stadio | Parolacce https://www.parolacce.org L'unico blog italiano di studi sul turpiloquio, dal 2006 - The world famous blog on italian swearing, since 2006 - By Vito tartamella Fri, 29 Nov 2024 12:23:57 +0000 it-IT hourly 1 https://www.parolacce.org/wp-content/uploads/2015/06/cropped-logoParolacceLR-32x32.png stadio | Parolacce https://www.parolacce.org 32 32 Fenomenologia del “suca” (e le sue varianti) https://www.parolacce.org/2018/01/23/insulti-sesso-orale/ https://www.parolacce.org/2018/01/23/insulti-sesso-orale/#comments Tue, 23 Jan 2018 09:30:28 +0000 https://www.parolacce.org/?p=13710 E’ uno dei tabù più forti, ma è un mito pop: è diventato un modo di dire planetario, ispirando graffiti, canzoni, romanzi e slogan. In Italia il rapporto orale è citato in 3 espressioni dialettali: “suca” (“succhia”, Palermo), “socc’mel” e “soccia” (“succhiamelo”, Bologna), e “vafammocc”… Continue Reading

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La scritta “suca” è ubiquitaria: qui è tracciata anche sulla neve.

E’ uno dei tabù più forti, ma è un mito pop: è diventato un modo di dire planetario, ispirando graffiticanzoni, romanzi e slogan. In Italia il rapporto orale è citato in 3 espressioni dialettali: “suca” (“succhia”, Palermo), “socc’mel” e “soccia” (“succhiamelo”, Bologna), e “vafammocc” (“vai a fare in bocca”, Napoli). Il loro significato, però, va oltre il sesso: esprimono un ventaglio di emozioni che non è semplice tradurre a parole.
E non succede solo in Italia: modi di dire equivalenti esistono anche in inglese, spagnolo, francese.
Ma perché? Com’è possibile che un atto erotico sia diventato un’offesa? Il tema è spinoso, ma ho deciso di indagare. Anche perché il mese scorso il “suca” è stato elevato a dignità accademica, diventando l’argomento di una tesi di laurea discussa all’università di Palermo.  

Il sesso orale come simbolo

Che cosa vuol dire l’espressione “suca” (succhia)? Letteralmente, si ordina a qualcuno il sesso orale. Dunque, per capire il valore simbolico di questo modo di dire, bisogna prima capire il significato biologico del rapporto orale.
Secondo l’etologo britannico Desmond Morris, più un atto sessuale è considerato “spinto”, più è probabile che sia proibito in pubblico. «Dunque, usare il segno più “sporco”, più tabù possibile può diventare una forma simbolica di attacco: invece di colpire l’avversario, lo insulto con un gesto sessuale». Diverse scimmie, infatti, mimano atti sessuali come forma di minaccia: si avvicinano a un loro simile, si mettono in posizione di monta e fanno qualche simbolica spinta pelvica. Spiega Morris nel libro “L’uomo e i suoi gesti” (Mondadori). «Mimare un atto sessuale rappresenta un sentimento di superiorità: “Non mi fai paura, io ti sono superiore”. E’ un gesto di auto-affermazione anche in situazioni non sessuali».

Saggezza trasgressiva su un muro (dal sito “suca forte“).

Queste considerazioni valgono anche per il sesso orale, sia esso mimato (con un gesto), oppure pronunciato o scritto.
Ma qual è il significato biologico e simbolico del sesso orale? L’uomo – insieme ai bonobo e ai pipistrelli della frutta – è l’unico mammifero a praticarlo. E’ un’intensa forma di piacere erotico, che si apprende per abitudine culturale. E’ piacevole riceverlo, ma non per tutti praticarlo. E non ha uno scopo riproduttivo: secondo i biologi è uno dei modi per rinforzare il legame fra partner.
Dunque, dal punto di vista simbolico il sesso orale è:

  • un intenso piacere, che può essere condiviso o unilaterale
  • un tabù molto forte;
  • una forma di attacco/minaccia;
  • un atto di auto-affermazione, di superiorità: la parte più nobile (la testa) dà piacere alla nostra parte più bassa (il sesso).

Tutto questo ci aiuta a capire il significato di “suca”. Il verbo è un imperativo: ma non è un’azione o un invito all’azione. Questa espressione, diffusa sui muri di Palermo fin dagli anni ‘70, è usata infatti come modo per esprimere uno stato d’animo. Che cosa significa allora?
Innanzitutto è un’espressione di superiorità, proprio come le scimmie di cui parla Morris: significa “io sono superiore a te, ti ho sottomesso”. Al punto che, nella mia fantasia, utilizzo il tuo corpo a mio esclusivo godimento. Dunque, anche un modo per dire: “ti svilisco, sei buono/a solo per soddisfare i miei impulsi sessuali”.
Un gesto di vittoria, di scherno, di rivalsa. Ecco perché la scritta “suca” appare frequentemente nella zona dello stadio di Palermo per dileggiare i tifosi delle squadre avversarie, oppure le forze dell’ordine o le istituzioni (prefettura, polizia, carabinieri).
Essendo un tabù molto forte, inoltre, basta dirlo per provocare uno choc nell’ascoltatore/lettore: si introduce uno scenario del tutto intimo, abbassando il livello della conversazione su un piano animalesco.
Ma “suca” è usato anche in senso assoluto, senza un destinatario particolare: è un modo per dar sfogo alla rabbia o alla noia. Si scrive per spirito goliardico o per provocazione, per sfidare i benpensanti: è un modo di dire “me ne frego di tutti, siete tutti inferiori, voglio solo usarvi per godere”. Insomma, un insulto totale. Un concetto che viene espresso anche a gesti, mettendo le mani aperte ai lati dei genitali.
E pur essendo nato come insulto maschile, per esprimere i rapporti di dominanza fra uomini, oggi questo modo di dire (e il suo corrispettivo gestoè usato anche dalle donne.

UN MITO POP A PALERMO

Lo scrittore siciliano Fulvio Abbate nel suo romanzo “Zero Maggio a Palermo”(1990) lo definisce “un punto fisso nello spazio”:

La scritta su una panchina (Suca forte).

SUCA (…) è la scritta che a Palermo viene tracciata su ogni parete bene in vista. La scritta di benvenuto. (…) Suca può anche essere trasformata: la S diventa un 8, la U e la C due zeri, soltanto la A resta tale, e alla fine di quest’operazione si legge 800A, ossia la stessa offesa, se è vero che molti palermitani talvolta scrivono direttamente in questo modo. (…)
L’umanità che vive a Palermo si divide in due categorie: quelli che scrivono suca e gli altri che cancellano suca. Questi ultimi, come Sisifo, sono i palermitani più infelici, i vinti, perché, come è evidente guardando i muri, suca vince sempre: su insegne e saracinesche, cassonetti dell’immondizia, porte e anche monumenti; ne riappaiono a centinaia e di tutte le dimensioni (…).
Non è importante che suca accompagni un nome, suca non ha genere, non è maschile né femminile, e solo di rado ha bisogno di un volto certo cui rivolgersi: suca è come un punto fisso dello spazio e può bastare, come ogni insulto, anche soltanto a se stesso. Si sa che prima o poi qualcuno leggerà, soprattutto uomini perché, questo sì, suca è un insulto maschile, rivolto castamente al mondo degli uomini, nonostante esprima una cosa che si desidera quasi sempre venga fatta da una ragazza. Talvolta suca è accompagnato dalla raccomandazione FORTE, ma il SUCA FORTE non muta l’essenza dell’offesa, piuttosto fa comprendere senza fatica cos’è il plusvalore. (…) suca, come il muschio, vive sui muri anche dopo essersi seccato, quindi per anni e anni aspetta di sbiadire senza mai cancellarsi”.

Insomma, il sesso orale è un simbolo sfaccettato e poliedrico. «Un mito pop virale», come lo definisce Alessandra Agola, 26 anni, che lo scorso dicembre si è laureata in Scienze della comunicazione all’Università di Palermo proprio con una tesi sul “suca”, ma non tanto dal punto di vista linguistico, quanto come graffito urbano e fenomeno culturale (“S-Word: segni urbani e writing”, relatore il semiologo Dario Mangano).

Il “suca” trasformato in 800A.

La neolaureata ha passato in rassegna i centinaia di “suca” sui muri e le panchine di Palermo, raccontando come sia entrato nell’identità cittadina: «Un verbo liberatorio grazie alla sua pronuncia morbida ma veloce», scrive. «Quando lo si vuole rafforzare, si vuole insultare, allora si allunga la “u”». Ma l’espressione può essere rafforzata anche in altri modi: “suca forte” o “suca c’a pompa” (con la pompa).
L’eufemismo grafico “800A” (per un palermitano, un messaggio in codice), racconta Agola, ha ispirato anche portachiavi, una casa discografica (800a records),  e opere d’arte.

⇒ L’espressione “suca” è un’offesa per cui si può rischiare una denuncia? Sulla questione ho espresso il mio parere: potete leggerlo qui (nelle risposte ai commenti dei lettori).


In ogni caso, “suca” non è affatto un fenomeno locale: l’espressione, infatti, ha equivalenti in molte lingue del mondo. Dall’inglese (“suck it”), allo spagnolo (“chupala”, “chupame la pinga/pija”) al francese (“suce ma bite”).

Il gesto irridente di X-Pac, wrestler della D-Generation X.

Negli Usa, “suck it” è diventato il tormentone ufficiale di D-Generation X, un gruppo di wrestling professionista attivo dal 1997 al 2010. Era una squadra che puntava tutto sulla provocazione, mostrandosi come gruppo di anarchici e menefreghisti: il loro slogan era «we got two words for ya: SUCK IT!» (abbiamo due parole per voi: succhialo!), accompagnato dal gesto di portare le braccia (laterali o incrociate a X) all’altezza dei genitali. Una scelta che li ha portati sotto i riflettori, in un Paese puritano.
Proprio questo gesto, tra l’altro, è usato – non solo negli Usa – anche dai tifosi delle squadre di calcio per irridere avversari fisicamente lontani, come raccontavo nell’
enciclopedia dei gestacci. Anche a lunghe distanze, insomma, l’offesa arriva a destinazione.

La versione bolognese: “soccia” e “socc’mel”

Palermo non è l’unica città italiana che utilizza le metafore del sesso orale in un modo di dire. Altrettanto virale è il suo equivalente bolognesesocc’mel” (e “soccia”). Ma qui il verbo si arricchisce di sfumature diverse: non esprime solo derisione, superiorità e strafottenza. A Bologna il verbo è usato molto più spesso come esclamazione di stupore, incredulità, ammirazione: è l’equivalente (molto più forte) di “accidenti”. L’origine di questo modo di dire è semplice: le intense sensazioni psicofisiche che si vivono durante un rapporto orale sono usate per esprimere un’emozione intensa, anche non di tipo erotico.
Anche in bolognese sono presenti rafforzativi e varianti: sócc’mel bän (succhiamelo bene), e sócc’mel bän in pónta (succhiamelo bene in punta).
Nel 2010 è stato pubblicato un gioco a carte intitolato Sócc’mel, cui ha fatto seguito, nel 2012, un’espansione denominata Sócc’mel va in vacanza!
Insomma, anche in questo caso un modo di dire poliedrico e popolare, tanto che il cantautore bolognese Andrea Mingardi gli ha dedicato una canzone:

Alla napoletana: “vafammocc”

Una tazza con l’espressione napoletana.

In Campania c’è un’espressione che allude al sesso orale: “vafammocc”, letteralmente “vai a fare in bocca”. Un equivalente (vafanvuocc) è diffuso anche in  Puglia.
In questo caso, il senso di scherno, offesa e superiorità è giocato ricalcando il suono di un’altra celebre espressione: vaffanculo (di cui ho raccontato l’origine qui). Si tratta quindi, linguisticamente parlando, di una “maledizione”: si augura il male a qualcuno.
Questa espressione, infatti, è usata per cacciare via una persona, mettendola (
a livello immaginario) in una situazione sgradevole o dolorosa (trovate un campionario di maledizioni, italiane ed estere, qui). Ma in questa espressione
il parlante ordina al destinatario di praticare il sesso orale non a lui, ma ad altri.
Infatti, il “vafammocc” non è usato in modo assoluto. Spesso si indicano anche i destinatari (immaginari) dell’atto: a “ziet”, a “soreta”,  a “mammeta”, a “chi t’è mmuort” (a tua zia, a tua sorella, a tua mamma, ai tuoi defunti). Si infrange, insomma, un doppio tabù: si parla di sesso orale e lo si immagina per scopi incestuosi o addirittura necrofili.
Nonostante cotanta pesantezza, anche questa espressione è entrata nella cultura popolare: il rapper napoletano Uomodisu ne ha fatto una canzone, “Vafammock”: ha avuto più di un milione di visualizzazioni. Notevole, per un modo di dire così pesante.

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esibizionistManifestazioni di piazza e negli stadi. Attacchi sui giornali. Insulti politici e sportivi. E scandali: per aver tirato in ballo le banane, Carlo Tavecchio ha rischiato di non diventare presidente della Figc ed è stato condannato a 6 mesi di squalifica dalla Uefa. Ma perché negli ultimi anni la banana è diventata un simbolo così potente?

La storia (culturale) della banana è piuttosto interessante, e riserva molte sorprese.

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La copertina di Warhol per i Velvet Underground.

L’uso della banana come simbolo fallico ha una lunga storia. Uno dei primi esempi fu, nel 1967, la copertina disegnata da Andy Warhol per “The Velvet underground & Nico”, un album rock. Sulla copertina del disco c’era una banana: non compariva né il nome del gruppo né quello della casa discografica, ma solo la firma dell’artista. Le prime copie del disco invitavano chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” ; togliendo un adesivo si poteva vedere una banana rosa shocking, a ricordare un membro maschile. L’album, però, non fece scandalo perché la realizzazione di quella copertina risultò troppo dispendiosa e ne rallentò la produzione.

Nel 2000 fece successo una canzone degli anni ’60, “La banana”: un brano fortemente allusivo ma allegro, cantato dal cubano Michael Chacon: “el unico fruto del amor, la banana, la banana de mi amor”. Fu usato in uno spot della Peugeot e diventò un tormentone.

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La campagna anti-bullismo di Oliviero Toscani.

Un altro esempio creativo è una campagna di Oliviero Toscani contro il bullismo, commissionata nel 2009 dalla Provincia di Bolzano. Nel manifesto, l’uomo è rappresentato da una virile banana, e il bullo da un infantile pisello. Come dire che il vero macho non è il bullo. Due vegetali usati come simboli sessuali, e non sono gli unici: avevo già scritto qui che su 744 termini usati in italiano per descrivere l’organo sessuale maschile, il 13% sono vegetali (piante, frutti, verdure: ci sono anche la carota, il cetriolo, la fava, la pannocchia…).

Negli ultimi anni, però, la banana è diventata anche un simbolo di razzismo: l’idea è nata tra i tifosi di calcio inglesi, che nel 1987 tirarono una banana in campo a John Barnes, calciatore giamaicano che all’epoca giocava nel Liverpool. Un gesto di disprezzo, come dire: “sei una scimmia, mangiati questa banana”. Quando si vuole insultare un’altra persona, infatti, basta paragonarla a un animale (porco, somaro, cane, bestia, balena, troia, vacca, verme, pidocchio, vipera, oca, conigli, mollusco…), nella credenza – tutta da dimostrare – che gli animali siano inferiori a noi. Oltre al fatto che gli animali servono spesso a descrivere determinati tratti caratteriali umani: l’ostinazione, l’ottusità, la promiscuità, la codardia…

Da allora, gettare banane negli stadi (o esporre palloncini a forma di banana sugli spalti) è diventata un’abitudine virale: l’hanno fatto i tifosi dello Zenit di San Pietroburgo nei confronti dei giocatori africani dell’Olympique Marsiglia nel 2008, e poi la moda si è diffusa in tutto il mondo. Eppure, la banana non è affatto di origine africana: è nata in Asia, e in particolare in Nuova Guinea dove è stata domesticata, per poi diffondersi in Africa e in Europa frazie ai mercanti arabi. Arrivò nelle Americhe grazie ai colonizzatori portoghesi.

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“Furba come una scimmia: Taubira ritrova la banana”. Copertina di “Minute”, giornale francese di destra.

Ma tant’è: lanci sprezzanti di banane sono stati fatti nei confronti dell‘ex ministro Cecile Kyenge e del ministro della Giustizia francese Christiane Taubiria, sollevando forte indignazione.
Ma quest’anno c’è stato un calciatore che è riuscito a disinnescare questo meccanismo con l’ironia: il calciatore brasiliano Dani Alves (Barcellona), durante una partita contro il Villareal, ha raccolto dal campo di gioco una banana che gli era stata lanciata. E l’ha mangiata, continuando a giocare.

«Il razzismo è un problema. Ma bisogna prendere le cose con una dose di umorismo perché non è facile cambiare le cose, Se non diamo importanza a queste persone, non raggiungeranno il loro obiettivo». Un gesto semplice ma efficace, che ha spinto molti personaggi famosi – compreso il premier Matteo Renzi e l’ex ct Cesare Prandelli – a farsi fotografare mentre mangiavano una banana.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Dani Alves raccoglie la banana e la mangia. Alla faccia dei razzisti.

Ma ci sono altri usi simbolici della banana: negli anni del cinema muto, la persona che scivolava sulla buccia di banana era uno dei meccanismi comici più utilizzati.
E proprio su una “buccia di banana” è scivolato Tavecchio, che durante un’assemblea della Lega Dilettanti, parlando della facilità con cui i calciatori extracomunitari militano nelle squadre italiane, ha detto: «Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Optì Pobà (nome inventato, ndr) è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree…».

La frase ha sollevato uno scandalo internazionale: persino la Fifa e l’Unione europea hanno stigmatizzato l’affermazione. Che aggiunge un ulteriore elemento di razzismo, secondo il quale chi mangia le banane è da disprezzare in quanto povero e non gastronomicamente evoluto. Un meccanismo di disprezzo che conosciamo bene: molti stereotipi razzisti si basano sullo stesso concetto: basti pensare a polentone (mangia polenta), spaghetti, maccarone, e ai tanti nomignoli con cui gli immigrati italiani sono stati dileggiati all’estero. Come tutti gli stereotipi, ingrandisce un dettaglio (in questo caso un’abitudine alimentare) per distorcere l’insieme.

Ma non finisce qui l’uso simbolico della banana: un uso spregiativo è nell’espressione “Repubblica delle banane”. Questo modo di dire ha una paternità precisa: il romanziere americano O. Henry (Williams Sydney Porter) che nel 1904 pubblicò “Re e cavoli”, una serie di racconti brevi. Uno di questi, “L’ammiraglio”, era ambientato nella repubblica di Anchuria, un paese immaginario la cui economia era completamente basata sulle esportazioni di banane. La situazione attira alcune grandi società statunitensi, che riescono a ottenere il monopolio delle banane corrompendo la classe politica. Il libro descrive l’Honduras, e molti altri Stati la cui economia era basata su una monocultura (caffè, banane, canna da zucchero): la produzione era nelle mani di una ristretta élite, che con l’aiuto dei militari gode dei profitti mentre il resto della popolazione rimane povera.

71ildittatoreIl termine è entrato nel vocabolario per indicare un regime dittatoriale e instabile, in cui le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è diffusa così come una forte influenza straniera (politica o economica).
Per estensione, il termine è usato per definire governi in cui un leader forte concede vantaggi ad amici senza grande considerazione delle leggi e mettendo alla porta coloro che non l’hanno appoggiato in senso economico o politico. La repubblica delle banane ha avuto molta fortuna: è stato usato da Pablo Neruda nel “Canto general”, da Gabriel García Márquez in “Cent’anni di solitudine”, e dal film di Woody Allen “Il dittatore dello Stato libero di Bananas” (1971). Senza contare “Banana republic”, disco dal vivo di Lucio Dalla e Francesco De Gregori (1979), e  il disegnatore Francesco Tullio Altan, che nelle sue vignette satiriche ritrae Silvio Berlusconi come “il Cavalier Banana”. Ecco com’è nato il personaggio: «Prima delle elezioni del 2001, Gianni Agnelli disse che non eravamo una Repubblica delle Banane. È vero, scrivevo io, non siamo una Repubblica delle Banane, ma del Cavalier Banana. La banana diventò così un segnale, un termometro».

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Anche in Brasile scoppia il “vaffa day” https://www.parolacce.org/2014/06/20/anche-in-brasile-scoppia-il-vaffa-day/ https://www.parolacce.org/2014/06/20/anche-in-brasile-scoppia-il-vaffa-day/#respond Fri, 20 Jun 2014 14:40:46 +0000 https://www.parolacce.org/?p=5250 #450518166 / gettyimages.com In questi Mondiali di calcio, una notizia è passata sotto silenzio nei giornali italiani. Eppure è una notizia clamorosa: anche il Brasile ha avuto il suo “vaffa day”. E ben più eclatante di quello che – nel… Continue Reading

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In questi Mondiali di calcio, una notizia è passata sotto silenzio nei giornali italiani. Eppure è una notizia clamorosa: anche il Brasile ha avuto il suo “vaffa day”. E ben più eclatante di quello che – nel 2007 – lanciò in politica Beppe Grillo: perché il sonoro “vaffa” ha avuto come destinatario addirittura un capo di Stato e per di più donna, la presidenta Dilma Rousseff. Ed è avvenuto davanti alle telecamere di tutto il mondo e ad altri 12 capi di Stato presenti in tribuna allo stadio di San Paolo.

Il fatto è accaduto il 12 giugno, alla partita di esordio dei Mondiali, durante la partita Brasile-Croazia (vinta dal Brasile 3-1). Tra i 62mila spettatori presenti all’arena Corinthians, in migliaia hanno intonato più volte in coro: “Ei, Dilma, vai tomar no cú” (“Ehi, Dilma, vaffanculo”).

 

Il motivo? Politico: con una spesa di 14 miliardi di dollari (tra stadi e infrastrutture), il Mondiale in Brasile è stato quello più costoso della storia. Ma molti brasiliani hanno contestato questa scelta, obiettando che il Paese ha problemi ben più gravi su cui il governo avrebbe dovuto concentrare i propri sforzi economici: inflazione galoppante, povertà, sanità pubblica al collasso, scuola pubblica allo sbando, corruzione sfrenata. Tanto che, quando l’anno scorso fu deciso l’aumento di 20 centesimi dei trasporti pubblici, la popolazione scese in piazza per protestare pacificamente, ma la polizia represse le contestazioni a suon di proiettili di gomma e arresti.

Da allora le proteste sono continuate, tanto che l’anno scorso, quando Joseph Blatter (capo della Fifa, nella foto sopra insieme alla Rousseff) affiancò la presidente Rousseff al discorso inaugurale per la Confederations Cup, furono sommersi dai fischi del pubblico.

Ecco perché entrambi, all’inaugurazione dei Mondiali, hanno preferito non fare discorsi. Ma gli oppositori sono riusciti comunque a guastarle la festa, sommergendo la presidenta a suon di “vaffa”: un attacco politico in piena regola, non solo per farle fare brutta figura davanti agli occhi del mondo, ma anche in vista delle prossime elezioni presidenziali previste a ottobre. In un sondaggio svolto questo mese dall’istituto Datafolha il gradimento della presidenta è calato dal 44% al 34%: una percentuale bassa, ma potenzialmente vincente dato che i suoi due principali concorrenti, Aecio Neves e Eduardo Campos, stanno rispettivamente al 19% e al 7%. Ma almeno il 30% dei brasiliani è indeciso, ed è per questo che le opposizioni si sono coagulate nei cori ingiuriosi allo stadio.

Dopo l’episodio la Rousseff ha replicato che non si lascerà intimidire: “ho affrontato situazioni estremamente difficili, situazioni nelle quali ho subito aggressioni fisiche quasi insopportabili (il carcere e le torture negli anni della dittatura militare in Brasile, ndr), ma mai ho deviato dal mio cammino né dai miei impegni”. Sintomo, comunque, che il vaffa è andato a segno.

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Negro, zingaro, terrone… quando le parole diventano pietre (ma anche fango, gogne, steccati) https://www.parolacce.org/2008/09/20/negro-zingaro-terrone-quando-le-parole-diventano-pietre-ma-anche-fango-gogne-steccati/ https://www.parolacce.org/2008/09/20/negro-zingaro-terrone-quando-le-parole-diventano-pietre-ma-anche-fango-gogne-steccati/#comments Sat, 20 Sep 2008 15:09:00 +0000 https://www.parolacce.org/?p=36 Un ragazzo italiano di origine africana ucciso a sprangate al grido di «negro di merda» (vedi qui). Un nigeriano licenziato dopo essere stato chiamato dai colleghi per 2 anni con l’epiteto di «sporco negro» (vedi qui)… Casi eclatanti, certo. Ma… Continue Reading

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Collage di scritte emarginanti nell’Italia di oggi.

Un ragazzo italiano di origine africana ucciso a sprangate al grido di «negro di merda» (vedi qui). Un nigeriano licenziato dopo essere stato chiamato dai colleghi per 2 anni con l’epiteto di «sporco negro» (vedi qui)…
Casi eclatanti, certo. Ma tutt’altro che isolati: oggi il disprezzo verso gli “zingari” (termine spregiativo: si chiamano Rom!), gli ebrei, i marocchini, i cinesi e gli stranieri in generale è sempre più palpabile: negli stadi, nei comizi politici, nei bar. Ma anche in contesti e in modi più sottili: nelle ricerche di lavoro, negli affitti delle case, sui giornali
Il clima è preoccupante, ed è indice di un cieco clima di intolleranza che fa torto alla nostra presunta “civiltà”, alla realtà multiculturale e globale di oggi, e alle nostre stesse radici: fino a 40 anni fa siamo stati un popolo di migranti. E, vista la congiuntura economica negativa, stiamo tornando a esserlo….

La discriminazione verso gli Ebrei durante il fascismo.

La discriminazione verso gli Ebrei durante il fascismo.

Ma perché gli insulti etnici sono pericolosi? Nel mio libro (vedi qui) ho dimostrato che le parolacce sono azioni che producono determinati effetti.

Gli insulti etnici sono fra le parolacce più violente perché, dicendoli, faccio 3 azioni:

1) tolgo l’individualità a una persona, la disumanizzo, la disprezzo come inferiore, anormale, impura, “diversa”. Qualificando un cinese come “muso giallo”, riduco tutto il suo essere, la sua individualità alle origini etniche, manifestate dall’aspetto fisico. Non mi chiedo se dietro quegli occhi a mandorla c’è una persona intelligente, simpatica, onesta, allegra: lo etichetto come  “giallo”, cioè diverso e tanto mi basta. E non entro neppure nel merito della sua diversità, non solo fisica ma anche culturale. Non mi interessa, sei diverso, quindi sei anormale, quindi meriti solo il mio disprezzo.

2) offendo non solo il destinatario dell’insulto, ma l’intero gruppo a cui appartiene;

3) emargino un intero gruppo etnico, tenendolo all’esterno della società. Ogni insulto etnico può essere tradotto, nei fatti, come: “Sei brutto, sporco e cattivo. Non sei dei nostri, vattene, torna a casa tua”.

Gli insulti etnici sono armi antiche quanto l’uomo: di fronte a uno straniero che porta valori e culture sconosciute, si prova ansia. Ma invece di metterci in discussione, è più comodo e immediato catalogare un intero popolo attraverso categorie semplificanti e rassicuranti: il messicano diventa “mangia-fagioli”, il cinese un “muso giallo” e… l’italiano un “mafioso” o “spaghetti”.

Già gli antichi Greci chiamavano gli altri popoli “barbari” (letteralmente: balbuzienti, solo perché non parlavano greco); nel 1500 si diffusero le espressioni “bestemmiare come un turco”, “cose turche” per la paura dell’impero Ottomano che minacciava l’Europa; nel 1800 la sifilide, malattia sconosciuta e contagiosa, era chiamata “mal francese”, come se solo i francesi ne fossero responsabili. Gli algonchini hanno chiamato i vicini “eschimesi” (= mangiatori di carne cruda) riservando a sé l’appellativo di “inuit” (= uomini)… E così via.

original

Manifesti xenofobi di Lega e An: ma non sono gli unici a cavalcare la discriminazione.

Da sempre gli stranieri sono visti non come risorse, ma come pericolosi e potenziali concorrenti economici o sessuali. Non solo. Le culture diverse dalla nostra ci fanno paura perché minacciano l’ordine costituito, ci fanno capire che anche le nostre abitudini, che consideriamo “giuste” e indiscutibili, sono in realtà relative, soggettive. E come tali altrettanto criticabili: oggi gli zingari sono tanto disprezzati perché rifiutano i valori tipici del mondo occidentale. Non vivono nello stesso posto, non condividono i nostri standard igienici, i nostri valori, la nostra educazione. Offendendoli, l’occidente prende le distanze da loro nella speranza di non dover mai vivere come loro. In realtà lo “zingaro” ci ricorda che il nostro stile di vita è precario, reversibile, relativo.

In più, gli stranieri – poveri, indifesi, diversi da noi – svolgono una funzione sociale importante, che i politici cavalcano abilmente: possono diventare un comodo “nemico”, per cementare l’unità nazionale che scricchiola. E, soprattutto, possono diventare un “capro espitatorio” esterno a cui addossare le colpe di una crisi interna su cui non si vuole riflettere o che non si vuole affrontare: c’è crisi? Non c’è lavoro, casa? Si fatica ad arrivare a fine mese? Colpa dei negri (o degli zingari, degli ebrei, dei cinesi….) che ci portano via  il lavoro.

Comodo… ma vero? La realtà è più complessa.

Striscioni razzisti allo stadio: solo un gioco, ma pericoloso.

Striscioni razzisti allo stadio: solo un gioco, ma pericoloso.

 Innanzitutto: chi sono, e quanti sono realmente? Secondo il Dossier Statistico Immigrazione della Caritas/Migrantes (vedi qui), l’unico rapporto documentato sul fenomeno, gli stranieri soggiornanti regolarmente in Italia sono 3,69 miloni, il 6,2% dell’intera popolazione. Dunque, tutt’altro che un’orda.

Gli irregolari sono oltre 120mila l’anno (solo il 13% arrivano dagli sbarchi, gli altri entrano regolarmente ma si fermano oltre la scadenza del visto).

E da dove arrivano? Il 49.6% da Paesi europei, il 22,3% dall’Africa, il 18% dall’Asia, il 9.7 dall’America e lo 0.4 dall’Oceania. In pratica, ogni 10 immigrati, 5 sono europei (per la metà comunitari); 4 divisi tra africani e asiatici e 1 americano.

Più in dettaglio, la Romania è il Paese con più presenze (555.997, pari al 15%), seguita da Marocco (10,5%), Albania (10.3), Ucraina (5.3) e Cina (5.1); seguono Filippine (3.1), Moldavia (2.7), Tunisia (2.6), India (2.5) e Polonia (2.5). 

Ristorante in Austria: il nome è una rivincita e uno sberleffo dei migranti italiani contro i razzisti.

Ristorante in Austria: il nome è una rivincita e uno sberleffo dei migranti italiani contro i razzisti.

Certamente fra loro (come fra gli italiani) si annidano criminali: inevitabile (anche se mai giustificabile) effetto della loro mancanza di integrazione. Chi di voi riuscirebbe a trovare un contratto di lavoro all’estero prima ancora di arrivarci (come vorrebbero le attuali leggi sull’immigrazione)?

Gli stranieri denunciati nel 2005 sono il 23,6% di tutti i denunciati, per lo più per furto (17,6%), truffa (12%), droga (11%), ricettazione (10,7%). Ovvero, reati contro il patrimonio. Fatti eclatanti, compensati però da altri fatti eclatanti: un etiope salva 2 donne da una rapina e finisce in ospedale (leggi), un senegalese salva un turista e annega (leggi), un marocchino salva un’aspirante suicida (leggi)….

Ma in realtà lo straniero è protagonista di fatti ben più importanti, che passano sotto silenzio: è grazie ai loro figli che in Italia si evita il rischio del saldo demografico negativo (ovvero che il numero di morti superi quello dei nati). Perché è importante? Per esempio, per salvare il nostro sistema contributivo e assicurare le pensioni ai nostri figli (leggi qui). E anche per salvare la nostra economia. Sono loro che fanno i lavori più umili e pesanti, che nessuno vuole più fare: i muratori (19,4% del totale della categoria), gli operai nelle concerie (15,6%), i camerieri (20,4%), le colf (66,2%).

Celebre copertina di "Der Spiegel" (1977): pistola e spaghetti per rappresentare l'Italia. Un'immagine infamante che ancora ci brucia.

Celebre copertina di “Der Spiegel” (1977): pistola e spaghetti per rappresentare l’Italia. Un’immagine infamante che ancora ci brucia.

 Dunque, servirebbe un cambiamento di cultura, per affrontare le sfide della globalizzazione culturale. Ma i nostri giornali non ci aiutano. La studiosa Elena Malavolti nel libro “Insulti e pregiudizi. Discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali” (Aracne, 2007) ha fatto un’interessante statistica sull’immagine degli stranieri negli articoli del quotidiano “La Repubblica” dal 1985 al 2000. Ecco i risultati:

1) esistono 2 stereotipi: chi ha successo è qualificato come “straniero”; se invece è meno fortunato o è un criminale, è chiamato “immigrato” o “extracomunitario”. Nella stragrande maggioranza degli articoli, gli stranieri sono collegati a notizie di stampo negativo: o perché preoccupano (criminalità emergenze, etc), o, al limite, perché suscitano compassione in quanto vittime di violenze, ingiustizie, abusi.

“Da un punto di vista geografico, l’immigrato è fortemente circoscritto: viene da Paesi poveri, quasi sempre dall’Africa, è spesso nero o musulmano. Gli immigrati sono problematici; irregolari, illegali, poveri, hanno bisogno di assistenza, di integrazione, di solidarietà, devono essere fermati, regolarizzati e organizzati. L’immigrato gira nei ghetti, di notte, nelle periferie, luoghi dove muore, uccide, compie atti abitualmente condannati”.

2) il gruppo est-europeo (albanesi, Rom) è quello con l’immagine più negativa, perché associato a notizie di crimini e ingiustizie; seguito dalla minoranza nord-africana, spesso legata a termini come “fondamentalismo” e “terrorismo”.

Insomma, c’è ancora molta strada da fare. Vi siete mai chiesti perché se un romano (o un milanese, o un catanese) investe un pedone e lo uccide, i giornali scrivono: “Uomo investe pedone”; ma se al volante c’è uno straniero, il titolo diventa “Tunisino (o albanese, rumeno, cinese…) investe pedone”? Non è un modo surrettizio di perpetuare un razzismo becero?

Trovato su Internet: l'ironia aiuta a superare le discriminazioni.

Trovato su Internet: l’ironia aiuta a superare le discriminazioni.

 

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