sinonimi | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Thu, 14 Nov 2024 22:51:08 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png sinonimi | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Da anghilla a zinforgna: i nomi del sesso nei dialetti https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/ https://www.parolacce.org/2024/11/11/termini-dialettali-per-i-genitali/#comments Mon, 11 Nov 2024 09:15:15 +0000 https://www.parolacce.org/?p=21039 Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che… Continue Reading

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Antonio Albanese nei panni di Cetto La Qualunque, politicante che promette più “pilu” (vulva) per tutti.

Alcuni hanno superato i confini provinciali e regionali, diventando celebri in tutta Italia, come topa o mazza. Altri, invece, sono rimasti ancorati ai loro luoghi d’origine, come il siciliano nicchiu (vulva) o il piemontese puvrun (pene). I termini dialettali che designano gli organi genitali sono un universo in buona parte inesplorato. Perché è così ampio e complesso da dare le vertigini. Lo dico  con cognizione di causa, perché ho compilato il primo studio ragionato di queste espressioni in tutti i dialetti italiani. Ho trovato 565 termini, e il conteggio è parziale, dato che molti dialetti non hanno una grande documentazione sul Web.

In un precedente studio avevo scoperto che in italiano i sinonimi degli organi sessuali sono più di 1.300 (1.339). Questa ricerca sui dialetti spiega il perché: il nostro lessico osceno è tanto ricco perché è alimentato dai dialetti. Sono in tutto una trentina, senza contare le lingue non romanze come gli idiomi albanesi, germanici, greci, slavi, romanì. Dunque, la lunga storia di dominazioni straniere e feudi che hanno frammentato l’Italia ha fatto sì che il nostro patrimonio linguistico sia fra i più ricchi e vari d’Europa.

Questo studio, come tutte le primizie, nasce pieno di imperfezioni e lacune perché le informazioni sui dialetti sono disomogenee e frammentarie: chiedo ai lettori di segnalare nei commenti le voci mancanti o inesatte (grazie!).

Un linguaggio emotivo (anche nei saluti)

Copertina del giornale satirico livornese “Il Vernacoliere”.

E’ un viaggio difficile ma affascinante, perché i dialetti hanno una grande ricchezza espressiva. Basti ricordare i celebri sonetti che il poeta romanesco Gioachino Belli (1832) dedicò ai sinonimi dialettali del pene (“Er padre de li santi”) e della vulva (“La madre de le sante”). Come diceva Andrea Camilleri (lo ricordavo in questo articolo), il dialetto esprime l’essenza, la natura profonda delle cose, ed è linguaggio emotivo per eccellenza essendo per lo più orale e a diffusione familiare.
Basta scorrere, più sotto, la lista delle espressioni per il pene e la vulva. Da notare un fatto curioso: in diversi dialetti, i generi dei sessi sono invertiti. Ovvero, il sesso maschile è indicato con una parola di genere femminile (bighe, minchia, ciolla, pillona, mazza, marra, cella) e quello femminile da parole di genere maschile (cunnu, sticchiu, piccione, palummu, pilu). Non c’è una motivazione particolare dietro questo: si tratta di convenzioni arbitrarie (lo raccontavo in questo articolo), ma resta un fatto degno di nota.

Meme sul saluto friulano che significa “Come sta il pene?” (Average Furlan Guy).

E in questo mondo, in buona parte ancora inesplorato nella sua interezza, ci sono espressioni davvero straordinarie. In friulano, per dire “Come va?” “Abbastanza bene”, si usano queste espressioni: “Cemût le bighe?” “Cjalde ma flape”, ovvero, letteralmente: “Come sta l’uccello?” “Caldo ma moscio”. Eccezionale. Ha l’aria d’essere un modo di dire antico, ma non ho trovato una documentazione storica al riguardo.
In compenso, c’è questo ironico video-corso di friulano qui sotto, che spiega come pronunciare correttamente l’espressione (ma senza rivelarne il significato letterale):

Nella goliardica pagina Facebook di Average Furlan Guy, c’è una chat che mostra alcune risposte alternative alla domanda “Cemût le bighe?”. Eccole: “drete e mai strache” (dritte e mai stanche). Oppure “Iè dure vele flape ma iè plui dure vele dure e no savè dulà metile!” (E’ dura averlo floscio, ma è più dura averlo duro e non saper dove metterlo!”).

DIALETTI, LINGUE E SISTEMI

I più ricchi: sardo, veneto e napoletano

La focacceria “Bischero” a Ginevra.

Ho trovato in tutto 565 termini (ho conteggiato come uno tutte le varianti di uno stesso lemma). Quelli che si riferiscono alla vulva sono risultati più numerosi (304, 53,8%), rispetto a quelli per il pene (261, 46,2%). Un dato di segno opposto rispetto a quanto avevo riscontrato in italiano: nella nostra lingua prevalgono infatti i termini che si riferiscono alla sfera sessuale maschile (744 contro i 595 per la vulva). In ambo i casi, uno scenario che ritengo frutto del caso: la ricchezza semantica di una lingua dipende da fattori letterari, sociali, politici che variano nel tempo e nei luoghi.
In base a quanto ho riscontrato, i dialetti meridionali risultano più ricchi delle altre aree, soprattutto per il sesso femminile: il 43,5% dei lemmi proviene da dialetti del Sud, seguito da quelli settentrionali (36,1%). Ma questi risultati vanno presi con le pinze: la quantità di lemmi che ho esaminato, seppur ragguardevole, non è la totalità di quelli esistenti. Perché ho consultato solo i dizionari e le raccolte linguistiche presenti sul Web: per censire in modo completo tutti i termini dialettali osceni, avrei dovuto consultare anche i dizionari cartacei. Ma la ricerca sarebbe durata mesi se non anni.

Questo può spiegare perché il sardo risulta il dialetto con il maggior numero di lemmi: 96. Il dizionario sardo online (trovate le fonti in fondo all’articolo) è uno dei più completi, e in più il sardo è una lingua molto ricca perché presenta 5 varianti fondamentali (nuorese, gallurese, sassarese, logudorese, campidanese). Dopo il sardo segue il veneto (50 lemmi), il napoletano (48), l’emiliano-romagnolo (40), il calabrese (35), il piemontese e il pugliese (33).

Questi risultati (al netto dei limiti di cui parlo in uno dei riquadri finali) sono abbastanza sovrapponibili  al numero di lemmi censiti nei principali dizionari dialettali: il sardo è il più ricco (120mila lemmi), seguito da napoletano (80mila), siciliano e piemontese (50mila),  veneto e friulano (40mila), calabrese e milanese (30mila), bolognese e pugliese (20mila).

Le radici: latino, ma anche greco e spagnolo

Ristorante “La gnocca” alle Canarie (Gran Canaria).

Nei termini dialettali che si riferiscono agli organi sessuali si vede un’interessante stratificazione linguistica: dal latino mentula derivano il siciliano minchia, il salentino menchia, il sardo minca; e dal latino cunnus derivano il pugliese cianno/ciunno, il lucano ciunn, il calabro e il siciliano cunnu. In diverse regioni l’antico termine latino “natura” designa il sesso femminile. Notevole il termine purchiacca (diffuso in Campania, Basilicata e Molise) che arriva direttamente dal greco: pyr (fuoco) + koliòs (fodero), fodero infuocato.

Dell’antico termine toscano “potta” (vulva), molto usato nella letteratura passata, è rimasta traccia solo nel bergamasco (pota).

Diversi i termini importati da lingue straniere: il piemontese baghëttë (pene) arriva dal francese baguette, il pugliese pica/pinga (pene) dallo spagnolo pinga (con lo stesso significato), il meridionale ciolla può derivare dallo spagnolo chulla (braciola, pene). E gli esempi potrebbero continuare.
L’area di diffusione di questi termini anatomici sessuali è rimasta per lo più limitata ai territori d’origine: difficile che un friulano conosca il significato di “ciolla” o che un sardo sappia cos’è la pipa in umbro. Tuttavia alcuni termini dialettali si sono diffusi in tutta Italia: per il pene, i toscani bischero e fava, i romaneschi ceppa e mazza, il siciliano minchia. Per la vulva, il veneto mona, l’emiliano patacca/patonza e gnocca, il toscano topa, il romanesco fregna e sorca, il napoletano fessa. Il motivo? Per lo più il cinema e la tv: diversi attori hanno reso popolari i termini dialettali (pensiamo a Tomas Milian e Carlo Verdone per il romanesco, solo per fare qualche nome). Senza dimenticare il celebre sketch di Roberto Benigni, che ha citato i nomi dialettali dei genitali quando fu ospite nel 1991 di Raffaella Carrà a “Fantastico”: un numero che è passato alla storia della tv.

I nomi del pene…

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 2
Piemonte 11
Liguria 17
Lombardia 19
Trentino Alto Adige 2
Veneto 27
Friuli Venezia Giulia 4
Emilia Romagna 18 Nord

100

Toscana 10
Umbria 10
Marche 5
Lazio 9
Abruzzo 10
Molise 5 Centro

49

Campania 18
Puglia 7
Basilicata 1
Calabria 20
Sicilia 10
Sardegna 56 Sud

112

Totale 261

La birra siciliana “Minchia”.

I lemmi che designano il pene, come del resto in italiano, attingono a metafore descrittive di vari tipi. Fra le più salienti, quelle di cibi (frutta e verdura: bananna, fava, tega, codeghin, pizza), di attrezzi o oggetti (arnes, cannello, manego, mazza, manubrio, pindolo, pipo, nerchia, manico, batocchie, sperru, attretzu, ferramenta), di animali (bissa, salmon, pesce, sardela, bissa, usel, canarin) e anche di persone (mastrantoni, frat’ma Giorg).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

membrou [ dal latino membrum, organo, parte del corpo ] 

subiet

PIEMONTE

picio [ da piccolo, bambino ]

baghëttë, bidulu (Vercelli), biga (Cesana), bilò (Alessandria), ciula, intré, penetré, pénis, puvrun, vèrzhä/vérzhë (Salbertrand)

LIGURIA

 belin/belan [ da “bello”, inteso come giocattolo]

anghilla, bananna, bega, canäio, cannello, cannetta, carottua, casso, cicciollo, ciolla, manego, manubrio, mostaciollo, pigneu, pinfao,  pistolla

LOMBARDIA

bìgol/bigul/bigolo [dal greco-latino bombyx ‘verme’ passando per il diminutivo *bombiculus ‘vermicello’ ‘piccolo verme ] usèl/osel

arnes, belen/belinon (Cremona),  bigatt, bilì (Brescia), birlu, bissa, blin (Mantova), bora, ciula, liben, manübri, manach/manech, mestér (Bergamo), nèstula/nestila (Stazzona/Valtellina), picio, pirla [ ha lo stesso etimo di birillo], pistola  

TRENTINO ALTO ADIGE

bigol

pindolo

VENETO

tega indica il guscio o baccello di fagioli, piselli e fave oseo/oselo (uccello)

barbastreio [ pipistrello],batocio, bega/ begolina/ baolina, beline (Verona), bicio, bigolo, bissa/bisso [biscia], brocia, canarin, canna, cicio, cuco, coa/coda (Belluno), codeghin, manego, merlo, mugoloto, pampano/pimpanoto (Verona), pindol (Belluno), renga (Verona), salado, salmon, sardela, ton, versor

FRIULI VENEZIA GIULIA

bighe/bigul

bimbin (Trieste), cicinut, penis, vet

EMILIA ROMAGNA

üsél (uccello)

barandël (romagnolo), batöć (romagnolo), bĕscar (romagnolo), bligo, birèl/birello, bìgul, bilèn (Parma) / blèin (Reggio Emilia)/ blin (Mirandola)/bilìn (Modena), blig/blëg (romagnolo), càpar (romagnolo), caz, mãnfar (romagnolo), mĕmbar (romagnolo), óca; pisarél, pistulén [di  bambino],  sćifulöt (romangolo), ṣvarẓèl (romagnolo)

TOSCANA

bischero [ legnetto affusolato per tirare le corde degli strumenti musicali o per tappare l’otre], fava

billo, cinci, creapopoli, dami, fava (Garfagnana), lilli/lillo, manfano, pirolo (Siena)

UMBRIA

pipo [da pipa, cannello, oggetto affusolato; o da pipino, piccolo pene]

biscione, cazzo, cello, fava, mitulo, nerchia, picchio, pistello/pistolo, ucello

MARCHE

cazzu

pipin, pistulin, tanganello, uccellu

LAZIO

cazzo, ceppa [pezzo di legno cilindrico], mazza [grosso bastone]

cicio, manico, nerchia [bastone nodoso], pennarolo, pirolo, uscello 

ABRUZZO

 cazzu/cuazze, cella [da uccello]

battocchie, ciufello, ciula, mazz/mazze, nerchije, picc/picch/picco, sterdàzz, vàrr/varre

MOLISE

cazz

margiale, mazza, pica, pizza [ blocco di pasta da infilare nel forno ]

CAMPANIA

cazz

ass ‘e bastone/’e mazz, babbà, battaglio/vattaglio (Avellino), capitone, cicella, cìqquë, cumpàgne mije (“il mio amico”), mazzarello, fratiello, fravaglio, fravolo, ‘ngrì /’ngrillo, maccarone, mazza, pepe (Avellino), pesce, saciccio / sauciccio [ salsiccia]

PUGLIA

ciola [deriva da ciull (bambino, fanciullo) o dallo spagnolo chulla, braciola (a indicare il pene)]

acid/acidduzz/ciddone (Foggia, Andria: derivati da aciddu, uccello),  cicilla, ciucce, fratema (Salento), pica (Salento)/pinga (Trani e Foggia), pizza (Taranto), smargiale (Salento)

BASILICATA

cazz/quazz

CALABRIA

ciolla (Reggio Calabria e Ragusa), marra (zappa)

bacara, battagliùn, cioncia (Crotone); cagnu (Amantea)/cagnolu (Catanzaro); cazzu, frat’ma Giorg’ [“mio fratello Giorgio”], lerpa, mazza, menchia (Salento), micciu [asino/stoppino della candela], nervu, piciollu, pizza (Reggio Calabria); pilloscia, piscia/piasciareddra, sperru [coltellaccio], spoderu (Reggio Calabria: pesce), vronca

SICILIA

minchia/mincia (dalla radice del latino mingere, urinare; o da menta, per la somiglianza tra l’antera del fiore della menta con il glande) , ciolla/ciota

acidduzza/cidduzza [uccellino] bagara, cedda,  ciaramedda/ciaramita, cicia, marruggio, piciolla, zonna (Modica)

SARDEGNA

catzu/gazzu, minca/mincia/mincra (Sassari)/mincra (Nuoro),  pillolla/pillona/pilloni (Cagliari)

algumentu, arma , arreiga, arretranga, attretzu , baddonu , bicchiriola/ bicchirilloi, billella, bodale, bollulla , cedda , chicchia/ chicchiriola , cibudda, cozona , ddodda, dorriminzola, dòrrola, epperi, ferramenta, ghignu, grunilla, leonzedda, longu, maccacca , mastrantoni , mazzolu , minninna , mindrònguru , misèria/ miseresa, moricajola/muricajola/muricadorja, murena, niedda, paldal (Alghero), penderitzone/penducu/penduleu, picca/picchiriola, pilledda, piógliura, piola, pìscia/pisciadore/pissetta/piscitta/pissitta/pissittu , pitranca,  pitza/pizona, pippia, piscitta, puzone/a, secacresche, sira/tzira/ tzirogna, tirile/zirile, trastu, trìsina, tuppajola, tùtturu/tuttureddu, vicu, zubbu

…E i nomi della vulva

In questa mappa, i termini più usati in ogni Regione. In alcuni casi la scelta dei termini inseriti nella mappa è il risultato di una forzatura, perché in alcune regioni le parole cambiano molto da provincia a provincia: in questi casi ho scelto il termine più usato nel capoluogo della Regione.

Qui sotto una tabella statistica riassuntiva.

Regione Lemmi
Val d’Aosta 3
Piemonte 22
Liguria 5
Lombardia 12
Trentino Alto Adige 11
Veneto 23
Friuli Venezia Giulia 6
Emilia Romagna 22 Nord 104
Toscana 15
Umbria 10
Marche 11
Lazio 10
Abruzzo 13
Molise 7 Centro

66

Campania 30
Basilicata 11
Puglia 26
Calabria 15
Sicilia 12
Sardegna 40 Sud

134

Totale 304

La birra pugliese “Ciunna” (vulva).

I lemmi che designano la vulva utilizzano spesso metafore descrittive che alludono al pelo (barbisa, boschetto, pilu, vello), o alla cavità (buso, canestro, fessa, partù, spacchiu) o al fiore (petalussa). Altre metafore attingono a cibi (brogna, cozza, michetta, fidec, fritula, patata, piricoccu, carcioffola, castagna), oggetti (marmitta, chitara, mandola, campana, tabbacchera), animali (passera, fagiana, folpa, cicala, topa, piccione, paparedda, micia) e persone (bernarda, filepa, franzesca).
Qui sotto la lista dei termini suddivisi per regione (in grassetto quelli usati prevalentemente nella regione o nel suo capoluogo). Quando possibile ho cercato di ricostruire l’etimologia dei termini più usati.

VAL D'AOSTA

 nateua/nateurra/nateuvva/naturë

borna [buco], tchergna [vedi ciorgna in PIemonte]

PIEMONTE

ciornia/ciorgna [origine incerta: da ciamporgna, zampogna o da “ciorgn”, sordo: la forma della vagina ricorda un orecchio che non ascolta]

baoumë (caverna, in senso spregiativo), bigioia, bignola, bornä, bregna/brigna (prugna), canà, chatbornhë (Savoulx), cŗo [buco], daŗbounhérë [cunicolo della talpa]), equis, fiaounë (Fenils), figuë (Ramats), fizolla, marmitta, natuřä (Salbertrand), neira, nonnë (Oulx), partû [buco], picioca, tampë, veŗgonhë (Amazas)

LIGURIA

mussa/mossa [può derivare dal latino mus, topo (mouse, per il pelo), o da “muscolo” (cozza, per l’aspetto). Secondo alcuni deriva da mozzo (buco per la ruota) o da mussare, fare schiuma]

 ghersa/goèrsa/guersa, michetta, petalussa, tacca, vagìnn-a

LOMBARDIA

barbisa [da barba], brugna/brogna [prugna]

bartagna, bernarda,, crenna, fidec [fegato] (Bergamo), figa, fritula, fuinera, lurba, passera, pota  [da “potta”, a sua volta dal francese “lippot”, labbro sporgente] (Bergamo e Brescia), sbarzifula, zinforgna (Sondrio)

TRENTINO ALTO ADIGE

barbigia (da barba)

bernarda, bortola, chitara, ciorciola, fritula [frittella], marugola, natura, sbanzega, scham, scheide

VENETO

mona [da monna, madonna nel senso di donna, o dall’arabo maimun, scimmia, perché ricoperta di peli]

ànara, bagigia/basisa, bareta, bernarda, bigarela, boschetto, buso/busolina, canestro, cantina, cicciota, ciocca,coca,  fagiana, farsora [padella per friggere], fiora, folpa [femmina del polipo], fritola [frittella], natura, pataracia, mandola, pegnata, pipa, pisota, pondra, sepa, sermollina, sissoea, sgnacchera, tenca, tringoeo, zergnapola [pipistrello]

FRIULI VENEZIA GIULIA

mona, frice [dal latino fricare, sfregare]

farsora [padella], fritola, panole, parussule

EMILIA ROMAGNA

patacca/patonza [nel senso di macchia], gnocca [per la somiglianza nell’aspetto]

bagaja, balusa,barnêrda, basagna, brugna, chitara, figa, filĕpa, franzĕsca, frĕgna, natura, obinna, parpaja, patafiocca, pavajòta , pisaia,  prögna, sfessa, tegia, vaggiuola

TOSCANA

 topa [per la somiglianza con i peli pubici]

bricia, budello,campana, cicala, cilla (Siena), fi’a, lallera, micia, mimma, mozza, pacianca (Pisa), passera, pettera, sgnacchera

UMBRIA

pipa [come femminile di pipo]

castagna, cicala, fica, fregna, passera, pisella, picchia, sorca, topa 

MARCHE

fregna

 castagna, cicciabaffa, ciuetta (Ascoli Piceno), cocchia, fessa, mozza, natura, passara/pasarina, pontecana, topa

LAZIO

fregna [dal latino  fricare ‘fottere’, con -gn- dovuto alla sovrapposizione di frangĕre ‘rompere; o da fringilla, fringuella], sorca [da sorcio, topo]

 bbuscia, cella, cicciabaffina, ciciotta, ciocia, ciomma, ciscia, sorega

ABRUZZO

fregna

boffa, ciuccia, ciuetta, ciufella, cocca,  fregna, mozza (Teramo), patàne, picina/piciocche, tolfa, tope, vello

MOLISE

picchiacc (vedi pucchiacca)

cocchina (Isernia), curciu, fess, panocchie, patata, piccione

CAMPANIA


fessa [da fessura, spaccatura], purchiacca/pucchiacca [dalle parole greche pyr (fuoco) + koliòs (fodero) unite ad un suffisso degradativo -acca, da cui pyrcliacca -> purchiacca -> pucchiacca. Il termine significherebbe letteralmente “fodero infuocato”; oppure dal latino “pucchia”, fonte dove sorge acqua; o ancora, da un’erba spontanea, l’evera pucchiacchella (portulaca) che cresce poco alta sul terreno ricordando i peli pubici]

bbuatta [scatola di latta], braciola, caccavella [pentola], carcioffola, cardogna, cecca, cestunia [tartaruga], ciaccara, ciora/fiora, ciucia, ciòcca, cozzeca [cozza],  mocle, nocca [fiocco], patana, pepaina, pertuso [buco], pescia, pesecchia, pettenessa, piciòcchëlë/pisciocca/pisciotta, pummaròla, sarcenella/sarchiella, scarola, sciùscia, sporta, sterea, tabbacchera

BASILICATA

fissa, ciunnn [dal latino cunnus, cuneo, matrice]

ciola, natura, perdesca, piccione, pishcu/puscio, puliejo, purchiacca, sartacena, tabbacchera

PUGLIA

piccione, palummu [per la somiglianza del monte di Venere con il petto del piccione]

caccone, chichì, cianno/ciunne/ciunna/cunnu, ciota, cozza, cuniglia, curcio/curciu (Salento), fregne,  ndacca (Bari), nerciu,  pattale, pelosa, pertuso, pescia, pinca/ pinga, ptek, picu (Salento), pisciacchio/pisciacco, pitacco, pittinale, ruccu, sciorgio/sorgie, spaccaccia, sticchi

CALABRIA

pilu, ‘mboffa/’mmoffa

bovatta, ciota/ciotu (Cirò),cuniglia, cunnu, fissa, grubba, nicchio/nnicchiu, parpagnu, pennu, picionnu, pitaci, spacchiu, sticchiu

SICILIA

sticchiu/sticcio [dal latino osticulum, diminuitivo di ostium (porta):  “piccola porta” o “piccola bocca”, oppure dal greco astegos, nudo; o da stìchos, riga; o ancora come derivato da fisticchiu, pistacchio, per la forma simile]

ciaccazza, ciciu, cucchia, cunnu, faddacca, nicchio, obarra, pacchio, paparedda, picicio, pilu, sarda

SARDEGNA

cunnu/ciunno, mussi/mutza

attettu, bette/bettu, boddo/ boddoddu/budhúdhu , broddo, bullulla, burba/bulva/burva/vurba/vurva/ulva/urba/urva, busuddu, còccoro , cuperre, festu, fica/figa, giosi, intragnu, leppereddu (leprotto), matzoneppa ,miseria,  natura, niccu, nusca, pacciócciu , peddùnculu , pilarda/ pillittu/pilosu, pilicarju/ pulicarja,  piricoccu , pisciaioru, piscittu, porposeo , proso/prosu, pudda, pùliga/ pulicarja ,santu, sessu/sestu,  topi, tzunnu,ubra, ulla, udda, zimbranti

I LIMITI DELLO STUDIO

Ringrazio i numerosi amici “fiancheggiatori” che mi hanno aiutato a rintracciare/verificare diverse voci dialettali: Marco Basileo, Irene Bertozzi, Luca Brocca,  Paolino Colzera, Serena Corvo, Valentina Coviello,  Massimiliano Fedeli, Sergio Ferro, Michele Gagliardo, Roland Jentsch, Francesca Polazzo, Federico Tapparello, Giulia Villi

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Perché “vecchio” è un’offesa? https://www.parolacce.org/2021/03/01/insulti-agli-anziani/ https://www.parolacce.org/2021/03/01/insulti-agli-anziani/#comments Mon, 01 Mar 2021 09:04:52 +0000 https://www.parolacce.org/?p=18554 Sono sopravvissuti a molte tempeste, e dal loro bagaglio di esperienze (e di errori) avremmo tutti da imparare. Tanto che “vecchio” e “saggio” sono quasi sinonimi. Eppure agli anziani non riserviamo solo rispetto. Nel nostro vocabolario ci sono 60 offese… Continue Reading

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Film dei fratelli Cohen (2007).

Sono sopravvissuti a molte tempeste, e dal loro bagaglio di esperienze (e di errori) avremmo tutti da imparare. Tanto che “vecchio” e “saggio” sono quasi sinonimi.
Eppure agli anziani non riserviamo solo rispetto. Nel nostro vocabolario ci sono 60 offese su di loro: mummia, fossile, carampana… e molte altre. 

Perché attacchiamo gli over 65enni? Guardare da vicino queste offese ci permette di riflettere su quale posto e quale ruolo riserviamo oggi alla terza età. Un ruolo ambiguo, fatto non solo di ingiusta discriminazione, ma anche di angosce esistenziali, scontri generazionali, rancori sociali (non sempre infondati). In definitiva, gli anziani sono il simbolo della nostra epoca longeva che però non ha saputo ancora dare loro un ruolo sensato e costruttivo.

Perché si insultano in tutto il mondo

  1. Attaccare la generazione degli anziani, ovvero quella dei nostri genitori e dei nostri nonni, è un atto del tutto naturale, come insegnano il mito di Edipo e la psicoanalisi. Per crescere occorre “uccidere” metaforicamente il padre, ovvero acquisire la propria identità autonoma uscendo dalla dipendenza psicologica coi propri genitori e con il modello educativo e culturale che propongono. E’ un atto di distacco non solo individuale ma anche generazionale: la ribellione dell’adolescenza. Uno dei termini offensivi, ormai desueto, verso gli anziani è “matusa” (abbreviativo di “Matusalemme”), ed è stato coniato nel ‘68, cioè nell’epoca che più di ogni altra ha incarnato la ribellione giovanile.
  2. “Nessuno ha una data di scadenza”: pubblicità contro la discriminazione degli anziani.

    A questo aspetto se ne aggiunge un altro tipico della nostra epoca. Viviamo in un’era di veloci trasformazioni, progresso, efficienza. E in un contesto del genere, la lentezza, la resistenza ai cambiamenti, l’inefficienza degli anziani è vista come un difetto e un ostacolo al progresso della società. Poche sono le nazioni capaci di valorizzare – sul lavoro, nel sociale – l’esperienza degli anziani: che in molti casi, pur avendo ottime capacità, si ritrovano parcheggiati ai margini della società senza poter dare un contributo che sarebbe prezioso. In inglese la discriminazione in base all’età si chiama “ageismo”.

  3. Insultare gli anziani è un modo per allontanare da sè la paura del decadimento fisico e della morte. Se il “vecchio decrepito” sei tu, mi libero dall’angoscia di pensare al fatto che anch’io sono incamminato verso questo stesso destino. Ecco perché nella nostra epoca la vecchiaia è semplicemente rimossa, anche a suon di cosmesi, interventi chirurgici, abbigliamento “giovanile”. L’inefficienza, la sgradevolezza fisica è uno dei tabù più forti della nostra epoca.

VECCHIO? NO, VINTAGE

Altra pubblicità progresso: il vecchio è “nonno”.

E’ proprio per scacciare l’angoscia per il decadimento fisico che la vecchiaia, accanto a termini insultanti, è designata anche con diversi eufemismi, cioè termini che cercano di addolcire la pillola di questo aspetto inquietante. Sono 15 espressioni che servono ad allontanare la paura e il pensiero della morte a cui, prima o poi, siamo tutti destinati.

anziano, attempato, canuto, maturo, navigato, nonno, pantera grigia, patriarca, pensionato, persona di una certa età, persona in là negli anni, stagionato, terza età, venerabile, vegliardo (uomo di età molto avanzata, augusto e venerando), veterano, vintage

Discorso a parte il termine “umarell”, che designa il pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri urbani, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono. E’ un termine canzonatorio più affettuoso che denigrante.

I termini spregiativi per la terza età

Vecchio e sdentato sono quasi sinonimi.

Ed ecco la lista dei termini offensivi verso le persone attempate. Hanno vari livelli di intensità offensiva, dalla presa in giro ironica al disprezzo. Li ho riuniti per categorie semantiche, ovvero ho messo insieme i termini che hanno un significato affine, che vanno a colpire lo stesso aspetto.
Come si può vedere, il gruppo più nutrito di epiteti prende di mira l’aspetto fisico cadente, sintomo (come dicevo sopra) dalla nostra angoscia di morte ma anche del grande valore che la nostra epoca attribuisce. Spesso il termine “vecchio” (percepito come spregiativo perché più diretto rispetto ad “anziano”) è unito agli aggettivi “bavoso”, “rincoglionito”, “babbione”, “porco”.

 

lunga età
(12)
antico, antidiluviano, antiquato, bacucco (dal profeta biblico Abacuc, rappresentato nella tradizione popolare come un vecchio col volto coperto da un panno che in arabo si chiama bakok, da cui il più noto burqua), giurassico, matusa (da Matusalemme), preistorico, rinvecchignito, stagionato, stravecchio, vecchio/vecchiaccio, vetusto  
aspetto fisico cadente
(39)
ammuffito, appassito, arrugginito, avvizzito, bavoso, cadente, cariatide (persona tarda e retrograda), consumato, decrepito, fatiscente, frusto, fossile, grigio, imbalsamato, impolverato,  incartapecorito, infeltrito,  ingiallito, logoro, marcio, matusa, mummia, polveroso, raffermo, rancido, rifatto, rifritto, rimasticato, ritrito, rovinato, rugoso, scalcagnato,  scalcinato,  scassato, sdentato, sgangherato, stantio, stravecchio, tarlato 
mentalità inefficiente / non al passo coi tempi
(7)
demodè, fuori moda, obsolescente, primitivo, retrivo, sorpassato, superato

Perché si insultano (ancor più) in Italia

Un “umarell” in azione.

Oltre al disprezzo e alle paure diffuse un po’ ovunque, nel mondo, verso gli anziani si aggiungono altri sentimenti che sono specifici della situazione sociale dell’Italia. 

  1. Innanzitutto, siamo un Paese vecchio, anzi: fra i più vecchi in assoluto. Per la precisione siamo il terzo Paese al mondo, dopo Giappone e Germania, per età mediana (45,7 anni). Le statistiche sono eloquenti. La popolazione da 0 a 30 anni è solo il 29%, dai 31 ai 64 il 47,7%, e dai 65 agli oltre 100 il 23,2%. Dunque, quasi un italiano su 4 è over 65 anni (e gli over 75 sono l’11,8%). L’indice di vecchiaia è elevatissimo: ci sono 179,4 anziani ogni 100 giovani fino a 14 anni.
    Questo scenario è causato da due fattori: siamo una nazione longeva (forse grazie alla dieta mediterranea) avendo un’aspettativa di vita di 83,5 anni. E, soprattutto, siamo da anni in calo demografico: il numero di morti supera quello dei nati, e le immigrazioni – checché ne dicano i paladini delle frontiere chiuse – non riescono a compensare questo calo. Con il Covid, questo calo è arrivato nel 2020 a circa 300mila unità. 
  2. Età media dei ministri da De Gasperi a oggi (clic per ingrandire).

    Siamo un Paese tradizionalista e gerontocratico. Il potere, cioè, è saldamente nelle mani delle persone anziane, e il ricambio generazionale è bloccato da decenni: il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 30%, anche perché l’accesso al lavoro è spesso bloccato da atteggiamenti familistici (ti assumo perché “figlio di” o “raccomandato da”) piuttosto che dal merito. E questa gerontocrazia si vede soprattutto nei luoghi di potere, governati da “grandi vecchi”: le grandi industrie, le università, la magistratura e la politica. Nei nostri governi, dal 1948 a oggi, l’età media dei ministri è stata 54,9 anni. Solo col governo Renzi (Il “rottamatore”, che ha governato dal 2014 al 2016) l’età media è scesa al livello più basso della nostra storia, 47,3 anni, mentre il governo Monti è stato quello con la media più alta, 62,7 anni, 2011-2012. Con Mario Draghi l’età media dei ministri è di 54,5 anni. D’altra parte, nelle caserme, i “nonni” sono i militari prossimi al congedo, che spesso esercitano atti di prepotenza e intimidazion (“nonnismo”) verso le reclute.

  3. Le persone nate fra gli anni ‘40 e ‘60 sono quelle che hanno consumato, spesso senza ritegno, le risorse economiche del Paese, inquinandolo, indebitandolo e sacrificando il suo futuro con la complicità di diversi politici corrotti e clientelari negli anni ‘60 e ‘70. E così si sono guadagnate il rancore delle generazioni più giovani, che dubitano di arrivare mai a prendere la pensione (mentre fra gli ultrasessantenni ci sono molti baby pensionati)

SESSISMO POST-DATATO

Insulto sessista: befana.

Ai termini della lista qui sopra, che valgono per tutti gli anziani a prescindere dal sesso, ce ne sono 4 in italiano che si usano solo per offendere le donne anziane. Sono quindi sessisti: attaccano le donne per il loro aspetto fisico cadente e sgradevole. Una sorta di contrappasso dantesco: in gioventù la bellezza dà alle donne un vantaggio sociale innegabile, ma con l’età sfiorisce e le priva di appeal, a volte anche a prescindere dal loro valore umano. Come diceva il filosofo Friedrich Nietzsche, “la vecchiaia è l’inferno delle donne”: è il rovescio della medaglia di una società maschilista. Il prezzo tardivo che paga chi ha basato il proprio successo e riconoscimento sociale solo sulla bellezza fisica. Ma anche un gratuito pregiudizio verso le donne, come se la gradevolezza estetica fosse il loro unico valore possibile.

♦ befana (donna vecchia e brutta)

♦ carampana (donna volgare, sguaiata, oppure brutta e vecchia: forse dal nome della Ca’ Rampani, palazzo nobiliare e poi rione assegnato dalla Repubblica di Venezia ad abitazione delle prostitute)

♦ megera (donna di carattere aspro, litigioso e violento, per lo più brutta e vecchia, o fisicamente malmessa: dal nome di una delle Erinni della mitologia greca: era preposta all’invidia e alla gelosia e induceva a commettere delitti, come l’infedeltà matrimoniale),

 ♦ strega (donna brutta e malvagia)  

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Furio Zoccano, personaggio di Carlo Verdone: incarna il rompiscatole ossessivo.

Per sfuggirgli bisognerebbe vivere da soli. Perché ce n’è sempre uno nei paraggi: il vicino di casa, il capo, la collega, il cognato, la suocera. O, peggio, la moglie o il marito. I rompiballe sono ovunque e rendono la vita difficile, a volte impossibile. Sempre pronti a guastare la tranquillità. a farci saltare i nervi.
Ma chi sono concretamente i rompiscatole? Quali sono i loro comportamenti tipici, e quali effetti hanno? In questo articolo impareremo a riconoscerli in un modo originale: attraverso gli insulti con cui li etichettiamo. In italiano sono 65 e offrono un quadro completo ed eloquente di questi insopportabili persone.
Dedico questo studio a tutti i rompicoglioni che infestano la mia vita. Senza escludere (anzi, è probabile) che io stesso, a mia volta, sarò catalogato da altri in questa stessa categoria.

Un comportamento patologico (ma non solo)

Partiamo dalle cause. Che cosa spinge alcune persone a diventare insopportabili per gli altri? A volte questi comportamenti molesti possono essere il sintomo di una patologia mentale

♦ disturbo ossessivo-compulsivo di personalità: affligge chi ha abitudini e regole rigide, un’eccessiva preoccupazione per l’ordine, i dettagli, la perfezione, e ha la necessità di controllare gli altri (come Furio, il personaggio di Verdone)
♦ disturbo antisociale di personalità: chi è incapace di rispettare le norme sociali e manipola gli altri anche in modo violento
♦ disturbo istrionico di personalità: chi cerca in continuazione l’attenzione e approvazione altrui
♦ disturbo paranoico di personalità: chi è molto diffidente, sospettoso e rancoroso verso gli altri
♦ disturbo narcisistico della personalità: chi si sente molto importante e ha un eccessivo bisogno di ammirazione e una mancanza di empatia verso le altre persone
♦ disturbo sadico della personalità: chi prova piacere a infliggere dolore fisico o umiliazioni psicologiche ad altri 

Più spesso, però, i rompiscatole sono le persone occasionalmente stressate, infelici, frustrate che riversano sugli altri la propria insoddisfazione. O gli egoisti che antepongono il proprio benessere a quello altrui, costi quel che costi. Ma anche quelli che cercano di far valere le proprie opinioni andando contro corrente, assumendo posizioni scomode verso il pensiero dominante o i poteri forti: in questa categoria rientra Greta Thunberg, definita “rompiballe” dal quotidiano “Libero” (ma solo in senso squalificante, non certo riconoscendo il suo innegabile coraggio).

 I termini più usati (da 2 secoli)

Cartello eloquente: vietato rompere le palle

Quali sono, in italiano, i termini più usati per indicare le persone moleste? Sono 3, come ho accertato nella mia recente classifica delle parolacce più pronunciate dagli italiani: rompicazzo è al 24° posto, rompicoglioni al 25°, rompimaroni al 27°. L’espressione un po’ più leggera, rompiballe, è assente.Un ulteriore indizio del maschilismo della nostra cultura? Non solo, e non necessariamente: un colpo sotto la cintura fa più male a un uomo che a una donna. Non è questione di cultura ma di natura: i maschi, a differenza delle femmine, hanno le ghiandole sessuali esposte e vulnerabili.

Queste espressioni, popolari e colloquiali, sono antiche: una delle prime apparizioni nella nostra letteratura è un sonetto in romanesco di Gioachino Belli, composto nel 1832 che si intitola per l’appunto “Er rompicojjoni” (sonetto n° 398), dedicato a un tale sor Giorgio, che aveva l’abitudine di… rompere. 

Ma un giorno che pper tempo me n’accorgio
che cce le viè a scoccià ccome ch’è avvezzo,
me je fo avanti e ddico: «Eh soro sgorgio,
ce l’avete scuajjati per un pezzo». 

Ovvero: ma un giorno che me ne accorgo in tempo che ce le viene a scocciare [le palle] com’è abituato a fare, mi farò avanti e gli dirò: “Ehi signor Giorgio, ce li avete squagliati per un bel po’ di tempo”.

UN 'ROMPI' CHE FECE PERDERE LA POLTRONA A UN MINISTRO

Claudio Scajola

E a proposito di storia, bisogna ricordare che un nostro ministro perse il posto per aver pronunciato quell’espressione. Sto parlando di Claudio Scajola, che nel 2002 era ministro dell’Interno. Quell’anno a marzo era stato assassinato dalle nuove Brigate Rosse il professore universitario Marco Biagi, consulente del governo. Scajola era finito al centro di polemiche poiché il suo ministero, l’anno precedente, aveva tolto la scorta a Biagi nonostante questi avesse manifestato preoccupazione per la propria vita.  Dopo l’omicidio, di fronte alle polemiche sulla revoca della scorta, in un’intervista Scajola aveva replicato: «Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Roberto Maroni (allora ministro del Welfare, ndr) se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza.». Si sollevò un putiferio: insultare con quell’epiteto un defunto, per di più assassinato, fu un’offesa intollerabile per l’opinione pubblica. Tanto che solo dopo 4 giorni da quell’intervista, Scajola dovette dimettersi.

Ci addolorano (e non solo nell’animo)

Un film del 1973. regia di Giuliano Biagetti: incassò un miliardo di lire.

Ma guardiamo da vicino la lista di tutti gli epiteti che, nella nostra lingua, descrivono i rompiballe. Già la loro quantità, 65, è una sorpresa. Ma il dato più sorprendente è un altro: anche se il comportamento dei rompiscatole provoca un fastidio psicologico, le metafore che alludono a un disagio mentale sono solo 5. La stragrande maggioranza delle immagini (54,  l’83%) allude invece a un fastidio fisico: localizzato non solo ai genitali, ma anche al deretano, alla pelle, alla testa e in definitiva a tutto il corpo.  Il rompicoglioni, insomma, è una persona che, anche senza sfiorarci, ci procura un dolore acuto, paragonabile a un trauma fisico, a una malattia (peste, cancro, vesciche), a un cibo indigesto, a un peso che ci opprime, a un insetto pungente e insistente, a una corda che ci impedisce di muoverci, a una sostanza appiccicosa.
Insomma, gli scrotoclasti (espressione che trovo eccezionale) sono una vera piaga: anche se non procurano ferite evidenti, lasciano un dolore nell’animo. Sembra che abbiano un sesto senso nel colpirci là dove ci fa più male. Il che dovrebbe farci riflettere sull’importanza di lasciare in pace i nostri simili.
Ecco la lista degli epiteti che li designano (anche nei dialetti), suddivisi per aree semantiche simili: se me ne fossero sfuggiti altri, potete segnalarli nei commenti.
Cliccare sulle strisce blu per visualizzare le espressioni.

Sensazioni fisiche spiacevoli (14 termini)

♦ appiccicoso: persona che non si leva mai di torno (come la colla che resta attaccata)

♦ bostik: vedi sopra (dalla celebre marca di una colla)

♦ vinavil: vedi sopra (altra marca di una colla)

♦ pecetta: cerotto adesivo, ovvero persona appiccicosa

♦ attaccabottoni:  persona che ha l’abitudine di attaccare bottoni, (attività noiosa) che cioè chiacchiera molto e con i suoi lunghi discorsi fa perdere tempo agli altri

♦ cataplasma: cura appiccicosa, costituita da una pasta composta di sostanze vegetali mucillaginose, oleose o amilacee, che viene raccolta in garza o panno sottile e applicata per lo più calda sulla pelle, a scopo emolliente, sedativo 

♦ pittima: decotto di aromi nel vino (detto anche epitema e epittima), che in passato si applicava caldo sulla regione del cuore, o del fegato, o dello stomaco, a scopo terapeutico, come un impiastro

♦ uggioso: da uggia, umidità: sensazione appiccicosa

♦ lappola: pianta spinosa con uncini che resta appiccicata a chi ne viene a contatto

♦ seccante: persona che ha l’effetto simile a quello di essiccare un terreno

♦ molesto: da mole, peso: persona pesante

♦ insistente: colui che in-siste, cioè sta sopra col proprio peso, premendo

♦ pesante: vedi sopra

♦ impiccione: chi crea fastidi, intralci o anche chi si occupa dei fatti altrui (dal latino impedicare «prendere al laccio»)

Dolori al pene (6 termini)

♦ caga cazzo/minchia: oscura l’origine di questa metafora. L’unica spiegazione plausibile mi sembra un rapporto anale andato male (nel quale il pene viene cacato, cioè espulso)

♦ scassaminchia/cazzi: chi procura un dolore simile alla lesione dell’apparato genitale

♦ stracciacazzi: vedi sopra

♦ rompicazzo: vedi sopra

♦ tritacazzi: vedi sopra

♦ grattugiacazzi: vedi sopra (donna dal carattere scorbutico e dall’aspetto sgradevole)

 

Dolori ai testicoli (12 termini)

♦ scassa marroni/palle: chi procura un dolore simile alla lesione dell’apparato genitale

♦ spacca coglioni/marroni/palle: vedi sopra

♦ straccia palle/coglioni: vedi sopra

♦ rompi coglioni/marroni/palle: vedi sopra

♦ trifolapalle: trifolare significa cucinare una vivanda, tagliata a fettine sottili

♦ rompiglioni: abbreviazione di rompicoglioni

♦ scassauallera: espressione napoletana equivalente a scassapalle

♦ sfrantummauallera: espressione napoletana (frantuma palle)

♦ abboffauallera: espressione napoletana (gonfia palle)

♦ rompiscatole: scatole è un eufemismo per testicoli

♦ scocciascatole: rompere la coccia, cioè il guscio (e scatole sta per testicoli)

♦ scrotoclasta:  espressione dotta che significa rompi scroto

Dolori al deretano (3 termini)

♦ stracciaculo: colui che straccia, cioè fa a pezzi il culo

♦ rompiculo: chi rompe il culo

♦ essere un dito nel culo:  essere un fastidio in una zona sensibile

Dolori alla testa (2 termini)

♦ guastacapi: chi rompe la testa ad altri

♦ scocciatore: chi rompere la coccia, cioè la testa

Malattie (8 termini)
  

♦ pestifero: chi contagia la peste

♦ piaga: ferita, lesione, lacerazione

♦ canchero: cancro

♦ malanno: malattia

♦ vescicante:  che produce vesciche, cioè bolle sierose sulla cute

♦ strazio: da distrahĕre «squarciare, lacerare»

♦ crosta: coagulo di sangue in corrispondenza di una lesione

♦ camurrìa: espressione siciliana che sta per gonorrea, infezione sessuale

Cibi indigesti (2 termini)
 

♦ pizza: alimento difficile da digerire

♦ grass de rost: espressione milanese: essere viscido e sgradevole come il grasso dell’arrosto

Fastidi da insetti e altri animali (7 termini)
 

♦ bacherozzolo: persona sgradita, importuna o spregevole come uno scarafaggio

♦ calabrone: persona fastidiosa come un calabrone

♦ piattola: persona fastidiosa come una piattola

♦ tafano: persona fastidiosa come un tafano

♦ mignatta: persona fastidiosa come una sanguisuga

♦ zecca: persona fastidiosa come una zecca

♦ tacchino: corteggiatore insistente, cascamorto simile a un tacchino insistente

Sensazioni psicologiche (5 termini)
 

♦ fastidioso: composto da fastus, superbo e da tedium, noia: persona molesta

♦ petulante: dal latino petere, chiedere: chi chiede in modo insistente

♦ importuno: chi si comporta in modo non opportuno

♦ stressante: chi genera stress

♦ tumistufi:  persona dà arie, che crede di saper tutto, che parla in continuazione

Danni a oggetti (2 termini)
 

♦ scassambrella: chi rompe gli ombrelli, creando disagi

♦ rompi stivali/tasche:  chi rompe stivali e tasche, creando disagi

Situazioni sgradevoli (4 termini)
  

♦ guastafeste: chi turba l’allegria di una festa, capitandovi d’improvviso senza essere invitato, oppure facendo o dicendo cose inopportune; chi rovina l’attuazione d’un progetto, sconvolge un ordine prestabilito

♦ invadente: da invadere, entrare in territorio altrui

♦ piantagrane: la grana va intesa come granello di sostanza granulosa, ossia una particella indesiderata capace di far inceppare un ingranaggio: chi le pianta le dissemina 

♦ rompi, rompitore:  chi crea dolore e disagi

NELLE ALTRE LINGUE

Le metafore che abbiamo visto qui sopra le ritroviamo pari pari anche in altre lingue, con rare eccezioni creative.

Le immagini testicolari sono le più diffuse: in inglese (ball breaker rompiballe, ball buster distruggi coglioni e ball cutter, taglia balle), in francese (casse-couille, scassa coglioni), spagnolo (hinchapelotas, gonfiapalle, rompepelotas o rompebolas, rompiballe).

Piuttosto frequenti anche le metafore che alludono a un dolore al deretano: la persona molesta è indicata come dolore nel culo in inglese (pain in the arse), portoghese (dor na bunda), tedesco (Schmerz im Arsch), russo (боль в заднице ). 

Il francese, però, ha anche due espressione del tutto originali: casse pieds, cioè scassa piedi e soprattutto emmerdeur o emmerdant, letteralmente smerdatore o smerdante. In altre parole, uno che manda in merda le situazioni.

 

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I mille modi di dire “bunga bunga” https://www.parolacce.org/2017/11/14/vocabolario-atti-sessuali/ https://www.parolacce.org/2017/11/14/vocabolario-atti-sessuali/#respond Tue, 14 Nov 2017 10:28:53 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13218 Ho fatto un giro di giostra. Me la sono fatta. L’ho battezzata. Ho inzuppato il biscotto. L’ho aperta come una cozza…. Quando si parla di un rapporto sessuale, si usano espressioni colorite. Molte, però, non sono il massimo della gentilezza:… Continue Reading

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T-shirt goliardica di Fermento Italia (Lecce).

Ho fatto un giro di giostra. Me la sono fatta. L’ho battezzata. Ho inzuppato il biscotto. L’ho aperta come una cozza….
Quando si parla di un rapporto sessuale, si usano espressioni colorite. Molte, però, non sono il massimo della gentilezza: sono verbi nel migliore dei casi goliardici, ma spesso crudi e a volte offensivi per le donne.
Perché è così? Quanti modi abbiamo per descrivere l’atto sessuale? Ci sono metafore più efficaci di altre? E cosa svelano sul significato dell’erotismo?
Tempo fa, avevo fatto un censimento degli appellativi dei genitali: ne era emerso un quadro ricchissimo (avevo trovato 744 nomi per il pene, 595 per la vulva), e quel  post è diventato uno dei più letti di questo sito.
Ora ho esaminato le parole sugli atti sessuali: a quanto ne so, è il primo censimento (meglio: analisi semantico-statistica) di questo genere in Italia. E anche in questo caso il risultato è stato sorprendente: in italiano – escludendo le espressioni dedicate a  masturbazione, rapporto orale e anale – abbiamo 987 termini per designare l’amplesso, da “annaffiare” a “zappare” (in quel senso lì).
Sono circa 1/3 di tutto il lessico erotico. E rivelano due modi fondamentali con cui intendiamo il sesso: come piacere condiviso, o come atto di sopraffazione. Uno scenario che si registra non solo nella cultura italiana, ma anche in altre lingue: inglese, francese, portoghese, spagnolo, tedesco, russo, greco (vedi box più sotto)… Ora scopriremo perché.

Censimento a luci rosse

Doppio senso provocatorio uscito su “Libero”.

Ma prima di approfondire questo punto, val la pena raccontare come sono arrivato a questo risultato. Per censire tutte le parole del sesso ho consultato il monumentale “Dizionario storico del lessico erotico” di Valter Boggione e Giovanni Casalegno (Tea/Utet, 1999). Un’opera che tiene conto di tutti, ma proprio tutti i termini sessuali usati in 8 secoli di letteratura italiana: dalle metafore alle allusioni, dai termini arcaici a quelli moderni, dagli eufemismi infantili ai termini scientifici, fino alle espressioni più volgari.

Gli autori, con pazienza certosina, hanno catalogato le espressioni a seconda del tipo di metafora usata: “Da quando ha raggiunto la civiltà, l’uomo si è scontrato con la necessità di nominare l’innominabile” scrive Boggione. “Per far questo, ha fatto innanzitutto ricorso ai termini che gli erano messi a disposizione delle altre funzioni corporali: il mangiare e il bere, il dormire, il muoversi e il camminare; poi dalle attività quotidiane, il lavoro, la guerra, il divertimento”.

I risultati: movimento, lavoro e guerra

Le statistiche sulle metafore dell’atto sessuale (clic per ingrandire).

Per descrivere l’amplesso – clicca sulla torta qui a lato – si usano soprattutto le metafore ricavate da atti e movimenti (chiavare, ficcare:, 21,4%), dai lavori (scopare, seminare: 14,7%), e dalla guerra (dare un colpo, fare un giro di giostra: 9,6%). Questi tre tipi di metafore, insieme, rappresentano quasi la metà (45,7%) di tutte le metafore sul sesso. Ed è logico, dato che il sesso è un’attività dinamica.
Fra queste espressioni, possiamo approfondire quella più usata in italiano: “scopare” (che è l’8a parolaccia più pronunciata, come scrivevo in questo altro articolo).
In questa espressione, il pene è paragonato a una scopa, e l’organo femminile come locale da ripulire. Questa immagine era già stata usata nell’antica poesia greca (Saffo, Anacreonte) e nella commedia classica di Aristofane. Ed è riapparsa in italiano fra fine ‘400 e inizio ’500, nella tradizione dei canti carnevaleschi toscani. All’epoca si usavano anche altre metafore: nettare, ripulire, spazzare, rimonare. Inizialmente il complemento oggetto di questi verbi era l’organo femminile (designato con immagini tipo “cameretta”); solo negli ultimi due secoli poi avrà come complemento oggetto la donna (“Ho scopato quella tipa”).
Come nel canto rinascimentale “Scope, scope, o bone gente”: “Queste scope allo spazzare non faran polvere niente; se sapete pur menare con la scopa destramente (…)  Se la donna con destrezza nostra scopa adopra piano, averà tal contentezza che restar mai vorrà invano”.

[ clicca sul + per aprire il riquadro ]

METAFORE SESSUALI

TIPI DI METAFORE QUANTITA’ % SUL TOTALE
azioni (farsi, maneggiare) 27 2,7
alimentazione (infornare, inzuppare, pestare, pappare) 79 8,0
cura del corpo (fregare, grattare, pettinare) 17 1,7
abbigliamento (alzare la gonna) 5 0,5
atti e movimenti (sbattere, montare, pestare, chiavare, trapanare, ficcare, impalare, sfondare) 211 21,4
sonno (giacere, andare a letto) 19 1,9
desideri (starci, soddisfare, darsi) 41 4,2
proprietà (possedere, usare, ingrufare) 25 2,5
vita sociale (conoscersi, accompagnarsi, amarsi, fare l’amore) 91 9,2
guerra (dare un colpo/una botta, fare un giro di giostra, ficcare) 95 9,6
lavori (annaffiare, arare, pompare, seminare, scopare) 145 14,7
piaceri (ruzzare, trastullarsi, trombare) 86 8,7
vita morale (libidinare, fornicare, peccare) 46 4,7
natura (beccare, cavalcare, uccellare, montare, ingroppare, deflorare) 80 8,1
altre voci (fottere, picciare, sveltina) 20 2,0
TOTALE 987 100

COME SI DICE ALL'ESTERO

Inzuppare il biscotto: una metafora sessuale sia in spagnolo che in italiano.

I modi linguistici di descrivere l’amplesso hanno ispirato una giovane brianzola, Laura Mangone, 28 anni. Si è laureata all’Accademia di Design di Eindhoven (Paesi Bassi) con una tesi su questo argomento: ha raccolto una serie di espressioni crude sull’atto sessuale in varie lingue, e le ha rappresentate in disegni (sono visibili sul suo sito sexpressions), per mostrarne la carica offensiva Alcuni esempi?

  • In spagnolo far l’amore si dice “Ti misuro il livello dell’olio” (Te mido el aceite) o “Ti taglio come un formaggio” (Te parto como un queso)
  • in portoghese, le crude espressioni “Affogare l’oca” (Afogar o ganso) e “Aprire il granchio” (Abrir o caranguejo)
  • in inglese,Lanciare il missile di carne” (Launching the meat missile) o “Sbattere il salmone” (To smack the salmon) o “L’ho avvitata” (I screwed her)
  • in greco, il cruento “Ho strozzato il coniglio” (πνιγω το κουνελι)
  • in rumenoL’ho gonfiata come un palloncino” (Am umflat-o)
  • in tedesco, lingua poco incline alle volgarità: “Ho fatto entrare il treno” (Den zug einfahren lassen)
  • in francesePiantare un giavellotto nella moquette” (Je plante le javelot dans la moquette), forse per alludere all’eccezionalità del risultato
  • in austriacoDemolire la casa” (das haus abreißen), “Ripulire la cantina” (ihre kantine putzen) o “Nascondere la banana” (die banane verstecken).

«Con questi modi di esprimerti ti abbassi come persona» dice Laura. «La donna è trattata  come oggetto e non come soggetto, in una prospettiva maschilista. C’è un io che fa qualcosa ma mai un noi». La posizione, come vedremo qui sotto, non è nuova. Ma va inquadrata in un’ottica più ampia: lo scontro fra natura e cultura. Per capirlo, dobbiamo analizzare i verbi dell’amplesso.

Sesso transitivo e sesso intransitivo

L’antropologo Ashley Montagu definisce “fottere” un verbo transitivo per il più “transitivo” degli atti umani:  i verbi transitivi sono quelli in cui il verbo non esaurisce l’azione in sé ma la estende su un “oggetto” (“Ho scopato Maria”).
Così ho voluto verificare quanto siano diffusi i verbi nel vocabolario italiano dell’erotismo: ne ho trovati 593, pari al 60,1% del totale dei lemmi. Quando si tratta di descrivere l’atto sessuale, insomma, i verbi sono i più usati rispetto ai sostantivi (botta, colpo, coito, amplesso).

Pubblicità contro corrente: è la donna che “si fa” l’uomo.

Ma sono tutti transitivi questi verbi? In realtà, quelli usati nelle espressioni meno volgari sono proprio i verbi intransitivi: fare sesso, fare l’amore, andare a letto insieme, avere un rapporto, accoppiarsi, copulare. Non sono nemmeno verbi a sè stanti, ma espressioni idiomatiche costruite associando un sostantivo o un aggettivo a un ausiliare. Non descrivono un cambiamento (fatto o subìto) ma sono azioni simmetriche: Mario ha fatto l’amore con Lucia o Lucia ha fatto l’amore con Mario (per quanto anche i verbi transitivi volgari ammettono questa simmetria: una donna può dire “Ho scopato con Mario”). Nei verbi intransitivi si descrive un’azione volontaria comune, come in ballare, parlare, lavorare. Nei modi di dire accettabili, quindi, il sesso è un’attività, dalla modalità non specificata, a cui  due persone si dedicano insieme.

Vista questa importante distinzione, ho cercato di calcolare quanti fossero transitivi e quanti intransitivi, ma i confini fra le due categorie sono labili. E i verbi transitivi (scopare) possono essere usati sia con un complemento oggetto (ho scopato qualcuno) ma anche in senso assoluto (ho scopato). Come criterio, ho classificato come transitivi anche i verbi che ammettono costruzioni intransitive.
Detto questo, comunque, i verbi transitivi sono la grande maggioranza: sono il 76,5% dei verbi, e il 46% del totale dei lemmi, contro il 14,1% dei verbi intransitivi (vedi box qui sotto).
Le metafore sui piaceri, il sonno e l’alimentazione hanno percentuali simili di verbi sia transitivi che intransitivi. Insomma, quando si pensa al sesso in questi termini, c’è una “par condicio” uomo-donna: è un’attività in condivisione, alla pari.

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TRANSITIVI E INTRANSITIVI

VERBI TRANSITIVI % SULLA CATEGORIA VERBI INTRANSITIVI % SULLA CATEGORIA
azioni 4 14,8 6 22,2
alimentazione 21 26,6 22 27,8
cura del corpo 9 52,9 1 5,9
abbigliamento 5 100,0 0 0,0
atti e movimenti 138 65,4 12 5,7
sonno 6 31,6 5 26,3
desideri 19 46,3 6 14,6
proprietà 16 64,0 2 8,0
vita sociale 26 28,6 15 16,5
guerra 37 38,9 20 21,1
lavori 102 70,3 7 4,8
piaceri 15 17,4 17 19,8
vita morale 16 34,8 9 19,6
natura 37 46,3 11 13,8
altre voci 3 15,0 6 30,0
TOTALE 454  46,0 139 14,1
TOTALE VERBI 593 (60,1% sul totale dei lemmi)

Fare sesso = sfruttare o danneggiare?

Nelle espressioni volgari, i verbi sessuali hanno quasi sempre un soggetto maschile. E il soggetto è la parte attiva. E se la donna è l’oggetto, come viene modificata dall’azione? Per rispondere, osserva Steven Pinker, psicolinguista ad Harvard, basta ricordare alcuni modi di dire: “l’ho fottuta”, “l’ho presa in culo”. «Queste espressioni» scrive nel libro “Fatti di parole” «rivelano che fare sesso significa sfruttare o danneggiare qualcuno».

Copertina di Internazionale: è la traduzione letterale di una dell’Economist.

La scrittrice femminista Andrea Dworkin, famosa per il suo attivismo contro la pornografia e la tesi secondo cui ogni rapporto sessuale è uno stupro, ha collegato il linguaggio scurrile all’oppressione delle donne. Nel 1979 scriveva (in “Pornography: men possessing women”): «Scopare implica che il maschio agisca su qualcuno dotato di minore potere, e tale giudizio di valore è così radicato, fino in fondo implicito nell’atto, che chi è scopato è bollato… Nel sistema maschile il sesso è il pene, il pene è potere sessuale, usarlo per scopare è virilità».
Non tutte le donne, però, la pensano così. Nel libro “Dimmi le parolacce: l’immaginario erotico femminile”, la scrittrice statunitense Sallie Tisdale dice: «“Scopare”: ormai ho sentito usare questa parola così tante volte in accezioni semplicemente descrittive, che mi sembra la possibilità più neutra, ben spesso più precisa e meno impegnativa dell’espressione “fare l’amore” che riempie la bocca, o dell’assurdo “andare a letto”. Una mia amica, l’altro giorno, mi ha lasciato allibita dicendomi che lei e il marito, quella mattina, avevano “avuto un rapporto carnale”. Mi ero quasi dimenticata di quell’espressione».

Le due facce del sesso

Che fare dunque? In realtà, sottolinea Pinker, verbi transitivi e intransitivi sono due facce della stessa medaglia. «Esprimono due modelli di sessualità ben diversi. Il primo, quello dei verbi intransitivi, ricorda i manuali di educazione sessuale: il sesso è un’attività, non meglio specificata, cui si dedicano insieme due partner su un piano di uguaglianza. Il secondo, quello dei verbi transitivi, riflette una visione più fosca, a cavallo fra la sociobiologia dei mammiferi e il femminismo stile Dworkin: il sesso è un atto di forza promosso da un maschio attivo che ricade su una femmina passiva, sfruttandola o danneggiandola. Entrambi i modelli esprimono la sessualità umana in tutta la sua gamma di manifestazioni, e se il linguaggio è la nostra guida, il primo è approvato per il discorso pubblico, mentre il secondo è tabù, anche se è ampiamente riconosciuto in privato».

Campagna osè di un candidato alle comunali di Torino 2011: alla fine fu “spazzato” lui, prendendo solo lo 0,37% dei voti.

Insomma, in questi due modi di descrivere il sesso si cela l’eterno dissidio fra natura e cultura. I verbi transitivi sono tabù perché descrivono in modo concreto, nudo e crudo, l’atto sessuale, mostrandone il lato animalesco (da cui vorremmo prendere le distanze); i verbi intransitivi, invece, sono considerati più accettabili perché nascondono l’atto sessuale offrendone una descrizione vagaparitaria e disinfettata.
Un dissidio inevitabile, tanto più che le prospettive maschile e femminile sono opposte anche biologicamente: una
ricerca recente ha scoperto che i centri cerebrali che controllano il sesso e l’aggressività sono separati nelle femmine ma sovrapposti nei maschi.  Questo è stato riscontrato nei topi, ma è plausibile che sia così anche per gli uomini. Ma anche trascurando questo aspetto, nella sessualità maschile e femminile c’è una differenza di fondo: la donna può rimanere incinta, e questo rende il suo approccio verso il sesso meno goliardico e superficiale rispetto a quello degli uomini.

Come uscirne? Una possibile soluzione arriva dalla Francia, dove amoreggiare si dice, in modo onomatopeico, fare “tactac boumboum”: si salva la concretezza dell’atto, ma al tempo stesso la si descrive solo nel suo aspetto acustico. Proprio come avviene nella nostra espressione “fare zum zum”. A questo punto, si potrebbe rivalutare anche il berlusconiano “bunga bunga”.

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Le contraddizioni delle tette https://www.parolacce.org/2016/06/05/significati-culturali-seno/ https://www.parolacce.org/2016/06/05/significati-culturali-seno/#comments Sun, 05 Jun 2016 11:15:17 +0000 https://www.parolacce.org/?p=10274 Se volete prendere le distanze, potete chiamarle mammelle, seni, petto… Ma se ci aggiungete il sentimento e l’immaginazione, diventano borracce, zampogne, davanzali, cocomeri, meloni, pere, ciucce, poppe, sise, bocce, zinne, e, ovviamente, tette. Nella nostra lingua, i sinonimi delle ghiandole mammarie… Continue Reading

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thumbSe volete prendere le distanze, potete chiamarle mammelle, seni, petto… Ma se ci aggiungete il sentimento e l’immaginazione, diventano borracce, zampogne, davanzali, cocomeri, meloni, pere, ciucce, poppe, sise, bocce, zinne, e, ovviamente, tette. Nella nostra lingua, i sinonimi delle ghiandole mammarie sono quasi cento: per la precisione, i linguisti Giovanni Casalegno e Valter Boggione, nel “Dizionario storico del lessico erotico” (Longanesi) ne hanno trovati 94. E non è un dato insolito: i nomi dell’anatomia erotica stimolano da sempre la fantasia, sopra e sotto la cintura, come raccontavo in questo post. (Nella foto, campagna pubblicitaria dei reggiseni brasiliani “Hope” per taglie forti: “destra e sinistra insieme”, dice lo slogan).

SEXY. MA INFLAZIONATO?

Oggi, però, questa zona erogena sembra aver perso il suo potere: già dal 2000 la Cassazione ha sancito che il topless non offende il pudore in quanto “da vari lustri è comunemente accettato ed entrato nel costume sociale”. In effetti è vero: oggi un seno nudo non fa più scandalo, perché ormai inflazionato da rotocalchi, film e tv… occhiEppure, in Italia e nei Paesi mediterranei, è ancora un attributo essenziale della seduzione femminile: da decenni nel nostro immaginario cinematografico si alternano sempre nuove “maggiorate“, da Sophia Loren a Sabrina Ferilli, passando per le donne super prosperose di Federico Fellini.
Qualcuno dice che è un sintomo del mammismo italiano: può darsi, ma anche nel mondo anglosassone – tutt’altro che mammista – i tabloid con le foto di modelle tettone riscuotono molto successo: perché il seno è un simbolo di femminilità, accoglienza, caloredolcezza, cibofecondità, seduzione, salute. Sono come due grandi occhi che ipnotizzano lo sguardo maschile. E, se il seno è bello, suscita ammirazione (e un po’ di invidia) anche nelle altre donne. Oggi, però, è diventato una moda, un’ossessione, anzi: uno status symbol. Chi può, si rifà le zinne. Secondo l’Associazione italiana chirurgia plastica estetica (Aicpe), infatti, nel 2014 in Italia gli interventi per aumentare il seno (mastoplastica additiva) sono stati il secondo intervento più diffuso dopo la liposuzione: l’hanno fatto 33.532 donne, quanto l’intera popolazione di Castelfranco Veneto. Insomma, sono nate le poppe in serie: il seno tondo, sodo e abbondante è diventato uno standard omologato, uguale per tutte. E anche questo contribuisce a ridurne la carica erotica: tant’è che, secondo un’opinione abbastanza diffusa, “tette” non sarebbe una parolaccia ma un’espressione colloquiale o familiare. Infatti, la usano anche le mamme coi loro bambini: “Vieni qui, che ti do la tetta”…

TABU’ E ISTERIE

tetteSarandon

“Io ce l’ho più grande del tuo”: anche a 69 anni, Susan Saradon (destra) fa a gara con Salma Hayek per il seno più “large”.

E’ davvero così? Sì e no. Già un indizio dovrebbe indurre alla cautela: se una donna va dal medico per una visita, non gli dirà che “sente un nodulo alle tette” ma al seno: altrimenti, porterebbe un aspetto di seduzione e di confidenza in un rapporto terapeutico. E, come raccontavo in questo post, i limiti d’uso – insieme al registro basso e ai colori emotivi – sono i tratti distintivi delle parolacce. Ma c’è anche un altro indizio, ancora più rilevante: il termine tette è usato anche nella letteratura erotica e nella pornografia (lo trovate nei siti hot, alla voce “tette grandi”, “tette enormi”, “tettone”). Senza contare che con le tette si può fare la “spagnola”, di cui parlavo qui.
Come si spiega questo fatto? E’ una delle tante schizofrenie sul seno, che oscilla fra due opposte polarità nella nostra cultura: simbolo di maternità e simbolo sexy.
Per la psicoanalisi non è una novità, ma per la nostra società (tradizionalista e maschilista) sono visioni inconciliabili: o sei madre, o sei puttana. Tutte e due le cose insieme, no. Ecco perché a volte si creano cortocircuiti culturali, come accade nelle reazioni isteriche di quanti non tollerano di vedere una donna che allatta in un luogo pubblico, come racconto più avanti.

LE PAROLE PER DIRLO

MappaTettePartiamo dall’analisi linguistica (clicca le mappe per ingrandirle; credito Shutterstock). I termini che si riferiscono al seno fanno riferimento per lo più alla loro forma rotonda (meloni, bisacce, palloni) o sporgente (zinne, dal longobardo “merlo di una muraglia”). Molto diffuso il termine poppe, che – contrariamente a quanto si può immaginare – non deriva dal termine poppare (che ne è un derivato) bensì da pupa, ragazza. Come dire che il seno è un elemento caratterizzante della femminilità. Da questo termine, tra l’altro, deriva anche l’inglese boobs.

Treviso, la Fontana delle tette (1559): zampillava vino.

Treviso, la Fontana delle tette (1559): zampillava vino.

Ma i termini più espressivi legano il termine all’atto del succhiare: ciucce, tette, zizze, menne, e lo stesso termine mamma e mammella riproducono, in modo onomatopeico, la suzione dei bambini. Dunque, mamma è colei che offre il petto da succhiare. E quando una parola evoca qualcosa in modo diretto e fortemente immaginifico, scattano le censure: ecco perché la parola tette non si può dire in ogni circostanza.
Nella nostra civiltà infatti, il seno è diventato una zona eroticamente carica: a differenza delle culture africane, dove è visto solo come un organo per allattare, che attrae solo i bambini. Ecco perché nelle tribù africane il topless è la regola e non turba nessunoSecondo molti antropologi, infatti, l’erotizzazione del seno è un fatto culturale, soggettivo: rappresenterebbe il passaggio da una sessualità “da tergo” (con il richiamo erotico dei glutei, come raccontavo qui) a una frontale, nella quale il seno richiama sul petto le rotondità del sedere.

SACRO E PROFANO

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Campagna in Germania: i lavori manuali sono sexy. Il nesso glutei-seno è evidente.

Eppure, anche nella nostra (apparentemente) libera civiltà, il seno riesce ancora a dare scandalo. Innanzitutto quando è usato nelle pubblicità, che ne sfruttano la carica erotica per attirare l’attenzione e sedurre. Ma mentre in passato era messo in mostra dalle prostitute per attirare i clienti, nella civiltà dei consumi il seno è esposto non per vendere il corpo femminile, bensì per piazzare altre merci, che siano liquori, telefonini, o automobili (ecco perché queste pubblicità sono accusate di sessismo, come raccontavo qui).
E’ un uso strumentale e commerciale del seno, che non ha precedenti nella storia. In passato, invece, il seno era usato in un campo diametralmente opposto: la religione. Leonardo_da_Vinci_Madonna_LittaMolte immagini sacre, dal 1300 in poi, raffigurano infatti la Madonna mentre allatta il bambin Gesù: una tradizione nata nell’arte bizantina nel V secolo, e poi approdata in occidente con grande successo, tanto da aver ispirato artisti come Ambrogio Lorenzetti, Nino Pisano, Jan van Eyck, Albrecht Durer e Leonardo da Vinci (dipinto a sinistra).
E’ la Madonna del latte (detta anche Virgo lactans o Galaktotrophousa, che nutre col latte), un tema che divenne molto popolare perché rappresentava Maria nella sua umanità terrena, nella sua tenerezza di mamma: quindi, più vicina ai fedeli. Col cristianesimo, insomma, l’allattamento è stato rivalutato. Le antiche greche e romane, invece, rifiutavano l’allattamento al seno: per non rovinarlo, le ricche affidavano i poppanti alle balie.
Madonna_del_Latte_San_Bernardo (1)Anzi, si arrivò al punto di rappresentare l’illuminazione mistica di Bernardo di Chiaravalle come una poppata di latte dal seno della Madonna: secondo una leggenda diffusa nel 1300, racconta Victor Stoichita, a Bernardo fu ordinato di predicare davanti al vescovo di Chalon. San Bernardo si rifiutò, si mise in preghiera davanti a Nostra Signora e si addormentò. “Nostra Signora gli mise il suo seno sulla bocca trasmettendogli la scienza divina. Da quel momento Bernardo divenne uno dei predicatori più sottili del suo tempo”. L’episodio fu illustrato da diversi artisti, come Alonso Cano che nel 1656 lo raffigurò come uno schizzo diretto alla bocca del santo (vedi dipinto a destra): d’altronde, era l’unico modo di mantenere le distanze fra la bocca di Bernardo e il seno di Maria. Ma nel frattempo erano cambiati i tempi: con l’austerità dei costumi voluta dalla Controriforma (1563), la Chiesa censurò queste immagini, raffigurando da allora in poi la Madonna in modo più castigato.

SE ALLATTARE FA SCANDALO

Eppure, ancora oggi, l’allattamento fa scandalo: nel 2014 ha fatto clamore la disavventura di una 35enne britannica, Louise Burns, che è stata costretta dai camerieri di un hotel di lusso di Londra, il Claridge, a coprirsi con un tovagliolo mentre allattava. Un caso tutt’altro che isolato, che dimostra quanto poco libera è la nostra civiltà: cosa c’è di scandaloso in una donna che allatta? Il motivo è che l’immagine naturale di un seno usato per la sua funzione fisiologica di ghiandola mammaria stride con quella del seno come richiamo erotico. E minaccia di annullarne la sua carica sexy.

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La top model Nicole Trunfio in una copertina pro allattamento e in una versione censurata.

Ma questo tabù nasconde in realtà anche un classismo e un interesse commerciale, denuncia in un recente saggio, Amy Bentley, docente di nutrizione all’università di New York: da quando, negli anni ’50, si diffuse il latte in polvere, l’industria alimentare ha fatto molte campagne per promuovere la nutrizione infantile tramite biberon, descrivendola come “pratica, utile, moderna”, facendo passare l’allattamento al seno come un’abitudine da classi povere e primitive.
Sono occorsi decenni di studi per comprendere invece che il latte materno è molto più sano di quello in polvere, perché rafforza le difese immunitarie dei bambini. E così sono nati i movimenti per sostenere l’allattamento al seno, come la Leche League. E da questo punto di vista, è molto più progressista papa Francesco, che fin dalla sua elezione ha sempre esortato le donne a nutrire i loro neonati, perfino in chiesa.

seno

Il seno per attirare l’attenzione: una scorciatoia usata in molti spot. E contestata per il suo sessismo.

LE TETTE IN POLITICA

I seni nudi sono le nostre armi: lo slogan di Femen.

I seni nudi sono le nostre armi: lo slogan di Femen.

Ma c’è un altro aspetto del seno che ha creato scandalo: il suo uso come arma di protesta. Sfruttando tutte queste contraddizioni della nostra cultura, le attiviste di Femen, movimento femminista ucraino, hanno inscenato diverse proteste presentandosi a seno nudo, spesso sovrastato da scritte e slogan. Le loro performance fanno sempre clamore, e non solo per i loro bersagli (uomini e luoghi di potere): ma soprattutto per il contrasto fra la nudità, la vulnerabilità, l’intimità femminile e l’esposizione mediatica. Danno un senso di intimità violata.
A differenza dei topless degli anni ’70, esibiti come bandiera della liberazione sessuale e dell’eguaglianza con gli uomini (“anche noi abbiamo diritto a stare a petto nudo”), le Femen invece mostrano un seno desessualizzato e politico. Non è più una zona erogena e nemmeno un attributo materno: è un’arma di protesta, un nudo di sofferenza e di rabbia tutta femminile davanti a un mondo che altrimenti le ignorerebbe. Le poppe nude fanno notizia e attirano l’attenzione? Bene, allora guardatele, perché sono la vetrina, il manifesto delle nostre idee. E’ nato un nuovo cortocircuito sulle tette.

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