Giocando a carte si possono infrangere molti tabù (Shutterstock).
Dimenticate “Scarabeo” o “Paroliamo”. I 7 giochi di carte che vi racconto in questo articolo usano il “lato oscuro” del vocabolario: le parolacce. Che, se usate dentro le regole di un gioco, perdono offensività, diventando uno sfogo divertente e liberatorio fra amici.
Un esempio? Il rap: è nato fra gli afroamericani come battaglia verbale su base ritmica, le “dozzine” (dozens), in cui un cantante deve cercare di prevalere sull’altro insultandolo in modo sempre più creativo (spesso prendendone di mira la madre).
A carte, poi, quando le passioni si scatenano, fioccano le volgarità: ne sanno qualcosa i frequentatori del centro diurno per anziani di Frascati, dove la scorsa primavera, per qualche settimana, è stato vietato il gioco delle carte dato che i giocatori urlavano parolacce e bestemmie che infastidivano i presenti. E’ diventato un caso mediatico.
I 7 giochi che ho raccolto qui, invece, nascono proprio con lo scopo di usare un linguaggio sboccato: alcuni sono giochi goliardici, e possono regalare momenti di svago. Ce ne sono alcuni a scopo erotico, tanto che hanno avuto come testimonial la pornostar Rocco Siffredi. Altri, invece, cadono nell’insulso o nel cattivo gusto. Uno di questi, “Squillo” ha provocato persino un’interrogazione parlamentare.
E voi che ne pensate? Potete scrivere segnalazioni e recensioni nei commenti.
MERDA. E’ un gioco tradizionale che si fa con un comune mazzo di carte. Ogni giocatore ha 4 carte in mano, e ne deve scartare una passandola al giocatore alla propria destra. In contemporanea, ne riceve un’altra dal giocatore alla propria sinistra. Il primo che riesce a comporre un poker (4 carte uguali di diversi semi) deve battere con forza la mano al centro del tavolo, urlando: “Merda!”. Tutti gli altri giocatori devono mettere la propria mano sulla sua. L’ultimo che arriva perde, e per penitenza pesca una carta dal mazzo: il suo valore saranno altrettanti (immaginari) chili di merda: le figure hanno i valori più alti, e l’asso è la carta più pesante in assoluto (11 kg). Gli eventuali jolly valgono 25 kg di merda. Vince chi ha accumulato meno chili di … rifiuti.
E’ un gioco molto divertente e liberatorio, soprattutto se fatto in velocità. Ne è stata fatta anche un’app per cellulari. La sua variante perbene si chiama “tappo”.
ASINO. Anche quest o è un gioco tradizionale che si fa con un mazzo di comuni carte. All’inizio se ne sceglie una, che viene nascosta a tutti i giocatori. Le carte rimaste sono distribuite fra tutti, e ciascuno deve scartare le coppie dello stesso valore. Poi, il giocatore rimasto con più carte ne prende una a caso da chi sta alla sua sinistra (e scarta l’eventuale coppia che si forma), e poi il turno passa al vicino alla sua destra. Chi rimane con l’unica carta spaiata perde e sarà l’asino della partita, sbeffeggiato da tutti i giocatori.
C’è anche una versione acquistabile “Non fare l’asino” di “Grandi giochi”: la dinamica è un po’ diversa, è un gioco di riflessi in cui chi si muove per ultimo (prendendo una carota sul tavolo quando c’è una coppia di carte uguali) accumula punti negativi, guadagnandosi un copricapo da asino.
PRENDI E PORTA A CASA. E’ un gioco di carte per bambini prodotto da Rose & Poison e Dal Negro. Ogni giocatore ha un mazzetto di 20 carte, da cui ne pesca 5. Chi inizia il gioco può insultare un altro giocatore usando le carte della propria mano e componendo i singoli insulti in modo da formarne altri più lunghi (tipo “Brutto/bamboccino/col ciuccio in bocca”). Tutti gli insulti devono essere cantilenati come si faceva da bambini (“A te ti piace/un piscialletto/na na na na na…”).
Il giocatore che riceve gli insulti può difendersi con alcune carte speciali (“specchio riflesso”, “prendi e porta a casa”, “non è vero niente faccia di serpente”). Gli insulti sulle carte sono ironici e mai volgari: “hai i piedi a banana”, “imbranato”, “figlio di papà”, “frignone”, “dentone”.
MAI DIRE PIRLA. Gioco di carte di Unicopli. Ogni giocatore ha 13 carte che corrispondono ad altrettanti insulti. Al proprio turno, si insulta un avversario a scelta, giocandogli contro una delle proprie carte coperta; il destinatario potrà accettare o rifiutare l’insulto. Se questo non corrisponde a quello dichiarato, tornerà al mittente. L’insulto “Pirla” non deve mai essere pronunciato durante il gioco.
Al termine della partita, ogni carta accumulata davanti a sé vale un punto, tranne quella “Pirla” che ne vale 5. Il giocatore che ha accumulato meno punti è il trionfatore, nonché il meno insultato di tutti.
SÒCC’MEL. E’ un gioco di Alex Games. In bolognese l’espressione, letteralmente, vuol dire “succhiamelo”, ed è l’equivalente del palermitano “suca” a cui avevo dedicato un post. In bolognese, si usa come esclamazione più di stupore, incredulità e ammirazione che di provocazione.
E’ un mazzo di 55 carte. Lo scopo del gioco è fare “incazzare” gli altri giocatori a colpi di sfiga. Ogni giocatore riceve infatti il proprio “incazzometro” nel quale segnare, con un omino, il proprio livello di arrabbiatura (da “M’è scesa la catena” a “incazzato come una bestia”) e 5 carte dal mazzo.
Per far “incazzare” gli altri gli si gioca contro una delle carte “sfiga”, facendo salire il livello sull’”incazzometro”. Per ridurre l’”incazzatura” in arrivo ci si può sfogare giocando una carta “parolaccia” recitando ad alta voce la relativa espressione dialettale bolognese: da “Che du maròn” (che due palle) a “Ch’at gnèss un cancher!” (che ti venga un cancro).
Vince il giocatore che riuscirà a portare tutti gli avversari oltre il livello 10 di “incazzometro”.
Il gioco ha avuto un sequel, “Socc’mel 2”, e le varianti in altri dialetti: “Tutt’Italia”, “Tutt’Italia 2” e “Benvenuto al Sud”.
CARTE CONTRO L’UMANITÀ. E’ un gioco a carte nato dalla fantasia di un gruppo di studenti americani dell’Illinois come divertimento per Capodanno. I ragazzi, studenti delle superiori, hanno ideato il gioco e l’hanno finanziato con una campagna di crowdfunding attraverso il sito di Kickstarter.
La dinamica (“un gioco da feste per gente orribile”, recita il dissacrante sottotitolo) è semplice: ci sono 80 carte-domanda, e 420 carte risposta. A turno, un giocatore ha il ruolo di capo e sceglie una carta domanda; gli altri devono scegliere, fra le proprie 10 carte-risposta (su parti anatomiche, insulti, riferimenti sessuali…), la più cinica, spiazzante, provocatoria. Vince chi dà le risposte più divertenti.
Il nome del gioco parafrasa l’espressione “Crimini contro l’umanità”, dato che il suo contenuto è politicamente scorretto: lo scopo del gioco è infatti creare delle coppie domanda-risposta basate sull’humor nero, ad esempio: “Cosa ha fatto finire la mia precedente relazione?” “Le caccole” oppure “Una grattata di culo clandestina”.
Il gioco è in licenza “creative commons”: l’edizione italiana si può scaricare liberamente da questo sito.
La Raven ha realizzato una versione simile, “Coco rido”, basata sullo stesso meccanismo. A leggere le risposte dei due giochi, non mi sono sbellicato dalle risate: mi sembrano poco spiritosi. Ma forse bisognerebbe provarli, chissà.
SQUILLO. E’ un gioco a carte ideato dal cantante “porn groove” Immanuel Casto ed edito da Raven. I giocatori fanno il ruolo di “papponi” e usano le squillo in dotazione (Lola, Hannah, Manny…) per fare pratiche di ogni tipo. Tranne alcune carte divertenti (“Senso di colpa cattolico”, che limita le azioni della squillo, o il “Testimone di Geova”, che colpisce il pappone, rendendogli impossibile la gestione delle proprie prostitute) in realtà il tono è ultravolgare, (come la carta “Scorpacciata di cazzi”, che “risolleva l’animo delle proprie ragazze”), ma soprattutto è molto violento: le ragazze sono “troie”, che possono essere uccise in modo sanguinario e i loro organi possono essere venduti per fare cassa (!).
Non stupisce, quindi, che il gioco abbia alimentato molte polemiche: quando è uscito, nel 2012, tre parlamentari donne – Emanuela Baio, Maria Pia Garavaglia e Laura Bianconi – hanno presentato raccolte di firme e interrogazioni in Parlamento chiedendo che il gioco fosse ritirato dal commercio “perché incita alla mercificazione del corpo femminile, parla di vendita di organi umani, incita all’uso di eroina e a pratiche sessuali disumane”. Insomma, oltre al politicamente scorretto si sconfina nel cattivo gusto, il che non è divertente. Il gioco però è rimasto in commercio (vietato ai minori di 18 anni) e ha pure fatto vari sequel: “Bordello d’oriente”, “Marchettari sprovveduti”, “Time travels” (in altre epoche).
In ambito erotico, esistono in commercio vari giochi. Sono, o vorrebbero essere, giochi per stimolare la coppia o anche più coppie. Per quanto spinti, dal poco che sono riuscito a vedere sul Web le carte hanno immagini abbastanza esplicite ma non usano un linguaggio triviale. Quindi li cito per amor di completezza: se qualcuno dei lettori li ha visti e ne sa di più, ci faccia sapere nei commenti!
Alcuni esempi? “XXXopoly” e “Sexopoly” (variante sexy di Monopoly: si paga in denaro o con atti intimi di crescente valore), “Exxxcitation” (varie prove da superare per arrivare all’apice del piacere) e “Orgasmo” a cui ha fatto da testimonial la pornostar Rocco Siffredi: il jolly è la “carta fellatio”.
A questi giochi moderni ne aggiungo uno molto antico: le “minchiate“. Si chiamava così il mazzo di carte, derivate dai tarocchi, che si usava per un gioco. Si utilizzava un mazzo di 97 carte ottenuto dai tarocchi inserendo la Prudenza, le tre virtu teologali, i quattro elementi e i dodici segni zodiacali e togliendo la papessa. Il gioco era chiamato inizialmente “Germini” (da “gemini”, gemelli, segno zodiacale), po, dalla fine del 1600, fu denominato “Minchiate”, inteso come “cose da nulla”. Fu un gioco di grande successo: si diffuse in tutta Italia, e anche in Francia, Inghilterra e Spagna.
Questo post è dedicato all’amico Massimiliano Fedeli, appassionato di giochi che mi ha dato l’idea di parlare di questo argomento.
The post 7 giochi di carte senza censure first appeared on Parolacce.]]>La scritta “suca” è ubiquitaria: qui è tracciata anche sulla neve.
E’ uno dei tabù più forti, ma è un mito pop: è diventato un modo di dire planetario, ispirando graffiti, canzoni, romanzi e slogan. In Italia il rapporto orale è citato in 3 espressioni dialettali: “suca” (“succhia”, Palermo), “socc’mel” e “soccia” (“succhiamelo”, Bologna), e “vafammocc” (“vai a fare in bocca”, Napoli). Il loro significato, però, va oltre il sesso: esprimono un ventaglio di emozioni che non è semplice tradurre a parole.
E non succede solo in Italia: modi di dire equivalenti esistono anche in inglese, spagnolo, francese.
Ma perché? Com’è possibile che un atto erotico sia diventato un’offesa? Il tema è spinoso, ma ho deciso di indagare. Anche perché il mese scorso il “suca” è stato elevato a dignità accademica, diventando l’argomento di una tesi di laurea discussa all’università di Palermo.
Che cosa vuol dire l’espressione “suca” (succhia)? Letteralmente, si ordina a qualcuno il sesso orale. Dunque, per capire il valore simbolico di questo modo di dire, bisogna prima capire il significato biologico del rapporto orale.
Secondo l’etologo britannico Desmond Morris, più un atto sessuale è considerato “spinto”, più è probabile che sia proibito in pubblico. «Dunque, usare il segno più “sporco”, più tabù possibile può diventare una forma simbolica di attacco: invece di colpire l’avversario, lo insulto con un gesto sessuale». Diverse scimmie, infatti, mimano atti sessuali come forma di minaccia: si avvicinano a un loro simile, si mettono in posizione di monta e fanno qualche simbolica spinta pelvica. Spiega Morris nel libro “L’uomo e i suoi gesti” (Mondadori). «Mimare un atto sessuale rappresenta un sentimento di superiorità: “Non mi fai paura, io ti sono superiore”. E’ un gesto di auto-affermazione anche in situazioni non sessuali».
Saggezza trasgressiva su un muro (dal sito “suca forte“).
Queste considerazioni valgono anche per il sesso orale, sia esso mimato (con un gesto), oppure pronunciato o scritto.
Ma qual è il significato biologico e simbolico del sesso orale? L’uomo – insieme ai bonobo e ai pipistrelli della frutta – è l’unico mammifero a praticarlo. E’ un’intensa forma di piacere erotico, che si apprende per abitudine culturale. E’ piacevole riceverlo, ma non per tutti praticarlo. E non ha uno scopo riproduttivo: secondo i biologi è uno dei modi per rinforzare il legame fra partner.
Dunque, dal punto di vista simbolico il sesso orale è:
Tutto questo ci aiuta a capire il significato di “suca”. Il verbo è un imperativo: ma non è un’azione o un invito all’azione. Questa espressione, diffusa sui muri di Palermo fin dagli anni ‘70, è usata infatti come modo per esprimere uno stato d’animo. Che cosa significa allora?
Innanzitutto è un’espressione di superiorità, proprio come le scimmie di cui parla Morris: significa “io sono superiore a te, ti ho sottomesso”. Al punto che, nella mia fantasia, utilizzo il tuo corpo a mio esclusivo godimento. Dunque, anche un modo per dire: “ti svilisco, sei buono/a solo per soddisfare i miei impulsi sessuali”.
Un gesto di vittoria, di scherno, di rivalsa. Ecco perché la scritta “suca” appare frequentemente nella zona dello stadio di Palermo per dileggiare i tifosi delle squadre avversarie, oppure le forze dell’ordine o le istituzioni (prefettura, polizia, carabinieri).
Essendo un tabù molto forte, inoltre, basta dirlo per provocare uno choc nell’ascoltatore/lettore: si introduce uno scenario del tutto intimo, abbassando il livello della conversazione su un piano animalesco.
Ma “suca” è usato anche in senso assoluto, senza un destinatario particolare: è un modo per dar sfogo alla rabbia o alla noia. Si scrive per spirito goliardico o per provocazione, per sfidare i benpensanti: è un modo di dire “me ne frego di tutti, siete tutti inferiori, voglio solo usarvi per godere”. Insomma, un insulto totale. Un concetto che viene espresso anche a gesti, mettendo le mani aperte ai lati dei genitali.
E pur essendo nato come insulto maschile, per esprimere i rapporti di dominanza fra uomini, oggi questo modo di dire (e il suo corrispettivo gesto) è usato anche dalle donne.
Lo scrittore siciliano Fulvio Abbate nel suo romanzo “Zero Maggio a Palermo”(1990) lo definisce “un punto fisso nello spazio”:
La scritta su una panchina (Suca forte).
SUCA (…) è la scritta che a Palermo viene tracciata su ogni parete bene in vista. La scritta di benvenuto. (…) Suca può anche essere trasformata: la S diventa un 8, la U e la C due zeri, soltanto la A resta tale, e alla fine di quest’operazione si legge 800A, ossia la stessa offesa, se è vero che molti palermitani talvolta scrivono direttamente in questo modo. (…)
L’umanità che vive a Palermo si divide in due categorie: quelli che scrivono suca e gli altri che cancellano suca. Questi ultimi, come Sisifo, sono i palermitani più infelici, i vinti, perché, come è evidente guardando i muri, suca vince sempre: su insegne e saracinesche, cassonetti dell’immondizia, porte e anche monumenti; ne riappaiono a centinaia e di tutte le dimensioni (…).
Non è importante che suca accompagni un nome, suca non ha genere, non è maschile né femminile, e solo di rado ha bisogno di un volto certo cui rivolgersi: suca è come un punto fisso dello spazio e può bastare, come ogni insulto, anche soltanto a se stesso. Si sa che prima o poi qualcuno leggerà, soprattutto uomini perché, questo sì, suca è un insulto maschile, rivolto castamente al mondo degli uomini, nonostante esprima una cosa che si desidera quasi sempre venga fatta da una ragazza. Talvolta suca è accompagnato dalla raccomandazione FORTE, ma il SUCA FORTE non muta l’essenza dell’offesa, piuttosto fa comprendere senza fatica cos’è il plusvalore. (…) suca, come il muschio, vive sui muri anche dopo essersi seccato, quindi per anni e anni aspetta di sbiadire senza mai cancellarsi”.
Insomma, il sesso orale è un simbolo sfaccettato e poliedrico. «Un mito pop virale», come lo definisce Alessandra Agola, 26 anni, che lo scorso dicembre si è laureata in Scienze della comunicazione all’Università di Palermo proprio con una tesi sul “suca”, ma non tanto dal punto di vista linguistico, quanto come graffito urbano e fenomeno culturale (“S-Word: segni urbani e writing”, relatore il semiologo Dario Mangano).
Il “suca” trasformato in 800A.
La neolaureata ha passato in rassegna i centinaia di “suca” sui muri e le panchine di Palermo, raccontando come sia entrato nell’identità cittadina: «Un verbo liberatorio grazie alla sua pronuncia morbida ma veloce», scrive. «Quando lo si vuole rafforzare, si vuole insultare, allora si allunga la “u”». Ma l’espressione può essere rafforzata anche in altri modi: “suca forte” o “suca c’a pompa” (con la pompa).
L’eufemismo grafico “800A” (per un palermitano, un messaggio in codice), racconta Agola, ha ispirato anche portachiavi, una casa discografica (800a records), e opere d’arte.
⇒ L’espressione “suca” è un’offesa per cui si può rischiare una denuncia? Sulla questione ho espresso il mio parere: potete leggerlo qui (nelle risposte ai commenti dei lettori).
Il gesto irridente di X-Pac, wrestler della D-Generation X.
Negli Usa, “suck it” è diventato il tormentone ufficiale di D-Generation X, un gruppo di wrestling professionista attivo dal 1997 al 2010. Era una squadra che puntava tutto sulla provocazione, mostrandosi come gruppo di anarchici e menefreghisti: il loro slogan era «we got two words for ya: SUCK IT!» (abbiamo due parole per voi: succhialo!), accompagnato dal gesto di portare le braccia (laterali o incrociate a X) all’altezza dei genitali. Una scelta che li ha portati sotto i riflettori, in un Paese puritano.
Proprio questo gesto, tra l’altro, è usato – non solo negli Usa – anche dai tifosi delle squadre di calcio per irridere avversari fisicamente lontani, come raccontavo nell’enciclopedia dei gestacci. Anche a lunghe distanze, insomma, l’offesa arriva a destinazione.
Palermo non è l’unica città italiana che utilizza le metafore del sesso orale in un modo di dire. Altrettanto virale è il suo equivalente bolognese “socc’mel” (e “soccia”). Ma qui il verbo si arricchisce di sfumature diverse: non esprime solo derisione, superiorità e strafottenza. A Bologna il verbo è usato molto più spesso come esclamazione di stupore, incredulità, ammirazione: è l’equivalente (molto più forte) di “accidenti”. L’origine di questo modo di dire è semplice: le intense sensazioni psicofisiche che si vivono durante un rapporto orale sono usate per esprimere un’emozione intensa, anche non di tipo erotico.
Anche in bolognese sono presenti rafforzativi e varianti: sócc’mel bän (succhiamelo bene), e sócc’mel bän in pónta (succhiamelo bene in punta).
Nel 2010 è stato pubblicato un gioco a carte intitolato Sócc’mel, cui ha fatto seguito, nel 2012, un’espansione denominata Sócc’mel va in vacanza!
Insomma, anche in questo caso un modo di dire poliedrico e popolare, tanto che il cantautore bolognese Andrea Mingardi gli ha dedicato una canzone:
Una tazza con l’espressione napoletana.
In Campania c’è un’espressione che allude al sesso orale: “vafammocc”, letteralmente “vai a fare in bocca”. Un equivalente (vafanvuocc) è diffuso anche in Puglia.
In questo caso, il senso di scherno, offesa e superiorità è giocato ricalcando il suono di un’altra celebre espressione: vaffanculo (di cui ho raccontato l’origine qui). Si tratta quindi, linguisticamente parlando, di una “maledizione”: si augura il male a qualcuno.
Questa espressione, infatti, è usata per cacciare via una persona, mettendola (a livello immaginario) in una situazione sgradevole o dolorosa (trovate un campionario di maledizioni, italiane ed estere, qui). Ma in questa espressione il parlante ordina al destinatario di praticare il sesso orale non a lui, ma ad altri.
Infatti, il “vafammocc” non è usato in modo assoluto. Spesso si indicano anche i destinatari (immaginari) dell’atto: a “ziet”, a “soreta”, a “mammeta”, a “chi t’è mmuort” (a tua zia, a tua sorella, a tua mamma, ai tuoi defunti). Si infrange, insomma, un doppio tabù: si parla di sesso orale e lo si immagina per scopi incestuosi o addirittura necrofili.
Nonostante cotanta pesantezza, anche questa espressione è entrata nella cultura popolare: il rapper napoletano Uomodisu ne ha fatto una canzone, “Vafammock”: ha avuto più di un milione di visualizzazioni. Notevole, per un modo di dire così pesante.