del loro Dna. Buona parte delle parolacce italiane derivano dai dialetti, come scrivevo qui. E il friulano, come tutti i dialetti, usa il linguaggio colorito in nome della schiettezza e della semplicità popolana, come raccontavo in questo post.
Ma al di là di queste considerazioni, com’è “Felici ma furlans”? Sono andato a vedere la serie sul Web. E l’ho trovata un’idea divertente e interessante, perché mostra il friulano di oggi senza ipocrisie. «Non siamo più una terra di burberi e rubicondi contadini ma una terra di confine dove culture, industrie e uomini combattono ogni giorno la sfida del mondo globale, sempre e comunque in a furlan way, alla friulana», scrivono gli autori Alessandro Di Pauli e Tommaso Pecile.

Le parolacce, in questa serie, servono quindi a rappresentare in modo satirico i friulani, con le loro virtù ma soprattutto coi loro vizi: l’eccessivo senso del dovere (lavoro, lavoro, lavoro) che li rende poco inclini al sorriso; la diffusione dell’alcol; i rapporti sociali asciutti e un po’ ruvidi, l’ossessione per i soldi, il classismo…. Caratteristiche non solo friulane, peraltro. Le parolacce – non dimentichiamolo – sono un ingrediente essenziale della satira e della comicità in generale: fanno ridere e danno un senso giocoso di libertà.
La Web serie ha due filoni: “Felici ma furlans” e la più recente “Tacons”, un corso in pillole (anzi: “supposte”) di friulano interpretato da Luciano Lunazzi, che nella vita fa il pittore.

Vediamo un paio di esempi. Il primo, la “pietra dello scandalo”, è una video-lezione che insegna alcuni modi di dire da usare sul lavoro. Ma alla serietà della didattica e delle frasi, fa da contraltare la volgarità delle espressioni friulane, con un effetto comico:

Graffiante anche un altro episodio, il venditore di “deblasfemizzatore”, una macchina per cancellare le bestemmie sul luogo di lavoro: evidentemente un’abitudine diffusa in Friuli Venezia Giulia, oltre che in Veneto.

Dunque, a ben guardare, questa serie ha fatto discutere non tanto per il lessico volgare, quanto perché ha messo alla berlina i vizi dei friulani, senza imbellettarli: li ha rappresentati così come sono, nudi e crudi. E questo deve aver infastidito chi non vuole vedersi allo specchio, o chi vuole dare un’immagine patinata di sè. Insomma, le persone senza autoironia.
Ma, a giudicare dai tanti click su Internet, la maggioranza dei friulani ha apprezzato la serie: saranno forse poco inclini al sorriso, ma lo spirito goliardico non gli manca.

The post Parolacce alla friulana first appeared on Parolacce.]]>
https://www.parolacce.org/2015/11/08/parolacce-in-friulano/feed/ 15
Parolacce: il linguaggio della verità https://www.parolacce.org/2014/12/14/parolacce-e-verita/ https://www.parolacce.org/2014/12/14/parolacce-e-verita/#comments Sun, 14 Dec 2014 13:01:25 +0000 https://www.parolacce.org/?p=6814 Chi fa le crociate contro le parolacce spesso dimentica che hanno un aspetto positivo importante: sono un linguaggio di verità. Come i dialetti, esprimono la realtà in modo diretto, naturale, senza filtro. Me l’hanno ricordato due uomini di cultura che stimo… Continue Reading

The post Parolacce: il linguaggio della verità first appeared on Parolacce.]]>
camilleri-demauro_371x228

Tullio De Mauro e Andrea Camilleri (gent. conc. Laterza).

Chi fa le crociate contro le parolacce spesso dimentica che hanno un aspetto positivo importante: sono un linguaggio di verità. Come i dialetti, esprimono la realtà in modo diretto, naturale, senza filtro. Me l’hanno ricordato due uomini di cultura che stimo molto: il linguista Tullio De Mauro e lo scrittore Andrea Camilleri, in un libro pubblicato da poco, “La lingua batte dove il dente duole” (Laterza).
Il libro esalta il ruolo del dialetto: «la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare» dice Camilleri. «La parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto, di una cosa, esprime il sentimento, mentre la lingua, di quella stessa cosa, esprime il concetto». In pratica, il dialetto esprime l’essenza delle cose, la loro natura profonda senza le sovrastrutture artificiali della cultura. L’italiano, invece, è la lingua dell’astrazione, dei temi generali, ma anche della distanza dai sentimenti e dalla spontaneità. Ma che c’entrano i dialetti con le parolacce?

coverC’entrano. Per dimostrare che il dialetto è la lingua della verità, De Mauro cita un caso giudiziario scoperto da una linguista fiorentina, Patrizia Bellucci: un processo per stupro, celebrato probabilmente un secolo fa, ai danni di un certo Nicolino.
Il magistrato gli domanda: «Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi congresso (congresso carnale, ndr)?».
Nicolino lo guarda interdetto.
Il magistrato, paziente, cerca di essere a modo suo più chiaro: «Nicolino, fuvvi concubito (congiungimento carnale, ndr)?». Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentitagli dall’eloquio giudiziario: «Nicolino, ditemi, fuvvi copula (idem, ndr)?». Nicolino lo guarda smarrito.
E allora il magistrato abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: «Niculì, isso, Gaetano, te l’ha misse ‘n culo?».
E Nicolino finalmente annuisce e risponde: «Sì, sì».

L’episodio, oltre a far sorridere, è prezioso perché rivela aspetti profondi. Innanzitutto, che il linguaggio giuridico è (come tutti i linguaggi specialistici) artificioso, lontano dalla spontaneità: e questo è un grave handicap, dato che la giustizia dovrebbe essere istintiva e cristallina. Un linguaggio giuridico meno bizantino renderebbe la vita più difficile ai mistificatori (ricordate il latinorum di Manzoni?).
Ma l’aneddoto rivela soprattutto che le parolacce sono tali perché evocano il sesso in modo diretto, senza timore riverenziale, senza distanze. Pene e cazzo si riferiscono allo stesso oggetto, eppure il primo termine è accettabile e si può dire in ogni circostanza, mentre il secondo è offensivo. Perché? Perché mentre il termine scientifico parla di sesso in modo neutro, asettico, la parola volgare evoca in modo concreto ciò che nomina, e per di più in modo crudo. E questo ci turba non solo perché abbiamo bisogno di tenere a distanza il nostro lato animalesco, ma anche perché il sesso è fonte di ansie, di forti emozioni, e va quindi maneggiato con cautela.

Questo ragionamento vale non solo per i termini sessuali: vale per tutte le parolacce. Dire a qualcuno che è stronzo – se lo è davvero – è l’unico modo appropriato di dire la verità. Anzi: talvolta le parolacce possono addirittura essere rivelatrici di aspetti profondi e nascosti della realtà. Un tempo, nelle piazze, gli eroi o i potenti erano acclamaati e insultati al tempo stesso, racconta il critico russo Michail Bachtin:  la lode e l’inguria riuscivano a esprimere i sentimenti ambivalenti (odio e amore) che tutti proviamo.«L’ingiuria» dice Bachtin «è anche un modo per rivolgersi con schiettezza a chi si ama: chiamare le cose col loro nome, sollevare il velo sull’ambivalenza della realtà, in cui gli opposti convivono, dando spazio al gioco verbale e abolendo le frontiere fra persone». E’ per questo motivo che ci si può rivolgere a un amico dicendogli «Ehi, come va, vecchio scarpone?».

Proprio per questo le parolacce sono usate nella goliardia, dai comici, e in particolare nella satira: è il linguaggio del popolo, della piazza, che serve a innescare un’atmosfera di gioco e di libertà carnevalesca, infantile. Ma è anche un modo straordinario di rivelare qualcosa, di dire la verità così com’è: nuda e cruda. Come quando il comandante De Falco disse a Schettino: «Salga a bordo, cazzo!».
«Le parolacce» dice ancora Bachtin  «sono frammenti di una lingua estranea, nella quale si poteva dire qualsiasi cosa; ma ora si possono solo esprimere insulti privi di senso». Quando scriveva queste parole, i reality e la tv volgare ancora non c’erano, ma la frase descrive perfettamente l’uso dozzinale e inflazionato delle parolacce oggi. Per fortuna, però, ci sono i comici, i rapper, i poeti che tengono viva la funzione rivelatrice e schietta delle parolacce: come fa Corrado Guzzanti nell’antologia qui sotto. Contro le anestesie sterili degli eufemismi, del linguaggio “politicamente corretto”, che spesso è un alibi per castrare e tappare la bocca a chi vuol dire una verità scomoda.

 

The post Parolacce: il linguaggio della verità first appeared on Parolacce.]]>
https://www.parolacce.org/2014/12/14/parolacce-e-verita/feed/ 1
Le parolacce fanno paura ai dittatori https://www.parolacce.org/2011/11/11/parolacce-contro-i-dittatori/ https://www.parolacce.org/2011/11/11/parolacce-contro-i-dittatori/#comments Fri, 11 Nov 2011 14:20:46 +0000 https://www.parolacce.org/?p=534 Con le parolacce si possono fare molte cose. Ci si può sfogare, eccitare, ridere… E anche far vacillare una dittatura. Non ci credete? Chiedetelo alle 5mila persone che, fra il 1926 e il 1943 furono denunciate, sotto il regime fascista,… Continue Reading

The post Le parolacce fanno paura ai dittatori first appeared on Parolacce.]]>

Guidonia, 1939: Mussolini scende dall’aereo che ha pilotato facendo un goffo saluto romano. E’ una delle foto censurate dal regime, e raccolte da Mimmo Franzinelli nel libro “Il Duce proibito”.

Con le parolacce si possono fare molte cose. Ci si può sfogare, eccitare, ridere… E anche far vacillare una dittatura. Non ci credete? Chiedetelo alle 5mila persone che, fra il 1926 e il 1943 furono denunciate, sotto il regime fascista, semplicemente perché avevano imprecato contro il duce, raccontato una barzelletta dissacrante o sfregiato la sua immagine. Di questo esercito di oppositori, 1.700 furono inviati al confino, 300 spediti in galera e 3mila diffidati. L’ha scoperto un professore di storia, Alberto Vacca, che ha fatto una ricerca nell’Archivio centrale dello Stato studiando le numerose denunce per “offese al Capo del Governo” durante il Ventennio.

La ricerca è diventata un libro, edito di recente da Castelvecchi: “Duce truce. Insulti, barzellette, caricature: l’opposizione popolare al fascismo nei rapporti segreti dei prefetti (1930-1945)”. Un libro che possiamo considerare il primo “figlio legittimo” di “Parolacce: dato che esistono anche quelli illegittimi (imitatori senza arte né parte, o senza riconoscenza dei meriti).

Infatti Vacca ha avuto l’idea della ricerca leggendo il mio libro: così, quando ne ultimò la scrittura me lo inviò per mail chiedendomi un parere. Insieme ad alcuni consigli redazionali, l’ho spronato a trovare un editore: sarebbe diventato un libro sorprendente. E così è stato. Tanto da aver raccolto in pochi giorni recensioni molto positive sul “Venerdì” di “Repubblica”, su “Il Foglio”, “Avvenire“, Focus Storia collection, Diacronie (studi di storia contemporanea), la “Cronaca di Piacenza“, Tribuna novarese, archiviostorico.info e booksblog.it. L’autore è stato intervistato da Radio Radicale, Canale 10 e Radio Popolare.
Dopo una chiara introduzione, che fa capire il contesto storico in cui maturarono le denunce, Vacca ha riprodotto integralmente i rapporti, dividendoli per categorie, seguendo gli stessi criteri di “Parolacce”: frasi offensive; fantasie omicide; maledizioni; insulti all’immagine; barzellette e parodie; sfregi all’effigie.

Ritaglio di giornale con scritte ingiuriose, spedito al Direttorio del P.N.F. con busta datata a Palermo, del 18 ottobre 1940.

Ma non pensate che sia un libro noioso. Come scrivo nella prefazione del libro, “nonostante il linguaggio burocratico, infatti, i rapporti dei prefetti sono piccoli film: vi trasporteranno nelle osterie, sui tram, nelle fabbriche, nei cortili, nelle scuole, nei bordelli dell’Italia sotto il fascismo. Mostrando quanto la dittatura scatenasse il lato peggiore dell’uomo (ricordate il film “Le vite degli altri”?): a denunciare gli autori delle battute – spesso ubriachi, poveri o minorenni – non erano solo i servi del Potere, ma anche tanti livorosi vicini di casa, passanti o colleghi che approfittavano di un passo falso altrui per mettersi in mostra col Regime e liberarsi d’un nemico. Ci sono perfino figli che denunciano i padri: tutti contro tutti in un’Italia nel baratro della guerra e della miseria”.

“Duce truce” non è solo un viaggio nella nostra storia. E’ anche un’occasione preziosa e concreta per capire non solo che l’adesione al fascismo fu tutt’altro che monolitica, ma anche per comprendere come funzionano le dittature: con una propaganda martellante e capillare creano il consenso, e con una repressione implacabile e minuziosa reprimono il dissenso. Di quest’ultimo aspetto parlano i rapporti: colpisce la cura maniacale con cui ogni minimo sfregio al Capo era indagato, con indagini “celerissime”, perquisizioni, perizie calligrafiche, interrogatori stringenti seguiti dalla punizione implacabile.

Rapporto del Prefetto di Trieste, 6 giugno 1938. Il prefetto propone di punire un appartenente alla Milizia che ha dato del “macaco” al duce con 30 giorni di carcere e la diffida. Mussolini però applica la pena più grave del confino.

Un esempio? Ecco una denuncia redatta dai carabinieri di Termini Imprese (Palermo) il 20 aprile 1943: “Locali dopolavoro “G. Lo Faso” via Mazzini, veniva rinvenuto calendario recante effigie DUCE tenuta volo deturpata da baffi et barba, nonché da corna tipo cervo fatti matita. Indagasi per scoprire autore”.

Ci sarebbe da ridere se si pensa alla pochezza dei reati in questione: ma il fascismo era proprio una farsa tragica, nella quale una sola persona si ergeva a Dio, senza curarsi della giustizia e degli individui. E una claque gli reggeva il gioco: una claque fondamentale, non solo per il narcisismo del Capo, ma perché nessuno doveva svelare che il re era nudo, ovvero che aveva un ingiusto strapotere. Sarebbe caduto non solo il Sistema, ma anche una serie di scelte economiche e militari che si reggevano sul consenso delle masse, cementato dall’ingenuità, dalla paura e dalla convenienza.

Lo rivela, senza volerlo, uno dei rapporti citati nel libro: chi rideva del Duce faceva “un’azione corrosiva e deleteria ai danni del Regime” (…) mentre i lavoratori fascisti, “quantunque pressati dal grave disagio economico, marciano in fervorosa disciplina ed assoluta ubbidienza (…), servendo il Regime”.

Così la ricerca di Vacca svela l’inganno orchestrato dal Regime: il dittatore è a tal punto identificato con l’Ordine costituito, che chi attenta alla sua immagine è un “sovversivo”, quindi va punito sempre e comunque. Ed ecco perché le dittature odiano, più delle critiche, la satira: perché, come notava Michail Bacthin, il riso – e le pernacchie, le caricature, le parolacce – “abbassando” i potenti, li riportano al livello del popolo, restituendo l’equilibrio nella comunità.

Non a caso Gene Sharp, intellettuale esperto di disobbedienza civile, cita, nel libro “Come abbattere un regime” tra i modi per far crollare i governi totalitari, anche le opere buffe e di dileggio. Una risata, anzi: una parolaccia li seppellirà.

The post Le parolacce fanno paura ai dittatori first appeared on Parolacce.]]>
https://www.parolacce.org/2011/11/11/parolacce-contro-i-dittatori/feed/ 1