sindrome di Tourette | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Tue, 12 Mar 2024 18:28:08 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png sindrome di Tourette | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Mozart e le parolacce musicali https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/ https://www.parolacce.org/2022/01/27/analisi-turpiloquio-mozart/#comments Thu, 27 Jan 2022 09:33:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=19027 L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante… Continue Reading

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Celebre ritratto (postumo) di Mozart: fu dipinto nel 1819.

L’hanno etichettato come un uomo “psichicamente immaturo”, o affetto dalla sindrome di Tourette, malattia che ha fra i suoi sintomi la coprolalia, cioè un turpiloquio incontrollato. Le parolacce di Wolfgang Amadeus Mozart sono invece un aspetto diverso e molto affascinante della sua personalità. Ne parlo qui in occasione del 266° anniversario della sua nascita a Salisburgo il 27 gennaio 1756.

Questo aspetto scabroso del compositore austriaco è noto da relativamente pochi anni: per secoli, le parolacce di Mozart sono state un segreto sussurrato fra gli studiosi, che non volevano rovinare la sua memoria con la macchia dell’oscenità. Le sue lettere alla cugina Anna Maria Thekla, ai parenti e agli amici sono zeppe infatti di espressioni scurrili: «Stronzo! – – merda! – – cacca! – o dolce parola! – cacca! – pappa! – anche bello! – cacca, pappa! – cacca, lecca – o charmante! – cacca, lecca! – mi piace! – cacca, pappa, lecca! – pappacacca, e leccacacca!»,  scriveva alla cugina nel 1778.

Ma l’epistolario di Mozart non è l’unico documento della sua propensione al linguaggio volgare. Accanto al “Flauto magico o al “Requiem” Mozart compose infatti anche alcuni canti licenziosi. Partirò da questi ultimi perché offrono una chiave più diretta per entrare nella sua mentalità.

“Leccami nel culo” e lo scherzo al baritono

Nell’immenso catalogo delle sue composizioni, infatti, figurano anche 4 canoni licenziosi composti fra il 1782 e il 1788, quando Mozart aveva fra 26 e 32 anni. I canoni sono composizioni per sole voci (a cappella) basate sul contrappunto, una combinazione di più linee melodiche. Il canone era considerato la più erudita delle tecniche compositive: come ha osservato lo storico Michael Quinn, «Mozart chiaramente si divertiva dell’incongruenza risultante dai versi scurrili all’interno di un canone». Dunque, un’operazione culturale goliardica: nulla a che vedere con la coprolalia, che nella sindrome di Tourette è invece un tic incontrollabile.

Un cd che raccoglie i canoni licenziosi di Mozart

Il primo di questi canoni si intitola Leck mich im Arsch (K. 231), in si bemolle maggiore, per sei voci. Il titolo è stato tradotto con “Leccami il culo”, ma è una traduzione imprecisa. Letteralmente l’espressione significa “Leccami nel culo”: è un beffardo modo di dire tedesco che ha lo stesso significato irridente di “suca” (me ne infischio di te, non vali nulla).
La moglie di Mozart, Constanze, inviò i manoscritti dei canoni alla casa editrice Breitkopf & Härtel nel 1799 per pubblicarli. Ma l’editore censurò il titolo, cambiandolo in Lasst froh uns sein (Gioiamo), sulla falsariga del tradizionale canto natalizio tedesco Lasst uns froh und munter sein.
La versione originale, senza censura, fu scoperta nel 1991 nella biblioteca di musica dell’università di Harvard. Ecco il testo: «Leccami nel culo Gioiamo! Brontolare è inutile! Ringhiare, ronzare è inutile è la vera disgrazia della vita, Ronzare è inutile, Ringhiare, ronzare è inutile! Perciò siamo felici e contenti, felici!».

Il secondo canone umoristico è Difficile lectu (K 559), brano in fa maggiore per 3 voci. Il testo è in latino, anche se non ha alcun senso compiuto: Difficile lectu mihi mars et jonicu difficileQuesto canone era nato per fare uno scherzo al baritono Johann Nepomuk Peyerl (1761-1800), che aveva un forte accento bavarese: cantato da lui, il verso lectu mihi mars, sarebbe sembrato leck du mich im Arsch, ossia leccami nel culo. La parola jonicu, invece, ripetuta all’infinito, avrebbe dato il suono cujoni, ovvero coglioni. Potete sentirlo distintamente nel video qui sotto, che riproduce l’esecuzione (molto divertente) del brano, ascoltare per credere, dal 30” in poi:  

I documenti dell’epoca riportano che Mozart fece eseguire il canone a Peyerl, che non si accorse del trabocchetto. Così, alla fine dell’esibizione Mozart e altri amici intonarono un terzo canone, il K. 560a, scritto sul retro dello spartito: O du eselhafter Peierl (Oh, asinesco d’un Peierl!). «Oh asino d’un Peierl! Oh Peierlesco asino! Sei pigro come un cavallo, senza muso né garretti. Con te non c’è rimedio; ti vedo già penzolar dalla forca. Stupido cavallo, sei un pigrone, stupido Peierl, sei pigro come un cavallo.Oh caro amico, ti prego oh baciami nel culo, svelto! Ah, caro amico, perdonami, però ti sigillo il culo. Peierl! Nepomuk! Perdonami!».

Il quarto canone licenzioso è Bona nox (K. 561), in la maggiore, per quattro voci. Ecco il testo, che in tedesco è tutto in rima: «Bona nox! Sei proprio un vero bue; Buona notte, cara Lotte; Bonne nuit, pfui, pfui; Good night, good night, abbiamo ancora molta strada da fare domani; gute Nacht, gute Nacht, caga nel letto, [fa’] che scoppi; Buona notte, dormi bene e porgi il culo alla bocca». Il testo, opportunamente ammorbidito nel finale (“dormi, mia cara, dolcemente, dormi in pace, Buona notte! dormite bene, finché non si farà giorno!”) è entrato nel repertorio dei canti tradizionali tedeschi.

Le lettere alla cugina

La copertina della corrispondenza di Mozart con la cugina Maria Anna.

Come ricordavo nell’introduzione, le lettere scritte da Mozart ebbero lo stesso destino dei canoni: furono censurate. Vennero a galla timidamente all’inizio del secolo scorso, quando  lo scrittore Stefan Zweig mandò in via del tutto riservata a Sigmund Freud le lettere che Mozart aveva scritto alla cugina Maria Anna Thekla, ai parenti e agli amici. 

L’epistolario di Mozart è infarcito di espressioni volgari e Zweig voleva sapere che cosa ne pensasse il fondatore della psicoanalisi. Così, dopo aver notato la grande profusione di termini escrementizi, concluse che Mozart era affetto da “immaturità psichica”, rimasta ancorata alla sfera anale. Prendiamo un brano di una lettera scritta il 28 febbraio 1778:

«Ero certo che non poteva resistermi più a lungo. Sì, sì, del fatto mio sono sicuro, dovessi ancor oggi fare uno stronzo duro, pur se tra due settimane sarò a Parigi, glielo giuro. Se dunque lei mi vuole dar risposta dalla città di Augusta con la posta, presto allora mi scriva, così la lettera arriva, ché altrimenti se sono già partito invece della lettera ricevo uno stronzo rinsecchito»..

Eppure, nonostante le apparenze, l’interpretazione di Freud, per quanto suggestiva, non coglie le motivazioni più determinanti del turpiloquio del musicista, come ha mostrato – nel 1991 – il sociologo Norbert Elias nel libro “Mozart, sociologia di un genio”.
I passi scabrosi nelle lettere del genio austriaco avevano in realtà un altro scopo: fare uno sberleffo al linguaggio formale e perbenista di corte. «Allocuzioni, fraseologia di circostanza, formule di saluto, arie d’opera, alessandrini – ogni lettera di Mozart alla cugina traspone puntualmente in parodia l’intero guardaroba del decoro di corte. Mozart critica i fossili linguistici dell’ancien régime, abbandonando impietosamente i loro vuoti meccanismi allo scherno» osserva Juliane Vogel, docente di letteratura tedesca all’Università di Costanza nel commento alle lettere pubblicate da Feltrinelli. «Nella scatologia (il gusto per le battute escrementizie) poté compiersi una socializzazione borghese rivolta contro le forme feudali» aggiunge.

Saluti e peti

L’operazione è evidente soprattutto nelle formule di saluto, riprese e variate fino alla nausea per far affiorare l’automatismo insito nel loro uso, il formalismo che le caratterizza:

  «e allora» scrive Mozart «le porgerò io stesso i miei complimenti di persona, le chiuderò il culo con della cera buona, le sue mani bacerò, con lo schioppo didietro sparerò, l’abbraccerò, un clistere davanti e dietro le farò, ciò di cui posso esserle debitore fino all’ultimo pagherò, un peto gagliardo risuonare farò, forse qualcos’altro cadere lascerò».

Lo spirito goliardico ravviva anche le frasi in cui Mozart racconta il suo presente, arricchite da rime e giochi di paroli assurdi:

«il martedì grasso l’ha festeggiato proprio bene. per farla breve, c’era, a circa 4 ore da qui, non ricordo più il luogo – – be’, un paese o qualcosa del genere; ecco, era una roba come Tribsterillo dove la merda in mare fa zampillo, oppure Burmesquica dove i buchi del culo storti vanno in gita; insomma, per farla corta, era un posto qualunque».

Wolfgang Codadisuino e lo spirito carnevalesco

Nelle lettere, il musicista prende giocosamente in giro anche se stesso:

«Ora devo raccontarle una triste storia che è accaduta in questo momento. Mentre sono tutto intento a scrivere la lettera, sento qualcosa fuori in strada. Smetto di scrivere – – mi alzo, vado alla finestra – – e – – non sento più niente – – mi risiedo, ricomincio a scrivere – – non ho scritto neanche 10 parole che sento di nuovo qualcosa – – mi rialzo – – come mi alzo sento ancora qualcosa, ma molto debole – – però c’è odor di bruciaticcio – – puzza, ovunque mi sposti. Se guardo fuori dalla finestra l’odore scompare, come guardo dentro, rieccolo – – finalmente la mamma mi dice: scommettiamo che ne hai mollato uno? – – non credo, mamma. Sì, sì, è proprio così. Faccio la prova, mi infilo il primo dito nel culo, poi annuso e – – ecce provatum est: la mamma aveva ragione. Ora mi stia bene, la bacio 10.000 volte e sono come sempre il vecchio giovane Codadisuino».

Disegno stilizzato di un angelo in una delle lettere di Mozart alla cugina (1780).

Questo nomignolo affibbiato a se stesso ci mette però su una pista importante: «”vecchio giovane Codadisuino” non è che uno dei molti nomi con cui il cosiddetto “ruolo comico” furoreggiava sulla scena del tempo, munito dei suoi lazzi e delle sue libere improvvisazioni. Egli appartiene alla schiera degli Arlecchino e degli Hanswurst, degli Scaramuccia e dei Fuchsmundi, personaggi che con i loro abiti rattoppati, i cappelli verdi e le giubbe bianche mettevano in discussione la gravità del teatro dell’epoca», osserva ancora la Vogel.

E’ questo lo spirito di Mozart: un giocherellone, un buffone pronto a mettere in ridicolo tutto e tutti, compreso se stesso. In questo, Mozart si inserisce nella tradizione popolare del carnevale, e del realismo grottesco in letteratura, nel quale «tutto è ricondotto agli organi genitali, al ventre e al deretano» scrive il critico letterario Michail Bachtin. E gli escrementi, in particolare, sono un elemento centrale perché simbolo di rinnovamento, fecondando la terra.

Le parolacce tedesche e il mistero Spunicuni

Mozart ritratto nel 1777 a Bologna: aveva 21 anni.

Pur avendo inserito nel giusto contesto storico l’epistolario di Mozart, gli studiosi rimangono perplessi su un punto: la propensione ossessiva per i temi intestinali. «Ostinatamente, a gesti o a parole, la celebrata socialità del Mezzogiorno di lingua tedesca ruota intorno al fulcro delle feci. Sia le lettere della famiglia Mozart che le testimonianze linguistiche della vita sociale del tempo documentano una preferenza, non del tutto comprensibile ai posteri, verso la tematica della digestione» dice ancora la studiosa.

A dire il vero, una ragione per spiegare questa preferenza c’è: il tedesco, pur essendo una lingua ricchissima di vocaboli, ha però un ventaglio ridotto di parolacce, basate molto più sulla sfera anale-escrementizia che su quella sessuale, come raccontavo in un precedente articolo. Non è colpa di Amadeus, insomma, se il suo repertorio scurrile era così limitato: il lessico tedesco non gli offriva molte alternative.
Dunque, il turpiloquio di Mozart è uno dei più ricchi di significati. Tanto da avere un mistero ancora aperto dopo 266 anni: che diavolo vuol dire l’espressione
spunicunifait?

Appare ad esempio in questo brano: «Apropós: come va col francese? – potrò scriverle presto una lettera tutta in francese? – da Parigi, no? – e mi dica, ha ancora lo spunicunifait? – lo credo bene». Lo Spunicunifait, è invocato tre volte nelle lettere alla cugina – scritto con le iniziali maiuscole o minuscole, unito o staccato: «la cui spiegazione è ancora da trovare. Che esso appartenga al vasto regno delle allusioni erotiche è fuori discussione».

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Le parolacce nel cervello: anatomia del turpiloquio https://www.parolacce.org/2016/05/12/cervello-e-parolacce/ https://www.parolacce.org/2016/05/12/cervello-e-parolacce/#respond Wed, 11 May 2016 22:48:11 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10040 Pochi giorni fa un gruppo di scienziati dell’Università della California è riuscito a tracciare la prima mappa delle parole archiviate nel nostro cervello: non sono sparse a casaccio, ma sono raggruppate in aree precise, a seconda del loro significato. E dove sono memorizzate le parolacce?… Continue Reading

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cervello4Pochi giorni fa un gruppo di scienziati dell’Università della California è riuscito a tracciare la prima mappa delle parole archiviate nel nostro cervello: non sono sparse a casaccio, ma sono raggruppate in aree precise, a seconda del loro significato. E dove sono memorizzate le parolacce? Con quale criterio?
La ricerca non ha studiato questi aspetti, ma la domanda è affascinante. Il modo in cui il nostro cervello archivia le parolacce aiuta infatti a capire molte cose non solo sulla funzione di queste parole speciali, ma anche su come si comporta il cervello.  E riesce a spiegare gli strani sintomi di alcune malattie: perché chi è affetto dalla sindrome di Tourette può sviluppare l’irrefrenabile tic di dire parolacce (coprolalia)? Perché chi diventa afasico per traumi o ictus può perdere la parola ma non le parolacce?
La scienza ha dato alcune risposte, identificando quali aree del cervello sono deputate al controllo del turpiloquio (sopramontaggio con foto Shutterstock).
Prima di raccontarle, però, è utile spendere qualche riga per raccontare più in dettaglio le nuove scoperte dei ricercatori americani guidati da Jack Gallant  (la ricerca si può leggere qui). Gli scienziati hanno fatto ascoltare a 7 persone alcuni racconti tratti da una trasmissione radiofonica, “The moth radio hour”; nel frattempo, osservavano con la Risonanza magnetica funzionale quali aree del cervello si attivavano quando venivano pronunciate le varie parole: marito, camera da letto, parcheggio, veleno, nonno e così via. Alla fine hanno scoperto che le parole sono distribuite in più di 100 aree distinte in entrambi gli emisferi della corteccia cerebrale. Il risultato è rivoluzionario, perché finora gli studi avevano mostrato che le capacità linguistiche sono concentrate nell’emisfero sinistro.

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Parole nell’emisfero cerebrale destro: il colore  indica la categoria semantica. Quelle verdi sono associate a concetti visivi e tattili, quelle rosse a concetti sociali. (Alexander Huth /University of California).

Per esempio, la parola “top” (cima, sopra, apice, vertice, elevato) è memorizzata in 3 diversi punti del cervello: fra “vestiti” e altri lemmi relativi all’aspetto fisico; in un gruppo di parole che descrivono lo spazio e gli edifici e infine tra i numeri e le unità di misura.
I termini relativi ai numeri sono collocati vicino alla corteccia visiva, in un’area deputata anche al ragionamento spaziale. Insomma, il cervello tende a raggruppare le parole per aree semantiche affini, a seconda del loro significato. Interessante, ma è solo un punto di partenza: occorrono altre ricerche su un campione più ampio ed vario per comprendere meglio il funzionamento del cervello.

E le parolacce? In quali aree del cervello sono memorizzate? I ricercatori l’hanno scoperto anche grazie ad alcuni pazienti con storie straordinarie. Nel 1840, un calzolaio parigino, Luis Victor Leborgne, fu ricoverato all’ospedale di Bicêtre: non riusciva più a parlare. O meglio, le uniche cose che riusciva a dire erano “tan tan” e l’imprecazione “Sacro nome di Dio!” quando si arrabbiava. Solo alla sua morte, nel 1861, il neurologo Paul Broca scoprì che cosa gli era successo: non riusciva più a parlare perché aveva una lesione in un’area del cervello – poi chiamata in suo onore area di Broca, nell’emisfero sinistro – che controlla il linguaggio.

Phineas Gage posa con l'asta che gli attraversò il cranio (nella ricostruzione a destra).

Phineas Gage posa con l’asta che gli attraversò il cranio (nella ricostruzione a destra). Da Wikipedia.

La scoperta rivoluzionò la neurologia: si scoprì per la prima volta che la nostra capacità di parlare dipende dall’integrità della corteccia cerebrale. Più avanti si sarebbe scoperto un altro fatto fondamentale: le parolacce, in particolare le imprecazioni, sono archiviate nell’altro emisfero, il destro. Ecco perché chi perde la parola per incidenti o ictus può conservare l’abilità a imprecare (se la lesione cerebrale è nell’emisfero sinistro).
Un altro paziente che ha segnato la storia degli studi neurologici sul turpiloquio è l’incredibile caso di Phineas Gage, un operaio statunitense che nel 1848, a 25 anni d’età, ebbe un incidente in un cantiere ferroviario: mentre inseriva una carica esplosiva in una roccia che doveva essere fatta saltare in aria, la polvere da sparo esplose, facendo schizzare in aria il ferro da pigiatura che stava usando.
L’asta gli attraversò il cranio, ma lui sopravvisse all’incidente: già dopo pochi minuti Gage era di nuovo cosciente e in grado di parlare. Ma da allora cambiò personalità in modo radicale: diventò intrattabile e incline alle bestemmie. Perché? Gli studiosi hanno ipotizzato che l’asta gli avesse danneggiato un’area del cervello chiamata gangli della base.

In realtà, è stato necessario più di un secolo per capire in dettaglio l’anatomia del turpiloquio. Soprattutto grazie ai progressi del neuroimaging, ovvero l’uso di tecnologie capaci di misurare l’attività del cervello: elettroencefalogramma, risonanza magnetica nucleare, tomografia a emissione di positroni, e così via.
Quello che finora si è capito, in generale, è che le parolacce sono controllate per lo più da 3 aree cerebrali (elaborazione foto Shutterstock; chi vuole più dettagli li trova sul mio libro):

cervellob1) L’EMISFERO DESTRO, che controlla il pensiero emotivo: qui sono archiviate le imprecazioni, cioè le parolacce che diciamo per rabbia, dolore o sorpresa (“Cazzo!”, “Porca troia!”, “Merda”, etc). Si tratta in realtà di parole desemantizzate, cioè prive di significato letterale: infatti, se l’espressione è composta da più parole, il nostro cervello le tratta comunque come un blocco unico (e questo spiega perché riescono a dirle anche gli afasici); è il “turpiloquio automatico“, che è molto simile a un riflesso neurologico. Urlando una parolaccia riusciamo a esprimere, con una parola emotivamente carica, una sensazione che altrimenti sarebbe inesprimibile (è come dire: “Ahiiii!”);
2) I GANGLI DELLA BASE: sono un’area profonda del cervello, che controlla le funzioni motorie; funziona come un freno censorio: se si rompe, imprechiamo senza limiti;
3) L’AMIGDALA: è una parte arcaica del cervello (nel sistema limbico) che elabora le emozioni e la memoria: la sua attività è legata in particolare alle emozioni negative (paura, sorpresa, rabbia). L’amigdala attiva reazioni di combattimento o di fuga; aumenta i nostri battiti cardiaci e ci rende meno sensibili al dolore (come ha scoperto un’interessante ricerca che raccontavo qui). E infatti quando siamo rabbiosi o impauriti diciamo insulti (“Stronzo!”), imprecazioni (“Cazzo!”) o maledizioni (“Vaffanculo!”).

Dunque, in generale, il cervello tratta le parolacce come un’attività motoria con una componente emotiva: e infatti le parolacce sono parole emotivamente cariche. Importante sottolineare che le parole sono considerate dal nostro cervello una forma di azione: come diceva il neurologo britannico John Hughlings Jackson, “l’uomo che per primo lanciò al suo nemico un insulto invece che una freccia, fu il fondatore della civiltà“. Gli insulti, infatti, sostituiscono – su un piano non cruento, perché simbolico – un’aggressione o un allontanamento: fa meno danni scagliare una parolaccia che una pietra (anche se a volte le parole feriscono come pietre).
Vista questa importante funzione, appare illusoria l’idea di poterle cancellare dalle nostre abitudini: sono profondamente radicate nel funzionamento del nostro cervello, soprattutto nei momenti di dolore. Ve ne potete accorgere quando per sbaglio inciampate o vi date una martellata sul dito: esclamerete “Merda!”, non certo “Accipicchia!”.
Detto questo, restano però ancora molti interrogativi aperti (e ne dico solo alcuni) sull’anatomia del turpiloquio; li propongo qui, e sarebbe interessante se che qualche scienziato prima o poi se ne voglia occupare:
– In quale aree cerebrali sono archiviati gli insulti e i termini osceni? Sono diverse rispetto a quelle delle imprecazioni?
– Quali sono i mediatori biochimici (ormoni, neurotrasmettitori) collegati all’uso delle parolacce?
– Gli imprecatori abituali hanno un cervello diverso rispetto a chi indulge poco alle volgarità?
– I gesti osceni sono archiviati nelle stesse aree cerebrali corrispondenti alle parole che sostituiscono?
– Cosa succede nel cervello di chi ascolta una parolaccia (“cazzo”) rispetto a quando ne ascolta il corrispettivo neutro (“pene”)?
– Le parolacce che conosciamo in altre lingue (inglese, spagnolo, francese…) attivano aree diverse rispetto ai corrispettivi nella nostra lingua madre?
Le domande potrebbero andare avanti all’infinito: perché parolacce sono un mondo ancora tutto da scoprire. Anche nella nostra testa.

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Parolacce: roba da matti? https://www.parolacce.org/2008/11/29/parolacce-roba-da-matti/ https://www.parolacce.org/2008/11/29/parolacce-roba-da-matti/#respond Sat, 29 Nov 2008 17:57:00 +0000 http://www.parolacce.org/?p=34 Ci sono film che ti toccano nel profondo. E ti fanno pensare. Il film “Si può fare”, di Giulio Manfredonia, uscito poche settimane fa, mi ha fatto questo effetto. Ambientata nella Milano degli anni ’80, è la storia di Nello (Claudio Bisio),… Continue Reading

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Una scena del film “Si può fare”.

Ci sono film che ti toccano nel profondo. E ti fanno pensare. Il film “Si può fare”, di Giulio Manfredonia, uscito poche settimane fa, mi ha fatto questo effetto. Ambientata nella Milano degli anni ’80, è la storia di Nello (Claudio Bisio), sindacalista scomodo, che viene mandato a gestire una cooperativa di lavoro per il reinserimento di malati di mente usciti dai manicomi. La storia non ve la racconto: merita di essere vista perché è fatta con il cuore, tanto da compensare alcuni difetti nella narrazione e negli attori (mica facile, comunque, interpretare un malato di mente senza scadere nella macchietta).
Dicevo, il film mi ha ispirato alcune riflessioni per il nostro blog. Mi sono chiesto: la parolaccia può essere sintomo di un disagio o di una malattia mentale? La domanda è molto delicata: ancora oggi, essere etichettato come “malato di mente” significa essere emarginato. E aggiungere sofferenze a sofferenze.

Paul Broca.

Paul Broca.

Quando ancora la neurologia muoveva i primi passi, per esempio, nel 1800 il neurologo Paul Broca ebbe in cura un paziente afasico (Leborgne, detto “Tan-Tan”): non riusciva a parlare perché aveva leso un’area del cervello – poi chiamata in suo onore area di Broca, nell’emisfero sinistro – che controlla il linguaggio. Eppure Leborgne riusciva a dire “Sacro nome di Dio!” quando si arrabbiava. Perché – si è scoperto poi – le parolacce sono controllate dall’altro emisfero, il destro. Dunque, grazie alla neurologia si è scoperto che le parolacce possono sopravvivere all’afasia; e non sono un “sintomo”, bensì uno dei pochi campi di libera espressione dei malati che hanno perso l’uso di tutte le altre le parole.

Il cervello di Leborgne: si nota l'area cerebrale lesionata (foto B) nell'emisfero sinistro.

Il cervello di Leborgne: si nota l’area cerebrale lesionata (foto B) nell’emisfero sinistro.

Detto per inciso, proprio la recente conoscenza della specializzazione delle aree cerebrali spiega altri fatti sorprendenti. Per esempio il motivo per cui i pazienti che hanno avuto lesioni cerebrali per incidenti, tumori, ictus, possono perdere la parola (diventare cioè afasici) ma non le parolacce: in questi casi,la lesione cerebrale è nell’emisfero sinistro,e non nel destro (quello che controlla le parolacce).

Diverso il caso della “coprolalia”: l’impulso irrefrenabile, ripetitivo e a sproposito di dire parolacce. È un sintomo di varie malattie neurologiche che mettono fuori uso le aree cerebrali che controllano i nostri freni inibitori. È il caso della sindrome di Tourette: una malattia neurologica di origini ignote, che costringe i pazienti ad avere numerosi tic, sia motori che verbali: fra questi rientra l’impulso incontrollabile a dire frasi oscene o a fare gestacci.
Alcuni studiosi pensano che Wolfgang Amadeus Mozart – che usava parolacce in modo intensivo – ne fosse malato, ma come ho scritto nel mio libro,penso che la spiegazione del linguaggio sboccato di Mozart sia più semplice.

Ricostruzione delle lesioni di Phineas Gage.

Ricostruzione delle lesioni di Phineas Gage.

È il caso anche della demenza senile: i nonni diventano incontrollabilmente sboccati perché hanno danni cerebrali. Lo stesso capita a chi soffre di epilessia, gravi intossicazioni da monossido di carbonio, e anche incidenti: come capitò a Phineas Gage, operaio americano a cui nel 1848 si conficcò una sbarra nel cranio. Si salvò, ma il danno cerebrale ne cambiò la personalità, trasformandolo in un bestemmiatore incallito.

 Il discorso diventa più delicato (perché nessuna risonanza magnetica può accertare la diagnosi) nelle malattie mentali. La scatologia telefonica (o coprofemia o pornolalia), ovvero la mania di fare telefonate oscene per ottenere piacere erotico o umiliare. È senz’altro una forma di malattia (e di violenza) soprattutto se è irrefrenabile, se è l’unica fonte di piacere e se all’altro capo della cornetta c’è una persona non consenziente.

A volte l’impulso irrefrenabile a dire parolacce deriva da una nevrosi ossessiva, cioè da profondi conflitti interiori, ma il campo è complesso: a volte,come ha mostrato Sigmund Freud in molti casi clinici, è proprio l’incapacità a dire una parolaccia ad essere sintomo di una difficoltà, di un blocco, per esempio in campo sessuale.

Non fidatevi, quindi, di quanti, sbrigativamente, affermano che “chi dice tante parolacce non è capace di parlare, di vivere, di essere integrato nella società”: per gli adolescenti, invece, le parolacce sono uno strumento importante di autoaffermazione, un modo per dire: “Io sono diverso da tutti quanti voi, da questa società di merda”. A volte esagerano, ma a volte hanno ragione loro. Anche a essere incazzati: quanti (fra politici, docenti, genitori) si prendono davvero cura di loro, offrendo attenzione e aiuto?

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