simboli sessuali | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Sun, 20 Jun 2021 14:51:05 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png simboli sessuali | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Perché le parolacce non possono diventare egualitarie https://www.parolacce.org/2021/05/09/turpiloquio-inclusivo/ https://www.parolacce.org/2021/05/09/turpiloquio-inclusivo/#comments Sun, 09 May 2021 17:54:04 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18659 Possiamo cancellare il sessismo dalle parolacce? La provocazione è stata lanciata l’8 marzo per la festa della donna. Un’agenzia pubblicitaria, la M&C Saatchi di Milano, ha fatto una campagna, “Sw(h)er words”, per “femminilizzare” alcune espressioni volgari italiane. Se una donna… Continue Reading

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Uno dei poster della campagna Sw(h)er words di M&C Saatchi.

Possiamo cancellare il sessismo dalle parolacce? La provocazione è stata lanciata l’8 marzo per la festa della donna. Un’agenzia pubblicitaria, la M&C Saatchi di Milano, ha fatto una campagna, “Sw(h)er words”, per “femminilizzare” alcune espressioni volgari italiane. Se una donna volesse respingere uno scocciatore, non dovrebbe dirgli “Mi hai rotto le palle”, poiché non ha i testicoli. Sarebbe più corretto, anzi, egualitario se dicesse “Mi hai rotto le tube”. 

Insomma, dopo aver inserito la versione femminile di molte professioni (“sindaca”, “rettrice”, “architetta”), ora dovremmo fare la stessa operazione anche con le parolacce. E perché? L’iniziativa non è una provocazione fine a se stessa. Si rifà a un movimento, il “linguaggio inclusivo” avviato nel 1977 in Francia, dalla scrittrice femminista Benoîte Groult: nel libro “So be it” lanciò una battaglia per femminilizzare i nomi delle professioni, alo scopo di rimarcare che non erano appannaggio esclusivo degli uomini.  Cambiare la lingua ci costringe, insomma, a cambiare la nostra mentalità

Questo principio si può applicare al turpiloquio? La risposta è in larga misura no. Sarebbe un’operazione fallimentare in partenza, perché non tiene conto delle specificità delle parole volgari.

Le parolacce sono parole emotive

Film commedia del 2005 di Mike Bigelow.

Rendere inclusivo il turpiloquio è un’operazione molto più complessa rispetto a femminilizzare i nomi delle professioni. Per queste ultime basta per lo più cambiare il suffisso, cioè la vocale finale delle parole, che in italiano indica il genere (-o, -i per il maschile, -a -e per il femminiie). Il “sindaco” diventa facilmente “sindaca”. E, in effetti, alcuni insulti sono diventati inclusivi nel corso della storia: da qualche tempo, ad esempio, “puttana” ha il corrispettivo maschile “puttano” per designare gli uomini che si prostituiscono, fisicamente o moralmente: persone senza scrupoli e inclini a compromessi. 

Ma l’operazione è ben più difficile, se non impossibile per le imprecazioni: se pestiamo il mignolo del piede contro uno spigolo, urleremo “Porca puttana!” e non ci sarà verso di correggerlo in un “Porco puttano!”, nemmeno se siamo profondamente convinti del suo egualitarismo. Perché in quei casi, cioè quando sono in gioco emozioni forti (rabbia, dolore, sorpresa) le parolacce funzionano come un riflesso neurologico e non sono controllabili dal pensiero razionale.
Queste espressioni sono sedimentate nella nostra cultura da secoli e sono registrate nelle aree emotive del nostro cervello (come raccontavo in questo
articolo) perciò sono difficilmente modificabili: non bastano le buone intenzioni razionali, occorrerebbero mesi di allenamento quotidiano per condizionarsi a usare nuovi modi di dire. Ecco perché anche la femminista più convinta, di fronte a una persona che le fa perdere la pazienza, esploderebbe in un “Che rompicoglioni!” piuttosto che “rompitube”.

Molte espressioni hanno origine anatomica, non discriminatoria

In un mio passato articolo ho mostrato che in molte lingue (inglese, francese, spagnolo, portoghese) esiste un equivalente di “rompere le palle”. Sono tutte culture maschiliste? Può anche darsi, ma questa espressione nasce per motivi fisici: i genitali maschili sono esterni, a differenza di quelli femminili, interni. E’ un dato di fatto anatomico, non culturale, che un calcio sui testicoli produca molto più dolore di uno sulla vulva. I genitali maschili sono molto più vulnerabili e delicati di quelli femminili, dunque ben si prestano a indicare una zona anatomica sensibile. Perciò sono usati come metafore per esprimere il dolore, il fastidio in molte espressioni: “rompere il cazzo”, “rompere i coglioni”, “stare sulle palle”, “stare sul cazzo” eccetera. 

Altro slogan della campagna di M&C Saatchi.

Anche “far girare le palle” ha una base fisica: la torsione testicolare, una patologia in cui il funicolo spermatico (il cordone che collega il testicolo all’inguine) ruota intorno al proprio asse, causando dolori lancinanti. Lo stesso dicasi per l’espressione “avere le palle piene” (= essere stufo): la sua origine si riconduce alla fastidiosa saturazione dei testicoli dovuta a prolungata astinenza sessuale. E “avere due palle così” (= noia) si potrebbe ricollegare all‘orchite, l’ingrossamento patologico dei testicoli. A differenza degli insulti, che nascono per descrivere in modo distorto un’altra persona (allo scopo di svilirla), i termini osceni sono descrittivi: per questo, in buona parte, le parolacce sono il linguaggio della spontaneità, della sincerità per quanto cruda. Diverse ricerche (ne parlo in questo articolo) hanno dimostrato che chi dice parolacce è spesso più sincero.
Qualcuno ha tentato di applicare il linguaggio inclusivo anche all’atto sessuale: come ricordavo in questo articolo, gran parte dei verbi che descrivono l’atto sessuale sono transitivi (“ho scopato Maria“), e indicano un atto di sopraffazione. Il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva, sfruttandola o danneggiandola. Perciò alcuni hanno proposto invece di corregere questa prospettiva usando verbi intransitivi (fare sesso, fare l’amore, andare a letto insieme, avere un rapporto): in quest’ottica il sesso diventa
un’attività, non meglio specificata, cui si dedicano insieme due partner su un piano di uguaglianza. Ma sono tentativi culturali di prendere le distanze dal nostro lato animalesco.

Non sempre, comunque, l’anatomia del turpiloquio è scientificamente corretta: il pene è diventato simbolo di forza e vigore, ma a ben vedere è ben più forte (o meglio, resiliente) la vagina, capace di tollerare gli sforzi del parto. Ma l’espressione “a figa dura” (proposta dalla campagna pubblicitaria) non riesce a descrivere questo aspetto, anzi suona innaturale se non ridicola.

E anche se il clitoride è il corrispettivo anatomico del pene, dire “non rompermi il clitoride” (anche’essa proposta dalla campagna) suona artificioso perché è difficile – nella realtà – ledere questo organo. “Rompere le tube” ha lo stesso problema, oltre a essere anatomicamente errata: l’equivalente dei testicoli (gonadi maschili), nelle donne, sono le ovaie (gonadi femminili): “non rompermi le ovaie” sarebbe dunque un’espressione più corretta. Anche se è molto più realistico riuscire a “rompere” (ledere) i testicoli che le ovaie: per il primo risultato basta un calcio ben assestato, mentre per rompere le ovaie occorrerebbe un intervento chirurgico.
Difficile, invece, valutare la versione femminile di “uomo con le palle”, cioè coraggioso, deciso, forte. E’ vero che l’espressione si declina anche al femminile (“è una donna con le palle”), ma suona artificiosa, sia anatomicamente che culturalmente: non è detto che il coraggio o il decisionismo siano attributi esclusivamente maschili. Si potrebbe dire “donna con le ovaie”, ma resta il fatto che la capacità di generare è simbolicamente meno collegata alla forza di quanto lo sia quella di fecondare: ma potrebbe essere un limite della nostra cultura moderna, dato che nell’antichità era molto diffuso il culto di divinità femminili legate alla generazione.
E’ invece adeguato dire “Mi cadono le tette” come equivalente femminile di “Mi cadono le palle”. Infatti,  durante la vecchiaia, il seno diventa cadente tanto quanto i testicoli.

Ma che bisogno c’è di inventare nuovi modi di dire egualitari artificiosi quando li abbiamo già? Se le metafore sessuali maschili o femminili vi sembrano limitanti, potete usare la metafora dei glutei: “quel tipo è un dito al culo”, “mi sta sul culo”, “è uno stracciaculo”, “mi ha fresato il culo”, eccetera. Il culo è unisex, quindi “politicamente corretto” (tranne quando si riferisce all’omosessualità). 

Le parolacce sono sessiste per natura (anche verso l’uomo)

Pretendere che le parolacce siano egualitarie è come aspettarsi che una guerra sia innocua. Le parolacce, infatti, sono sessiste (e razziste, omofobe, classiste) per natura: sono colpi sotto la cintura, perché servono ad abbattere un avversario con un giudizio sommario, e come tale sempre distorto

Un romanzo uscito nel 2020 (Le Mezzelane editore).

Ma attenzione. Le parolacce non sono solo misogine, cioè sessiste verso le donne: lo sono pure verso gli uomini, sono anche misantrope. Avevo affrontato questo argomento in un altro articolo, ma qui voglio evidenziare altri aspetti più centrati sull’anatomia sessuale. 

Fateci caso. Per disprezzare una persona irresponsabile, egoista, superficiale diciamo che è un “cazzone”, un “testa di cazzo”. Se è poco intelligente, lo definiamo un “coglione”, non un “figone”: altrimenti gli faremmo un gran complimento.
L’italiano, infatti, è fallocentrico in ambo i sensi: i genitali maschili possono essere usati sia come metafore di vigore (“cazzuto”, “con le palle”, “incazzato”), ma anche come spregiativi (“testa di cazzo”, “cazzone”, “coglione”, “palloso”). I genitali femminili, invece, sono usati per esprimere attrattività e bellezza (“figo”, “figa”, “figona”, “figone”), a differenza del francese e dell’inglese, dove i genitali femminili (rispettivamente “con” e “cunt”) sono usati come insulti pesanti. L’unica eccezione in italiano è il termine “fesso” che deriva da “fessura” (vulva) in senso spregiativo.
Quindi non bisogna lasciarsi prendere da facili isterismi (o da cazzonaggine, se vi pare più equo) nel giudicare il turpiloquio come maschilista.

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esibizionistManifestazioni di piazza e negli stadi. Attacchi sui giornali. Insulti politici e sportivi. E scandali: per aver tirato in ballo le banane, Carlo Tavecchio ha rischiato di non diventare presidente della Figc ed è stato condannato a 6 mesi di squalifica dalla Uefa. Ma perché negli ultimi anni la banana è diventata un simbolo così potente?

La storia (culturale) della banana è piuttosto interessante, e riserva molte sorprese.

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La copertina di Warhol per i Velvet Underground.

L’uso della banana come simbolo fallico ha una lunga storia. Uno dei primi esempi fu, nel 1967, la copertina disegnata da Andy Warhol per “The Velvet underground & Nico”, un album rock. Sulla copertina del disco c’era una banana: non compariva né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo la firma dell’artista. Le prime copie del disco invitavano chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” ; togliendo un adesivo si poteva vedere una banana rosa shocking, a ricordare un membro maschile. L’album, però, non fece scandalo perché la realizzazione di quella copertina risultò troppo dispendiosa e ne rallentò la produzione.

Nel 2000 fece successo una canzone degli anni ’60, “La banana”: un brano fortemente allusivo ma allegro, cantato dal cubano Michael Chacon: “el unico fruto del amor, la banana, la banana de mi amor”. Fu usato in uno spot della Peugeot e diventò un tormentone.

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La campagna anti-bullismo di Oliviero Toscani.

Un altro esempio creativo è una campagna di Oliviero Toscani contro il bullismo, commissionata nel 2009 dalla Provincia di Bolzano. Nel manifesto, l’uomo è rappresentato da una virile banana, e il bullo da un infantile pisello. Come dire che il vero macho non è il bullo. Due vegetali usati come simboli sessuali, e non sono gli unici: avevo già scritto qui che su 744 termini usati in italiano per descrivere l’organo sessuale maschile, il 13% sono vegetali (piante, frutti, verdure: ci sono anche la carota, il cetriolo, la fava, la pannocchia…).

Negli ultimi anni, però, la banana è diventata anche un simbolo di razzismo: l’idea è nata tra i tifosi di calcio inglesi, che nel 1987 tirarono una banana in campo a John Barnes, calciatore giamaicano che all’epoca giocava nel Liverpool. Un gesto di disprezzo, come dire: “sei una scimmia, mangiati questa banana”. Quando si vuole insultare un’altra persona, infatti, basta paragonarla a un animale (porco, somaro, cane, bestia, balena, troia, vacca, verme, pidocchio, vipera, oca, conigli, mollusco…), nella credenza – tutta da dimostrare – che gli animali siano inferiori a noi. Oltre al fatto che gli animali servono spesso a descrivere determinati tratti caratteriali umani: l’ostinazione, l’ottusità, la promiscuità, la codardia…

Da allora, gettare banane negli stadi (o esporre palloncini a forma di banana sugli spalti) è diventata un’abitudine virale: l’hanno fatto i tifosi dello Zenit di San Pietroburgo nei confronti dei giocatori africani dell’Olympique Marsiglia nel 2008, e poi la moda si è diffusa in tutto il mondo. Eppure, la banana non è affatto di origine africana: è nata in Asia, e in particolare in Nuova Guinea dove è stata domesticata, per poi diffondersi in Africa e in Europa frazie ai mercanti arabi. Arrivò nelle Americhe grazie ai colonizzatori portoghesi.

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“Furba come una scimmia: Taubira ritrova la banana”. Copertina di “Minute”, giornale francese di destra.

Ma tant’è: lanci sprezzanti di banane sono stati fatti nei confronti dell‘ex ministro Cecile Kyenge e del ministro della Giustizia francese Christiane Taubiria, sollevando forte indignazione.
Ma quest’anno c’è stato un calciatore che è riuscito a disinnescare questo meccanismo con l’ironia: il calciatore brasiliano Dani Alves (Barcellona), durante una partita contro il Villareal, ha raccolto dal campo di gioco una banana che gli era stata lanciata. E l’ha mangiata, continuando a giocare.

«Il razzismo è un problema. Ma bisogna prendere le cose con una dose di umorismo perché non è facile cambiare le cose, Se non diamo importanza a queste persone, non raggiungeranno il loro obiettivo». Un gesto semplice ma efficace, che ha spinto molti personaggi famosi – compreso il premier Matteo Renzi e l’ex ct Cesare Prandelli – a farsi fotografare mentre mangiavano una banana.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Ma ci sono altri usi simbolici della banana: negli anni del cinema muto, la persona che scivolava sulla buccia di banana era uno dei meccanismi comici più utilizzati.
E proprio su una “buccia di banana” è scivolato Tavecchio, che durante un’assemblea della Lega Dilettanti, parlando della facilità con cui i calciatori extracomunitari militano nelle squadre italiane, ha detto: «Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…».

La frase ha sollevato uno scandalo internazionale: persino la Fifa e l’Unione europea hanno stigmatizzato l’affermazione. Che aggiunge un ulteriore elemento di razzismo, secondo il quale chi mangia le banane è da disprezzare in quanto povero e non gastronomicamente evoluto. Un meccanismo di disprezzo che conosciamo bene: molti stereotipi razzisti si basano sullo stesso concetto: basti pensare a polentone (mangia polenta), spaghetti, maccarone, e ai tanti nomignoli con cui gli immigrati italiani sono stati dileggiati all’estero. Come tutti gli stereotipi, ingrandisce un dettaglio (in questo caso un’abitudine alimentare) per distorcere l’insieme.

Ma non finisce qui l’uso simbolico della banana: un uso spregiativo è nell’espressione “Repubblica delle banane”. Questo modo di dire ha una paternità precisa: il romanziere americano O. Henry (Williams Sydney Porter) che nel 1904 pubblicò “Re e cavoli”, una serie di racconti brevi. Uno di questi, “L’ammiraglio”, era ambientato nella repubblica di Anchuria, un paese immaginario la cui economia era completamente basata sulle esportazioni di banane. La situazione attira alcune grandi società statunitensi, che riescono a ottenere il monopolio delle banane corrompendo la classe politica. Il libro descrive l’Honduras, e molti altri Stati la cui economia era basata su una monocultura (caffè, banane, canna da zucchero): la produzione era nelle mani di una ristretta élite, che con l’aiuto dei militari gode dei profitti mentre il resto della popolazione rimane povera.

71ildittatoreIl termine è entrato nel vocabolario per indicare un regime dittatoriale e instabile, in cui le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è diffusa così come una forte influenza straniera (politica o economica).
Per estensione, il termine è usato per definire governi in cui un leader forte concede vantaggi ad amici senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno appoggiato in senso economico o politico. La repubblica delle banane ha avuto molta fortuna: è stato usato da Pablo Neruda nel “Canto general”, da Gabriel García Márquez in “Cent’anni di solitudine”, e dal film di Woody Allen “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” (1971). Senza contare “Banana republic”, disco dal vivo di Lucio Dalla e Francesco De Gregori (1979), e  il disegnatore Francesco Tullio Altan, che nelle sue vignette satiriche ritrae Silvio Berlusconi come “il Cavalier Banana”. Ecco com’è nato il personaggio: «Prima delle elezioni del 2001, Gianni Agnelli disse che non eravamo una Repubblica delle Banane. È vero, scrivevo io, non siamo una Repubblica delle Banane, ma del Cavalier Banana. La banana diventò così un segnale, un termometro».

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