sorca | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 Fri, 27 Oct 2023 21:15:59 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png sorca | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Etimologia del cazzo https://www.parolacce.org/2016/04/26/origine-parola-cazzo/ https://www.parolacce.org/2016/04/26/origine-parola-cazzo/#comments Tue, 26 Apr 2016 15:03:38 +0000 https://www.parolacce.org/?p=9925   E’ la parolaccia che diciamo più spesso. Ha così tanti significati, derivati e varianti, che può esprimere qualsiasi cosa: non solo il sesso ma anche il nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato),… Continue Reading

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Pene volante in un manoscritto del 1340 il “Decretum Gratiani”, testo di diritto canonico commentato da Bartolomeo da Brescia

E’ la parolaccia che diciamo più spesso. Ha così tanti significati, derivati e varianti, che può esprimere qualsiasi cosa: non solo il sesso ma anche il nulla (cazzata), la stupidità (cazzone), la sorpresa (cazzo!), la noia (scazzo), la rabbia (incazzato), la forza (cazzuto), le vicende private (cazzi miei), l’approssimazione (a cazzo), la parte più sensibile (rompere il cazzo)… Ed è anche un rafforzativo privo di significato, ma efficace per esprimere la propria rabbia e indignazione: “Che cazzo vuoi?”.
Ecco perché uno dei narratori più importanti del Novecento, Italo Calvino, aveva elogiato la sua “espressività impareggiabile“, che fa impallidire i suoi sinonimi nelle altre lingue europee: tanto che arrivò a suggerire di “farne un uso appropriato e non automatico; se no, è un bene nazionale che si deteriora, e dovrebbe intervenire Italia Nostra”.
(NB: Se volete approfondire tutti i modi di dire… del cazzo, trovate un approfondimento in quest’altro articolo).
Eppure, nonostante tutta questa popolarità la parola “cazzo” è un mistero, almeno per quanto riguarda la sua etimologia: da dove arriva? Schiere di linguisti hanno lanciato ipotesi più o meno plausibili: il problema è che, essendo stato per secoli un termine colloquiale e tabù, le sue tracce nella letteratura scritta sono molto scarse. In questo post cercherò di fare un po’ di chiarezza.

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“Qui abita la felicità”: iscrizione scaramantica in un panificio di Pompei.

Parto da una fonte autorevole: il Deli (Dizionario etimologico della lingua italiana) della Zanichelli, curato da Manlio e Michele Cortelazzo (e la rima è in tema). Il dizionario considera “più persuasiva” l’ipotesi del linguista triestino Franco Crevatin, secondo il quale la parola deriva da “oco“, maschio dell’oca, con l’aggiunta del suffisso -azzo. Insomma, deriva da ocazzo, con caduta della “o” iniziale: l’ipotesi è confermata dal fatto che, in alcuni dialetti, oco e oca significano “membro virile”. Un’ipotesi plausibile, non solo per la forma lessicale ma anche per il contenuto: come raccontavo  in questo post, infatti, molte metafore paragonano gli organi sessuali ad animali (uccello, sorca…).
Ma l’ipotesi non regge, osserva il linguista Ottavio Lurati: questo uso, infatti, appare in Lombardia diverso tempo dopo le prime citazioni letterarie  del termine cazzo, attestate per lo più in Italia centrale.

Qual è, allora, il documento in cui appare per la prima volta il termine “cazzo”? E’ un sonetto comico scritto da Rustico Filippi (1235-1295), poeta realista fiorentino.  Ecco il brano, dedicato probabilmente a Fastello dei Tosinghi, podestà guelfo di San Gimignano nel 1259:
Fastel, messer fastidio de le cazza,
dibassa [denigra] i ghebellini a dismisura,
e tutto il giorno arringa in su la piazza
e dice ch’e’ gli tiene ’n aventura [li giudica in pericolo].
Dunque, Fastello è chiamato “fastidio de le cazza”: ovvero, fastidio del cazzo. Oggi diremmo: rompicazzo. Da notare che qui “cazza” è al plurale: come molte parole latine neutre, che al plurale terminavano in -a. Dunque, la parola cazzo era usata a Firenze già nel Medioevo, nel 1200. Ma con quale significato? Per il linguista Angelico Prati  deriva dal tardo latino “cattia” (tazza) nel significato di mestola. Dunque, l’assonanza fra la parola cazzo e cazzeruolacasseruola, cazzuola deriva dalla loro comune parentela etimologica come attrezzi da cucina .

Albero dei peni nel "Roman de la rose", manoscritto francese del 1300.

Albero dei peni nel “Roman de la rose”, manoscritto francese (1300).

Ma questa interpretazione ha un problema, nota il linguista Antonio Lupis: e cioè che cattia e cazza significano tazza, contenitore, e non “manico“, come sarebbe logico supporre per evocare la forma fallica: tanto che nel sonetto di Filippi cazza è in realtà un sinonimo di scodelle, contenitori, “scatole”. Quindi, a rigore, “fastidio de le cazza” è un sinonimo di “rompicoglioni“.
In più, aggiunge Lupis, il femminile cazza è presente solo in un altro documento, il “Pataffio”, un componimento anonimo del 1521: “pur di cazza [mestola]  ‘l catino [vaso] imbratterò / ed il battaglio per lo corpo diemmi”. Ma, osserva Lupis, è una forma del 1521 “e occorrono forme antiche per giustificare l’equazione cazza=cazzo”.

In realtà, aggiunge Lupis, esistono molte più prove dell’uso del termine cazzo al maschile come “membro virile”:
1) in un documento del 1266 trovato ad Arco (Trento) in cui il termine è usato come soprannome;
2) in un documento fiorentino del 1295 che parla di “Neri caççuto” (cazzuto);
3) in un testo di Meo dei Tolomei del 1310: “tu porti ‘l gonfalon degli sciaurati/ figliuol di quella c’ha il cul sì rodente / che tuti i cazzi del mondo ha stancati“;
4) in un testo del 1360 di Dolcibene de’ Tori, buffone fiorentino: “I’ ho il cazzo mio, ch’è tanto vano, / che dorme in su’ coglioni e non si desta, / ed è cinqu’anni o più che non fu sano“;
5) nel glossario latino-eugubino della metà del 1300: “mentula, id est lo caçço“: documento notevole, perché equipara caçço (cazzo) a mentula, termine latino da cui deriva il termine minchia.

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Zucchina fallica trafigge un fico(a): decorazione a Villa Farnesina (Raffaello e Giovanni da Udine, 1516).

Dunque, conclude Lupis, il termine cazzo non deriva da cazza (= mestolo) perché cazzo è un termine originale dell’area umbro-toscana fin dal 1300. Da dove arriva, allora? Dal verbo captiare, cacciare, nel senso di “infilare, mettere dentro con forza”: cazzo, quindi, è “la cosa che si infila, si mette dentro“. Tanto che anche il verbo marinaresco cazzare (= tirare a sè una fune) ne condivide l’etimo, come anche la parola cazzotto, pugno forte, “cacciare via con forza”.
Stanno davvero così le cose? In mancanza di nuovi documenti, finora mi pare l’ipotesi più convincente.
In ogni caso, già dal 1400 il termine cazzo era diventato di uso comune: tanto che Leonardo da Vinci lo usò in una raccolta di facezie (oggi diremmo barzellette). In una racconta di un tale, Tommaso, che, arrivato a Modena, dovette pagare cinque soldi di gabella alle porte della città. Egli iniziò a protestare, e quando gli fu chiesta la ragione rispose: “O non mi debbo io maravigliare con ciò sia che tutto un omo paghi altro che cinque soldi, e a Firenze io, solo a metter dentro el cazzo, ebbi a pagare dieci ducati d’ oro, e qui metto el cazzo, e coglioni, e tutto il resto per sì piccol dazio? Dio salvi e mantenga tal città e chi la governa!”.
Oppure Nicolò Machiavelli, che in una lettera del 1514 a Francesco Vettori scrisse “Qui non ci sono femmine; che casa di cazzo è questa?”.
Per arrivare al massimo esponente della poesia licenziosa, Pietro Aretino, che nei “Sonetti lussuriosi” (1526) declamava:
Fottiamci, anima mia, fottiamci presto
perché tutti per fotter nati siamo;
e se tu il cazzo adori, io la potta amo,
e saria il mondo un cazzo senza questo”.

I sinonimi di “cazzo” nelle diverse lingue europee (https://ukdataexplorer.com/european-translator/).

Insomma, al di là delle sue oscure origini, già 500 anni fa l’uso della parola era assimilabile a quello di oggi. E proprio in quegli stessi anni emerse anche un uso “personificato” del termine: nel 1525, infatti, l’intellettuale umanista Antonio Vignali scrisse un’opera satirica, “La cazzaria“, nel quale i politici senesi del tempo erano rappresentati da “cazzoni, cazzi, culi e potte”. Un racconto grottesco, che si conclude con una fallocrazia “temperata” dalla rappresentatività delle altre tre fazioni (Cazzi, Potte, Culi) con l’esclusione dei testicoli: plebe manovrabile dalla demagogia e incline all’anarchia…
Quattro secoli dopo, Alberto Moravia usò un’idea simile in “Io e lui“, un romanzo nel quale il protagonista dialoga col proprio sesso. A riprova che non c’è nulla di più moderno dell’antico. O che il potere immaginifico del sesso non tramonta mai.

 

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Cosa c’entra la “topa” con i topi https://www.parolacce.org/2015/09/23/perche-si-dice-topa/ https://www.parolacce.org/2015/09/23/perche-si-dice-topa/#comments Wed, 23 Sep 2015 08:00:28 +0000 https://www.parolacce.org/?p=8412 Potete chiamarla passera, gatta, lumaca, grignàppola (pipistrella), vongola e vitella... Ma se dovete paragonare il sesso femminile a un animale, pensate ai roditori. Battono tutti gli altri animali con 3 termini: topa, sorca e zoccola. Nomi più o meno equivalenti, ma con sfumature… Continue Reading

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Campagna Betadine (detergente intimo) di Pratama

Campagna pubblicitaria del Betadine, un detergente intimo: gioca sulla somiglianza vulva-topa (Pratama).

Potete chiamarla passera, gatta, lumaca, grignàppola (pipistrella), vongola e vitella... Ma se dovete paragonare il sesso femminile a un animale, pensate ai roditori. Battono tutti gli altri animali con 3 termini: topa, sorca e zoccola. Nomi più o meno equivalenti, ma con sfumature diverse: topa può avere anche una connotazione neutra o positiva (“Che bella topona/topina”, riferito all’intera persona); sorca ha una sfumatura voyeristica (“Le ho visto la sorca pelosa”) e zoccola è uno spregiativo (“Sei proprio una zoccola”, cioè una puttana).
Ma perché questa predilezione per i topi? Che c’entrano con la vulva?
Me lo sono chiesto giorni fa, mentre scrivevo un reportage sui ratti per il nuovo numero di Focus. Approfondendo la loro storia e il loro comportamento, mi ha colpito il loro uso come metafore sessuali. E non solo in Italia: la vulva è chiamata topa anche in portoghese (rata) e in norvegese (mus), mentre gli altri Paesi usano invece l’immagine della gatta per riferirsi al sesso femminile (pussy in inglese, chatte in francese, muschi in tedesco): una scelta solo in apparenza diversa, come racconterò fra qualche riga.

Locandina del Vernacoliere

Il Vernacoliere, settimanale satirico.

I sinonimi della topa sono diffusi soprattutto in Italia centrale, e zoccola in quella meridionale. Zoccola deriva dal latino sorcula, piccolo sorcio e calcato su socculus, zoccolo, nel senso spregiativo di ignorante: designa la femmina del ratto di fogna e per estensione la donna di strada.
Il primo termine apparso nella nostra letteratura è sorca, già nel Candelaio di Giordano Bruno (1582), ma il termine diventa celebre con Gioachino Belli ne “La madre de le sante” (1832): un sonetto in romanesco sui nomi della vulva, chiamata tra l’altro “sorca, vaschetta, fodero, frittella,… chiavica (fogna: dove vivono i topi, ndr), gattarola, finestrella”.
Topa, invece, è approdato in letteratura molto più tardi, negli anni ’70 con Gianni Celati e Pier Vittorio Tondelli: “Si è fatta sparire le mutande con un colpo di magia. Prima le aveva e poi improvvisamente non le aveva più. Ma aveva invece una grossa topaccia nera fra le gambe, che ha voluto presentarmi sollevando le sottane” (Celati, “Banda sospiri”) .

collage

Campagne animaliste: la pelliccia che conta è lì!

Detto questo, dove sta il legame fra topi e topa? Innanzitutto, i topi sono il simbolo della sessualità e della fecondità perché sono molto prolifici: hanno fino a 20 rapporti sessuali al giorno. Una coppia di roditori, se lasciata indisturbata, può arrivare a generare oltre 108 mila discendenti in un solo anno.
Ecco perché la Chiesa ha sempre visto con ostilità i topi: non solo perché rubavano le provviste e diffondevano malattie, ma anche per il loro esplicito legame con la sessualità, con le forze “terrene” (e, vivendo nell’oscurità e nelle fogne, anche dell’impurità). Essendo roditori instancabili, in psicoanalisi sono anche il simbolo dell’oralità.

i topi che aiutano Cenerentola a liberarsi da un destino infelice

L’unica topa sexy della Disney (“Basil l’investigatopo) e una “topona”.

Ma in realtà la letteratura non sottolinea molto la sessualità dei topi. Li utilizza invece come simboli di altri valori: della vita sociale (vivono in gruppo per difendersi dai predatori); dell’intelligenza, della furbizia, del lavoro instancabile (vedi Mickey Mouse, Jerry, Ratatouille); del mondo sotterraneo, di azioni clandestine (come i topi che aiutano Cenerentola a liberarsi da un destino infelice). 
Nelle religioni orientali, invece, il topo è simbolo di ricchezza e prosperità (perché vive dove ci sono provviste). Ed è il primo dei 12 segni dello zodiaco cinese: creativo, onesto, generoso, ambizioso e veloce a decidere.

LA CITAZIONE
 Ti hanno visto alzare la sottana, la sottana fino al pelo. Che nero!

(Lucio Dalla, “Disperato erotico stomp“)

Playboy Brasile 31' anniversario

31 anni di “Playboy” in Brasile: com’è cambiato il pube femminile!

Ma torniamo alle metafore sessuali. In queste ha avuto un peso maggiore un’altra somiglianza fra topo e topa: il folto pelo che ricopre entrambi. Un attributo molto evidente, che per di più ricorda la nostra originaria natura animale, selvatica: incivilirsi ha comportato la perdita dei peli (alcuni li abbiamo perduti, altri li rasiamo). Così i peli, soprattutto quelli del sesso, restano legati a un’eredità del passato che condividiamo (in parte, anzi: in certe parti) con gli animali.
Non solo. Il pube è da sempre una fonte di identità per le donne, visto che il sesso femminile è in realtà nascosto proprio dalla peluria. Lo dimostra non solo il termine “pilu“, che al Sud Italia è sinonimo di vulva, ma anche i tagli dei peli pubici, anch’essi soggetti a mode, varianti, corsi e ricorsi (negli ultimi 40 anni si sono sempre più assottigliati, come evidenzia la pubblicità di Playboy qui a lato…). Ed è sempre per la somiglianza con il pelo che, in altri Paesi,  la vulva è stata invece paragonata anche alla gatta.

LA CITAZIONE
 Tira più un pelo di fica che un carro di buoi.

(Proverbio popolare)

Tanto che nel mondo anglosassone, più di 5 secoli fa, è nata una moda bizzarra: le “merkin”, parrucche pubiche femminili. Erano usate, fin dal 1450, dalle prostitute inglesi come ornamento. Dopo essersi rasate il pube (per prevenire la diffusione di parassiti), le ponevano sul pube sia per bellezza, ma anche, talvolta, per mascherare i segni della sifilide. Di recente una giovane fotografa statunitense, Rhiannon Schneiderman, ha riportato in auge le merkin per un provocatorio progetto artistico, “Lady Manes”: una serie di autoritratti, nei quali l’artista posava nuda, con vistose parrucche attaccate al pube col velcro. Una sfida ai canoni attuali della bellezza femminile, che impongono pubi lisci come quelli delle bambole. «Perché è considerato volgare avere peli sotto le ascelle o sulle gambe? Perché queste cose mettono a disagio le persone? Perché bisogna criticare il corpo di qualcun altro?». Insomma, può darsi che in futuro torni la topa “a tutto pelo”? Chissà. Nel frattempo qui sotto potete vedere un video divertente sulle fantasiose e numerose acconciature per il pube femminile:

LA TOPOLA DI DARIO FO

Grazie alla segnalazione di Frida, una lettrice di questo blog, ho scoperto che il legame fra topa e topi è molto antico: è presente già in un fabliau (un racconto popolare) medievale del XII secolo: la storia della “parpàja tòpola”, resa celebre in uno sketch dal premio Nobel Dario Fo. Ecco la trama (il testo integrale è qui).
C’era una volta un prete senza scrupoli, il Faina, che aveva una relazione con Alessia, una fanciulla in fiore. La madre di lei, la Volpassa, contadinona col cervello fino e il culo grosso, impone al prete di trovare un marito alla figlia se vuole continuare a copulare senza scandalo. Don Faina pensa subito a Giavàn Pietro, un capraio “candido coglioncione”.
Alla prima notte di nozze, Giavàn chiede alla moglie di godere dei giochi d’amore. Ma Alessia, che aveva già amoreggiato col prete, non ne vuol sapere e trova una scusa: dice al novello sposo che era impossibile fare l’amore perché lei, nel bailamme dei preparativi di nozze, aveva dimenticato la sua parpàja (la farfalla, ovvero la vulva) a casa della madre, appesa a un chiodo.
Giavàn, cocciuto, non si dà per vinto e vuole andare alla ricerca del sesso perduto, a costo di raggiungere la casa della suocera, che stava dall’altra parte del fiume. Quando, dopo varie disavventure, arriva dalla Volpassa, lui le dice: “Son venuto a prendere la parpaja topola!“. “Quale?”. “Quella che hai tu!”.
La suocera, all’inizio perplessa, poi capisce l’equivoco e decide di stare al gioco: consegna a Giavàn un cesto di stoppie lanose, facendolgi credere che contenesse la topola, e lo congeda.
Durante il tragitto, Giavàn infila la mano fra le stoppie alla ricerca della parpaja topola: e trova un topolino, che si era accucciato nel cesto per starsene tranquillo. E così l’allocco si convince che il roditore fosse il sesso dell’amata. Accarezza la topola, che però si spaventa e fugge, tuffandosi nel fiume.
Giavàn torna a casa sconvolto e disperato: “Sono un disgraziato! Ho fatto annegare la tua parpaja!”.
La moglie, commossa da tanto candore, si pente delle sue menzogne e lo consola: “Non ti preoccupare, la parpaja è viva, è tornata da me”. Solleva la gonna e guida la sua mano sul ciuffo della topola. “E’ lei! La riconosco” dice Giavàn. “Che fatica che avrà fatto, con quella fuga… Lasciamola riposare: faremo i giochi d’amore domani”.

Un racconto divertente, che trasforma il sesso in un animale dotato di vita propria: una metafora ricorrente nei nomi del sesso, come raccontavo in questo post

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La patata e la patacca: parolacce da Nobel https://www.parolacce.org/2010/12/17/dario-fo-parolacce-sacro/ https://www.parolacce.org/2010/12/17/dario-fo-parolacce-sacro/#comments Fri, 17 Dec 2010 14:51:00 +0000 http://www.parolacce.org/?p=7 Quando si parla di sesso, non esistono termini “neutri”. Le parole del sesso possono essere eccitanti, ributtanti, oscene, provocatorie e offensive…. Ma perché in alcuni paesi i genitali maschili sono sinonimo di disprezzo (pirla, cazzone…), mentre in altri lo sono… Continue Reading

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Dario Fo e la copertina del suo ultimo libro.

Dario Fo e la copertina del suo libro sulle parolacce.

Quando si parla di sesso, non esistono termini “neutri”. Le parole del sesso possono essere eccitanti, ributtanti, oscene, provocatorie e offensive….
Ma perché in alcuni paesi i genitali maschili sono sinonimo di disprezzo (pirla, cazzone…), mentre in altri lo sono quelli femminili (fregnaccia, zoccola)?
Un libro appena uscito lancia un’ipotesi suggestiva: la carica di disprezzo che si attribuisce ai genitali maschili o femminili dipende dal valore che si attribuisce all’uomo o alla donna. Che, a sua volta, dipende da una visione religiosa: il tipo di fede e di divinità che si hanno, influenza il valore che si attribuisce all’essere uomo e donna. Dunque, l’osceno è sacro.

È proprio questo il titolo del nuovo libro di Dario Fo, edito da Guanda. Un libro rivoluzionario anche per un altro motivo: è il primo studio di un premio Nobel sulle parolacce (l’avevo anticipato su questo blog). Il libro di Fo è inconsueto: non è un romanzo, ma neppure un saggio (non c’è bibliografia). E’, piuttosto, un canovaccio di riflessioni e racconti per uno  spettacolo teatrale. E in quest’ottica si spiegano i 133 disegni che Fo ha inserito nel libro: saranno parte integrante della coreografia.

La tesi di Fo parte da un’osservazione: “i latini, per indicare una persona sciocca e di poco senno, la insultavano definendola cunia, cioè il sesso femminile, ritenuto evidentemente un organo privo di valori, bellezza e armonia. Cunia significava matrice, cioè parte del congegno per mezzo del quale si stampavano le monete. Ancora oggi i francesi e gli spagnoli sembrano dello stesso avviso, giacché l’insulto a uno sciocco continua a essere in Francia, con o tête de con, e, in Spagna, coño.

Il sesso femminile associato a un concetto positivo... per goliardia.

Il sesso femminile associato a un concetto positivo… per goliardia.

Fo si spinge più avanti nella storia. Notando che i napoletani sfottono usando come lessico il sesso femminile (fesso deriva da fessa, fessura, cioè vulva). E l’allusione al sesso femminile diventa greve, profondamente offensiva a Roma con i termini fregna (= spaccatura), sorca (= ratto), zoccola (= ratto). “Tanta trivialità di termini si produce nel caposaldo clericale d’Europa e del mondo, dove, è ben risaputo, la misoginia è addirittura proverbiale”.

Diverso il discorso nel nord Italia: il termine fica è associato – oltre all’organo sessuale femminile – a Venere, dea dell’amore, per cui chi è privo della sua protezione è detto, appunto, sfigato (anche oggi in portoghese, per tradurre fortuna si usa il termine figa con i derivati enfigao, enfigu, figant…).

“Ma come mai” si chiede Fo “in queste regioni è un dato costante l’atteggiamento quasi sacrale verso il sesso della femmina? E perché al contrario il ruolo di imbecille di basso spirito viene immancabilmente imposto al sesso maschile, cosicché pirla (= trottola), bigolo (= vermicello), piciu (= piccolo), etc diventano sinonimi di tonto, ottuso, scervellato, eccetera?”.

La Venere di Willendorf, divinità femminile paleolitica.

La Venere di Willendorf, divinità femminile paleolitica.

Ecco la grande intuizione di Fo: “Nel nord e nel centro Italia, prima che arrivassero i Romani, le primordiali divinità celtico-insubri erano quasi esclusivamente di sesso femminile”. Basti ricordare Cerere, dea madre presso i Romani, chiamata Demetra dalle popolazioni di origine greca (come la Sicilia). Dunque, nel Medioevo, Umbria, Romagna, Toscana e Marche esprimevano nel linguaggio una forma di alto rispetto per il mondo femminile.
Fino alla metà del Trecento, quando lo Stato della Chiesa apostolica romana, con i propri eserciti e i propri amministratori clericali, conquistò e governò in modo dispotico quei territori (Abruzzo, Marche, parte dell’Umbria, Romagna fino a Bologna) assoggettandole per ben 5 secoli.
Risultato? “Le laudi si sono trasformate in lazzi di disprezzo verso la donna e il suo sesso”.

Una "pataca" di Macao: designava una moneta usata dai portoghesi nelle colonie.

Una “pataca” di Macao: designava una moneta usata dai portoghesi nelle colonie.

Un esempio lampante è offerto dal termine “patacca” per indicare il sesso femminile: la “patacca” era una grossa moneta di basso valore, messa in circolazione dagli spagnoli nel 1500. Aggiunge Fo: “Le uniche zone non invase dalla tirannia del regno papalino furono la repubblica veneta, la signoria genovese, Lombardia e Piemonte, e parte dell’Emilia: terre, queste ultime, dove si è continuato a impiegare epiteti offensivi ricavati dal sesso maschile”. Ecco perché, in queste terre, non è mai venuto meno il rispetto anche lessicale verso il sesso femminile, indicato con termini delicati e poetici come parpaja (= farfalla), broegna (= prugna), mügnaga (albicocca), persega (= pesca).

Il cuore del pensiero di Fo è questo. Il resto del libro è un’accattivante raccolta di testi letterari, noti e meno noti, fra cui spicca un divertente fabliau (un racconto francese) medievale, sulla “parpaja topola“: la storia di una giovane sposa, Alessia, che fa credere al novello marito, un candido coglioncione, di possedere una parpàja dotata di completa autonomia: e così, pur di non affrontare con lui la prima notte di nozze, lo sguinzaglia alla ricerca della sua parpaja, dicendo di averla dimenticata a casa… Con notevoli effetti comici.

La cupola di San Pietro: la forma ricorda il seno (come il campanile il fallo), antichi simboli sessuali usati nei riti.

La cupola di San Pietro: la forma ricorda il seno (come il campanile il fallo), antichi simboli sessuali usati nei riti.

Anche se non cita prove documentali a supporto, l’intuizione di Fo è geniale, inedita e difficilmente contestabile storicamente. Perché mette a nudo il legame, come scrive anche il mio libro, fra osceno e sacro: se la parolaccia è una parola tabù, vietata, probabilmente le prime parole tabù sono state quelle religiose. Il comandamento “non nominare il nome di Dio invano” è applicabile a tutte le parolacce, che parlino di sesso, escrementi, malattie e quant’altro. Del resto, come intuisce Fo alla fine del suo libro, tutte le parole vietate parlano dello stesso argomento: la morte, e la paura della morte.

Era destino, insomma, che proprio il re della commedia dell’arte riflettesse sulle parolacce. Dandoci un’altra perla: la stessa parola “giullare” deriva da ciollo e ciullo, che “tanto in lombardo antico quanto in siciliano identifica il sesso maschile (ciullare indica l’atto sessuale con il conseguente sfottere e sfottere)”. Dunque, il re della risata liberatoria, colui che sveglia le coscienze anche facendo uso di lazzi osceni, il comico, è la personificazione del sesso: diffonde una fecondatrice e gioiosa energia vitale.

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