servilismo | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Thu, 16 Sep 2021 17:04:39 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png servilismo | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Le parolacce visionarie di Paolo Villaggio https://www.parolacce.org/2017/07/05/turpiloquio-film-fantozzi/ https://www.parolacce.org/2017/07/05/turpiloquio-film-fantozzi/#comments Wed, 05 Jul 2017 12:11:10 +0000 https://www.parolacce.org/?p=12553 Ci ha regalato personaggi indimenticabili, che popolano la nostra immaginazione: il perdente assoluto, Ugo Fantozzi;  il mediocre ragionier Filini, l’acida signorina Silvani, l’opportunista geometra Calboni… Ma Paolo Villaggio è entrato nelle nostre vite ancor più nel profondo: ha cambiato per… Continue Reading

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Una delle tipiche espressioni di Fantozzi: timoroso e angosciato.

Ci ha regalato personaggi indimenticabili, che popolano la nostra immaginazione: il perdente assoluto, Ugo Fantozzi;  il mediocre ragionier Filini, l’acida signorina Silvani, l’opportunista geometra Calboni
Ma Paolo Villaggio è entrato nelle nostre vite ancor più nel profondo: ha cambiato per sempre il nostro modo di parlare. Se oggi diciamo “traffico mostruoso”, “alito agghiacciante”, “rutto libero”, “megadirettore galattico”, “com’è umano lei”, “salivazione azzerata”, “lingua felpata” è merito della sua inventiva linguistica, oltre che letteraria.
E proprio il linguaggio è una chiave potente per aprirci le porte della sua arte. Comprese le parolacce, di cui è stato un maestro straordinario, coniando espressioni visionarie e immortali: coglionazzo, merdaccia, cagata pazzesca. Non sono volgarità gratuite ma – come vedremo in questo post – strumenti al servizio del suo mondo immaginifico. Un’arte popolare ma non banale: le iperboli linguistiche e il turpiloquio, infatti, sono state gli strumenti principali della sua satira grottesca. Le sue parolacce fanno ridere, ma allo stesso tempo rappresentano situazioni drammatiche: sfoghi di dolore, sopraffazioni, servilismo, povertà di spirito, cruda schiettezza, senso di rivalsa…

Vestaglione di flanella, frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato, rutto libero: il top della serata per Fantozzi (e molti italiani).

Nonostante le apparenze da clown, con la sua maschera Villaggio ha fatto un’operazione seria e impegnata: “Fingi di far ridere ma racconti qualcosa di tragico”, ha rivelato nell’ultima intervista rilasciata prima di morire. In particolare, ha messo alla berlina il classismo, le sopraffazioni, il servilismo dei “colletti bianchi” e in generale della società italiana. Villaggio aveva lavorato alla Cosider, una società metallurgica nella quale era addetto all’organizzazione di eventi aziendali. E aveva visto da vicino le meschinità della vita da impiegati.
Tanto che questo avvocato mancato (aveva iniziato gli studi di giurisprudenza) e appassionato di letteratura russa ha vinto il premio Gogol, un autore che con lui aveva molte somiglianze.
Villaggio ha descritto la nostra società con cinismo, impersonando un impotente totale. Ovvero l’angoscia principale dell’uomo e del maschio in particolare: ecco perché, spesso, i film di Fantozzi fanno ridere noi uomini (perché esorcizziamo i nostri fantasmi), ma meno le donne: più inclini all’empatia, provano più pena che divertimento nel guardare i tormenti di questo perdente per antonomasia. Tanto che “fantozzi” è entrato nel vocabolario italiano, indicando “l’uomo incapace, goffo e servile, che subisce continui fallimenti e umiliazioni, portato a fare gaffes e a sottomettersi ai potenti”.
Nei riquadri qui sotto ho riunito le parolacce più emblematiche di Villaggio, con i video divertenti tratti dai suoi film: buona visione!

PAROLIERE (CENSURATO) CON DE ANDRE'

Il turpiloquio ha segnato l’esordio artistico di Villaggio già nel 1962, ben prima che inventasse Fantozzi. Villaggio, che all’epoca aveva 30 anni, era a casa insieme a un altro celebre genovese, il suo amico Fabrizio de Andrè, ad attendere che le rispettive mogli partorissero: questi due artisti erano così in sintonia da diventare genitori in contemporanea.
De Andrè aveva fatto ascoltare a Villaggio una melodia che aveva appena composto: in pochi giorni, Villaggio, appassionato di storia, le adattò un testo, dedicandolo a Carlo Martello, re dei Franchi, appena tornato dalla battaglia di Poitiers. Nacque così la canzone “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”.
Già a quell’epoca Villaggio era appassionato di parodie: in un linguaggio aulico, prende in giro l’eroe che torna vittorioso dalle gesta belliche e si comporta da perfetto cialtrone con una donna di facili costumi. Quando la donna chiede di esser pagata per le sue prestazioni, Carlo sbotta:
«È mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane? Anche sul prezzo c’è poi da ridire: ben mi ricordo che pria di partire v’eran tariffe inferiori alle tremila lire»
Un vero azzardo per quell’epoca, tanto che un pretore siciliano li denunciò per linguaggio contrario al buon costume. Tra l’altro, il testo originale scritto da Villaggio conteneva un’altra parolaccia, che – su richiesta della casa discografica – avevano già cassato nel finale della canzone: il verso “frustando il cavallo come un mulo, quella gran faccia da culo” fu corretto in “frustando il cavallo come un ciuco, tra il glicine e il sambuco”.
Villaggio aveva conosciuto De Andrè qualche anno prima. “Io ero un ragazzino incazzato che parlava sporco” ricordava Villaggio. “Gli piacevo perché ero tormentato, inquieto, ed egli lo era altrettanto. Solo che era più controllato, forse perché era più grande di me: allora subito si investì della parte del fratello maggiore e mi diceva: ‘Guarda tu le parolacce non le devi dire, tu dici le parolacce per essere al centro dell’attenzione, sei uno stronzo”.
Ciò, comunque, non dissuase De André dall’usare la parola “puttana” nelle sue canzoni successive come “Via del Campo” (“via del Campo c’è una puttana…”).

LA MAESTRIA COMICA DI FRACCHIA

All’inizio, Villaggio ha trovato il suo filone nella satira psicologica. Incarnava i panni di un impiegato timidissimo, Giandomenico Fracchia. Ecco come lo presentò lo stesso autore: “era un nevrotico, uno che di fronte ad una ragazza che gli piaceva non riusciva a spiccicar parola, e di fronte al capufficio si cagava addosso“. Celebri gli sketch con il capufficio irascibile impersonato da Gianni Agus e i goffi tentativi di Fracchia di rimanere seduto sulla poltrona sacco.
Ma in questo blog lo voglio ricordare per uno degli sketch più volgari e allo stesso tempo più comici del cinema italiano. La scena di Fracchia al ristorante “Gli incivili”.
Il locale è la parodia di un ristorante vero, “La parolaccia” di Trastevere, Roma, dove i camerieri usano un linguaggio sboccato coi clienti. Tutto un programma il menu del locale: saltinculo alla mignotta, piselloni alla mandrilla, fagioli alla scureggiona… In questo ristorante arriva Fracchia in compagnia della signorina Corvino (Anna Mazzamauro) che tentava di sedurre. Poco dopo arriva il commissario di polizia Auricchio (Lino Banfi), sulle tracce della Belva umana, un pericoloso criminale sosia di Fracchia. Si crea così un mix esplosivo:

MEGAPRESIDENTI E INSULTI ASIMMETRICI

Il passaggio da Fracchia a Fantozzi è un salto di livello: Villaggio passa dalla satira psicologica a quella sociale. E la società italiana descritta da Villaggio (sia al lavoro che fuori) è ferocemente classista: in alto ci sono i ricchi, gli imprenditori, e in particolare i megapresidenti, tutti di origini nobili, con “poltrone in pelle umana”, limousine e segretarie in topless, e potere di vita e di morte sui dipendenti. In basso, la gente comune che si arrabatta e tenta in tutti i modi l’arrampicata sociale. Un pessimismo senza scampo: nulla è cambiato dal Medioevo raccontato nella canzone di Carlo Martello…
Villaggio dipinge questo scenario senza girarci intorno. In “Fantozzi contro tutti” fa dire a uno dei capi, il marchese conte Piermatteo Barambani: “La mia famiglia siete voi poveracci, voi disgraziati. Voi inferiori: questa è la parola giusta. I miei cari inferiori! Perché io, come ben sapete, amo molto i pezzenti”.
Insomma, Villaggio metteva a nudo (per ridicolizzarli) gli abusi di potere. Tanto che, già nella litania di titoli più o meno nobiliari di cui spesso si fregiano i capi, inseriva espliciti indizi della loro personalità: sulla targa della porta di Barambani, infatti, spicca la sequenza di titoli tutt’altro che accademici: “Gr. ladr. farabut. Gr. Croc. mascalz. assass. figl. di gr. putt. marchese conte…”.
Anche l’uso di parolacce riflette le asimmetrie di potere: le volgarità sono concesse ai potenti, ma negate ai sottoposti. Anzi, fra i privilegi dei capi c’era proprio quello di poter insultare unilateralmente gli impiegati: Fantozzi, ad esempio, viene chiamato coglionazzo o merdaccia. Da notare l’uso dei suffissi (ne ho parlato qui), che rafforzano insulti già di per sè pesanti. Un’ulteriore prova del gusto di Villaggio per l’iperbole.

Fantozzi incassa le offese in modo passivo. Le poche volte che tenta di reagire, il povero travet deve pagare un prezzo molto alto: in “Fantozzi” (1975) dopo aver dato l’ennesima testata contro la statua della madre del direttore dell’ufficio raccomandazioni, l’Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani, il nostro eroe reagisce prendendola a calci e chiamandola “Puttana! Puttana! Vecchia stronza!”.
Ma il suo sfogo arriva all’orecchio di Catellani, e davanti a lui, e ai colleghi in sala mensa, Fantozzi è costretto a rimangiarsi gli insulti: “Alludevo a mia moglie!”. E a quella sottomissione se ne aggiunge subito un’altra: accetta di giocare a biliardo contro Catellani, che nessuno aveva il coraggio di battere. Fantozzi, pur essendo molto bravo, gioca volutamente male, e Catellani infierisce: “Il suo è culo, la mia è classe”, e continua a chiamarlo “coglionazzo”.
Ma al 38esimo “coglionazzo”, dopo aver incrociato lo sguardo della moglie, Fantozzi reagisce e ribalta la partita, salvo poi darsi alla fuga:

SFOGHI LIBERATORI

Anche un perdente assoluto come Fantozzi cerca di mantenere la propria dignità. Ecco perché non mancano – e sono diventate memorabili – le scene in cui l’eroe tragicomico reagisce alle sopraffazioni insultando i potenti. Un giorno (“Fantozzi contro tutti”) esprime un desiderio: “Il megapresidente è uno stronzo, è. Certe volte mi vien voglia di scriverlo in cielo”. Per una beffa del destino, il desiderio si avvera, e la scritta campeggia nell’azzurro. In ditta suonano tutti gli allarmi, e dopo un’accurata perizia calligrafica, Fantozzi viene identificato e redarguito. Graffiante la scena in cui Fantozzi tenta di giustificarsi col “megapresidente arcangelo” in persona: “Ma io non l’ho scritto, l’ho solo pensato!” dice. “E’ questo il suo errore” gli risponde il megapresidente. “Lei non deve pensare”: più satira di così.
Inevitabile il finale umiliante: Fantozzi è costretto, davanti alla moglie, a inserire il proprio nome in quella scritta, al posto di quello del suo datore di lavoro.

Altrettanto celebre, per non dire storico, lo sfogo di Fantozzi dopo essere stato costretto a vedere “terrificanti e lunghissimi” film impegnati da parte di uno dei suoi capi, Guidobaldo Maria Riccardelli. Proprio la sera della finale dei Mondiali di calcio, tutti gli impiegati sono costretti a vedere le 18 bobine della “Corazzata Kotiomkin” (parodia della “corazzata Potëmkin“). A fine proiezione, Fantozzi non sta più nella pelle e chiede di intervenire al dibattito: “Chissà quale profondo giudizio estetico avrà maturato in tutti questi anni” lo provoca Riccardelli. E Fantozzi esplode nel celebre: “Per me la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!”, frase seguita da “92 minuti di applausi”. Lo sfogo liberatorio galvanizza tutti gli impiegati, che una volta tanto si ribellano: legano Riccardelli e per 2 giorni lo costringono a vedere B-movies “Giovannona coscialunga”, “L’esorciccio” e “La polizia si incazza”. Ma alla fine la polizia si incazzò davvero, e gli impiegati furono costretti a recitare in prima persone le scene della “Corazzata Kotiomkin”…

IL TRIONFO DELL’IGNORANZA

Fra i modi di dire resi celebri da Villaggio, c’è lo storpiamento dei congiuntivi: venghi, vadi, dichi… Un modo di mostrare non solo l’innaturalezza del “lei”, ma soprattutto l’affettazione dei suoi personaggi che, nel volersi dare un tono, mostravano in realtà la propria ignoranza. Messa alla berlina anche attraverso il turpiloquio in una scena di “Fantozzi contro tutti”. Fantozzi, insieme a Filini, faceva da improbabile mozzo sulla barca del marchese conte Barambani. E a un certo punto riceve un ordine in gergo marinaresco: “Cazzi quella gomena!”, cioè tenda quel cavo. Il gioco di parole è ovvio ma Villaggio riesce a farne uno sketch divertente:

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La fenomenologia del leccaculo https://www.parolacce.org/2015/11/20/significato-leccaculo/ https://www.parolacce.org/2015/11/20/significato-leccaculo/#comments Fri, 20 Nov 2015 09:00:56 +0000 https://www.parolacce.org/?p=8745 Le parole che indicano gli adulatori sono molto interessanti per un linguista: sono tutti spregiativi, e testimoniano il disprezzo verso chi fa lodi insincere. Ma non solo. Gli appellativi riservati ai lecchini sono un piccolo trattato di antropologia: descrivono come si comportano,… Continue Reading

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Il lecchino: sempre prono ai voleri del capo (Shutterstock).

Le parole che indicano gli adulatori sono molto interessanti per un linguista: sono tutti spregiativi, e testimoniano il disprezzo verso chi fa lodi insincere. Ma non solo. Gli appellativi riservati ai lecchini sono un piccolo trattato di antropologia: descrivono come si comportano, aiutandoci a riconoscerli. Il che è utile, visto che oggi ce n’è una vera epidemia.
Cominciamo dai nomi degli adulatori, tutti carichi di disprezzo. La parola adulazione (“volgere verso”) evoca lo scodinzolare dei cani; lacchè era il domestico che seguiva o precedeva a piedi la carrozza del padrone: equivale a servo del potere. Ruffiano (chi, per denaro, agevola gli amori altrui; ma anche chi adula i potenti, sollecitandone la vanità, per ottenerne i favori) deriva da “rufus“, coi capelli rossi: in passato si pensava che le prostitute romane avessero i capelli rossi; oppure deriva dalla stessa radice di “arraffare”. Solo la parola lusinga fa eccezione in questo panorama di spregiativi, perché è un termine più neutro: deriva da lode. Piaggeria, invece, deriva da piaggiare: navigare vicino alla spiaggia, assecondare.
In spagnolo si dice “hacer la pelota” (fare la palla) per riferirsi a chi passa la palla per compiacere qualcuno (ma pelota significa anche puttana). L’adulatore, insomma, è come una puttana: ti lusinga sperando di incassare qualcosa.

Vederlo in azione è rivoltante: mente al punto da passare sopra la propria dignità pur di ottenere qualche vantaggio (o di non pagare lo scotto della sincerità). Ecco perché quest’estate la Cassazione ha riconosciuto che dare del leccaculo è un’ingiuria perché ha una “intrinseca valenza mortificatoria della persona”. Ed è sempre stato così: già Dante Alighieri collocò gli adulatori nell’8° cerchio dell’Inferno, quello degli ingannatori. L’ottavo cerchio è il penultimo dell’Inferno: per Dante, l’adulazione è più grave di tutte le forme di violenza, omicidio compreso, ed è superato solo dal tradimento. Ecco perché la pena degli adulatori consisteva nello stare immersi nella cacca fino al collo:

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi [latrine] parea mosso.

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dante

Gli adulatori danteschi di Gustav Dorè.

CONDANNATI ALL'ETERNA DISSENTERIA
Da dove arrivava lo sterco in cui sguazzavano i dannati dell’Inferno? Secondo Leonardo Cappelletti, vicepresidente dell’Unione Fiorentina Museo Casa di Dante, quegli escrementi erano prodotti da loro stessi. “La pena cui sono sottoposti all’inferno le anime degli adulatori non consisterebbe soltanto nell’essere immersi nello sterco quanto dall’essere afflitti da una continua ed eterna dissenteria, secernendo per l’eternità l’ ‘umore’ organico più immondo. Certamente questo è uno dei luoghi infernali più sozzi, vili e scurrili che Dante ci descrive, ma il contrapasso e chiaro: come in vita gli adulatori avevano fatto uscire dalla bocca parole suasive e dolci per ingraziarsi il prossimo, adesso, per contrapposizione faranno uscire merda dal loro deretano”. In questi versi (112-136, Canto XVIII) Dante sfoga tutto il suo disprezzo verso gli adulatori, gli uomini più irrimediabilmente corrotti, scrivendo una delle poche parolacce della “Commedia”: un registro basso per una bassezza morale. Ma anche per dare al lettore un’idea concreta e non addolcita della realtà. Senza giri di parole:
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.
Era Alessio Interminelli da Lucca. Dante lo cita per nome, cognome e città: per smerdarlo ulteriormente e definitivamente. Che cosa avesse fatto per meritare tanto rancore, non lo sappiamo: sappiamo solo che Alessio Interminelli  era un nobile lucchese vissuto davvero ai tempi di Dante. Il dannato aveva domandato al poeta perché lo fissasse, e Dante gli risponde di averlo riconosciuto, citandolo per nome, cognome e indirizzo. E gli fa notare di averlo conosciuto quando aveva i capelli asciutti, non inzozzati di cacca come ora:
Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però [perciò] t’adocchio più che li altri tutti».
Alessio lo riconosce, ma Dante non smette di umiliarlo: chiama la sua testa “zucca” e gli fa dire un autoritratto comico e impietoso:
Ed elli allor, battendosi la zucca: 
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’ io non ebbi mai la lingua stucca [stanca]».
In due versi, il ritratto dei lecchini è bell’e fatto. Campioni instancabili di lingua. Una capacità condivisa da un’altra categoria umana: le prostitute. Dopo Alessio, infatti, Dante vede una donna sudicia e scapigliata che si graffia là con le unghie piene di sterco: la prostituta Taide (un personaggio letterario dell’Eunuchus di Terenzio), che aveva fondato il suo mestiere sull’adulazione. Anche la sua descrizione è impietosamente realista:
Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe [spingi]», 
mi disse «il viso un poco più avante, 
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe
di quella sozza e scapigliata fante 
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taide è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie 
grandi apo [presso di] te?”: “Anzi maravigliose!”. 
E quinci sien le nostre viste sazie».

L’analisi linguistica dei termini riservati agli adulatori svela altri aspetti della loro antropologia. E cioè che sono anche più pericolosi degli stronzi, di cui parlavo qualche tempo fa; perché a differenza degli stronzi, gli adulatori si mimetizzano. Camuffano la loro cattiveria sotto modi gentili e sinuosi. Arrivano a umiliarsi e a violentare la verità pur di ottenere qualche vantaggio personale. Sono proprio questi modi insinceri a caratterizzarli, anche nel lessico. Un vocabolario che copre tutti i sensi: tatto, gusto, olfatto, udito, come ha acutamente osservato il saggista Richard Stengel ne “Il manuale del leccaculo” (Fazi).
1) Tatto: è evocato dai termini allisciare, che ha un corrispettivo nell’inglese flattery (letteralmente appianare) e nel francese flatter; e da blandire, cioè carezzare. Lisciare denota l’appiattimento di un’asperità, rendendola più facile da trattare. Si accarezza l’ego di una persona con le parole. Si solletica la vanità altrui, si dà una pacca sulla spalla. Oppure, da un altro punto di vista, sono gli adulatori sono persone untuose, che usano parole alla vaselina: non provocano attriti, ma ti lasciano sporco.
2) Vista: pensate al termine moina, parola derivata dal francese che denota l’aspetto del volto, la faccetta amichevole dei ruffiani.

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Il leccapiedi (Shutterstock).

3) Gusto: quelle degli adulatori sono parole caramellose, zuccherate, melliflue, imburrate. E molti termini indicano il succhiare, il leccare: leccaculo, baciaculo, leccastivali, leccca-lecca, slurpatore, succhiabanane, sbavatore. Tutte metafore che derivano dall’antica pratica, nelle corti,  del bacio dell’anello o dei piedi (l’ano nella forma più bieca di servilismo). In inglese, l’espressione brown nose, naso marrone, indica proprio i leccaculo incalliti e senza vergogna: “Chi arriva a sporcarsi il naso lo fa con una specie di entusiasmo ossequioso, di solito senza neanche avere la consapevolezza di apparire odioso”, scrive Stengel. Lo stesso papa Francesco, di recente, ha detto che non sopporta gli adulatori, che in Argentina sono chiamati “lecca calze”.
4) Udito: la voce suadente (anzi: flautata) degli adulatori è evocata dal verbo sviolinare.

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GIORNALISTI? NO, CORTIGIANI
Francia, 1815. Il giornale “Le Moniteur”, fedele al re Luigi XVIII, racconta così la marcia verso Parigi del nemico Napoleone, fuggito dall’isola d’Elba:
 9 marzo: L’antropofago è uscito dalla sua tana.
 10 marzo: L’orco della Corsica è appena sbarcato a Golfe-Juan.
 12 marzo: Il mostro ha dormito a Grenoble.
 18 marzo: L’usurpatore ha osato avvicinarsi alla capitale.
 22 marzo: Ieri sera Sua Maestà Imperiale ha fatto il suo ingresso al palazzo delle Tuileries, in mezzo ai suoi fedeli sudditi. Niente può superare la gioia universale…

Travaglio_SlurpfascettaL’aneddoto è raccontato da Marco Travaglio nel libro “Slurp!” (Chiarelettere). Oggi a 2 secoli di distanza, la situazione non è cambiata. Per raccontare la “zerbinocrazia” dei cronisti italiani negli ultimi 20 anni, Travaglio ha riempito quasi 600 pagine: i giornalisti hanno incensato tutti, da Di Pietro a Bossi, fino a Berlusconi, D’Alema, Monti e Renzi. Ma il problema, diceva Joseph Pulitzer, è che una stampa mercenaria, prima o poi, creerà un pubblico ignobile.
Perché giornalisti e intellettuali sono così asserviti? L’ha spiegato Indro Montanelli nella “Storia d’Italia”: “la cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe,visto che il Principe era, in un paese di analfabeti il suo unico committente. E si faceva ripagare con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i suoi privilegi. Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è mai uscita dai suoi  circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la  gente. E istintivamente cerca ancora un Principe di cui mettersi al servizio. Scomparsi quelli di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere, cioè dai partiti. E questo spiega la cosiddetta “organicità” dell’intellettuale italiano, sempre schierato  dalla parte verso cui soffia il vento”.
Vero, ma non è tutto. La piaggeria è dovuta anche a due altri fattori tipici dell’Italia: da un lato, la scarsità di editori “puri”, cioè che facciano solo gli editori. La gran parte fa affari anche in altri settori, nei quali l’appoggio politico è determinante. Dall’altra, il percorso poco definito della carriera di giornalista, che lascia aperti molti varchi a chi non ha particolari competenze o meriti. Se non la fedeltà al padrone.

manuale-leccaculo-light-“L’adulazione corrompe chi la compie e chi la riceve”

Gli antichi Greci giudicavano l’adulazione una tecnica illecita perché sfrutta le debolezze umane, portando alla distruzione della convivenza civile. A loro, inventori della democrazia (anche se riservata ai soli ricchi), non garbava l’idea che alcuni si considerassero superiori e che altri si abbassassero davanti ai loro simili. Ecco perché detestavano l’adulazione; la ritenevano una forma di autoumiliazione, qualcosa di radicalmente antidemocratico.
Ma la loro posizione fu un’eccezione nella Storia, scrive Stengel. Dai Romani ai sovrani assoluti del 1600, fino alla vanitosa e insicura società di oggi, la piaggeria ha sempre trionfato. Soprattutto oggi: in una società governata dalla finanza e dai robot, conta più la fedeltà ai superiori che la competenza: le critiche – sul lavoro, ma anche in politica – sono viste con fastidio, perché rischiano di mettere in discussione o di ostacolare uno spettacolo che, invece, “deve continuare”. Ecco perché spesso ci comandano persone incapaci ma totalmente “organiche” al potere. “Lecca” e farai carriera.
Ma secondo molti studiosi, un minimo di adulazione è inevitabile: è la cortesia, spesso ipocrita, della vita quotidiana. Ne ho parlato sul nuovo numero di Focus: i complimenti sono uno dei collanti invisibili della società, perché tutti abbiamo bisogno di un po’ di considerazione e di gentilezza, foss’anche un po’ finta. Insomma, il lecchino si nasconde anche dentro ognuno di noi. Meglio saperlo che far finta di nulla.

Locandina 03-2014

 

 

PS: coincidenza. Anche il “Vernacoliere” in edicola questo mese dedica la copertina ai leccaculo. L’avevo detto che è un tema di scottante attualità!!!

 

 

 

 

 

Di lecchini ho parlato alla Radio Svizzera Italiana (Rsi) come ospite della trasmissione “Tutorial” condotta da Daniele Oldani, Mirko Bordoli ed Enrica Alberti. Una puntata che ha acceso molto interesse fra gli ascoltatori. Potete ascoltare la puntata cliccando sul player qui sotto (è divisa in due parti):

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